Il piano di Trump per la pace a Gaza.
Il
piano di Trump per la pace a Gaza.
USA:
Tutti i Generali Convocati
d’Urgenza
per una Riunione
Segreta
Senza Precedenti.
Conoscenzealconfine.it
– (30 Settembre 2025) - Fabio Lugano – ci dice:
Il
capo del Pentagono Pete Hegseth, convoca centinaia di generali in una riunione
segreta e senza precedenti. Dietro l’ordine un’epurazione dei vertici o una
nuova, scioccante strategia di difesa?
Il
Segretario alla Difesa, Pete Hegseth, ha ordinato a centinaia di generali e
ammiragli di tutto il mondo di radunarsi con un preavviso minimo per questa
settimana, presso la base dei Marines di Quantico, in Virginia. Il dettaglio
più inquietante?
Nessuno,
nemmeno gli stati maggiori dei più alti ufficiali, conosce il motivo della
convocazione.
L’ordine,
diramato la scorsa settimana, mentre sullo sfondo si profila la minaccia di uno
shut-down del governo, per il “Tetto del debito”, ha seminato confusione e un
palpabile allarmismo.
Secondo
una dozzina di fonti interne, la chiamata riguarda quasi tutti gli ufficiali
superiori in posizioni di comando, dal grado di generale di brigata (o
equivalente della Marina) in su, insieme ai loro sottufficiali di corpo.
Stiamo
parlando dei comandanti che guidano migliaia di uomini e donne nei teatri
operativi più caldi, dal Pacifico al Medio Oriente.
Un
portavoce del Pentagono, “Sean Parnell”, ha confermato che Hegseth “si
rivolgerà ai suoi leader militari senior all’inizio della prossima settimana”,
senza però fornire alcun dettaglio sull’agenda. Una segretezza che alimenta i
peggiori sospetti.
Un
Atto Molto Raro.
Nella
memoria recente del Pentagono, non si ricorda un evento simile.
Convocare
fisicamente la quasi totalità dei vertici militari attivi, sradicandoli dalle
loro aree di competenza, solleva enormi interrogativi, non ultimo quello sulla
sicurezza.
“La
gente è molto preoccupata. Non ha idea di cosa significhi”, ha confidato una
fonte.
Un
altro ufficiale ha espresso frustrazione: “Stiamo davvero richiamando ogni
generale e ammiraglio dal Pacifico in questo momento?
È tutto molto strano”.
La
mossa di Hegseth non arriva in un vuoto pneumatico, ma si inserisce in un
contesto di profonde e unilaterali trasformazioni imposte dall’amministrazione
Trump al Dipartimento della Difesa.
Negli
ultimi mesi abbiamo assistito a una serie di decisioni a dir poco dirompenti:
Taglio
dei ranghi:
Un ordine per ridurre del 20% il numero di generali e ammiragli a quattro
stelle e di un ulteriore 10% il totale degli ufficiali di alto grado.
“Dipartimento
della Guerra”:
Un
rebranding del Dipartimento della Difesa, un cambiamento più che altro nominale
ma dal forte valore simbolico.
Nuova
Strategia Nazionale:
L’imminente
presentazione di una nuova dottrina che dovrebbe porre la “difesa del
territorio nazionale” (homeland defense) come priorità assoluta, declassando la
Cina da principale minaccia strategica.
Epurazioni
mirate:
Una serie di licenziamenti eccellenti senza apparenti giustificazioni.
Proprio
quest’ultimo punto desta le maggiori preoccupazioni.
Solo il mese scorso, Hegseth ha rimosso il
Tenente Generale Jeffrey Kruse, direttore della Defense Intelligence Agency
(DIA), il Vice Ammiraglio Nancy Lacore, capo della Riserva della Marina, e il
Contrammiraglio Milton Sands, un ufficiale dei Navy SEAL.
A questa lista si aggiungono le precedenti
“epurazioni” di figure come il Capo degli Stati Maggiori Riuniti, Gen. Charles
Q. Brown Jr., e il Capo delle Operazioni Navali, Amm. Lisa Franchetti.
Molti osservatori hanno notato come la scure
si sia abbattuta su un numero sproporzionato di donne in posizioni di vertice.
Cosa
annuncerà dunque Hegseth oggi a Quantico?
Un semplice briefing sulla nuova strategia di
difesa o il preludio a una svolta epocale, e forse traumatica, per la struttura
di comando più potente del mondo?
Il
silenzio assordante del Pentagono non fa che amplificare i timori. Presto
questo mistero sarà risolto.
Domande
e Risposte per il Lettore.
1.
Perché una riunione di questo tipo è considerata così allarmante e senza
precedenti?
La sua
eccezionalità risiede in tre fattori chiave: la scala, la segretezza e il
tempismo.
Mai
prima d’ora un Segretario alla Difesa aveva richiamato fisicamente quasi tutti
i comandanti operativi del mondo in un unico luogo, con così poco preavviso.
Svuotare
i comandi strategici, specialmente in aree critiche come l’Indo-Pacifico, crea
un vuoto di leadership e un rischio per la sicurezza.
La totale mancanza di un’agenda comunicata
alimenta la speculazione che possa trattarsi di un annuncio drastico, un test
di lealtà o l’avvio di una riorganizzazione radicale imposta dall’alto.
2. Chi
è il Segretario alla Difesa Pete Hegseth e perché le sue azioni precedenti sono
rilevanti?
Pete
Hegseth, nel contesto di questo articolo fittizio, rappresenta una figura di
rottura nominata dall’amministrazione Trump.
Le sue
azioni precedenti sono cruciali per capire il clima di sospetto attuale.
Ha già
avviato un taglio drastico del numero di generali, licenziato alti ufficiali
senza fornire motivazioni chiare (un atto interpretato come un’epurazione dei
vertici non allineati) e ha avviato un controverso rebranding del Pentagono.
Queste
mosse lo dipingono come un Segretario determinato a imporre la sua visione con
metodi bruschi, bypassando le tradizionali procedure e consultazioni militari.
(Fabio
Lugano).
(scenarieconomici.it/usa-tutti-i-generali-convocati-durgenza-dal-segretario-hegseth-pentagono-ignaro-e-frastornato/).
Il
piano di Trump per Gaza ottiene
il sostegno di Netanyahu,
ma dipende da Hamas.
Affariinternazionali.it
- Agence France-Presse – Danny Kemp - 30 Settembre 2025 – ci dice:
Il
presidente degli Stati Uniti Donald Trump si è assicurato il sostegno del primo
ministro Benjamin Netanyahu per un piano di pace ad ampio raggio per Gaza,
mentre i due leader hanno avvertito che Israele “porterà a termine il lavoro”
contro “Hamas” se il gruppo militante palestinese rifiuterà l’accordo.
Hamas
non ha ancora espresso il proprio giudizio sulla proposta che Trump ha
presentato alla Casa Bianca insieme a Netanyahu, lasciando incertezza sul
destino del piano in 20 punti per porre fine alla guerra.
Il
piano prevede un cessate il fuoco, il rilascio degli ostaggi da parte di Hamas
entro 72 ore, il “disarmo di Hamas” e il graduale ritiro israeliano da Gaza,
seguito da un’autorità di transizione postbellica guidata dallo stesso Trump.
“Sostengo
il suo piano per porre fine alla guerra a Gaza, che raggiunge i nostri
obiettivi bellici”, ha dichiarato Netanyahu in una conferenza stampa congiunta
con il presidente degli Stati Uniti.
“Se “Hamas”
rifiuterà il suo piano, signor Presidente, o se lo accetterà solo
apparentemente per poi fare di tutto per contrastarlo, allora Israele porterà a
termine il lavoro da solo”.
Trump
ha affermato che Israele avrebbe avuto il suo “pieno sostegno” in tal senso se “Hamas”
non avesse accettato l’accordo.
Ma ha
insistito sul fatto che la pace in Medio Oriente fosse “molto vicina” e ha
descritto l’annuncio del piano come “potenzialmente uno dei giorni più
importanti nella storia della civiltà”.
Reazione
globale immediata
La
reazione è stata globale e immediata.
Otto
importanti nazioni arabe e musulmane – Egitto, Giordania, Qatar, Arabia
Saudita, Emirati Arabi Uniti, Turchia, Indonesia e Pakistan – hanno salutato i
“sinceri sforzi” dell’accordo sulla scia dei propri colloqui con Trump della
scorsa settimana.
Le
otto nazioni arabe e musulmane hanno affermato in una dichiarazione congiunta
di “accogliere con favore il ruolo del presidente americano e i suoi sinceri
sforzi volti a porre fine alla guerra a Gaza” e di “affermare la loro
disponibilità a impegnarsi in modo positivo e costruttivo con gli Stati Uniti e
le parti per finalizzare l’accordo e garantirne l’attuazione”.
Anche
l’”Autorità Palestinese” ha accolto con favore gli “sforzi sinceri e
determinati” del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, dopo l’annuncio di
un piano per porre fine alla guerra a Gaza. In una dichiarazione ha affermato
di “accogliere con favore gli sforzi sinceri e determinati del presidente
Donald J. Trump per porre fine alla guerra a Gaza e di confermare la propria
fiducia nella sua capacità di trovare una via verso la pace”.
Gli
alleati europei di Washington hanno prontamente espresso il loro sostegno, con
i leader di Francia, Regno Unito, Germania e Italia che hanno condiviso forti
espressioni di sostegno al piano.
E il
capo dell’Unione Europea “Antonio Costa” ha esortato tutte le parti a “cogliere
questo momento per dare alla pace una possibilità concreta”.
“Accolgo
con favore il piano del presidente (Trump) per porre fine alla guerra a Gaza e
sono incoraggiato dalla risposta positiva del primo ministro (Benjamin)
Netanyahu”, ha dichiarato Costa su “X”.
“La
situazione a Gaza è intollerabile. Le ostilità devono cessare e tutti gli
ostaggi devono essere rilasciati immediatamente”, ha aggiunto.
Ma, in
segno di continua incertezza, dopo l’annuncio il solitamente loquace Trump ha
dichiarato che i due leader non avrebbero risposto alle domande dei giornalisti
poiché erano in corso i colloqui con le parti chiave.
“Farsa.”
Il
piano di Trump ha suscitato reazioni contrastanti in una regione segnata da
quasi due anni di guerra devastante.
Un
alto funzionario di Hamas ha dichiarato all’AFP che il gruppo “risponderà una
volta ricevuto il piano”.
I mediatori del Qatar e dell’Egitto hanno
successivamente condiviso la proposta di Trump con Hamas, ha detto un altro
funzionario informato sui colloqui.
Nella
devastata Gaza, i residenti hanno espresso scetticismo sul fatto che il piano
di Trump possa porre fine alla guerra.
“Noi
come popolo non accetteremo questa farsa”, ha detto all’AFP” Abu Mazen Nassar”,
52 anni, uno dei 1,9 milioni di abitanti di Gaza sfollati a causa della guerra.
Anche
l’Autorità Palestinese, che ha sede in Cisgiordania ma che sarebbe destinata a
ricoprire un ruolo nel governo postbellico di Gaza, ha accolto con favore i
“sinceri sforzi e determinati” di Trump.
Tuttavia,
l’accordo è pieno di insidie sia per Hamas che per Israele, mentre i dettagli
potrebbero essere oggetto di discussioni per settimane o mesi.
Per
Hamas, esso richiede che i militanti depongano completamente le armi e siano
esclusi da futuri ruoli nel governo, anche se a coloro che accettano la
“coesistenza pacifica” sarebbe concessa l’amnistia.
Ma
Netanyahu potrebbe anche avere difficoltà a far accettare l’accordo ai membri
di estrema destra del suo gabinetto.
Netanyahu
ha sottolineato ai giornalisti che le forze israeliane manterrebbero la
responsabilità della sicurezza di Gaza “per il prossimo futuro” e ha messo in
dubbio il ruolo dell’Autorità Palestinese.
Il
piano di Trump, nel frattempo, lascia aperta la possibilità della creazione di
uno “Stato palestinese”, cosa che, secondo lui, Netanyahu avrebbe fortemente
contestato durante l’incontro.
“Profondo
rammarico.”
Sebbene
Trump abbia elogiato Netanyahu definendolo un “guerriero”, ha mostrato
crescenti segni di frustrazione in vista della quarta visita del premier
israeliano alla Casa Bianca quest’anno.
Trump
era furioso per il recente attacco di Israele contro membri di Hamas nel Qatar,
alleato chiave degli Stati Uniti, e la scorsa settimana ha ammonito Netanyahu
contro l’annessione della Cisgiordania occupata da Israele.
Durante
il loro incontro, Trump ha organizzato una telefonata di Netanyahu al primo
ministro del Qatar dall’Ufficio Ovale per esprimere “profondo rammarico” per
l’attacco e promettere che non si ripeterà, ha detto la Casa Bianca.
Altri
punti chiave del piano di Trump includono il dispiegamento di una “forza
internazionale di stabilizzazione temporanea” e la creazione di un’autorità di
transizione guidata da lui e che include l’ex premier britannico Tony Blair.
Blair,
figura ancora controversa in gran parte del Medio Oriente per il suo ruolo
nella guerra in Iraq del 2003, ha salutato il piano come “audace e
intelligente”.
La
guerra di Gaza è stata scatenata dall’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023
contro Israele, che ha causato la morte di 1.219 persone, per lo più civili,
secondo un conteggio dell’AFP basato sui dati ufficiali israeliani.
L’offensiva
israeliana ha ridotto gran parte di Gaza in macerie e ucciso 66.055
palestinesi, anch’essi per lo più civili, secondo i dati del ministero della
salute del territorio governato da Hamas che le Nazioni Unite considerano
affidabili.
(Danny
KEMP).
Il
piano di pace in 20 punti
di
Trump per Gaza.
Affariinternazionali.it - Agence France-Presse
– (30 Settembre 2025) – Redazione – ci dice:
Dopo
giorni di speculazioni, la Casa Bianca ha reso noto un piano in 20 punti per
porre fine alla guerra a Gaza, durata quasi due anni, liberare gli ostaggi
detenuti da Hamas e delineare il futuro dell’enclave palestinese.
Parlando
insieme al presidente Donald Trump alla Casa Bianca, il primo ministro
israeliano Benjamin Netanyahu ha espresso un cauto sostegno al piano.
Ecco
il piano, così come pubblicato dalla Casa Bianca:
Gaza
sarà una zona deradicalizzata e libera dal terrorismo che non costituirà una
minaccia per i suoi vicini.
Gaza
sarà ricostruita a beneficio della popolazione di Gaza, che ha già sofferto
abbastanza.
Se
entrambe le parti accetteranno questa proposta, la guerra finirà
immediatamente.
Le forze israeliane si ritireranno sulla linea
concordata per prepararsi al rilascio degli ostaggi.
Durante questo periodo, tutte le operazioni
militari, compresi i bombardamenti aerei e di artiglieria, saranno sospese e le
linee di battaglia rimarranno congelate fino a quando non saranno soddisfatte
le condizioni per il ritiro completo.
Entro
72 ore dall’accettazione pubblica di questo accordo da parte di Israele, tutti
gli ostaggi, vivi e deceduti, saranno restituiti.
Una
volta che tutti gli ostaggi saranno stati liberati, Israele rilascerà 250
detenuti condannati all’ergastolo più 1.700 abitanti di Gaza arrestati dopo il
7 ottobre 2023, comprese tutte le donne e i bambini detenuti in quel contesto.
Per
ogni ostaggio israeliano le cui salme saranno restituite, Israele restituirà le
salme di 15 abitanti di Gaza deceduti.
Una
volta che tutti gli ostaggi saranno stati restituiti, i membri di Hamas che si
impegneranno a coesistere pacificamente e a smantellare le loro armi saranno
graziati.
Ai membri di Hamas che desiderano lasciare
Gaza sarà garantito un passaggio sicuro verso i paesi di accoglienza.
Una
volta accettato il presente accordo, saranno immediatamente inviati aiuti
completi nella Striscia di Gaza.
Come
minimo, le quantità di aiuti saranno coerenti con quanto previsto dall’accordo
del 19 gennaio 2025 in materia di aiuti umanitari, compreso il ripristino delle
infrastrutture (acqua, elettricità, fognature), il ripristino di ospedali e
panifici e l’ingresso delle attrezzature necessarie per rimuovere le macerie e
aprire le strade.
L’ingresso
degli aiuti e la loro distribuzione nella Striscia di Gaza avverranno senza
interferenze da parte delle due parti attraverso le Nazioni Unite e le sue
agenzie, la Mezzaluna Rossa e altre istituzioni internazionali non associate in
alcun modo a nessuna delle due parti. L’apertura del valico di Rafah in
entrambe le direzioni sarà soggetta allo stesso meccanismo attuato nell’ambito
dell’accordo del 19 gennaio 2025.
Gaza
sarà governata da un comitato palestinese tecnocratico e apolitico,
responsabile della gestione quotidiana dei servizi pubblici e delle
municipalità per la popolazione di Gaza.
Questo
comitato sarà composto da palestinesi qualificati ed esperti internazionali,
con la supervisione e il controllo di un nuovo organismo internazionale di
transizione, il “Consiglio di pace”, che sarà guidato e presieduto dal presidente
Donald J. Trump, con altri membri e capi di Stato da annunciare, tra cui l’ex
primo ministro Tony Blair.
Questo
organismo definirà il quadro di riferimento e gestirà i finanziamenti per la
ricostruzione di Gaza fino a quando l’Autorità Palestinese non avrà completato
il suo programma di riforme, come delineato in varie proposte, tra cui il piano
di pace del presidente Trump del 2020 e la proposta saudita-francese, e potrà
riprendere in modo sicuro ed efficace il controllo di Gaza.
Questo
organismo farà appello ai migliori standard internazionali per creare un
governo moderno ed efficiente che sia al servizio della popolazione di Gaza e
favorisca gli investimenti.
Verrà
elaborato un piano di sviluppo economico di Trump per ricostruire e rilanciare
Gaza, convocando un gruppo di esperti che hanno contribuito alla nascita di
alcune delle fiorenti città moderne del Medio Oriente.
Molte proposte di investimento ponderate e idee di
sviluppo entusiasmanti sono state elaborate da gruppi internazionali ben
intenzionati e saranno prese in considerazione per sintetizzare i quadri di
sicurezza e governance al fine di attrarre e facilitare questi investimenti che
creeranno posti di lavoro, opportunità e speranza per il futuro di Gaza.
Sarà
istituita una zona economica speciale con tariffe preferenziali e tassi di
accesso da negoziare con i paesi partecipanti.
Nessuno
sarà costretto a lasciare Gaza e coloro che desiderano andarsene saranno liberi
di farlo e liberi di tornare.
Incoraggeremo
le persone a rimanere e offriremo loro l’opportunità di costruire una Gaza
migliore.
Hamas
e le altre fazioni accettano di non svolgere alcun ruolo nella governance di
Gaza, né direttamente, né indirettamente, né in alcuna altra forma.
Tutte
le infrastrutture militari, terroristiche e offensive, compresi i tunnel e gli
impianti di produzione di armi, saranno distrutte e non ricostruite.
Ci sarà un processo di smilitarizzazione di
Gaza sotto la supervisione di osservatori indipendenti, che includerà la messa
fuori uso definitiva delle armi attraverso un processo concordato di
smantellamento, supportato da un programma di riacquisto e reintegrazione
finanziato a livello internazionale, il tutto verificato dagli osservatori
indipendenti. La nuova Gaza si impegnerà pienamente a costruire un’economia prospera e
a coesistere pacificamente con i propri vicini.
I
partner regionali forniranno una garanzia per assicurare che Hamas e le fazioni
rispettino i loro obblighi e che la nuova Gaza non rappresenti una minaccia per
i suoi vicini o per la sua popolazione.
Gli
Stati Uniti collaboreranno con i partner arabi e internazionali per costituire
una forza internazionale di stabilizzazione (ISF) temporanea da dispiegare
immediatamente a Gaza.
L’ISF addestrerà e fornirà supporto alle forze
di polizia palestinesi controllate a Gaza e si consulterà con la Giordania e
l’Egitto, che hanno una vasta esperienza in questo campo.
Questa
forza costituirà la soluzione a lungo termine per la sicurezza interna.
L’ISF collaborerà con Israele ed Egitto per
contribuire a garantire la sicurezza delle zone di confine, insieme alle forze
di polizia palestinesi appena addestrate.
È
fondamentale impedire l’ingresso di munizioni a Gaza e facilitare il flusso
rapido e sicuro di merci per ricostruire e rivitalizzare Gaza. Le parti
concorderanno un meccanismo di risoluzione dei conflitti.
Israele
non occuperà né annetterà Gaza.
Man mano che l’ISF stabilirà il controllo e la
stabilità, le Forze di Difesa Israeliane (IDF) si ritireranno sulla base di
standard, tappe fondamentali e tempistiche legati alla smilitarizzazione che
saranno concordati tra l’IDF, l’ISF, i garanti e gli Stati Uniti, con
l’obiettivo di garantire la sicurezza di Gaza, che non costituirà più una
minaccia per Israele, l’Egitto o i suoi cittadini.
In pratica, l’IDF cederà progressivamente il
territorio di Gaza che occupa all’ISF secondo un accordo che stipulerà con
l’autorità di transizione fino al suo completo ritiro da Gaza, fatta eccezione
per una presenza di sicurezza perimetrale che rimarrà fino a quando Gaza non
sarà adeguatamente protetta da qualsiasi minaccia terroristica.
Nel
caso in cui Hamas ritardi o respinga questa proposta, quanto sopra, compresa
l’operazione di aiuto potenziata, procederà nelle aree libere dal terrorismo
consegnate dall’IDF all’ISF.
Sarà
avviato un processo di dialogo interreligioso basato sui valori della
tolleranza e della coesistenza pacifica per cercare di cambiare la mentalità e
la narrativa dei palestinesi e degli israeliani, sottolineando i benefici che
possono derivare dalla pace.
Con il
progredire della ricostruzione di Gaza e l’attuazione fedele del programma di
riforme dell’Autorità Palestinese, potrebbero finalmente crearsi le condizioni
per un percorso credibile verso l’autodeterminazione e la statualità
palestinese, che riconosciamo come aspirazione del popolo palestinese.
Gli
Stati Uniti avvieranno un dialogo tra Israele e i palestinesi per concordare un
orizzonte politico per una coesistenza pacifica e prospera.
(Agence
France-Presse).
Hamas
diviso sul sì. Trump,
'se
rifiuta sarà l'inferno.'
Ansa.it
– Mondo – (ROMA, 30 settembre 2025) - Silvana
Logozzo – ci dice:
Il
presidente Usa dà 3-4 giorni di tempo.
“Smotrich”:
'Il piano un fallimento'.
Il
capo dell'intelligence turca “Ibrahim Kalin” è arrivato in Qatar, inviato dal
presidente Erdogan, per partecipare ai colloqui con Hamas sul piano Trump per
porre fine alla guerra a Gaza.
La
pressione sull'organizzazione che governa la Striscia dal 2008 è fortissima.
I
media israeliani riferiscono di profonde divisioni all'interno del gruppo.
A Gerusalemme il team negoziale potrebbe
ricevere da un momento all'altro dal governo l'indicazione di partire per nuovi
colloqui.
Il
presidente degli Stati Uniti, riferiscono fonti ben informate, si aspetta che
Ankara e Doha facciano la loro parte fino in fondo.
Specie
perché entrambi ospitano da anni la leadership politica di Hamas, con quel che
ne consegue.
I
Paesi arabi e islamici, lunedì sera hanno rilasciato una dichiarazione
congiunta accogliendo con favore gli sforzi dell'amministrazione Usa per
mettere la parola fine sul conflitto.
Arabia Saudita, Giordania, Emirati Arabi
Uniti, Indonesia, Pakistan, Turchia, Qatar ed Egitto si sono detti pronti a
"cooperare positivamente" con gli Usa.
Donald
Trump ha dato 3-4 giorni al gruppo islamista per accettare il piano di pace, in
caso contrario "espierà all'inferno".
Cioè:
Benyamin Netanyahu avrà l'appoggio americano se le cose andassero per il verso
sbagliato e la guerra dovesse continuare per "distruggere Hamas".
Dal
canto suo, l'organizzazione ha fatto trapelare su “Sky news Arabia” di essere
"vicina ad accettare il piano Trump".
Ma ha
chiesto una serie di chiarimenti sulle garanzie che la guerra non riprenderà
dopo che Netanyahu avrà ricevuto gli ostaggi, sul calendario del ritiro dell'”Idf”,
sulla portata del ritiro e sulle garanzie contro futuri attacchi ai leader del
movimento all'estero.
Una
diversa fonte di Hamas ha dichiarato alla Bbc che "un rifiuto è
probabile".
Martedì
mattina, neanche 12 ore dopo il discorso di Trump e Netanyahu alla Casa Bianca,
in una dichiarazione ufficiale la presidenza dell'Autorità nazionale
palestinese, ha definito il lavoro del presidente americano "sincero e
determinato", impegnandosi ad attuare entro due anni - tra l'altro - lo
sviluppo di programmi di studio in linea con gli standard Unesco (con
l'esclusione dai libri di testo di concetti antisemiti e che inneggiano alla
distruzione di Israele) e l'abolizione di leggi in base alle quali vengono
erogati pagamenti alle famiglie di detenuti palestinesi e terroristi arrestati
o condannati.
"Affermiamo
la disponibilità a collaborare con gli Stati Uniti e tutte le parti per
raggiungere la pace", si legge nella dichiarazione a nome dello 'Stato di
Palestina'. Tuttavia nel documento reso noto dalla Casa Bianca uno specifico
riferimento alla nascita dello Stato palestinese non c'è.
Mentre
il documento indica il futuro di Gaza contenuto in "un piano economico di
sviluppo per ricostruire e rilanciare la Striscia che sarà creato convocando un
gruppo di esperti che hanno contribuito alla nascita di alcune delle moderne
città-miracolo del Medio Oriente".
In
conferenza stampa Trump lunedì sera ha sottolineato che Bibi rimane "fermo
nella sua opposizione a uno Stato di Palestina", "lui è un guerriero
ma "capisce che è tempo di mettere fine alla guerra a Gaza".
Nuovo
piano di Trump per la pace in Palestina, la popolazione di Tel Aviv: 'Ottime
notizie.'
Netanyahu infatti, pur nella piena armonia con
Donald (a dispetto degli analisti che da mesi narrano di 'rapporti tesi' tra i
due), deve tenersi in equilibrio con il suo governo, specie con i due ministri
messianici “Itamar Ben Gvir” e “Bezalel Smotrich” (soprattutto quest'ultimo)
che già paventano di far crollare l'esecutivo.
In un
lungo post sui social,” Smotrich” ha definito un "clamoroso fallimento
diplomatico" il piano di pace a guida statunitense.
Pur
non arrivando a dire apertamente che il suo partito cercherà di far cadere
Bibi. Il messaggio su “X” del resto è uno dei pochi commenti critici nel folto
coro di elogi sia in Israele che all'estero per il progetto del presidente Usa,
accettato dal primo ministro.
Che ha
incassato anche un ritiro graduale dell'”Idf” dalla Striscia, con tempi non
specificati.
Non solo: in un video pubblicato su Telegram,
Netanyahu ha dichiarato che le "truppe resteranno nella maggior parte
della Striscia".
"Ora il mondo intero, compreso quello
arabo e musulmano, sta facendo pressione su Hamas affinché accetti i termini
che abbiamo creato insieme a Trump, per riportare indietro tutti gli ostaggi,
vivi e morti. Chi ci avrebbe mai creduto?", ha detto in ebraico.
In
serata migliaia di persone sono scese in piazza a Tel Aviv per chiedere la fine
della guerra e il ritorno degli ostaggi.
Axios:
'Qatar,Egitto e Turchia esortano Hamas all'ok al piano.'
Qatar,
Egitto e Turchia stanno esortando Hamas a dare una risposta positiva al piano
di pace di Trump.
Lo
scrive Axios citando due fonti a conoscenza dei colloqui.
Tutti e tre i paesi hanno svolto il ruolo di
intermediari per Hamas nei negoziati e hanno una certa influenza sul gruppo
militante.
Trump
ai generali: 'Pronti
alla
guerra anche nel Paese.'
Ansa.it
– Mondo – (WASHINGTON, 30 settembre 2025) - Benedetta Guerrera – ci dice:
'Stop
invasione e criminalità. Spero di non usare armi nucleari.'
Contro
il "nemico interno" - che siano i migranti, la criminalità nelle
città o "la sinistra radicale - gli Stati Uniti devono combattere una vera
e propria guerra.
Donald
Trump ha arringato circa 800 generali americani arrivati da tutto il mondo
nella base di Quantico e avvertito che le priorità delle forze armate con lui
sono cambiate:
l'invasione del territorio Usa è il problema
numero uno.
Mentre
sul fronte estero, oltre a rivendicare di aver messo fine a sette guerre e
forse otto con Gaza, il “commander-in-chief “ha minacciato che l'arsenale
nucleare degli Stati è pronto anche se l'auspicio è di non doverlo usare mai.
"Anche
quella ai confini e nelle città è una guerra", ha detto “The Donald” ad
una platea che, nelle parole del tycoon, è stata la più silenziosa alla quale
si sia mai rivolto.
"L'America è sotto invasione dall'interno
e non è diversa da un nemico straniero, ma per molti versi è più difficile
perché non indossano uniformi.
Quando le indossano puoi eliminarli", ha
ammonito il presidente rivolgendosi ai più alti vertici militari arrivati da
luoghi di conflitti e guerre un po' diverse da quelle a cui si è riferito
Trump.
La
verità è che, secondo quanto riferito da diversi funzionari al Washington Post,
molti generali sono frustrati dal nuovo corso del Pentagono.
Tra
questi ci sarebbe anche il capo di stato maggiore congiunto, il generale “Dan
Caine,” che il tycoon ha elogiato più volte nel suo discorso.
Per molti la riforma del dipartimento
presentata da “Pete Hegseth” su input del “commander-in-chief “è "miope e
potenzialmente irrilevante, dato l'approccio altamente personale e talvolta
contraddittorio di Donald Trump alla politica estera".
Ed in
particolare è poco gradita quest'l'enfasi della nuova strategia sulle minacce
in patria, mentre la Cina continua a rafforzarsi militarmente, oltre ad un
ridimensionamento del ruolo degli Usa in Europa e Africa.
Con il mondo in fiamme, nel suo intervento
Trump ha solo accennato ai fronti esterni, auspicando una risoluzione dei
conflitti in Ucraina e a Gaza e esprimendo la speranza di non dover usare
l'arsenale nucleare americano.
"L'ho
ricostruito", ha comunque assicurato.
Quanto
ai cambiamenti all'interno del dipartimento, “Trump ed Hegseth” hanno delineato
un vero e proprio ritorno al settecento.
E non
soltanto perché' il Pentagono è stato ribattezzato "dipartimento della
guerra", il nome che gli aveva dato il primo presidente americano George
Washington.
In un
discorso a braccio di circa un'ora il segretario ha attaccato la "deriva
woke" del dipartimento e i "decenni di declino" che ha vissuto.
Ha
avvertito le donne soldato che se non raggiungeranno "gli standard
maschili" non potranno combattere e perfino minacciato di licenziare i
militari "grassi", una parola che ormai, almeno nella società
americana, è considerata un insulto e non viene quasi mai usata.
"Il
nostro compito è prepararsi alla guerra e vincerla", ha dichiarato Hegseth
nel suo monologo sullo "spirito guerriero".
"L'era
del politically correct è finita", ha incalzato lamentando che "per
troppo tempo abbiamo promosso leader per le ragioni sbagliate:
in
base alla loro razza, alle quote di genere, ai cosiddetti primati storici.
Stiamo ponendo fine alla guerra contro i
guerrieri", ha detto citando il titolo del suo libro.
Trump
ha rincarato la dose avvertendo che "licenzierà i generali che non gli
piacciono, usando il famigerato "you'r fired", reso celebre dal suo “reality
show.” "Ho ricostruito l'esercito in parte cacciando persone", ha
rivendicato citando l'ex segretario alla Difesa” Jim Mattis”, che si è dimesso
durante il suo primo mandato dopo uno scontro sul ritiro delle truppe Usa da
Siria e Afghanistan.
Ma
anche al “dipartimento della Guerra”, dopo fiumi di parole sulla necessità di
"vincere per non essere sconfitti, il tycoon non ha potuto fare a meno di menzionare
il suo ultimo pallino: il Nobel per la pace.
"Ho risolto otto guerre ma non me lo
daranno e sarà un'offesa per gli Stati Uniti. Lo daranno ad uno che non ha
combinato nulla o ha scritto un libro su come risolvere le guerre".
Trump detta
la pace: Striscia
appaltata,
palestinesi prigionieri.
Ilmanifesto.it
- Chiara Cruciati – (30 settembre 2025) – ci dice:
L’emiro
di Gaza.
Il presidente Usa annuncia il via libera di Netanyahu
al suo piano: a Tel Aviv la «sicurezza» dei confini, a lui e Blair il governo
dell’enclave.
Gaza
conta, Gaza vale:
un premio Nobel, affari multimiliardari di
ricostruzione, il flusso di denaro che il Golfo inietta nell’economia
statunitense, una stabilità regionale camuffata da pace che non prevede
liberazione.
Sta
qua il senso dietro il piano di venti punti che ieri Donald Trump ha estorto a
Benyamin Netanyahu alla Casa bianca in quello che il presidente Usa ha definito
«uno dei giorni più belli della storia della civiltà, un giorno storico non
solo per Gaza ma per l’intera regione» perché lui, Donald Trump, ha «risolto
tutto, si chiama pace perenne in Medio Oriente».
NEL
DISCORSO-FIUME con cui ha aperto la conferenza stampa congiunta con il primo
ministro israeliano, Trump ha annunciato il via libera di Tel Aviv al piano
della Casa bianca.
Dentro c’è molto:
ci sono la liberazione di tutti gli ostaggi
israeliani in 72 ore e il cessate il fuoco a Gaza, c’è l’ingresso degli aiuti
umanitari gestiti dall’Onu, c’è l’amnistia per i membri di Hamas «che
rinunciano alla violenza», c’è la negazione della pulizia etnica («residenti
liberi di stare o di andare e tornare) e c’è soprattutto la cornice più
generale, un futuro di neo-colonizzazione mascherata.
Ha un
nome, Board of Peace, il Consiglio della Pace;
ha un presidente, Donald Trump che però ci
tiene a precisare che non lo ha chiesto lui, hanno insistito gli altri;
c’è un obiettivo, togliere ai palestinesi il
controllo del proprio futuro e della ricostruzione, un affare troppo succoso
per lasciarlo marcire.
Al suo fianco, ci saranno «figure
internazionali» come l’ex premier britannico Tony Blair, noto distruttore di
paesi altrui.
Ora,
ha detto Trump tra un attacco a Biden e uno alla «corrotta» Onu, la palla è nel
campo di “Hamas”:
se si tira indietro, Washington sosterrà la
reazione israeliana, qualunque essa sia.
NETANYAHU
ne approfitta ed entra a gamba tesa, a differenza di Trump è un politico e sa
come si gioca:
«Sosterrò
il tuo piano per porre fine alla guerra a Gaza», dice, perché ricalca «le
priorità del governo israeliano».
Ovvero
la liberazione di tutti gli ostaggi, il disarmo di Hamas e la
demilitarizzazione di Gaza, ma anche la permanenza dell’esercito israeliano ai
suoi confini («responsabile della sicurezza per il futuro») e
un’amministrazione pacifica che escluda tanto Hamas quanto l’Autorità nazionale
palestinese.
Insomma, una Gaza che libera non lo sarà mai.
È LA
PRIMA CREPA:
l’”Anp”
è nel piano Usa come c’è il percorso verso la statualità palestinese.
Ma per Bibi sono linee rosse:
c’è
solo una via per fargli digerire l’”Anp”, che si trasformi radicalmente, che
rinunci alla Corte penale e alla Corte internazionale e che riconosca lo stato
di Israele (già fatto, nel 1993).
Sono
le mine che Netanyahu semina sul percorso, quello immediato e quello futuro, le
mani che si tiene slegate.
In
attesa della risposta ufficiale, ieri funzionari di Hamas ribadivano di non
aver ricevuto ancora il piano e, in ogni caso, di ritenere il disarmo una
richiesta irricevibile in assenza di uno stato.
NELLE
ORE PRECEDENTI al quarto incontro in nove mesi tra i due leader, si sono
susseguite dichiarazioni e indiscrezioni, specchio delle aspettative per la
rottura di uno stallo insopportabile.
Trump ha parlato con l’emiro del Qatar, “Tamim
Al-Thani”, ha riportato “Axios”:
“Doha”,
ancora furiosa per il raid israeliano che il 9 settembre ha tentato di
decapitare i vertici di Hamas sul proprio territorio, gli ha ricordato le
preoccupazioni del Golfo.
Ed
ecco il colpo di scena: durante l’incontro nello Studio ovale, Netanyahu ha
chiamato il primo ministro del Qatar per esprimere «profondo rammarico» per le
bombe su Doha e la violazione della sovranità del paese e per promettere che
«Israele non condurrà più attacchi simili».
UNA
PRIMA ASSOLUTA figlia di una frustrazione che non è solo araba: secondo una
fonte del governo Usa citata da “Axios”, «tutti, e intendo tutti, sono
esasperati da Bibi».
Tutti, compreso Trump, che da un orecchio
sente i suoi consiglieri ricordargli i danni in credibilità che gli arreca
l’incapacità di tenere a bada l’amico israeliano e dall’altro gli alleati
arabi, finanziatori della sua economia nazionale e personale. Domenica
l’inviato “Steve Witkoff “ha trascorso due ore nella camera di albergo di
Netanyahu a Washington per assicurarsi il sì al piano.
NETANYAHU
SI LASCIA le mani libere ma è comunque stretto all’angolo.
Anche
in casa non se la passa bene, schiacciato tra le proteste delle famiglie degli
ostaggi che implorano un accordo e l’ultradestra che non intende stringerne
nessuno.
Non
solo gli alleati di coalizione (“Smotrich” ha elencato le sue linee rosse:
presenza dell’esercito israeliano lungo il confine, libertà di agire al suo
interno e assenza dell’Anp dall’orizzonte futuro), ma anche il movimento dei
coloni che ha visto nel 7 ottobre l’opportunità di una vita, quella “persa” nel
1948:
ieri “Yossi Dagan”, capo del consiglio
regionale della Samaria (il rappresentante dei coloni nel nord della
Cisgiordania occupata) si è detto insoddisfatto dell’incontro di domenica con
il premier perché non avrebbe ottenuto rassicurazioni sull’”annessione della
West Bank”.
(Chiara
Cruciati).
Gaza.
Netanyahu ha accettato il nuovo
piano Trump e si è scusato per
l'attacco in Qatar.
Avvenire.it
- Elena Molinari – (29 settembre 2025) – ci dice:
Oltre
tre ore di colloqui alla Casa Bianca.
Il presidente Usa esulta: giorno storico.
Gelo
di Hamas: «Blair come garante dell'intesa per noi è inaccettabile».
L'Italia
sosterrà il piano.
Benjamin
Netanyahu e Donald Trump alla Casa Bianca, dopo l'incontro durato oltre tre ore
– (Ansa)
È
tutto all’insegna di Donald Trump il nuovo piano per la pace in Medio Oriente
emerso ieri della Casa Bianca dopo oltre tre ore di colloqui fra il presidente
statunitense e il primo ministro Benjamin Netanyahu, mentre l’invasione
terrestre e i bombardamenti israeliani continuavano a uccidere palestinesi e a
distruggere il più grande centro urbano della Striscia di Gaza.
Sarà
infatti lo stesso capo della Casa Bianca, in base alla sua proposta, a guidare
l’”organismo transitorio internazionale”, che assumerà il controllo
dell’enclave dopo la fine dei combattimenti.
«È un giorno storico per la pace in Medio
Oriente», ha detto ieri Trump a fianco di Netanyahu, assicurando che la
Striscia «è solo una piccola parte» della sua idea che porterà a una «pace
eterna nella regione» e che ha ricevuto, a suo dire, «il consenso di moltissimi
Paesi», anche europei.
Questi,
ha aggiunto, sono stati «molto coinvolti nell'elaborazione del piano».
In
serata è arrivato il sostegno del Governo italiano al progetto.
«L’Italia è pronta a fare la sua parte, in
stretto coordinamento con gli Stati Uniti, i partner europei e della Regione, e
ringrazia il Presidente Trump per il lavoro di mediazione e i suoi sforzi per
portare la pace in Medio Oriente», si legge in una nota di Palazzo Chigi.
«L’Italia
- prosegue il comunicato - esorta quindi tutte le parti a cogliere questa
opportunità e ad accettare il Piano».
In
serata è arrivata anche la presa di posizione dell'”Autorità nazionale
palestinese” (Anp), che ha accolto con favore gli «sforzi determinati» di Trump
per porre fine al conflitto.
Anche
Arabia Saudita, Giordania, Emirati Arabi Uniti, Indonesia, Pakistan, Turchia,
Qatar ed Egitto hanno rilasciato una dichiarazione congiunta accogliendo con
favore gli sforzi di Trump per porre fine alla guerra a Gaza.
I ministri degli Esteri di questi otto Paesi
hanno dichiarato di essere pronti a «cooperare positivamente» con gli Stati
Uniti e altri Paesi per finalizzare l'accordo e garantirne l'attuazione.
Il
“consiglio della pace” (Board of Peace) di Gaza includerà altri capi di Stato e
leader internazionali, incluso l'ex premier britannico “Tony Blair”, il primo
ad avanzare l’idea di un’amministrazione temporanea a controllo non palestinese
di Gaza, da affiancare a un comitato locale.
Nella
versione, molto simile, del tycoon, questo gruppo responsabile della gestione
quotidiana dei servizi pubblici sarà «tecnocratico e apolitico, composto da
palestinesi qualificati e da esperti internazionali».
Netanyahu
sembra aver accolto il piano anche se contrasta con alcune delle posizioni
fondamentali del suo governo di estrema destra.
In particolare, la visione lascia la porta
aperta a un futuro Stato palestinese, che Netanyahu la scorsa settimana all’Onu
ha definito «suicida» per Israele.
La
proposta sottolinea che Israele non vuole espellere con la forza i palestinesi
da Gaza e che questi avrebbero il diritto di tornare se scegliessero di
andarsene.
Hamas
è tenuta a rilasciare tutti i 48 ostaggi ancora nelle sue mani, circa 20 dei
quali si ritiene siano ancora vivi, nel giro di 72 ore dall’entrata in vigore
dell’accordo e a smilitarizzarsi.
In cambio, ai suoi combattenti verrebbe
permesso di lasciare Gaza e verrebbe offerta l'amnistia a coloro rinunciano
alla resistenza.
Quantità
significative di aiuti umanitari verrebbero autorizzate nell’enclave, e Israele
libererebbe 250 prigionieri palestinesi condannati all’ergastolo, più 1.700
cittadini di Gaza arrestati dopo il 7 ottobre 2023.
Le forze israeliane inoltre si ritirerebbero
gradualmente.
Ma è
tutta teoria fino al sì di “Hamas”, che ieri, prima della conferenza stampa
alla Casa Bianca, ha rifiutato la proposta dell’ex premier britannico.
«Tony Blair è una figura inaccettabile per il
nostro popolo. Non accetteremo l’imposizione di una tutela straniera», ha
dichiarato “Taher al-Nono”, consigliere per i media del leader politico di
Hamas, che ha anche detto di non aver ricevuto alcuna nuova proposta da Egitto
e Qatar, che avrebbero entrambi ricevuto il piano di Trump.
Durante
l'incontro alla Casa Bianca, però, Netanyahu si è scusato al telefono con
l'omologo del Qatar “Mohammed bin Abdulrahman al-Thani” per aver violato la
sovranità del suo Paese attaccando Doha per colpire i vertici di Hamas il 9
settembre, promettendo di non intraprendere azioni simili in futuro, e le scuse
erano tese a convincere il Qatar a fare pressioni su Hamas affinché accetti la
proposta dell’Amministrazione repubblicana.
Se non accettasse, ha detto Trump, Israele avrebbe il
via libera degli Usa «per distruggerli».
Lo
scetticismo è legittimo, perché anche i tre incontri precedenti fra il premier
israeliano e il presidente Usa si erano conclusi con dichiarazioni roboanti,
non seguite da una tregua.
Dopo
l’annuncio della creazione di una “Riviera di Gaza” di Trump di febbraio come
dopo la proposta di Netanyahu di attribuire il Nobel per la Pace al presidente
Usa a luglio, solo dodici ostaggi sono stati rilasciati, mentre nella Striscia
si è continuato a morire, di guerra e di fame.
Ma da
qualche settimana il vento a Washington è cambiato.
Trump
ha bisogno di risultati su almeno uno dei due conflitti — Gaza e Ucraina — che
aveva promesso di risolvere “dal primo giorno” del suo insediamento e si è
adoperato per raccogliere consensi attorno alla sua idea, presentando il suo
piano ai leader arabi all'Assemblea Generale Onu la scorsa settimana e poi
modificandolo per renderlo più accettabile per Netanyahu.
Questi ieri ha accolto i principi dell’idea di Trump,
ma ha evidenziato che Israele manterrà «la responsabilità per la sicurezza e il
perimetro di Gaza», che il suo ritiro sarà proporzionale al «disarmo di Hamas»
e che se Hamas rifiuterà la proposta «Israele finirà il lavoro».
Trump
annuncia l’accordo di pace per Gaza.
C’è il
sì di Israele. Ultimatum a Hamas.
Italiaoggi.it
- Redazione – (30/09/2025) – ci dice:
La
proposta, accolta da Israele, prevede, la liberazione degli ostaggi e la
deposizione delle armi.
la resa di Hamas e un nuovo organo
internazionale per amministrare la Striscia. Hamas ha 72 ore per accettare.
"Pace
per il Medio Oriente", è questo il nome dell'accordo annunciato dal
presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, nella East Room della Casa Bianca,
insieme con il premier israeliano Benjamin Netanyahu.
Un
accordo che Trump definisce "storico, uno dei più grandi della
civiltà". La proposta delineata da Washington ha ottenuto l'ok di Tel
Aviv, per porre fine alla guerra a Gaza. Un piano condizionato a una serie di
punti (20 contro i 21 inizialmente annunciati) che implicano, di fatto, la resa
politica e militare di Hamas.
Sin da
subito, infatti, sia Trump che Netanyahu hanno chiarito che non stavano
lasciando all'organizzazione islamista alcuna scelta in materia.
In
caso di rifiuto, ha scandito Trump, "Israele avrebbe il pieno sostegno
statunitense per portare a termine il lavoro di distruzione della
minaccia".
Intanto,
Hamas che, dal canto suo, ha immediatamente risposto di non aver preso parte ai
negoziati e tramite un suo alto funzionario, “Mahmoud Mardawi”, ha dichiarato
che il piano di pace per Gaza "propende verso la prospettiva
israeliana", prende tempo.
Non un
no secco, ma un primo freno, con la garanzia che il team negoziale
"studierà la proposta in "buona fede".
Proposta che ha un punto di partenza, ossia le
72 ore di tempo concesse ad Hamas, per liberare tutti gli ostaggi, vivi o
deceduti.
Questa
la condicio sine qua non, senza la quale il resto dei 19 punti non verranno
minimamente presi in considerazione.
A seguire, la deposizione delle armi e la
rinunci a qualsiasi 'sogno' di governare o avere ancora un ruolo nella
Striscia.
A incentivare l'accettazione di queste prime
tre condizioni la promessa di un'amnistia per i membri dell'organizzazione con
la possibilità di rimanere a Gaza o di un passaggio sicuro verso i Paesi di
accoglienza, mentre - e questo è un altro dei punti del piano - ad amministrare
quello che resta dell'enclave palestinese sarebbe un "comitato tecnico
palestinese apolitico", supervisionato da un nuovo organo internazionale,
il "Board of Peace", presieduto dallo stesso Trump e con membri di
primo piano, tra cui l'ex premier britannico Tony Blair.
Le
reazioni.
Reazioni
positive sono arrivate anche da otto Paesi musulmani: Arabia Saudita,
Giordania, Emirati Arabi Uniti, Indonesia, Pakistan, Turchia, Qatar ed Egitto
hanno accolto con favore il piano annunciato, così come uno dei diretti
interessati, l’Autorità nazionale palestinese, che ha definito gli "sforzi
sinceri e determinati".
Netanyahu:
ora Hamas è isolata.
Dopo
il suo incontro con Donald Trump, Benjamin Netanyahu ha affermato che
"invece di farsi isolare da Hamas, Israele ha ribaltato la situazione,
isolando l'organizzazione palestinese".
"Ora
il mondo intero, compreso il mondo arabo e musulmano, sta facendo pressione su
Hamas affinché' accetti le condizioni che abbiamo posto insieme al presidente
Trump", ha aggiunto il premier israeliano elencando due delle condizioni
del piano: "rilasciare tutti i rapiti, sia vivi che morti, mentre l'Idf
rimane nella maggior parte della Striscia di Gaza".
Netanyahu
ha poi chiarito di non essere d'accordo sul riconoscimento di uno Stato
palestinese:
"Non è scritto nell'accordo. Ci opporremo
con forza a uno Stato palestinese e il presidente Trump ha detto che lo
capisce".
In
attesa della decisione di Hamas.
Ora la
palla passa ad Hamas, che pur indebolito resta l'altro protagonista principale
del match, con il countdown dei tre giorni già scoccato, e con un dilemma
esistenziale sullo sfondo.
Rinunciare
alle armi, accettare un programma che fondamentalmente eliminerebbe - almeno a
Gaza - l'organizzazione terroristica come forza politica e militare e guardare
un "Consiglio di Pace" guidato da Trump prendere il controllo di
Gaza.
In
cambio un'amnistia, il cessate il fuoco, il ritiro delle forze israeliane a
linee concordate, la sospensione di tutte le operazioni militari, la
liberazione di 250 detenuti palestinesi condannati all'ergastolo e altri 1700
abitanti di Gaza arrestati dopo il pogrom del 7 ottobre 2023.
Un
piano che per la prima volta sembra mette sul tavolo una tregua e anche una
possibile via d'uscita dal conflitto.
Una
fonte del gruppo militante palestinese ha riferito a Reuters che il piano del
presidente statunitense Donald Trump per un cessate il fuoco a Gaza è
"completamente sbilanciato a favore di Israele" e impone
"condizioni impossibili" volte a eliminare Hamas.
"Ciò'
che Trump ha proposto è la piena adozione di tutte le condizioni israeliane,
che non garantiscono al popolo palestinese o ai residenti della Striscia di
Gaza alcun diritto legittimo", ha sottolineato la fonte sotto anonimato.
Il
canale saudita “Al-Sharq” ha riferito che "la delegazione negoziale di
Hamas discuterà la proposta di pace di Donald Trump all'interno dei suoi quadri
di leadership, e con le fazioni palestinesi, al fine di studiarla e presentare
una risposta che rappresenti tutto il popolo".
Secondo
quanto affermano le fonti, "Hamas è ansioso di fermare la guerra e porre
fine alle sofferenze della sua popolazione".
Witkoff:
qualche dettaglio e ci siamo.
Dopo
l'incontro tra Trump e Netanyahu, Steve Witkoff, parlerà "sia con il primo
ministro del Qatar sia con il capo dell'intelligence egiziana".
Lo ha
annunciato lo stesso inviato speciale degli Usa in Medio Oriente in
un'intervista a Fox News, in cui ha aggiunto che i due, dopo il piano
annunciato da Trump, "si sono incontrati con i rappresentanti di
Hamas".
Witkoff
ha poi affermato di essere "molto ottimista e fiducioso" ai fini del
raggiungimento di un accordo di pace a Gaza, soprattutto "per via del
sostegno dei Paesi arabi e dell'Europa".
"Abbiamo un grande sostegno al piano.
Dobbiamo definire qualche dettaglio, certo, ma conoscete Trump, con il suo
spirito arriveremo presto al traguardo", ha sottolineato l'inviato
speciale della Casa Bianca.
LA
FLOTILLA ENTRA NELLA
ZONA A
RISCHIO.
Opinione.it - Eugenio Vittorio – (01 ottobre
2025) – ci dice:
La
Flotilla entra nella zona a rischio.
Un
ultimo avvertimento, poi il dietrofront.
La fregata Alpino della Marina italiana ha
ricordato al bastimento della “Global Sumud Flotilla”: noi ci fermiamo qui.
La
linea rossa per la nave militare italiana erano le 150 miglia nautiche da Gaza,
ormai superate dalle barche di attivisti, che d’ora in poi dovranno vedersela
da soli.
E in
flottiglia lo sanno, di essere scoperti.
“Siamo
entrati nella zona ad alto rischio. Siamo in stato di massima allerta.
L’attività dei droni sulla flottiglia è in aumento.
Diverse
segnalazioni indicano diversi scenari che si potrebbero verificare nelle
prossime ore”.
È il
messaggio diffuso sui canali ufficiali della spedizione, che avanza verso la
Striscia di Gaza.
Gli
organizzatori avvertono:
Siamo
nell’area in cui le flottiglie precedenti sono state attaccate o intercettate.
Rimanete vigili.
Per
ora nessuna nave è stata intercettata, ma tutte hanno predisposto procedure
d’emergenza per un eventuale abbordaggio.
Un partecipante alla dimostrazione ha scritto
su” X” che unità navali israeliane si starebbero avvicinando e che diversi
sistemi di sorveglianza delle imbarcazioni sarebbero stati messi fuori uso.
La
tensione cresce.
“Imbarcazioni
non identificate si sono avvicinate nella notte a diverse barche della
Flotilla, alcune con le luci spente.
I
partecipanti hanno applicato i protocolli di sicurezza in preparazione a un
possibile abbordaggio.
Le
imbarcazioni si sono ora allontanate dalla Flotilla”.
Così
la portavoce italiana del “Global movement to Gaza”, Maria Elena Delia. Anche i
rappresentanti politici hanno parlato della situazione a bordo.
“Abbiamo
visto l’esercito israeliano che sta arrivando e ci stiamo mettendo in
posizione”, afferma in un video l’eurodeputata di Alleanza verdi sinistra
“Benedetta Scuderi”, ripresa con giubbotto di salvataggio a 120 miglia nautiche
da Gaza.
Nel
post che accompagna le immagini scrive:
“L’esercito
israeliano sta per abbordare le nostre barche.
Continuiamo
a navigare verso Gaza, avvicinandoci al limite delle 120 miglia nautiche,
vicino all’area in cui le precedenti flottiglie sono state intercettate e
attaccate”.
Sulla
stessa linea, il deputato del Partito democratico “Arturo Scotto” riferisce:
“Siamo a 130-135 miglia dalla costa di Gaza.
Al
momento non abbiamo avuto segnali di alt da Israele ma siamo in allerta
permanente.
Siamo
consapevoli che in giornata potremmo essere avvicinati per l’abbordaggio”.
Anche
la Spagna segue con attenzione la vicenda.
L’Esecutivo di Pedro Sánchez ha avvertito i
propri connazionali della Flotilla, raccomandando “fortemente” di non entrare
nella zona di esclusione dichiarata da Israele nelle acque antistanti Gaza,
giudicata a “rischio severo per la loro incolumità”.
La nave militare spagnola “Furor” si trova già
in un raggio operativo per eventuali operazioni di salvataggio, ma fonti
ufficiali precisano che “la nave non potrà entrare nella zona di esclusione
stabilita dall’esercito israeliano poiché metterebbe a rischio l’integrità
fisica dell’equipaggio e quella della stessa Flotilla”.
Il
governo, progressista, di Madrid riconosce la legittimità della missione
umanitaria, ma sottolinea che “la vita dei suoi componenti deve venire
anzitutto”.
Una
posizione che l’organizzazione della Flotilla giudica insufficiente:
in un
comunicato, accusa il governo spagnolo di aver rinunciato a fornire “la
protezione necessaria per arrivare” a Gaza, denunciando che “per azione e
omissione, il governo spagnolo diventa un complice di quanto potrà accadere”.
La
lunga notte della Sumud Flotilla.
Primi
attacchi israeliani.
Contropiano.org
- Redazione Contropiano – (1-10-2025) – ci dice:
In
aggiornamento. Ore 8.30. Dopo una notte di provocazioni, disturbi, tentativi
abbozzati di speronamento, la Flotilla continua ad avvicinarsi a Gaza.
Tutto
può succedere ancora.
Ore 5.
Le prime imbarcazioni intercettate:
“Alcune imbarcazioni non identificate si sono
avvicinate a diverse navi della Flottiglia, alcune delle quali con le luci
spente.
I
partecipanti hanno applicato i protocolli di sicurezza in preparazione di
un’intercettazione. Le imbarcazioni hanno ora lasciato la Flottiglia”.
Come
si può intuire dal video in diretta, in contemporanea su diverse imbarcazioni,
alcune sono diventate “buie”, segno che le telecamere sono state spente o
danneggiate.
La
tattica di attacco israeliano sembra quella di colpire la strumentazione per le
comunicazioni prima di abbordare effettivamente alcune imbarcazioni alla volta,
evitando le complicazioni di un maxi attacco in simultanea a 51 barche.
Una
nave non identificata ha rischiato di speronare la Alma e l’ Aurora, poi si è
allontanata dopo aver danneggiato da remoto i sistemi di comunicazione a bordo.
“NON siamo stati intercettati, ma siamo stati circondati da una grande nave
militare senza luci (probabilmente la stessa avvistata da Aurora pochi minuti
fa).
Poiché
questa nave non ha seguito le procedure di intercettazione a cui siamo
abituati, ha cercato di tagliarci la strada, rischiando di speronarci
fisicamente. Abbiamo deciso di fermarci, rivalutare la situazione e attendere
l’alba.
A
breve comunicheremo come procedere“.
Qui si
può seguire l’andamento in diretta, grazie al collegamento con diverse
imbarcazioni della Flotilla.
L’atteggiamento
del governo italiano è diventato finalmente chiarissimo quando sulla Flotilla è
arrivato l’alert dalla fregata Alpino.
A 180
miglia da Gaza, ha comunicato alla flotta che alle 2 di notte, ora in cui la
distanza di accorcerà a 150 miglia, la nave si sarebbe fermata “per non
pregiudicare in alcun modo le garanzie di sicurezza delle persone imbarcate“.
Ed è
forse il caso di ricordare che tra loro ci sono anche 4 parlamentari della
Repubblica, oltre a cittadini di altri 43 paesi…
Era
questa la linea rossa concordata tra l’Italia e l’Idf.
In
pratica l’invio della fregata era solo un “gesto simbolico” della propaganda
meloniana per coprire almeno in parte la complicità sostanziale, ferma e
indifferente alla legalità internazionale (fermare e assaltare imbarcazioni
civili con a bordo aiuti umanitari è un crimine di guerra; farlo in acque
internazionali è un “atto di pirateria”).
Una
fregatura e basta.
Semplicemente
inqualificabile l’ultimo messaggio della presidente del consiglio: “Flotilla si fermi. Ogni altra scelta
rischia di trasformarsi in un pretesto per impedire la pace, alimentare il
conflitto e colpire così soprattutto quella popolazione di Gaza alla quale si
dice di voler portare sollievo.
È il tempo della serietà e della
responsabilità“.
Sarebbero
i gesti umanitari, dunque, a “impedire la pace“, non l’azione criminale di un
governo genocida e l’appoggio concreto di tutto l’Occidente euro-atlantico.
Riassumendo: il genocidio è “pace”, e la Flotilla sarebbe un attentato alla
“pace”. Giudicate voi…
Sacrosanta
la risposta dalla Flotilla: “questa non è protezione. È sabotaggio. È un
tentativo di demoralizzare e dividere una missione pacifica e umanitaria. Il
blocco di Israele è illegale ed il silenzio del mondo intollerabile. Se il
governo italiano vuole essere ricordato per il coraggio, deve navigare con noi “.
In
particolare la portavoce,” Maria Elena Delia”, ha fatto notare: “Leggo che
Giorgia Meloni sostiene che se il piano di ‘pace’ di Trump fallirà, sarà colpa
della Global Sumud Flotilla.
Saremmo
onorati di poterci prendere questo merito, ma purtroppo non abbiamo questo
potere.
Quello,
però, di ribadire che il diritto internazionale non può essere applicato solo
ad alcuni, questo potere ce l’abbiamo e lo rivendichiamo.
Israele
non ha alcun diritto sulle acque in cui stiamo navigando e se ci fermerà
commetterà un reato.
Questo
è quello che avrebbe dovuto scrivere Giorgia Meloni, in un mondo normale, ma
forse in quel mondo il nostro paese non sarebbe in mano a lei e al suo
governo.”
150
miglia dalle coste di Gaza, oltretutto, è un punto oltre 10 volte più grande
delle 12 miglia riconosciute dalle convenzioni internazionali, quindi in acque
totalmente internazionali, dove anche il signor Mario Rossi dovrebbe poter
regatare liberamente…
Andarsene,
però, ha anche un altro significato, da parte del governo Meloni. Significa
infatti “non vogliamo neanche esser testimoni di quello che accadrà, ci
accontenteremo della versione del genocida Netanyahu, a cui vi consegniamo”.
Alla faccia del governo “sovranista”… Neanche un maggiordomo inglese del ‘700
sarebbe stato così servizievole.
Di lì
in poi è cominciata anche la marcia di avvicinamento alle imbarcazioni da parte
delle forze armate israeliane, precedute da uno sciame di droni che hanno fatto
avanti e indietro a scopo intimidatorio sulla Flotilla.
Come
del resto spigato nel loro messaggio:
“Siamo
in stato di massima allerta. L’attività dei droni sulla flottiglia è in
aumento.
Diverse
segnalazioni indicano diversi scenari che si potrebbero verificare nelle
prossime ore.
Siamo
entrati nella zona ad alto rischio, l’area in cui le flottiglie precedenti sono
state attaccate e/o intercettate.
Rimanete
vigili“.
La
vendetta per il raid su Kiev:
dagli Usa il via libera a Zelensky
per
attacchi a lungo raggio.
Today.it
-Mondo -Redazione – (29 settembre 2025) – ci dice:
Due
morti vicino a Mosca durante un attacco di droni ucraini.
Vasti
blackout nella regione russa di Belgorod dopo un raid a una centrale
termoelettrica.
L'inviato
Usa Keith Kellogg: "Per Trump non ci sono santuari"
Il
presidente ucraino Volodymyr Zelensky aveva promesso conseguenze per Mosca dopo
il sanguinoso raid russo su Kiev.
E dopo neppure 24 ore dalla pioggia di droni e
missili sulla capitale ucraina è stata la città russa di Belgorod, capoluogo
della omonima regione di confine, a subire un attacco che ha provocato un vasto
blackout.
Obiettivo
del raid, avvenuto nella serata di domenica 28 settembre, una centrale
termoelettrica e alcune sottostazioni.
Oggi
due persone - una donna di 76 anni e suo nipote di 6 anni - sono invece morte a
Voskresensk, vicino a Mosca a causa di un incendio in un'abitazione privata,
scoppiato durante attacchi con droni delle Forze Armate ucraine.
La notizia arriva a poche ore dal via libera
degli Stati Uniti all'uso dei sistemi d'arma occidentali per colpire in
profondità il territorio russo.
Trump:
"Non ci sono santuari".
Per il
presidente americano Donald Trump "non ci sono santuari".
Lo ha
dichiarato l'inviato speciale degli Stati Uniti in Ucraina Keith Kellogg in una
intervista alla rete statunitense Fox News.
La scorsa settimana il presidente ucraino
Volodymyr Zelensky negli Stati Uniti per l'assemblea generale dell'Onu aveva
chiesto a Trump di fornire a Kiev missili da crociera a lungo raggio Tomahawk.
E il
vicepresidente americano JD Vance ha confermato che gli Stati Uniti stanno
"valutando" la possibilità di questa ulteriore fornitura militare a
Kiev "mentre Mosca continua a rifiutare i colloqui di pace bilaterali e
trilaterali mediati da Trump".
Intanto
le autorità russe hanno arrestato a Sebastopoli, nella Crimea occupata da
Mosca, una donna che lavorava come chef in un ristorante locale e progettava di
avvelenare i soldati impiegati nella difesa aerea.
Secondo
le accuse la donna collaborava con l'intelligence ucraina e avrebbe fornito a
Kiev foto del dispiegamento delle navi della flotta del Mar Nero, che le forze
armate ucraine hanno poi utilizzato per pianificare attacchi missilistici.
Oltre
il veto -L’Unione europea
lavora
per superare l’unanimità.
Linkiesta.it
– (28 agosto 2025) – Redazione – ci dice:
Al
consiglio informale di Copenaghen i ministri degli Esteri mettono in agenda i
“metodi di lavoro” del Consiglio Affari Esteri. Sul tavolo l’ipotesi di
abbandonare l’obbligo di un consenso condiviso da tutti in politica estera e
sicurezza, che rischia di paralizzare un’Ue sempre più ampia.
Superare
il meccanismo dell’unanimità per contare di più nello scacchiere
internazionale.
È l’obiettivo che i ministri degli Esteri
dell’Unione europea proveranno a perseguire al “Gymnich di Copenaghen”,
l’incontro informale del 29-30 agosto organizzato dalla presidenza danese.
La
notizia l’ha data il Sole 24 ore in un articolo di “Angelica Migliorisi”.
All’ordine
del giorno ci saranno i “working methods” del Consiglio Affari Esteri, vale a
dire l’esplorazione di ipotesi per superare l’unanimità, che regge la Politica
estera e di sicurezza comune (Pesc) e spesso rallenta decisioni cruciali.
La
regola del veto, nata per proteggere la sovranità nazionale, è sempre più
percepita come un freno:
lo si
è visto sulle sanzioni contro la Russia, spesso rallentate da governi
riluttanti come quello ungherese, e sulle prese di posizione sul conflitto in
Medio Oriente, dove le divergenze hanno annacquato dichiarazioni comuni.
«La
regola del veto, nata per proteggere la sovranità nazionale, è sempre più
percepita come un cappio che rallenta decisioni cruciali», scrive il Sole 24
ore.
Il
quadro giuridico è chiaro:
l’articolo
31 del Trattato sull’Unione europea stabilisce che le decisioni della Politica
estera e di sicurezza comune sono prese all’unanimità, salvo eccezioni
specifiche.
Il
Trattato di Lisbona ha introdotto valvole di flessibilità, come l’astensione
costruttiva, che permette a uno Stato di non partecipare formalmente a una
decisione senza bloccare gli altri, e il freno d’emergenza, che rinvia al
Consiglio europeo questioni considerate vitali per un Paese.
C’è
anche la possibilità, tramite l’articolo 31 paragrafo 3, di estendere la
maggioranza qualificata in alcuni ambiti, ma richiede comunque consenso
unanime: una porta teorica mai davvero percorsa.
La
cultura dell’unanimità ha radici profonde.
La
crisi della sedia vuota del 1965, con Charles De Gaulle che bloccò i lavori del
Consiglio per tutelare la politica agricola francese, dimostrò come il timore
di perdere sovranità potesse paralizzare l’Unione.
Il
successivo “Compromesso di Lussemburgo” conferì un diritto di veto informale a
ogni capitale.
Con
Maastricht e Amsterdam, e più tardi con il compromesso di Ioannina del 1994, la
“Pesc” si è strutturata attorno a una negoziazione permanente che mantiene viva
la regola unanimistica, creando un sistema stratificato che spesso rallenta le
decisioni.
Oggi
la situazione spinge verso il cambiamento.
Con
gli allargamenti previsti verso Ucraina, Moldavia, Georgia e Balcani
occidentali, un’Unione a trenta o più membri non potrebbe più funzionare con le
regole attuali:
ogni nuovo ingresso moltiplicherebbe i veti,
allungando i tempi decisionali già oggi insostenibili.
Nel
2023, uno studio del “Servizio Ricerca del Parlamento europeo” ha parlato del
“costo della non-Europa” in politica estera:
ritardi
e divisioni che indeboliscono la credibilità internazionale e offrono terreno
fertile ai rivali.
La
maggioranza qualificata è già norma in settori come il mercato interno,
l’agricoltura, la concorrenza e le politiche ambientali:
serve
il cinquantacinque per cento degli Stati che rappresentino almeno il
sessantacinque per cento della popolazione.
Come
sottolinea il Sole 24 Ore, «applicare la maggioranza qualificata alla “Pesc”
significherebbe trasformare una cooperazione intergovernativa in un sistema più
simile a una postura federale».
Le
cronache confermano l’urgenza.
L’ultimo
pacchetto di sanzioni alla Russia ha richiesto trattative estenuanti con
Slovacchia e Malta per superare i veti.
Anche
il maxi-pacchetto di aiuti a” Kyjiv “è passato solo dopo un lungo braccio di
ferro.
Questi
casi mostrano come la regola dell’unanimità rallenti l’azione europea e dia
l’impressione di esitazione a partner e avversari internazionali.
Il
fronte riformatore è guidato da Germania e Francia, con l’appoggio di Italia,
Spagna, Paesi Bassi e diversi Paesi nordici e baltici.
All’opposto, l’Ungheria e altri Stati più
piccoli difendono il veto come garanzia di legittimità interna e strumento di
leva politica, temendo che la maggioranza qualificata trasformi l’Unione in una
piattaforma dominata dai grandi.
A
Copenaghen si aprirà un confronto complesso:
un
primo passo verso decisioni più rapide e incisive, ma senza compromettere
l’equilibrio tra sovranità nazionale e azione comune.
A
Copenaghen Costa cercherà
di
aggirare l’ostacolo unanimità
per
l’adesione dell’Ucraina all’UE.
Eunews.it
– Emanuele Bonini – (29 settembre 2025) – ci dice:
Il
presidente del Consiglio europeo discute con i leader come cambiare le regole
per aprire i capitoli negoziali a favore di Kiev.
I nodi
giuridici non mancano, ma neppure la sensazione di potercela fare.
Ucraina
Adesione Ue.
Bruxelles
– Superare il veto dell’Ungheria e avviare davvero il processo di adesione
dell’Ucraina all’UE aggirando l’ostacolo dell’unanimità: il vertice informale
dei capi di Stato e di governo di mercoledì (1° ottobre) diventa un banco di
prova tutto politico per un’Unione europea decisa a mantenere le promesse fatte
al partner ucraino. Il presidente del Consiglio europeo, Antonio Costa, proverà
a convincere i leader a modificare il diritto consuetudinario per mandare un
segnale chiaro alla Russia di Putin circa l’avvenire di Kiev.
Fonti
altamente qualificate assicurano che uno dei punti caldi del dibattito
sull’Ucraina riguarderà per l’appunto la possibilità di cambiare le regole sui
capitoli negoziali.
L’obiettivo
è aggirare i veti dei Paesi, nello specifico quello ungherese, e magari provare
a cambiare l’ordine dei capitoli negoziali da aprire.
Non si
ci si sbilancia, però “se Costa avesse visto che non ci sono margini per
superare l’ostacolo dell’unanimità non si sarebbe speso, quindi ha la
percezione che possa essere possibile“, si ragiona a Bruxelles.
Certo,
i nodi giuridici non sono pochi.
Per quanto vago sia, l’articolo 49 dei
trattati che regola l’allargamento dell’UE con l’adesione di altri Paesi
prevede unanimità, ma la formula è comunque poco articolata, e questo lascia
spazio a interpretazioni di diritto.
La Commissione europea ha già proposto una
rivisitazione giuridica con la comunicazione di marzo 2024, in cui sostiene che
“si potrebbe valutare la possibilità di conferire al Consiglio il potere di
decidere a maggioranza qualificata per alcune fasi intermedie del processo di
allargamento“.
Una
siffatta decisione, sarebbe peraltro “in linea con la richiesta del Consiglio
europeo di accelerare il processo di adesione”, recita la stessa comunicazione
di oltre un anno fa.
La
linea dell’esecutivo comunitario non è cambiata, tanto che oggi (29 settembre)
il portavoce responsabile per l’”Allargament”, “Guillaume Mercier”, ha ribadito
che questa possibilità per il Consiglio andrebbe esplorata, per ragioni non
solo politiche ma pratiche:
“Quando un Paese viene bloccato senza ragioni
oggettive, nonostante soddisfi i criteri, la credibilità dell’intero processo
di allargamento è a rischio,“ afferma in relazione al processo di adesione
dell’Ucraina.
Per la
Commissione europea il Paese soddisfa i criteri e merita di vedersi aprire il
cluster 1 “senza indugio” come peraltro già raccomandato, e dati i progressi
registrati “non c’è motivo per opporsi”, sottolinea “Mercier.”
L’UE
dunque è al centro di una questione di credibilità, e cambiare abitudini
potrebbe aiutare.
La
prassi di aprire i capitoli negoziali tutti insieme è per l’appunto una pratica
non scritta.
È una
consuetudine, e la consuetudine è la fonte di diritto non scritta per
eccellenza. Basta cambiare comportamenti, quindi.
È su
questo che gioca Costa, ed è su questo che si gioca il vertice dei leader.
Attenzione,
però: intanto il processo rischia di prendere tempo. Anche qualora i servizi
giuridici di Commissione e Consiglio dovessero sbrigarsi si tratterebbe
comunque di mesi, e comunque non sarebbero da escludere ricorsi in Corte di
giustizia.
In secondo luogo la Commissione europea, che è
guardiana dei trattati e per questo deve farli rispettare, ridimensiona il
cambio di passo: Mercier chiarisce che la maggioranza qualificata potrebbe
essere usata per permettere l’apertura dei capitoli negoziali, salvo aggiungere
che “la
chiusura dei capitolo negoziali dovrebbe continuare all’unanimità degli Stati
membri”.
In
sostanza il veto ungherese verrebbe solo spostato ma non eliminato, ma questa
eventualità è comunque utile all’UE per avviare i negoziati come promesso e far
sapere a Mosca che l’Ucraina è ormai nella sfera d’influenza europea.
Anche
per questo Costa ci prova. “
Non ha
ricevuto ‘no’ espliciti dai leader”, nel corso del suo tour per le capitali
europee effettuato per preparare il vertice informale, e questa assenza di
resistenze viene letta come un buon auspicio.
“Il
vertice di Copenaghen serve per capire meglio” che direzione saprà prendere
l’UE, e magari preparare il terreno per il vertice del 20 e 21 ottobre, quello
formale, dove conclusioni andranno prese.
GIOVANI
SENZA SCOPO: QUANDO DIO
È
MORTO E IL VUOTO DIVENTA DESTINO.
Inchiostronero.it
- Redazione Inchiostro nero – (01 -10 -2025) – ci dice:
Nietzsche,
Heidegger e Camus di fronte al disagio delle nuove generazioni.
Tra
nichilismo e ricerca di senso.
Il
crescente smarrimento dei giovani non è solo una questione sociale, ma affonda
le radici in una crisi filosofica profonda.
Con la
morte di Dio annunciata da Nietzsche, è venuto meno ogni fondamento ultimo;
ciò
che resta è il nichilismo, ossia “l’assenza di scopo, la mancanza di risposta
al perché” (Heidegger).
Camus,
osservando lo stesso abisso, parlava dell’“unico problema filosofico veramente
serio: il suicidio”.
In questo vuoto si muovono le nuove
generazioni, attratte da surrogati effimeri ma incapaci di trovare senso.
La
sfida, allora, è trasformare il nichilismo in occasione creativa:
assumersi
la responsabilità di forgiare nuovi valori, per non soccombere a un mondo che,
senza trascendenza, rischia di diventare ostile alla vita stessa.
Tra
nichilismo e ricerca di senso.
Giovani
senza scopo: quando Dio è morto e il vuoto diventa destino.
Nietzsche,
Heidegger e Camus di fronte al disagio delle nuove generazioni.
La
morte di Dio e l’ombra del nichilismo.
Le
società occidentali hanno rimosso l’idea di un senso “oltre” la vita materiale.
La fede religiosa, i grandi ideali collettivi o le utopie politiche che davano
orizzonte alle generazioni passate si sono sgretolati.
Rimane
il vuoto.
Nietzsche,
nel celebre aforisma de “La gaia scienza”, annunciò la morte di Dio.
Non
era una provocazione ateistica, ma la constatazione che i valori supremi
dell’Occidente avevano perso forza normativa.
Con
Dio tramontava l’orizzonte di senso condiviso, lasciando l’uomo solo di fronte
al compito di dare significato alla propria esistenza.
Per
Nietzsche, il nichilismo è “la svalutazione dei valori supremi”, un deserto in
cui tutto appare privo di scopo.
Oggi
questo deserto lo abitano soprattutto i giovani, che avvertono con urgenza
l’assenza di direzione e il peso del vuoto.
Nietzsche,
però, offriva anche un’altra via:
il
“superuomo” come colui che crea valori nuovi al posto di quelli crollati.
Forse
la sfida per i giovani di oggi è proprio questa:
non
rassegnarsi al nichilismo, ma trasformarlo in una spinta creativa.
Heidegger:
il nichilismo come destino dell’Occidente.
Heidegger
definì il nichilismo come “l’assenza di scopo, la mancanza di risposta al
perché”.
Non
una semplice malattia culturale, ma il destino stesso della civiltà
occidentale, che ha ridotto l’essere a pura disponibilità tecnica.
In un
mondo dominato dall’efficienza, tutto diventa mezzo e nulla resta come fine.
Per i giovani ciò si traduce in una vita fatta di strumenti – smartphone, reti
sociali, intelligenza artificiale – che promettono connessione ma non colmano
il bisogno di significato.
L’“esserci”
(Dasein) rischia così di ridursi a sopravvivenza anonima, senza autenticità né
trascendenza.
Camus
e l’assurdo della vita.
Albert
Camus apriva Il mito di Sisifo con parole sconvolgenti:
“Vi è un solo problema filosofico veramente
serio: il suicidio”.
Di
fronte all’assurdo, ossia allo scarto tra il bisogno umano di senso e il
silenzio del mondo, l’uomo può cedere o ribellarsi.
Camus
rifiutava tanto la fuga religiosa quanto il nichilismo distruttivo:
la sua risposta era una rivolta lucida, una
fedeltà alla vita anche senza fondamenti ultimi.
È
forse questa la sfida che oggi si ripropone ai giovani:
imparare a vivere con l’assurdo, senza
smarrire dignità né speranza.
Il
vuoto contemporaneo: surrogati e illusioni.
Nell’epoca
della sovrabbondanza materiale, la mancanza di scopo diventa ancora più
paradossale.
La
società dei consumi offre surrogati del senso: successo, carriera,
divertimento, dipendenze.
Ma
nessuno di questi tocca il cuore dell’inquietudine.
Heidegger
parlava del dominio dell’“inautentico”, dell’esserci che si lascia guidare dal
“si dice” e dal “si fa”.
Così i giovani, bombardati da modelli effimeri
e standardizzati, finiscono per aderire a un’esistenza prefabbricata, senza mai
misurarsi con le domande radicali: chi sono? perché vivere? verso cosa
orientarmi?
Trasformare
il nichilismo in possibilità.
Nietzsche
intravide, tuttavia, una via d’uscita:
dal deserto può nascere un nuovo inizio.
Il
compito del “superuomo” è proprio quello di creare valori nuovi, non ereditati
ma forgiati nell’esperienza.
Se Dio
è morto e i vecchi ideali sono crollati, non resta che assumersi la
responsabilità di inventare scopi, di ridare forma al mondo.
In questo senso, la crisi dei giovani non è
solo tragedia, ma anche occasione:
un
appello a non soccombere al vuoto, ma a trasformarlo in campo di possibilità.
È
questa, forse, l’unica speranza di un’epoca segnata dal nichilismo:
che le
nuove generazioni trovino il coraggio di reinventare il senso stesso del
vivere.
Il
Male protagonista – In mancanza di una prospettiva di bene condiviso, spesso a
emergere è il contrario: violenza, sopraffazione, culto dell’apparenza,
cinismo.
Non è
il Male metafisico dei teologi, ma quello pratico e quotidiano che si infiltra
nelle relazioni, nelle dipendenze, nel consumismo spinto fino
all’autodistruzione.
I
giovani respirano questo clima e, non trovando alternative credibili, oscillano
tra l’adattamento passivo e la fuga nel nulla:
dipendenze, autolesionismo, talvolta il
suicidio.
Conclusione.
In
questo senso, la crisi dei giovani non è soltanto tragedia, ma anche occasione:
un appello a non soccombere al vuoto, ma a trasformarlo in campo di
possibilità.
È questa, forse, l’unica speranza di un’epoca
segnata dal nichilismo: che le nuove generazioni trovino il coraggio di
reinventare il senso stesso del vivere.
“Bisogna
immaginare Sisifo felice.” (Camus)
La
vita reale non è un videogioco.
(Le
sfide concrete dei giovani di oggi).
Lavoro
e precarietà
I
giovani dovranno affrontare mercati del lavoro radicalmente trasformati:
mestieri che scompaiono, altri che nascono, tutti resi incerti dall’automazione
e dall’intelligenza artificiale.
La
stabilità di un tempo sembra irraggiungibile; ciò che servirà sarà la capacità
di apprendere continuamente e di reinventarsi.
Crisi
ambientale e climatica.
Il
pianeta che erediteranno non è neutro, ma segnato da decenni di sfruttamento.
La crisi climatica rischia di condizionare scelte di vita, migrazioni e
conflitti, ma può diventare anche terreno di impegno e di nuove forme di
responsabilità collettiva.
Identità
e salute mentale.
Mai
come oggi la solitudine, le dipendenze digitali e il malessere psicologico
colpiscono le nuove generazioni.
Senza comunità solide e senza punti di
riferimento, il rischio è che il nichilismo diventi disperazione.
La
cura della mente e del cuore diventerà decisiva tanto quanto quella del corpo.
Nuovi
valori e trascendenza.
Se Dio
è morto, come annunciava Nietzsche, resta ai giovani il compito di inventare
nuovi valori e nuove forme di trascendenza.
Non si
tratta solo di religione, ma di creare ideali e fini condivisi – dalla
giustizia sociale alla custodia del pianeta – capaci di dare direzione e senso
all’esistenza.
Un
bivio.
Il
futuro non è predeterminato.
Le
nuove generazioni potranno lasciarsi inghiottire dal vuoto e dalla
rassegnazione, oppure trasformare la crisi in un’occasione di rinascita.
La
scelta è se essere spettatori passivi di un declino o protagonisti di un nuovo
inizio fondato su senso, responsabilità e speranza.
“UCRAINA,
LA RUSSIA
COLPISCE
I SOLDI DELLA NATO.”
Inchiostronero.it - Redazione Inchiostro nero
– (01-10-2025) – ci dice:
Ucraina,
il fronte invisibile.
Mosca
colpisce le fabbriche NATO, ma i media giocano alla caricatura.
(Il
Simplicissimus).
Mentre
il Corriere della Sera gioca a fare satira involontaria descrivendo Putin come
un “dittatore comunista”, la Russia passa dalle parole ai fatti:
distrutte
numerose infrastrutture militari legate alla NATO in Ucraina, inclusi impianti
di produzione di droni e almeno cinque F16.
Un’operazione chirurgica che smaschera la
nuova aggressività dell’Alleanza Atlantica e rivela, ancora una volta, quanto
siano mediocri e controproducenti i sistemi di difesa occidentali.
Ma nel
teatrino della propaganda, anche le carcasse dei missili finiscono per
diventare narrativa: quella in cui i carnefici si travestono da vittime. (Nota Redazionale)
Il
Corriere della Sera dice ai suoi lettori che Putin è un dittatore comunista,
com’è d’uso per un giornale satirico che i suoi lettori e persino i suoi
redattori prendono invece sul serio, dimostrando così il livello a cui è giunta
quella che una volta si chiamava la buona borghesia italiana.
Non
dice invece, assieme ai confratelli dell’ordine giornalistico “Fate male
fratelli”, che Putin va ascoltato con molta attenzione.
Qualche
tempo fa il presidente russo aveva detto che se i Paesi della Nato avessero
creato in Ucraina nuove fabbriche di armi, esse sarebbero state distrutte.
E il
monito si è trasformata in realtà:
è stata completamente azzerata la fabbrica di
droni sentinella che i tedeschi avevano impiantato in una delle officine
attorno al complesso Antonov, quello che ai tempi dell’Unione sovietica
produceva l’aereo da trasporto più grande del mondo.
Si
tratta di un cambiamento di strategia da parte russa che risponde alla nuova
ondata di aggressività delle Nato e al suo tentativo di aggirare il problema
del trasporto di armi in Ucraina, installando stabilimenti direttamente in
loco.
Ma non
si tratta solo di questo stabilimento:
decine di fabbriche legare alla Nato in
numerose località sono state colpite e distrutte, assieme a un certo numero,
dai 5 ai 6, di F16 nell’aeroporto di Starokonstantinov.
Naturalmente
l’Alleanza Atlantica”, com’è suo inveterato costume, non bada molto alle
vittime civili e così le fabbriche di armi sono situate, di proposito, in mezzo
alle città in modo da rendere più problematico colpirle.
Ma
missili e droni russi sono piuttosto precisi e raramente danneggiano strutture
civili:
a fare vittime è piuttosto la contraerea
ucraina i cui missili finiscono per cadere sulle case dopo aver colpito l’aria.
I
cittadini ucraini hanno prodotto fino ad ora centinaia di migliaia, se non
milioni di foto che raffigurano i resti di tali missili, dei Patriot in
particolare, disseminati sulle strade e in qualche caso caduti anche sulle case
e su ospedale.
Poco
male, è tutta carne al fuoco per la propaganda antirussa:
è
molto facile per i carnefici trasformarsi in vittime, come hanno tentato
persino di fare i sionisti, la cui strage era sotto gli occhi di tutti.
Con il
piccolo particolare che i missili ricadono sulla città quando non colpiscono i
loro obiettivi e dunque alla fine si tratta di carcasse che narrano soprattutto
la mediocrità dei sistemi di difesa occidentali.
Ad
ogni modo questa nuova strategia russa, di passare dal colpire le
infrastrutture energetiche e militari ucraine, alle vere e proprie fabbriche di
armi, ha un significato che va al di là dell’ovvia distruzione della residua
capacità militare ucraina, ma punta a colpire gli interessi economici che
tengono viva la guerra al di là di ogni ragionevolezza.
Negli
ultimi due anni parecchie industrie, soprattutto tedesche e francesi, ma anche
britanniche e statunitensi hanno investito in fabbriche di armi in ucraina,
soprattutto volte alla realizzazione di droni e rischiano ora di ritrovarsi con
un mucchio di macerie.
Dunque,
il nuovo verso della guerra da parte dei russi è quella di scoraggiare chi
pensasse di speculare sull’ucraina e di demolire assieme alle fabbriche, anche
quell’atmosfera favorevole alla guerra che è anche frutto di questi
investimenti.
Insomma
Putin che non è un dittatore comunista come dicono i venditori di balle
all’ingrosso, sta dicendo agli occidentali:
l’Ucraina non è un posto dove potrete fare
soldi fomentando un’inutile strage.
Ma come si desume anche alla distruzione del “centro
logistico Nato” di Vinnitsa, avvenuto due giorni fa, Mosca non ha più alcuna
prudenza nel colpire le strutture dell’Alleanza.
Ora
che la pace sembra più lontana e l’accanimento della Nato non ha più ritegno
nel sostegno della guerra, non c’è ragione di non colpire strutture che di
ucraino hanno solo il nome.
È
certamente un argomento molto più efficace di tutti quelli proponibili per
porre fine al conflitto.
Del resto, l’unica strategia della Nato è
ormai quella di colpire le città russe, di portare attacchi sotto falsa
bandiera, di importare mercenari di cui intero battaglione è stato sgominato
proprio l’altro giorno.
Ma
alla fine, persa la guerra, la Nato perderà anche la sua guerriglia.
«LA
TRASMUTAZIONE DEI DESIDERI
IN DIVIDENDI»
Inchiostronero.it - Redazione Inchiostro nero
– (30-09 -2025) – ci dice:
ANTROPOLOGIA
-FILOSOFICA -CULTURA.
Quando
la magia smise di guarire e cominciò a servire.
Dal
sacro vissuto al profitto ritualizzato: storia di un’anima esiliata.
Un
tempo, il desiderio era ponte tra l’umano e il divino.
Oggi è
carburante per l’economia.
Questo
saggio esplora la trasformazione silenziosa ma radicale dei sistemi simbolici e
religiosi:
dalla
magia sciamanica come esperienza incarnata del mistero, alla liturgia svuotata
della magia cerimoniale, fino all’odierna mercificazione dell’energia
desiderante.
L’anima,
privata dei suoi strumenti simbolici e mitici, è stata respinta nell’ombra —
dove oggi giace, frammentata e smarrita, mentre il desiderio, ridotto a
bisogno, viene contabilizzato in dividendi.
Il
passaggio dalla magia naturale primordiale (sciamanica) alla magia cerimoniale
(sacerdotale) spinse l’anima nell’ombra, causando la perdita di molti mezzi di
ordine spirituale.
Un
tempo intrisi di autentica sacralità, i culti si trasformarono in una sequela
di gesti meccanici e parole recitate a memoria.
Ma
ugualmente i popoli – sempre più ignoranti – continuarono a credere, a
obbedire, e infine a desiderare… ciò che veniva loro detto di desiderare.
Così,
il sacro divenne spettacolo, il rito divenne profitto, e il desiderio si
trasmutò in dividendo.
L’esilio
del desiderio:
«La
salvezza non dipende da altri, ma da noi stessi.»
(Senofonte,
Anabasi, III.2.39)
Un
tempo, il desiderio era un richiamo sacro.
Non un
bisogno da soddisfare, ma una soglia da varcare.
Era ciò che spingeva l’essere umano a
viaggiare tra mondi — visibili e invisibili — a interrogare il cielo, a parlare
con gli spiriti degli alberi, a danzare attorno al fuoco come atto cosmico e
curativo.
Desiderare
significava partecipare a un mistero.
Poi
qualcosa è cambiato.
Nel
lungo processo che ha portato l’uomo dalla magia naturale alla magia
cerimoniale, dalla rivelazione alla ripetizione, il desiderio ha cominciato a
perdere la sua anima.
Svuotato
del suo contenuto mitico, è diventato funzione.
E
infine, formula.
Il
fuoco del rito è stato sostituito dal neon del supermercato.
La
preghiera dal click.
La
soglia dal codice a barre.
«L’uomo
moderno non ha perduto la capacità di desiderare, ha solo smesso di
comprenderne il linguaggio.»
(Jung,
seminari inediti, 1933).
Ma
tutto è avvenuto lentamente, quasi impercettibilmente.
E proprio per questo, in profondità.
Nel
momento in cui il desiderio ha smesso di orientare l’anima verso il sacro, ha
cominciato a subire un processo di trasmutazione silenziosa.
Come
in una formula alchemica rovesciata, ciò che prima serviva all’elevazione ora
viene impiegato per la distrazione, il controllo, la produzione.
Il
desiderio oggi non è più una chiamata. È una leva.
Una
leva economica.
«Il
capitalismo non è che un’operazione alchemica degenerata, dove l’oro spirituale
è stato ridotto a profitto bancario.»
(Ernst
Jünger, Trattato del ribelle).
In
questa nuova religione dell’economia globale, non è più importante perché
desideri, ma quanto puoi pagare per farlo.
Magia
naturale vs. magia cerimoniale.
Dal
mistero vissuto al potere ritualizzato.
«Il
mago primitivo non si sentiva signore della natura: si sentiva parte di essa,
dentro la sua anima e la sua voce.»
(Mircea Eliade, Trattato di storia
delle religioni).
All’origine,
la magia non era dominio. Era partecipazione.
Nella
magia naturale, lo sciamano non imponeva la sua volontà al mondo: si faceva
tramite, ponte tra le forze del visibile e quelle del misterioso.
Non
c’era separazione tra gesto, corpo, spirito e ambiente.
Il
rito era danza, medicina, visione. Era una liturgia viva, generata nel momento,
in risposta a un bisogno reale della comunità.
E
soprattutto, era esperienza.
Ma con
il tempo — e con l’avvento delle religioni organizzate — questa forma
primordiale di sacralità è stata progressivamente sostituita da un modello
sacerdotale, verticale, gerarchico.
Il
mistero non veniva più attraversato, ma amministrato.
La
magia cerimoniale, nata nelle corti dei re e nei templi degli dèi intermediari,
trasformò il rito in codice, il simbolo in formula, l’invocazione in
protocollo.
Il
sacerdote prese il posto dello sciamano.
E il
sacro divenne territorio recintato, protetto da lingue morte, dogmi
inaccessibili e poteri intermediari.
«La
decadenza dei riti è la decadenza di un popolo: perché significa che non si
parla più con gli dèi.»
(René Guénon, Il regno della quantità)
La
magia naturale curava, rivelava, riconnetteva.
La
magia cerimoniale gestisce, separa, istituzionalizza.
Dove
prima c’era estasi, ora c’è ordine.
Dove
prima c’era comunione, ora c’è autorità.
Dove
prima c’era l’esperienza diretta del numinoso, ora c’è l’intermediazione del
potere.
E
così, in questo passaggio epocale, l’anima è stata spinta nell’ombra.
«L’anima
non è scomparsa. È stata esiliata. E aspetta, nel sogno, nel sintomo, nel
silenzio.»
(Carl Gustav Jung, Tipi psicologici)
Questo
esilio ha un prezzo: abbiamo perso i simboli che parlavano alla psiche
profonda. Abbiamo disimparato a guarire attraverso il mito, la danza, la voce.
Eppure,
continuiamo a desiderare. Ma senza sapere cosa.
E
soprattutto: senza sapere perché.
Il desiderio
come forza spirituale.
Dalla
mancanza divina al carburante dell’anima.
«Δαιμονίων
δὲ ἐστὶ τὸ ἐρᾶν — Desiderare è una cosa da spiriti intermedi.»
(Platone,
Simposio, 202d)
In
molte tradizioni antiche, il desiderio non è un difetto, ma un ponte.
Un
impulso che nasce dalla consapevolezza della propria incompletezza, e che
proprio per questo ci spinge verso la totalità.
Il
desiderio, dice Platone nel “Simposio”, non appartiene agli dèi (che sono già
completi), né agli ignoranti (che ignorano il proprio vuoto): appartiene a chi
sa di mancare, e perciò cerca.
È la
via del filosofo, del mistico, del poeta.
«Il
desiderio è il demone che collega il finito all’infinito.»
(Pierre Hadot, Esercizi spirituali e
filosofia antica)
Nel
pensiero junghiano, il desiderio è il linguaggio della psiche profonda.
Non è
semplicemente libido, né mero appetito: è la voce degli archetipi, che chiedono
di essere riconosciuti e incarnati nel mondo.
Ogni
vero desiderio è una chiamata. Una forma mitica che bussa alla soglia della
coscienza.
«Il
desiderio è il messaggero dell’anima. Se non lo ascolti, si trasforma in
sintomo.»
(C.G. Jung, Il Libro Rosso)
“James
Hillman”, da parte sua, ci invita a “restare nel desiderio”, senza cercare di
risolverlo subito.
Perché
è nel tendere, non nell’ottenere, che si apre lo spazio simbolico del senso.
Il
desiderio, dunque, non va consumato: va abitato.
Oggi,
però, ci viene detto l’esatto opposto: che il desiderio è una frustrazione da
spegnere, un’urgenza da soddisfare il prima possibile.
Ogni
ritardo è dolore. Ogni attesa è inutile.
Ma
questa logica – la logica del consumo istantaneo – è ciò che ha rotto il legame
fra desiderio e anima.
Abbiamo
trasformato il desiderare in volere. E il volere in acquistare.
«Abbiamo
ridotto il desiderio a bisogno, e il bisogno a budget.»
— (Detto contemporaneo, anonimo ma reale)
Il
risultato? Una fame perpetua e senza volto.
Un’umanità
che desidera senza sapere cosa cerca, e che possiede senza sapere cosa ha
perduto.
L’economia
del desiderio.
Dal
fuoco sacro al motore del consumo.
«Il
consumatore ideale è un desiderante perennemente insoddisfatto.»
(“Zygmunt Bauman”, Consumo, dunque sono)
Una
volta svuotato di sacralità, il desiderio non ha smesso di agire.
Ha
semplicemente cambiato direzione.
Ciò
che prima era una forza spirituale, una tensione verso l’alto, è diventato un
vettore orizzontale: una spinta verso l’acquisto, la performance, la
gratificazione immediata.
Il
desiderio non è stato represso. È stato convertito in carburante.
«Il
capitalismo funziona come una macchina desiderante: cattura il desiderio, lo
moltiplica, lo sfrutta.»
(“Byung-Chul Han”, Psicopolitica)
I miti
sono stati sostituiti dai marchi.
I
simboli, dai loghi.
Il
fuoco iniziatico, dal display retroilluminato.
La
pubblicità ha imparato a mimare il linguaggio del sacro, usando archetipi,
narrazione, estetica rituale.
Ma
anziché aprire un varco tra mondo e mistero, crea falsi bisogni che si
esauriscono nel momento stesso in cui vengono soddisfatti.
«Lo
spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale mediato da
immagini.»
(“Guy
Debord”, La società dello spettacolo)
E così
il desiderio si trasforma in ciclo infinito:
sentire
una mancanza → colmarla con un prodotto → sentirsi vuoti di nuovo → ripartire.
Ma
ogni giro di ruota consuma un po’ di più l’energia interiore, anestetizza il
senso, atrofizza la volontà.
Non ci
viene più chiesto di desiderare il bene, il vero, il bello.
Ci
viene chiesto di comprare per esistere, consumare per sentirsi vivi.
«Il
soggetto neoliberale è un soggetto performante. Il desiderio non è più un’eco
dell’anima, ma una funzione del rendimento.»
(“Byung-Chul Han”, La società della stanchezza)
Ed è
qui che il desiderio si trasmuta in dividendo.
Ogni
tuo click, ogni tuo “mi piace”, ogni tua scelta — reale o virtuale — genera
valore.
Ma non
per te.
Il
capitalismo cognitivo e digitale ha realizzato ciò che nessuna religione aveva
mai osato: monetizzare il desiderio umano in tempo reale.
E
mentre tutto questo accade, la parola “desiderio” continua a fluttuare nella
nostra cultura — svuotata, decorativa, manipolata — come una reliquia privata
del suo nume.
Popoli
senza simboli: il vuoto mascherato.
La
spiritualità come surrogato, l’anima come assente.
«Il
grande problema del nostro tempo è che l’anima ha perduto i suoi strumenti di
orientamento.»
(“James
Hillman, Il codice dell’anima).
Una
cultura che perde i suoi simboli è una cultura che non sa più chi è.
Senza
simboli, non esistono soglie. Non esistono riti di passaggio, né mappe per
l’interiorità.
Il
desiderio si spegne o impazzisce, perché non ha più dove andare.
Così
oggi, nel vuoto lasciato dal sacro, affiora una spiritualità da centro
commerciale.
Un’esperienza
anestetizzata del trascendente: addomesticata, neutra, vendibile.
Yoga
per ridurre lo stress. “Mindfulness” per aumentare la produttività.
Cristalli
per dormire meglio. Tarocchi per il weekend.
Ma
nulla che davvero sconvolga. Nulla che trasformi.
«Il
rito moderno è un gesto svuotato: si fa perché si deve, non perché ci si
trasforma.»
(Carl
Gustav Jung).
Il
rito vero — quello sciamanico, iniziatico, tribale — non serviva a “stare bene”.
Serviva a morire e rinascere.
A
incontrare l’ombra, a sopportare la paura, a scendere nel profondo.
Oggi
invece si rifugge tutto ciò che turba, che scuote, che brucia.
E
intanto l’anima tace.
Non
perché sia morta, ma perché non è più ascoltata.
«L’anima
sopravvive nel non detto. E se non le diamo voce, ci parla col disagio, col
sintomo, col vuoto.»
(“Hillman).
Viviamo
così, come popoli senza simboli.
Assuefatti
alla superficie, riempiti di stimoli, ma interiormente orfani.
E per
non sentire quel silenzio, moltiplichiamo le voci, le immagini, le notifiche.
Ma
nessuna di esse risponde davvero.
«Siamo
un popolo che consuma tutto: anche i sentimenti, anche i corpi, anche Dio.»
(“Pier Paolo Pasolini”, Scritti corsari).
Nel
deserto del sacro, il desiderio cerca ancora una forma, un’immagine, un nome.
Ma
spesso trova solo il suo simulacro, confezionato, venduto, algoritmizzato.
Ritrovare
l’oro interiore.
Non un
ritorno, ma un risveglio.
«Per l’anima, è morte diventare acqua;
per l’acqua, è morte diventare terra. Ma dalla terra nasce l’acqua, e
dall’acqua l’anima.»
(“Eraclito”,
Frammento 36 -DK)
Non si
tratta di tornare allo sciamano, né di rifiutare il mondo moderno.
Il
tempo non si riavvolge. Ma può trasmutarsi.
Come
insegnavano gli alchimisti, ogni decadenza contiene un seme d’oro nascosto, e
ogni ombra cela una possibilità di luce.
Il
problema non è il desiderio.
Il
problema è dimenticare cosa può diventare.
Ritrovare
l’oro interiore non significa negare il corpo, il mercato o la tecnica.
Significa
riaccendere la fiamma del senso dentro ogni gesto.
✔ Fare un acquisto, ma con coscienza.
✔ Celebrare un rito, ma con presenza.
✔ Desiderare, ma chiedendosi da dove
nasce quel desiderio e dove porta.
Non
serve inventare nuovi culti.
Serve
riscoprire il sacro nell’impermanente, nel quotidiano, nel profondo.
«Il
vero rito non è ciò che si ripete. È ciò che si vive con attenzione, nel tempo
sacro dell’anima.»
(anonimo tradizione orale).
Ritrovare
l’oro interiore è ascoltare il desiderio originario — quello che non chiede
possesso, ma partecipazione.
Non ci
renderà più ricchi, ma più presenti.
Non ci
salverà dal sistema, ma da noi stessi svuotati.
Forse
è tutto qui il compito del nostro tempo:
rimettere
l’anima al centro, anche se il mondo continua a girare come se non esistesse.
E
forse, come scriveva “Jung”,
«Nel
profondo di ogni essere umano c’è un punto in cui vive il divino. Il nostro
compito non è trovarlo, ma smettere di ignorarlo.»
Appendice
– Cosa resta del desiderio?
«Abbiamo
desiderato troppo, troppo in fretta, e ora non ricordiamo più perché.»
(frammento contemporaneo)
Cosa
rimane oggi del desiderio?
Dopo
la sua trasmutazione in funzione, la sua manipolazione pubblicitaria, il suo
sfruttamento algoritmico?
Rimane
un impulso riflesso.
Un
gesto automatico verso lo schermo, lo scaffale, lo sfogo.
Un
desiderio indotto, consumato prima ancora di essere riconosciuto.
Non
viene più da dentro, ma da fuori.
Non
nasce da un vuoto esistenziale, ma da una strategia di marketing.
È un
desiderio che non sa aspettare. Che brucia tutto al primo contatto.
Che
non costruisce, non plasma, non trasforma.
È il
contrario dell’iniziazione: è gratificazione istantanea, senza profondità.
Ma nel
cuore di tutto questo rumore, qualcosa ancora resiste.
Un
frammento. Una scintilla.
A
volte si manifesta come noia, a volte come angoscia, a volte come senso di
mancanza inspiegabile.
Non è
depressione.
È
desiderio non ascoltato.
«Quando
il desiderio non può parlare, si traveste da inquietudine.»
(James
Hillman).
Cosa
ne resta, allora?
Resta
la possibilità.
La
possibilità di riconoscere il falso desiderio, di spegnere il rumore, di
tornare a sentire davvero.
Non
per tornare indietro.
Ma per
andare sotto. In profondità. Dove il desiderio non è impulso, ma fuoco.
E
forse, proprio lì, ritroveremo l’anima.
Il
colpo di scena della saga Agnelli
e
Edoardo legittimo erede:
chi ha
ucciso il rampollo di casa Agnelli?
Lacrunadellago.net
– (30/09/2025) – Cesare Sacchetti – ci dice:
Gli
avvocati della famiglia Elkann devono aver avuto probabilmente un sussulto.
A
Torino, è iniziato uno dei processi civili più importanti e decisivi della
storia d’Italia, quello che vede contrapposta Margherita Agnelli, figlia di
Gianni e Marella Caracciolo, e i suoi tre figli, John, Lapo e Ginevra.
Si
potrebbe essere tentati dal liquidare la faccenda come una saga famigliare, una
guerra fratricida tra parenti incompresi che si sono odiati per anni e adesso
hanno deciso di portare le loro beghe in tribunale, ma in realtà lo scontro tra
Margherita e i suoi figli riguarda la storia d’Italia.
La
storia di questo Paese ha preso infatti una piega completamente diversa quando
25 anni orsono, l’avvocato, Gianni Agnelli, l’uomo che amava frequentare i
salotti dei circoli mondialisti e che si sentiva spesso con il suo amico Henry
Kissinger, decise che la FIAT, la creatura di suo nonno, non sarebbe andata ai
suoi legittimi eredi, Edoardo e Margherita, ma a suo nipote, John Elkann.
Gli
Agnelli uscivano di scena in quel momento per volontà dello stesso avvocato che
aveva deciso probabilmente già molto tempo prima, negli anni’70 ai tempi del
matrimonio tra sua figlia e John Elkann, che la FIAT sarebbe passata nelle mani
di questa famiglia di origini ebraiche, imparentata con i potentissimi
Rothschild.
C’era
un disegno o una visione, per così dire, per questa grande azienda che avrebbe
dovuto passare dalle mani di imprenditori italiani a quelli di spregiudicati
finanzieri che avevano e hanno al primo posto della loro agenda non il bene
comune che un’industria può creare, ma solo e soltanto il profitto.
Si
vedono oggi i “frutti” della scellerata decisione di Gianni.
La sua
volontà di passare l’azienda di famiglia agli Elkann ha di fatto
de-italianizzato la FIAT, oggi fusa in una holding internazionale nella quale
sono i francesi di Peugeot e Citroen a farla da padrone, e ha avviato la
svendita di importanti asset del “gruppo Stellantis” come la “Comau”, gioiello
della robotica, che John Elkann non ha esitato un momento a vendere agli
americani di “One Equity Partners”, nelle mani della famigerata banca d’affari
JP Morgan.
A casa
Elkann, c’è la spregiudicatezza più assoluta.
Nulla
importa dell’operaio che perde il suo posto di lavoro, e nulla importa che
l’Italia perda la sua dimensione di potenza industriale, perché ciò che conta
per i figli di Elkann è soltanto accumulare profitti e ridurre perdite, senza
badare troppo ai cosiddetti “danni collaterali” che sono pagati ovviamente da
coloro che non siedono alla tavola di questa famiglia.
Talmente
è senza limiti la fame di profitti degli Elkann che sembra che purtroppo i tre
abbiano anche intenzione di cedere altri due gioielli del marchio FIAT, come le
leggendarie Alfa Romeo e Maserati, offerte entrambe agli emiri di Dubai.
Il
testamento segreto di Gianni Agnelli: Edoardo legittimo erede.
Margherita
però ha deciso che deve venire fuori la verità, insabbiata da quel tragico 15
novembre del 2000, quando scomparse il suo amato fratello, Edoardo, in
circostanze a dir poco sospette come si dirà meglio in un istante.
Il
dibattimento civile a Torino è appena iniziato, e già Margherita ha calato
l’asso dalla manica.
I suoi
avvocati infatti hanno presentato un testamento olografo di Gianni Agnelli,
scritto dalla mano dell’avvocato che decideva nel 1998 di passare il 25% delle
quote della sua società, la ormai nota “Dicembre”, nelle mani di Edoardo.
Esiste
il testamento olografo di Gianni Agnelli.
Nel
1998 quindi Edoardo Agnelli era stato, seppur temporaneamente, nominato come
l’erede dell’impero FIAT.
A lui
sarebbero toccati gli onori e gli oneri di prendere sulle proprie spalle l’azienda
di famiglia e di traghettarla nel XXI secolo, un secolo fatto di sfide,
soprattutto dalla allora emergente globalizzazione che avrebbe sconvolto
completamente gli equilibri economici e politici dell’Italia e dell’Europa
Occidentale.
Sulle
macerie del muro di Berlino, sorgeva un nuovo “ordine” economico nel quale gli
scambi venivano liberalizzati e alla Cina veniva assegnato il ruolo di
serbatoio delle merci a basso costo del pianeta.
Gli
architetti di Davos e del club di Roma, i circoli tanto amati da Gianni
Agnelli, avevano stabilito che l’Italia subisse una violenta
deindustrializzazione iniziata nel 1992 e proseguita per gli anni a venire,
soprattutto con l’ingresso nella moneta unica.
La
FIAT doveva seguire una simile sorte.
Doveva
passare dalla dimensione nazionale a quella internazionale, ed Edoardo non era
l’uomo giusto per accompagnare una simile transizione.
Edoardo
era un uomo certamente tormentato, ma era anche un’anima sensibile,
estremamente colto e vicino al mondo dell’islam sciita in Iran, che agli occhi
degli ambienti sionisti è considerato una sorta di bestia nera.
A
destra, Edoardo Agnelli durante la preghiera islamica a Teheran.
La
visione dell’economia del figlio di Gianni non era certo quella del
materialismo più sfrenato, ma piuttosto quella che vede la morale indirizzare e
dirigere l’economia.
La
ricchezza non deve essere qualcosa di fine a sé stesso, ma qualcosa utilizzato
per il bene comune, per far crescere un Paese e la sua industria, ovvero tutto
ciò che la finanza speculativa vuole distruggere.
Edoardo
così viene messo ai margini di Gianni, che forse nel 1998 aveva ancora qualche
intenzione di lasciare a lui le redini dell’impero prima che la sua vita
finisse tragicamente il 15 novembre del 2000.
Secondo
quanto dichiarato dalla magistratura dell’epoca, che praticamente nemmeno fece
un’indagine, Edoardo si sarebbe gettato dal ponte dell’autostrada Torino –
Savona, nonostante nessuno lo abbia visto arrampicarsi sulla balaustra di una
strada alquanto trafficata, e nonostante dopo un volo di quasi 80 metri il
corpo del figlio di Gianni non presentasse fratture ed era praticamente
intatto.
Vicino
alla balaustra dalla quale la magistratura sostiene che Edoardo, dotato di
bastone, si fosse arrampicato c’era la sua FIAT Croma, sulla quale però non
c’era nemmeno un’impronta.
La
FIAT Croma di Edoardo parcheggiata sul viadotto dell’autostrada Torino-Savona.
Qualcuno
aveva cancellato tutte le impronte dall’auto, internamente ed esternamente, e
già questa è la prova schiacciante che quel giorno qualcun altro agì su quella
macchina per cancellare le tracce di quello che accadde veramente.
Ancora
più surreale quanto accaduto alla villa di Edoardo, dove la ormai leggendaria
DIGOS ha “dimenticato”, per così dire, di rilevare le immagini degli ultimi
attimi di vita del 46enne che sulla carta sarebbe dovuto uscire da quei
cancelli quella mattina per andarsi a lanciare nel vuoto, ma il video che
dovrebbe far vedere Edoardo a bordo della sua Croma non c’è, forse perché quel
giorno il figlio dell’avvocato non era da solo.
Sul
greto del torrente Stura, finisce la vita di Edoardo e inizia invece quella
degli Elkann che da quel preciso momento non hanno più alcun ostacolo per
salire ai vertici della FIAT e iniziare così la tanto agognata
internazionalizzazione dell’azienda.
Il raggiro degli Elkann contro
Margherita.
Successivamente,
dopo la morte di Gianni nel 2003 e quella di Marella nel 2019, si verificherà
il raggiro del quale è stata vittima Margherita, la sorella di Edoardo, che mai
ha creduto alla versione del suicidio.
Gianni
mette tutto il patrimonio di famiglia nella citata” Dicembre”, ma alla sua
morte le quote passano agli Elkann, e Margherita viene spogliata delle sue
quote attraverso una donazione di sua madre, Marella, ai suoi tre nipoti, John,
Lapo, e Ginevra.
Si
tratta probabilmente di uno degli aspetti più laceranti e incredibili della
intera vicenda.
Gianni
e Marella avrebbero di fatto agito negli ultimi anni della loro vita per
tagliare fuori dall’asse ereditario Margherita, dopo che Edoardo era già uscito
di scena nel 2000, molto probabilmente ucciso da chi voleva consegnare a tutti
i costi la FIAT nelle mani della famiglia Elkann, e dunque in quelle dei
Rothschild.
Marella
Agnelli.
Il
testamento che ha mostrato Margherita apre però un nuovo fronte.
Prim’ancora
che si consumasse il raggiro attraverso la cessione simulata delle quote della “Dicembre”
in mano a Marella a favore dei tre Elkann per estromettere Margherita, ce ne
sarebbe stato un altro alla morte di Edoardo.
Il testamento
olografo di Gianni Agnelli non è mai venuto alla luce prima d’ora.
Se il
testamento è valido, e non ci sono apparentemente ragioni perché non lo sia,
allora le quote della “Dicembre” che l’avvocato aveva assegnato a suo figlio
nel 1998 sarebbero dovute passare nelle mani di sua sorella, legittima erede
della citata “Dicembr”e e di tutto il patrimonio che c’era in essa.
Il
documento è uscito fuori nel corso della perquisizione del commercialista della
famiglia Elkann, “Gianluca Ferrero”, che nella cantina della sua casa aveva sia
le prove dello schema elaborato per estromettere Margherita dalla successione
della Dicembre sia il testamento nascosto di Gianni.
Sembra
che l’attuale presidente della Juventus volesse tenere a casa sua dei documenti
altamente compromettenti, forse per avere una qualche polizza assicurativa nei
riguardi degli Elkann, ma sta di fatto che a distanza di 25 anni si stanno
chiudendo tutti i cerchi.
C’è
stato con ogni probabilità un grosso raggiro ai danni di Margherita, ma giunti
a tal punto allora bisognerebbe una buona volta riaprire le indagini, mai
avvenute, della morte di Edoardo Agnelli.
Il
piano per tagliare fuori dalla FIAT i due figli carnali di Gianni, Edoardo e
Margherita, non è iniziato dopo la morte di Gianni Agnelli il 24 gennaio del
2003.
È
iniziato il 15 novembre del 2000, quando Edoardo venne rinvenuto privo di vita
sotto quel maledetto viadotto.
Chi
voleva impossessarsi della FIAT voleva porre fine alla vita di Edoardo perché
il figlio maschio di Gianni era considerato una minaccia troppo grossa per chi
aveva stabilito che la potenza industriale dell’Italia dovesse finire.
In
questa fase storica, tutto è possibile e forse si potrà finalmente fare luce
anche sulla morte di Edoardo Agnelli.
Da
quando è iniziata la guerra tra bande nell’establishment italiano, e da quando
è iniziata la “faida tra gli Elkann e De Benedetti,” i fantasmi dimenticati del
passato hanno iniziato improvvisamente a riemergere, e la magistratura immobile
per anni, improvvisamente si è mossa.
A
giudicare da questa continua escalation che vede protagonisti oligarchi sul
piede di guerra e massonerie dilaniate da scismi, ne verranno fuori molti altri
ancora.
Il
crepuscolo della repubblica di Cassibile sembra essere diventato tramonto, e le
teste di personaggi “eccellenti” iniziano a rotolare.
La
lobby israeliana vuole che
Thomas
Massei se ne vada.
Gli
elettori obbediranno?
Unz.com
- José Alberto Nino – (29 settembre 2025) – ci dice:
I
coltelli sono puntati contro il deputato “Thomas Massei” (R-KY) e la sua
sopravvivenza politica potrebbe dimostrare se il Congresso risponde ancora agli
elettori americani o a una lobby straniera con denaro illimitato.
I
mega-donatori repubblicani filo-israeliani hanno recentemente istituito il”
super PAC MAGA Kentucky “con 2 milioni di dollari specificamente per
estromettere “Massei”.
“ Paul
Singer” ha contribuito con 1 milione di dollari, “John Paulson” ha aggiunto
250.000 dollari e il “PAC Preserve America” di “Miriam Adelson” ha fornito
750.000 dollari.
La
“Coalizione Ebraica Repubblicana “ha promesso una spesa "illimitata"
per la campagna elettorale se “Massei” si candida al Senato, con il “CEO Matt
Brooks” che ha dichiarato che "se Tom massaie sceglie di candidarsi al
Senato degli Stati Uniti in Kentucky, il budget della campagna del RJC per
garantire la sua sconfitta sarà illimitato".
Anche
il presidente Donald Trump si è gettato nella mischia, definendo “Massei” un
" patetico perdente " che dovrebbe essere abbandonato "come la
peste".
Nel complesso, una costellazione di forze
filo-sioniste si sta mobilitando a pieno regime per spodestare il politico non
interventista più rigoroso del Congresso da quando “Ron Paul” si è ritirato nel
2013.
Per
molti aspetti, “Massei” ha assunto il “ruolo di Paul”, sostenendo la sua
moderazione in politica estera – un programma politico che non è mai stato ben
accolto dall'ebraismo organizzato.
Il
curriculum legislativo di “Massei” in politica estera parla da sé.
La
lunga storia di “Massei” nel votare” contro l'interventismo” in politica estera.
Nel
corso della sua carriera congressuale, “Massei” e si è affermato come il più
coerente oppositore del consenso neoconservatore/neoliberista in politica
estera.
La sua
opposizione di principio alle guerre infinite e ai coinvolgimenti stranieri gli
è valsa il soprannome di "Mr. No" – simile al suo predecessore “Ron
Paul” – per aver spesso espresso voti dissidenti isolati contro gli interventi
militari.
Nel
2013, “Massei” presentò il “War Powers Protection Act” per "bloccare gli
aiuti militari non autorizzati degli Stati Uniti ai ribelli siriani".
Sostenne
che "poiché i nostri interessi di sicurezza nazionale in Siria non sono
chiari, rischiamo di dare denaro e assistenza militare ai nostri nemici".
Quando
Obama cercò di armare i ribelli siriani nel 2014, “Massei” votò contro il
piano, dichiarando che era "immorale usare la minaccia di una chiusura del
governo per fare pressione sui membri affinché votassero a favore del
coinvolgimento in una guerra, figuriamoci in una guerra civile dall'altra parte
del mondo".
“Massei”
si è costantemente opposto al coinvolgimento degli Stati Uniti nella guerra
civile dello Yemen, co-sponsorizzando molteplici risoluzioni bipartisan per
invocare la “War Powers Risoluzione” e "rimuovere le forze armate degli
Stati Uniti dalle ostilità non autorizzate nella Repubblica dello Yemen".
Ha
affermato che "il Congresso non ha mai autorizzato un'azione militare
nello Yemen come richiede la nostra Costituzione, eppure continuiamo a
finanziare e assistere l'Arabia Saudita in questo tragico conflitto".
La sua
opposizione all'espansione della NATO si dimostrò altrettanto coerente.
Nel
2017, “Massei” è stato uno dei soli quattro membri della Camera a votare contro
una risoluzione pro-NATO, spiegando che "la mossa di espandere la NATO
nell'Europa orientale è imprudente e insostenibile", e tale espansione
contraddiceva l'affermazione della campagna elettorale di Trump secondo cui
"la NATO è obsoleta".
Per
quanto riguarda la guerra russo-ucraina, “Massei” ha mantenuto la sua posizione
non interventista, ricevendo un voto "F" dai repubblicani per
l'Ucraina.
Si è
opposto all'”Ukraine Democracy Defense Lend-Lease Act”, ai molteplici pacchetti
di aiuti e agli sforzi per togliere i finanziamenti all'Ucraina.
“Massei”
ha sostenuto che sostenere gli aiuti all'Ucraina era "economicamente
analfabeta e moralmente carente,"dichiarando che "i contribuenti
americani sono stati costretti a pagare il welfare a questo governo
straniero".
Più di
recente, nel giugno 2025, “massaie” ha presentato una risoluzione bipartisan
sui poteri di guerra con il deputato” Ro Hanna “per "vietare alle forze
armate degli Stati Uniti di partecipare non autorizzata" al conflitto
israelo-iraniano.
Dopo
gli attacchi di Trump agli impianti nucleari iraniani, massaie ha criticato l'azione
come "non costituzionale", rimanendo l'unico co-sponsor repubblicano
della risoluzione sui poteri di guerra.
La
vena antisionista di “massei.”
Le
posizioni politicamente più pericolose di Massei riguardano la sua costante
opposizione alla legislazione filo-israeliana, che gli è valsa la distinzione
di essere l'unico repubblicano che si oppone a numerose misure relative a
Israele.
Nel
luglio 2019, Massei ha espresso l'unico voto repubblicano contro una
risoluzione che si opponeva al movimento per il boicottaggio, il
disinvestimento e le sanzioni.
La
risoluzione è stata approvata con 398 voti a favore e 17 contrari , ma Massei
ha difeso la sua posizione affermando di non sostenere "gli sforzi
federali per condannare qualsiasi tipo di boicottaggio privato,
indipendentemente dal fatto che il boicottaggio sia basato o meno su cattive
intenzioni" e che "queste sono questioni che il Congresso dovrebbe
lasciare agli Stati e al popolo la decisione".
Nel
settembre 2021, Massei è stato l'unico repubblicano a votare contro un
finanziamento di 1 miliardo di dollari per il sistema di difesa israeliano “Iron
Dome”.
Ha
spiegato che "la mia posizione di 'nessun aiuto estero' potrebbe sembrare
estrema ad alcuni, ma penso che sia estremo mandare in bancarotta il nostro
Paese e mettere le future generazioni di americani in debito con i nostri
debitori".
Questo
voto ha spinto l'”AIPAC “a pubblicare annunci su Facebook affermando:
"Quando Israele ha dovuto affrontare attacchi missilistici, Thomas Massei
ha votato contro “Iron Dome".
Forse
il fatto più controverso è che il 18 maggio 2022 Massei ha espresso l'unico
voto contro una risoluzione che condannava l'antisemitismo, approvata con 420
voti a favore e uno contrario.
L'”American Jewish Committee” lo ha criticato,
affermando che "mentre Democratici e Repubblicani erano uniti, il deputato
Massei, che si è anche opposto alle proposte di legge sull'educazione
all'Olocausto e sui finanziamenti per l'Iron Dome, ha deciso che combattere
l'odio crescente non è importante".
Massei
ha difeso il suo voto twittando che "un governo legittimo esiste, in
parte, per punire coloro che commettono violenza immotivata contro gli altri,
ma il governo non può legiferare sul pensiero".
Nell'ottobre
2023, Massei si oppose a un pacchetto di aiuti da 14 miliardi di dollari per
Israele, dichiarando che "se il Congresso invia 14,5 miliardi di dollari a
Israele, in media prenderemo circa 100 dollari da ogni lavoratore negli Stati
Uniti.
Questi
saranno sottratti attraverso l'inflazione e le tasse.
Sono
contrario".
Quando
l'”AIPAC” lo criticò, Massei rispose :
"L'AIPAC
si arrabbia sempre quando metto l'America al primo posto. Non voterò nemmeno
per il loro estorsione da oltre 14 miliardi di dollari ai contribuenti
americani".
Il 25
ottobre 2023, Massei è stato l'unico repubblicano a votare contro una
risoluzione che affermava il diritto di Israele a difendersi dopo gli attacchi
di Hamas del 7 ottobre.
Un mese dopo, il 28 novembre 2023, è diventato
l'unico membro del Congresso a opporsi a una risoluzione che affermava il
diritto di Israele ad esistere e equiparava l'antisionismo all'antisemitismo,
che è passata con 412 voti a favore e 1 contrario.
Il
momento più esplosivo arrivò nel dicembre 2023, quando Massei pubblicò un “meme”
del “rapper Drake” che contrapponeva il "patriottismo americano" al
"sionismo", insinuando che il Congresso desse priorità a
quest'ultimo.
Il leader della maggioranza al Senato “Chuck
Schumer” definì il post "antisemita, disgustoso, pericoloso" e gli
chiese di rimuoverlo.
La
Casa Bianca lo definì "antisemitismo virulento".
Il CEO
della Coalizione ebraica repubblicana “Matt Brooks” lo condannò, affermando:
"Vergognati @RepThomasMassie. Sei una
vergogna per il Congresso degli Stati Uniti e per il Partito
Repubblicano".
“Massei”
contro Trump.
I
crescenti attacchi di Trump a Massei rivelano quanto il presidente in carica
serva interessi filo-israeliani anziché perseguire autentiche divergenze
ideologiche.
La
tempistica e l'intensità delle critiche di Trump coincidono in modo sospetto
con le più accese critiche di Massei si all'influenza israeliana nel Congresso.
Nel
giugno 2025, dopo che Massei aveva criticato gli attacchi di Trump all'Iran
definendoli "non costituzionali", Trump ha scatenato una feroce
risposta su Truth Social definendo Massei "non MAGA" e dichiarando
che "MAGA non lo vuole, non lo conosce e non lo rispetta".
Trump
ha bollato Massei come un "semplice 'super partes' che pensa che sia una
buona politica per l'Iran avere l'arma nucleare di massimo livello" e ha
concluso che "MAGA dovrebbe abbandonare questo patetico PERDENTE, Tom Massei,
come la peste!"
Questo
sarcasmo rappresenta un netto cambiamento rispetto all'endorsement di Trump del
2022, quando definì Massei un "guerriero conservatore" e un
"difensore della Costituzione di prim'ordine". La trasformazione
avvenne proprio mentre Massei intensificava le sue critiche all'influenza
israeliana e agli aiuti esteri. Gli attacchi di Trump si intensificarono
ulteriormente dopo l'esplosiva intervista di Massei a Tucker Carlson del giugno
2024, in cui rivelò che "tutti tranne me hanno una persona dell'AIPAC... È
come la tua babysitter, la tua babysitter dell'AIPAC che ti parla sempre per
conto dell'AIPAC".
Massei
ha spiegato che "ho repubblicani che vengono da me e dicono che è
sbagliato quello che l'AIPAC ti sta facendo, lasciami parlare con la mia
persona dell'AIPAC ... Ho avuto quattro membri del Congresso che mi hanno detto
che parlerò con la mia persona dell'AIPAC e che è casualmente come li chiamiamo
i miei ragazzi dell'AIPAC".
Questa rivelazione ha messo in luce la natura
sistematica dell'influenza israeliana al Congresso, provocando un'immediata
reazione da parte delle organizzazioni filo-israeliane e probabilmente
contribuendo ad aumentare i finanziamenti dei donatori contro la sua campagna
per la rielezione.
Questo
schema chiarisce che l'ostilità di Trump nei confronti di Massei deriva meno da
disaccordi politici che dalla sua deferenza verso i potenti donatori ebrei.
Sebbene affermi spesso di opporsi alle "guerre infinite", gli
attacchi di Trump a Massei – il non interventista più coerente del Congresso –
rivelano dove risiede la sua vera lealtà nel promuovere l'agenda degli
interessi suprematisti ebrei piuttosto che nel perseguire una politica estera
indipendente.
Il Presidente della Camera Mike Johnson ha
segnalato che la leadership del GOP abbandonerà Massei, affermando che
"sta lavorando attivamente contro la sua squadra quasi quotidianamente e
sembra apprezzare quel ruolo. Quindi, sapete, sta decidendo il proprio
destino".
L'AIPAC
è a caccia.
Le
vittorie elettorali dell'AIPAC nel 2024 dimostrano la disponibilità della lobby
a spendere somme senza precedenti per eliminare i critici della politica
israeliana.
Il successo dell'organizzazione nello
sconfiggere i Democratici progressisti e proteggere i Repubblicani
dell'establishment rivela una strategia coordinata per epurare il Congresso
dalle voci indipendenti.
L'AIPAC cercherà di replicare i suoi successi
contro critici di Israele come Massei.
Contro
il deputato” Jama al Bowman” nel 16° distretto di New York, lo “United
Democracy Project” (UDP) dell'AIPAC ha speso 14,5 milioni di dollari per
opporsi a Bowman e sostenere lo sfidante “George Laimer”.
Il
quotidiano indipendente “Sludge” ha riportato che "i 14,5 milioni di
dollari spesi dal “super PAC dell'AIPAC” nelle primarie democratiche di New
York- 16 sono più di quanto qualsiasi altro gruppo esterno abbia mai speso per
una singola campagna elettorale alla Camera dei Rappresentanti".
La
spesa è stata alimentata dai mega donatori repubblicani canalizzati attraverso
l'AIPAC, con il fondatore di WhatsApp “Jan Koum “che ha donato 5 milioni di
dollari all'UDP.
Politica
responsabile ha osservato che "l'AIPAC ha agito efficacemente per
riciclare i fondi della campagna elettorale per i mega donatori repubblicani
nelle primarie democratiche, dove la spesa è stata generalmente identificata
dai media come 'pro-Israele', non 'repubblicana'".
Il giorno delle elezioni, i gruppi allineati a”
Laimer” avevano più dei sostenitori di Bowman di oltre sette a uno.
Contro
la deputata “Cori Bush” nel primo distretto del Missouri, l'UDP ha speso oltre 8,5
milioni di dollari per attaccare il suo operato contro Israele e sostenere il
suo sfidante filo-sionista Wesley Bell.
Le
primarie di Bush-Bell sono diventate una delle primarie della Camera più
costose di sempre, con oltre 18 milioni di dollari di spesa pubblicitaria
totale.
Cespuglio
l'ha definita "la seconda corsa al Congresso più costosa nella storia
della nostra nazione, 19 milioni di dollari e oltre" finanziata da
"super PAC per lo più finanziati dall'estrema destra, contro gli interessi
del popolo di St. Louis".
Anche
nelle primarie repubblicane, l'AIPAC è intervenuta per proteggere gli alleati
dell'establishment.
Per
difendere il deputato moderato “Tony Gonzales” dallo sfidante “Brandon Herrera”
nel 23° distretto del Texas, l'UDP ha speso 1 milione di dollari per
contrastare Herrera in un "acquisto di spazi pubblicitari di due
settimane".
La
Coalizione ebraica repubblicana ha aggiunto 400.000 dollari in spazi
pubblicitari offensivi contro Herrera.
La
spesa complessiva di AIPAC e RJC è stata di circa 1,4-1,5 milioni di dollari,
aiutando Gonzales a sconfiggere Herrera di misura per soli 354 voti, con il
50,6% contro il 49,4%.
Queste
vittorie sono arrivate come parte di un più ampio ciclo di spesa di oltre 100
milioni di dollari dell'AIPAC, con “Common Dreams” che ha osservato che "i
soldi dell'AIPAC hanno già avuto un impatto significativo, aiutando una coppia
di democratici filo-israeliani a sconfiggere i deputati progressisti Jama al
Bowman (DN.Y.) e Cori Bush (D-Mo.), due dei più accesi critici del Congresso
dell'attacco di Israele a Gaza, nelle recenti primarie".
Come
la razza di Massei potrebbe determinare il potere effettivo della lobby
israeliana.
Le
primarie di Massei del 2026 rappresentano la prova definitiva per stabilire se
un politico possa sopravvivere alla forza dell'opposizione filo-israeliana.
La
corsa del Kentucky determinerà se le precedenti vittorie dell'AIPAC
rappresentino un potere sostenibile o vittorie di Pirro che mettono a nudo le
vulnerabilità a lungo termine della lobby.
La
posizione unica di Massei potrebbe rivelarsi più difendibile rispetto ai
distretti urbani di Bowman o Bush.
Il suo
collegio elettorale rurale del Kentucky mostra una minore suscettibilità alle
campagne mediatiche urbane e mantiene un maggiore scetticismo nei confronti dei
coinvolgimenti stranieri.
Inoltre, le sue radici locali gli conferiscono
una credibilità che trascende i tipici attacchi politici.
La
capacità del rappresentante del Kentucky di inquadrare l'opposizione come
un'interferenza straniera piuttosto che come disaccordi di politica interna
potrebbe trovare riscontro negli elettori sempre più diffidenti nei confronti
dell'establishment filo-israeliano che domina la scena politica di Washington.
La
tensione finanziaria delle precedenti vittorie dell'AIPAC potrebbe anche
limitare la spesa futura.
L'impegno
di oltre 100 milioni di dollari dell'organizzazione nelle gare più rappresenta
un ritmo insostenibile che potrebbe affrontare la stanchezza dei donatori.
Ogni
costosa vittoria espone i metodi della lobby a un maggiore controllo ea
potenziali contraccolpi.
I gruppi progressisti sottolineano sempre più
il ruolo dell'AIPAC nelle sconfitte primarie, mobilitando potenzialmente
un'opposizione che ne limita l'efficacia futura.
La
sopravvivenza di Massei dimostrerebbe che i politici di principio possono
resistere alle pressioni pro-Israele attraverso la lealtà degli elettori e il
sostegno della base.
La sua sconfitta confermerebbe che nessun
funzionario eletto può sfidare gli interessi israeliani, indipendentemente dal
suo sostegno interno.
La corsa al Kentucky rappresenta quindi un
momento cruciale nel determinare se la politica estera americana serve gli
interessi americani o rimane subordinata all'influenza straniera.
Se Massei
resisterà all'assalto, segnerà la prima crepa nella facciata
dell'invulnerabilità sionista;
se
cadrà, dimostrerà che i politici americani possono essere comprati e sepolti
dalle illimitate scorte di denaro dell'ebraismo mondiale.
La
distruzione dell'economia statunitense
da
parte di Trump, a partire dall'agricoltura.
Unz.com
- Michael Hudson – (19 settembre 2025) – ci dice:
Trump
ha creato una crisi per l'agricoltura degli Stati Uniti con la sua
militarizzazione della Guerra Fredda del commercio estero con la Cina e la
Russia, per l'industria manifatturiera a causa delle sue tariffe su acciaio e
alluminio, per l'acquisto dei prezzi al consumo principalmente dalle sue
tariffe, e per le abitazioni a prezzi accessibili con i suoi tagli fiscali che
hanno mantenuto alti i tassi di interesse a lungo termine per i mutui.
L'acquisto
di auto e attrezzature e la deregolamentazione dei mercati che danno mano
libera ai prezzi di monopolio.
L'impoverimento
dell'agricoltura statunitense da parte di Trump.
Trump
ha creato una tempesta perfetta per l'agricoltura degli Stati Uniti, in primo
luogo con la sua politica della Guerra Fredda che ha chiuso la Cina come
mercato della soia contro la Russia, in secondo luogo nella sua politica
tariffaria che blocca le importazioni e quindi aumenta i prezzi delle
attrezzature agricole e di altri fattori produttivi, è in terzo luogo nei suoi
deficit di bilancio inflazionistici che mantengono alti i tassi di interesse
per le abitazioni ei mutui ipotecari agricoli e il finanziamento delle
attrezzature, mantenendo bassi i prezzi dei terreni.
L'esempio
più noto è la soia, il principale prodotto agricolo esportato dagli Stati Uniti
verso la Cina.
La trasformazione del commercio estero
statunitense in un'arma da parte di Trump tratta le esportazioni e le
importazioni come strumenti per privare i paesi stranieri dipendenti
dall'accesso ai mercati statunitensi per le loro esportazioni e dalle
esportazioni controllate dagli Stati Uniti di beni essenziali come cibo e
petrolio (e, più recentemente, alta tecnologia per chip e apparecchiature
informatiche).
Dopo
la rivoluzione di Mao nel 1945, gli Stati Uniti imposero sanzioni sulle
esportazioni di grano e altri prodotti alimentari statunitensi verso la Cina,
nella speranza di affamare il nuovo governo comunista.
Il Canada ruppe questo blocco alimentare, ma
ora è diventato un braccio della politica estera statunitense della NATO.
L'uso
del commercio estero come arma da parte di Trump – mantenendo aperta la
costante minaccia statunitense di bloccare le esportazioni da cui altri Paesi
dipendono – ha portato la Cina a interrompere completamente gli acquisti
anticipati del raccolto di soia statunitense di quest'anno.
La
Cina, comprensibilmente, cerca di evitare di essere nuovamente minacciata da un
blocco alimentare e ha imposto dazi del 34% sulle importazioni di soia dagli
Stati Uniti.
Il risultato è stato uno spostamento delle sue
importazioni verso il Brasile, con zero acquisti negli Stati Uniti finora nel
2025.
Questo
è traumatico per gli agricoltori statunitensi, perché quattro decenni di
esportazioni di soia verso la Cina hanno portato metà della produzione di soia
statunitense a essere normalmente esportata in Cina; nel Dakota del Nord la
percentuale è del 70%.
Lo
spostamento della Cina verso il Brasile nei suoi acquisti di soia è
irreversibile, poiché gli agricoltori di quel paese hanno adattato di
conseguenza le loro decisioni in materia di semina.
Come
membro dei BRICS, soprattutto sotto la guida del presidente Lula, il Brasile
promette di essere un fornitore molto più affidabile degli Stati Uniti, la cui
politica estera ha designato la Cina come un nemico esistenziale.
Ci
sono poche possibilità che la Cina risponda alla promessa degli Stati Uniti di
ripristinare la normalità degli scambi commerciali spostando le sue
importazioni dal Brasile, perché ciò sarebbe traumatico per l'agricoltura
brasiliana e renderebbe la Cina un partner commerciale inaffidabile.
Quindi
la domanda è:
cosa
ne sarà dell'enorme quantità di terreni agricoli statunitensi che sono stati
dedicati alla produzione di soia?
Incapaci
di trovare mercati esteri per sostituire la Cina, gli agricoltori hanno subito
una perdita sulla loro produzione di soia, che si sta accumulando in eccesso
rispetto alla capacità di stoccaggio delle colture esistenti.
Il
risultato è una minaccia di pignoramenti agricoli e bancarotta, che
abbasserebbe i prezzi dei terreni agricoli.
E poiché i tassi di interesse rimangono
elevati per i prestiti a lungo termine come i mutui, ciò incoraggia i piccoli
agricoltori dall'acquisire proprietà in difficoltà.
Il
risultato è quello di accelerare la concentrazione dei terreni agricoli nelle
mani di grandi fondi finanziari assenti e dei ricchi.
Questo
cambiamento è irreversibile.
Nonostante
la sentenza della Corte Suprema che ha dichiarato incostituzionali e quindi
illegali i dazi di Trump, sembra probabile che Trump possa semplicemente farli
imporre dal Congresso e dal Senato bipartisan anti-Cina.
In
ogni caso, la politica di Trump rappresenta un cambiamento radicale, un salto
di qualità nell'aggressione commerciale coercitiva degli Stati Uniti.
Non
c'è alcuna possibilità che il commercio tra Stati Uniti e Cina di soia o di
altri beni di prima necessità cinesi venga ripreso.
Né Stati Uniti né altri Paesi minacciati
dall'aggressione commerciale statunitense possono correre il rischio di
dipendere dal mercato statunitense.
La
contrazione dei costi e dei redditi agricoli americani va ben oltre le vendite
di soia.
Anche
i costi di produzione stanno aumentando a causa dei dazi di Trump, in
particolare su macchinari agricoli e fertilizzanti, e della stretta creditizia,
con l'aumento del rischio di arretrati nei pagamenti dei debiti agricoli.
I dazi
di Trump stanno aumentando i costi di produzione industriale degli Stati Uniti.
L'anarchia
tariffaria di Trump sta inoltre causando perdite e licenziamenti di duemila
dipendenti per “John Deere and Company”, con un calo della domanda anche per
altri produttori di attrezzature agricole.
Il
problema più grave è che le sue attrezzature per la raccolta, come le
automobili e tutti gli altri macchinari, sono realizzate in acciaio, oltre che
in alluminio.
Trump
ha infranto la logica di base dei dazi:
promuovere la competitività di un'industria ad
alta intensità di capitale e ad alto profitto (soprattutto per i monopoli
consolidati), in gran parte minimizzando il costo delle materie prime. Acciaio e alluminio sono materie
prime di base.
Questi
dazi hanno colpito “John Deere” in due modi.
Per la sua produzione nazionale, le vendite
sono basse a causa della depressione del reddito agricolo sopra citata.
Quest'anno,
le rese sono aumentate vertiginosamente sia per il mais che per la soia, con
conseguente calo dei prezzi e del reddito agricolo.
Ciò limita la possibilità degli agricoltori di
acquistare nuovi macchinari.
“Deere”
importa circa il 25 percento dei componenti dei suoi prodotti, il cui costo è
aumentato a causa dei dazi di Trump.
Gli
stabilimenti produttivi di “Deere” in Germania sono stati particolarmente
colpiti.
Trump
ha sorpreso “Deere” stabilendo che, oltre ai dazi del 15% sulle importazioni
dall'UE, imporrà un'imposta del 50% sul contenuto di acciaio e alluminio di
queste importazioni.
Ciò
colpisce anche i produttori stranieri di attrezzature agricole, portando a
nuove lamentele da parte dell'UE sulle costanti "sorprese" di Trump
che si aggiungono alla sua richiesta di "restituzioni" in cambio del
non ulteriore aumento delle tariffe sulle importazioni dall'UE.
La
lotta di Trump per accelerare la dipendenza estera dal petrolio e quindi il
riscaldamento globale.
Opponendosi
a qualsiasi misura di mitigazione del riscaldamento globale, Trump si è
ritirato dall'accordo di Parigi e ha cancellato i sussidi per l'energia eolica
e per i trasporti pubblici.
Questo
è l'effetto delle pressioni esercitate dall'industria petrolifera. Non solo la
politica estera statunitense è dominata dalla richiesta di controllo del
petrolio come chiave per trasformare le sanzioni commerciali in un'arma, ma
anche la politica economica interna.
Subito dopo la fine della Seconda Guerra
Mondiale, Los Angeles distrusse i suoi tram, costringendo i suoi abitanti a
unirsi all'economia automobilistica.
Dwight
Eisenhower avviò il programma autostradale interstatale per favorire il
trasporto automobilistico e, con esso, il consumo di petrolio.
Ad
affliggere l'agricoltura statunitense è anche l'aggravarsi della carenza
d'acqua per i raccolti e la distruzione causata da inondazioni, siccità e altre
condizioni meteorologiche estreme.
Una
delle cause è il clima estremo derivante dal riscaldamento globale, che Trump
nega come parte della sua politica di sostegno al petrolio e al carbone degli
Stati Uniti, mentre combatte attivamente contro la produzione di energia eolica
e solare.
Ha
ritirato il sostegno degli Stati Uniti all'Accordo di Parigi con altre nazioni
per decarbonizzare la produzione mondiale.
I
costi assicurativi stanno raggiungendo livelli insostenibili per molte aree più
soggette a tempeste e inondazioni, proprio come è aumentato vertiginosamente il
costo annuale degli alloggi a Miami e in altre città della Florida e negli
stati di confine meridionali minacciati dagli uragani.
Un'interruzione
parallela è l'aumento del prezzo dell'elettricità e la carenza d'acqua causata
dalla crescente domanda di raffreddamento dei computer necessari per il
supporto di Trump all'intelligenza automatica e all'informatica quantistica.
La
crescente domanda di elettricità supera di gran lunga i piani di investimento
delle aziende elettriche per aumentare la loro produzione. Tale pianificazione
richiede molti anni e le aziende sono liete di vedere che le carenze spingono
la domanda ben oltre l'offerta, consentendo ai prezzi dell'elettricità di
essere uno dei principali fattori che contribuiscono all'inflazione dei costi
di produzione.
Trump
e il suo governo hanno preso in giro la Cina per aver speso così tanto denaro
nel suo servizio ferroviario ad alta velocità.
I
calcoli occidentali sull'efficienza economica tralasciano gli importantissimi
effetti sulla bilancia dei pagamenti di questo sviluppo ferroviario:
evita
di costringere i cinesi a guidare automobili utilizzando petrolio importato.
La Cina non ha un'industria petrolifera nazionale che
possa dominare la sua pianificazione economica o la sua politica estera.
Di fatto, i suoi obiettivi di politica estera
riguardo al commercio di petrolio sono opposti a quelli degli Stati Uniti.
Le
sanzioni di Trump per armare le esportazioni statunitensi verso i suoi nemici
designati.
La
minaccia di Trump (e del Congresso) di sabotare le esportazioni di interruttori
per computer con "kill switch" segreti per spegnerli da parte della
fiat statunitense ha portato la Cina a cancellare i suoi acquisti pianificati
da Nvidia.
L'azienda ha avvertito che senza i profitti
delle esportazioni verso la Cina, non sarà in grado di permettersi la ricerca e
lo sviluppo necessari per rimanere competitivi e mantenere il monopolio sulla
produzione di chip.
Queste
politiche commerciali che stanno riducendo i mercati di esportazione e di
importazione degli Stati Uniti sono solo una delle ragioni dell'indebolimento
del dollaro.
Altre
cause sono il calo del turismo dovuto alle vessazioni degli Stati Uniti, in
particolare nei confronti degli studenti stranieri provenienti dalla Cina, da
cui le università statunitensi dipendono in quanto studenti più pagati.
Queste
tendenze non commerciali della bilancia dei pagamenti spiegano perché la
politica tariffaria elevata di Trump non ha portato a un rafforzamento del
tasso di cambio del dollaro, nonostante il suo effetto di scoraggiare le
importazioni.
Normalmente,
ciò aumenterebbe la bilancia commerciale.
Ma la guerra di Trump contro tutti gli altri paesi
(principalmente i suoi alleati europei, Giappone e Corea) ha portato a un
cambiamento nella loro dipendenza dalle esportazioni statunitensi (come la
soia) e dai prodotti contro cui stanno attuando ritorsioni per proteggere la
propria bilancia dei pagamenti, ad esempio, tagli al turismo estero negli Stati
Uniti, agli studenti stranieri, dipendenza dalle esportazioni di armi
statunitensi – e soprattutto, fuga di capitali finanziari, poiché la
contrazione del mercato interno statunitense deve incidere sui profitti esteri
e il calo del dollaro ridurrà la sua valutazione in termini di valuta estera.
Inoltre,
poiché i BRICS e gli altri paesi commerciano nelle proprie valute, ciò riduce
la necessità di detenere riserve valutarie in dollari.
Stanno
spostando le loro riserve verso le rispettive valute e, naturalmente, verso
l'oro, il cui prezzo ha appena superato i 3.500 dollari l'oncia.
Il
forte aumento dell'inflazione provocato da Trump, dall'elettricità e
dall'edilizia abitativa ai prodotti industriali realizzati in alluminio e
acciaio, o soggetti a dazi paralizzanti sulla fornitura di componenti e fattori
produttivi necessari.
La
decisione di Trump di imporre dazi sui prodotti di base, in particolare
sull'alluminio e sull'acciaio, sta facendo aumentare i prezzi di tutti i
prodotti industriali realizzati con questi metalli.
E
naturalmente, i suoi dazi in genere aumentano i prezzi in generale, poiché le
aziende hanno aspettato per cortesia circa un mese prima di aumentare i prezzi,
dato che le loro scorte esistenti di beni prodotti da Cina, India e altri paesi
sono esaurite.
L'espulsione
degli immigrati da parte di Trump ha aumentato i costi dell'edilizia, che si
basava in gran parte sulla manodopera immigrata, così come l'agricoltura in
California e in altri stati durante il periodo del raccolto.
Non è
chiaro chi, se mai ce ne sarà uno, sostituirà questa manodopera.
Invece
di attrarre investimenti esteri, come Trump ha chiesto all'Europa e agli altri
"partner" commerciali, ha reso questo mercato molto meno
desiderabile.
Quello
che ha fatto è fornire una lezione pratica su ciò che gli altri paesi devono
evitare nella creazione di regolamenti, regole fiscali e politiche commerciali
per ridurre al minimo i loro costi di produzione e diventare più competitivi.
La
politica monetaria sta aumentando bruscamente i tassi di interesse a lungo
termine, anche se i tassi a breve termine diminuiscono.
I
tassi d'interesse a lungo termine determinano il costo delle ipoteche e quindi
la sostenibilità economica delle abitazioni.
La politica inflazionistica di Trump ha anche
aumentato i tassi di interesse per le obbligazioni a lungo termine.
L'effetto è quello di concentrare
l'indebitamento a scadenze a breve termine, concentrando i problemi di rinnovo
del debito in tempi di crisi finanziaria.
Ciò compromette la resilienza dell'economia.
Molti
beni di consumo importati vengono acquistati dagli ultra-ricchi, ovvero il 10%
della popolazione che si dice rappresenti il 50% della spesa dei consumatori.
Per
loro, prezzi più alti non fanno altro che aumentare il prestigio di tali beni
di consumo vistosi (tra cui prelibatezze alimentari costose).
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