Il piano di Trump per la pace a Gaza.

 

Il piano di Trump per la pace a Gaza.

 

 

USA: Tutti i Generali Convocati

d’Urgenza per una Riunione

Segreta Senza Precedenti.

Conoscenzealconfine.it – (30 Settembre 2025) - Fabio Lugano – ci dice:

 

Il capo del Pentagono Pete Hegseth, convoca centinaia di generali in una riunione segreta e senza precedenti. Dietro l’ordine un’epurazione dei vertici o una nuova, scioccante strategia di difesa?

Il Segretario alla Difesa, Pete Hegseth, ha ordinato a centinaia di generali e ammiragli di tutto il mondo di radunarsi con un preavviso minimo per questa settimana, presso la base dei Marines di Quantico, in Virginia. Il dettaglio più inquietante?

Nessuno, nemmeno gli stati maggiori dei più alti ufficiali, conosce il motivo della convocazione.

L’ordine, diramato la scorsa settimana, mentre sullo sfondo si profila la minaccia di uno shut-down del governo, per il “Tetto del debito”, ha seminato confusione e un palpabile allarmismo.

Secondo una dozzina di fonti interne, la chiamata riguarda quasi tutti gli ufficiali superiori in posizioni di comando, dal grado di generale di brigata (o equivalente della Marina) in su, insieme ai loro sottufficiali di corpo.

Stiamo parlando dei comandanti che guidano migliaia di uomini e donne nei teatri operativi più caldi, dal Pacifico al Medio Oriente.

 

Un portavoce del Pentagono, “Sean Parnell”, ha confermato che Hegseth “si rivolgerà ai suoi leader militari senior all’inizio della prossima settimana”, senza però fornire alcun dettaglio sull’agenda. Una segretezza che alimenta i peggiori sospetti.

Un Atto Molto Raro.

Nella memoria recente del Pentagono, non si ricorda un evento simile.

Convocare fisicamente la quasi totalità dei vertici militari attivi, sradicandoli dalle loro aree di competenza, solleva enormi interrogativi, non ultimo quello sulla sicurezza.

“La gente è molto preoccupata. Non ha idea di cosa significhi”, ha confidato una fonte.

Un altro ufficiale ha espresso frustrazione: “Stiamo davvero richiamando ogni generale e ammiraglio dal Pacifico in questo momento?

 È tutto molto strano”.

 

La mossa di Hegseth non arriva in un vuoto pneumatico, ma si inserisce in un contesto di profonde e unilaterali trasformazioni imposte dall’amministrazione Trump al Dipartimento della Difesa.

Negli ultimi mesi abbiamo assistito a una serie di decisioni a dir poco dirompenti:

 

Taglio dei ranghi: Un ordine per ridurre del 20% il numero di generali e ammiragli a quattro stelle e di un ulteriore 10% il totale degli ufficiali di alto grado.

“Dipartimento della Guerra”:

Un rebranding del Dipartimento della Difesa, un cambiamento più che altro nominale ma dal forte valore simbolico.

Nuova Strategia Nazionale:

L’imminente presentazione di una nuova dottrina che dovrebbe porre la “difesa del territorio nazionale” (homeland defense) come priorità assoluta, declassando la Cina da principale minaccia strategica.

Epurazioni mirate: Una serie di licenziamenti eccellenti senza apparenti giustificazioni.

Proprio quest’ultimo punto desta le maggiori preoccupazioni.

 Solo il mese scorso, Hegseth ha rimosso il Tenente Generale Jeffrey Kruse, direttore della Defense Intelligence Agency (DIA), il Vice Ammiraglio Nancy Lacore, capo della Riserva della Marina, e il Contrammiraglio Milton Sands, un ufficiale dei Navy SEAL.

 A questa lista si aggiungono le precedenti “epurazioni” di figure come il Capo degli Stati Maggiori Riuniti, Gen. Charles Q. Brown Jr., e il Capo delle Operazioni Navali, Amm. Lisa Franchetti.

 Molti osservatori hanno notato come la scure si sia abbattuta su un numero sproporzionato di donne in posizioni di vertice.

 

Cosa annuncerà dunque Hegseth oggi a Quantico?

 Un semplice briefing sulla nuova strategia di difesa o il preludio a una svolta epocale, e forse traumatica, per la struttura di comando più potente del mondo?

Il silenzio assordante del Pentagono non fa che amplificare i timori. Presto questo mistero sarà risolto.

 

Domande e Risposte per il Lettore.

1. Perché una riunione di questo tipo è considerata così allarmante e senza precedenti?

 

La sua eccezionalità risiede in tre fattori chiave: la scala, la segretezza e il tempismo.

Mai prima d’ora un Segretario alla Difesa aveva richiamato fisicamente quasi tutti i comandanti operativi del mondo in un unico luogo, con così poco preavviso.

Svuotare i comandi strategici, specialmente in aree critiche come l’Indo-Pacifico, crea un vuoto di leadership e un rischio per la sicurezza.

 La totale mancanza di un’agenda comunicata alimenta la speculazione che possa trattarsi di un annuncio drastico, un test di lealtà o l’avvio di una riorganizzazione radicale imposta dall’alto.

 

2. Chi è il Segretario alla Difesa Pete Hegseth e perché le sue azioni precedenti sono rilevanti?

 

Pete Hegseth, nel contesto di questo articolo fittizio, rappresenta una figura di rottura nominata dall’amministrazione Trump.

Le sue azioni precedenti sono cruciali per capire il clima di sospetto attuale.

Ha già avviato un taglio drastico del numero di generali, licenziato alti ufficiali senza fornire motivazioni chiare (un atto interpretato come un’epurazione dei vertici non allineati) e ha avviato un controverso rebranding del Pentagono.

Queste mosse lo dipingono come un Segretario determinato a imporre la sua visione con metodi bruschi, bypassando le tradizionali procedure e consultazioni militari.

(Fabio Lugano).

(scenarieconomici.it/usa-tutti-i-generali-convocati-durgenza-dal-segretario-hegseth-pentagono-ignaro-e-frastornato/).

 

 

 

Il piano di Trump per Gaza ottiene

 il sostegno di Netanyahu,

 ma dipende da Hamas.

Affariinternazionali.it - Agence France-Presse – Danny Kemp - 30 Settembre 2025 – ci dice:

 

Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump si è assicurato il sostegno del primo ministro Benjamin Netanyahu per un piano di pace ad ampio raggio per Gaza, mentre i due leader hanno avvertito che Israele “porterà a termine il lavoro” contro “Hamas” se il gruppo militante palestinese rifiuterà l’accordo.

Hamas non ha ancora espresso il proprio giudizio sulla proposta che Trump ha presentato alla Casa Bianca insieme a Netanyahu, lasciando incertezza sul destino del piano in 20 punti per porre fine alla guerra.

Il piano prevede un cessate il fuoco, il rilascio degli ostaggi da parte di Hamas entro 72 ore, il “disarmo di Hamas” e il graduale ritiro israeliano da Gaza, seguito da un’autorità di transizione postbellica guidata dallo stesso Trump.

 

“Sostengo il suo piano per porre fine alla guerra a Gaza, che raggiunge i nostri obiettivi bellici”, ha dichiarato Netanyahu in una conferenza stampa congiunta con il presidente degli Stati Uniti.

“Se “Hamas” rifiuterà il suo piano, signor Presidente, o se lo accetterà solo apparentemente per poi fare di tutto per contrastarlo, allora Israele porterà a termine il lavoro da solo”.

Trump ha affermato che Israele avrebbe avuto il suo “pieno sostegno” in tal senso se “Hamas” non avesse accettato l’accordo.

Ma ha insistito sul fatto che la pace in Medio Oriente fosse “molto vicina” e ha descritto l’annuncio del piano come “potenzialmente uno dei giorni più importanti nella storia della civiltà”.

 

Reazione globale immediata

La reazione è stata globale e immediata.

Otto importanti nazioni arabe e musulmane – Egitto, Giordania, Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Turchia, Indonesia e Pakistan – hanno salutato i “sinceri sforzi” dell’accordo sulla scia dei propri colloqui con Trump della scorsa settimana.

Le otto nazioni arabe e musulmane hanno affermato in una dichiarazione congiunta di “accogliere con favore il ruolo del presidente americano e i suoi sinceri sforzi volti a porre fine alla guerra a Gaza” e di “affermare la loro disponibilità a impegnarsi in modo positivo e costruttivo con gli Stati Uniti e le parti per finalizzare l’accordo e garantirne l’attuazione”.

 

Anche l’”Autorità Palestinese” ha accolto con favore gli “sforzi sinceri e determinati” del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, dopo l’annuncio di un piano per porre fine alla guerra a Gaza. In una dichiarazione ha affermato di “accogliere con favore gli sforzi sinceri e determinati del presidente Donald J. Trump per porre fine alla guerra a Gaza e di confermare la propria fiducia nella sua capacità di trovare una via verso la pace”.

Gli alleati europei di Washington hanno prontamente espresso il loro sostegno, con i leader di Francia, Regno Unito, Germania e Italia che hanno condiviso forti espressioni di sostegno al piano.

 

E il capo dell’Unione Europea “Antonio Costa” ha esortato tutte le parti a “cogliere questo momento per dare alla pace una possibilità concreta”.

“Accolgo con favore il piano del presidente (Trump) per porre fine alla guerra a Gaza e sono incoraggiato dalla risposta positiva del primo ministro (Benjamin) Netanyahu”, ha dichiarato Costa su “X”.

“La situazione a Gaza è intollerabile. Le ostilità devono cessare e tutti gli ostaggi devono essere rilasciati immediatamente”, ha aggiunto.

Ma, in segno di continua incertezza, dopo l’annuncio il solitamente loquace Trump ha dichiarato che i due leader non avrebbero risposto alle domande dei giornalisti poiché erano in corso i colloqui con le parti chiave.

 

“Farsa.”

Il piano di Trump ha suscitato reazioni contrastanti in una regione segnata da quasi due anni di guerra devastante.

Un alto funzionario di Hamas ha dichiarato all’AFP che il gruppo “risponderà una volta ricevuto il piano”.

 I mediatori del Qatar e dell’Egitto hanno successivamente condiviso la proposta di Trump con Hamas, ha detto un altro funzionario informato sui colloqui.

Nella devastata Gaza, i residenti hanno espresso scetticismo sul fatto che il piano di Trump possa porre fine alla guerra.

“Noi come popolo non accetteremo questa farsa”, ha detto all’AFP” Abu Mazen Nassar”, 52 anni, uno dei 1,9 milioni di abitanti di Gaza sfollati a causa della guerra.

 

Anche l’Autorità Palestinese, che ha sede in Cisgiordania ma che sarebbe destinata a ricoprire un ruolo nel governo postbellico di Gaza, ha accolto con favore i “sinceri sforzi e determinati” di Trump.

Tuttavia, l’accordo è pieno di insidie sia per Hamas che per Israele, mentre i dettagli potrebbero essere oggetto di discussioni per settimane o mesi.

Per Hamas, esso richiede che i militanti depongano completamente le armi e siano esclusi da futuri ruoli nel governo, anche se a coloro che accettano la “coesistenza pacifica” sarebbe concessa l’amnistia.

Ma Netanyahu potrebbe anche avere difficoltà a far accettare l’accordo ai membri di estrema destra del suo gabinetto.

Netanyahu ha sottolineato ai giornalisti che le forze israeliane manterrebbero la responsabilità della sicurezza di Gaza “per il prossimo futuro” e ha messo in dubbio il ruolo dell’Autorità Palestinese.

Il piano di Trump, nel frattempo, lascia aperta la possibilità della creazione di uno “Stato palestinese”, cosa che, secondo lui, Netanyahu avrebbe fortemente contestato durante l’incontro.

“Profondo rammarico.”

Sebbene Trump abbia elogiato Netanyahu definendolo un “guerriero”, ha mostrato crescenti segni di frustrazione in vista della quarta visita del premier israeliano alla Casa Bianca quest’anno.

Trump era furioso per il recente attacco di Israele contro membri di Hamas nel Qatar, alleato chiave degli Stati Uniti, e la scorsa settimana ha ammonito Netanyahu contro l’annessione della Cisgiordania occupata da Israele.

Durante il loro incontro, Trump ha organizzato una telefonata di Netanyahu al primo ministro del Qatar dall’Ufficio Ovale per esprimere “profondo rammarico” per l’attacco e promettere che non si ripeterà, ha detto la Casa Bianca.

Altri punti chiave del piano di Trump includono il dispiegamento di una “forza internazionale di stabilizzazione temporanea” e la creazione di un’autorità di transizione guidata da lui e che include l’ex premier britannico Tony Blair.

Blair, figura ancora controversa in gran parte del Medio Oriente per il suo ruolo nella guerra in Iraq del 2003, ha salutato il piano come “audace e intelligente”.

 

La guerra di Gaza è stata scatenata dall’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 contro Israele, che ha causato la morte di 1.219 persone, per lo più civili, secondo un conteggio dell’AFP basato sui dati ufficiali israeliani.

 

L’offensiva israeliana ha ridotto gran parte di Gaza in macerie e ucciso 66.055 palestinesi, anch’essi per lo più civili, secondo i dati del ministero della salute del territorio governato da Hamas che le Nazioni Unite considerano affidabili.

(Danny KEMP).

 

 

 

 

Il piano di pace in 20 punti

di Trump per Gaza.

 Affariinternazionali.it - Agence France-Presse – (30 Settembre 2025) – Redazione – ci dice:

 

Dopo giorni di speculazioni, la Casa Bianca ha reso noto un piano in 20 punti per porre fine alla guerra a Gaza, durata quasi due anni, liberare gli ostaggi detenuti da Hamas e delineare il futuro dell’enclave palestinese.

Parlando insieme al presidente Donald Trump alla Casa Bianca, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha espresso un cauto sostegno al piano.

Ecco il piano, così come pubblicato dalla Casa Bianca:

 

Gaza sarà una zona deradicalizzata e libera dal terrorismo che non costituirà una minaccia per i suoi vicini.

Gaza sarà ricostruita a beneficio della popolazione di Gaza, che ha già sofferto abbastanza.

Se entrambe le parti accetteranno questa proposta, la guerra finirà immediatamente.

 Le forze israeliane si ritireranno sulla linea concordata per prepararsi al rilascio degli ostaggi.

 Durante questo periodo, tutte le operazioni militari, compresi i bombardamenti aerei e di artiglieria, saranno sospese e le linee di battaglia rimarranno congelate fino a quando non saranno soddisfatte le condizioni per il ritiro completo.

Entro 72 ore dall’accettazione pubblica di questo accordo da parte di Israele, tutti gli ostaggi, vivi e deceduti, saranno restituiti.

Una volta che tutti gli ostaggi saranno stati liberati, Israele rilascerà 250 detenuti condannati all’ergastolo più 1.700 abitanti di Gaza arrestati dopo il 7 ottobre 2023, comprese tutte le donne e i bambini detenuti in quel contesto.

Per ogni ostaggio israeliano le cui salme saranno restituite, Israele restituirà le salme di 15 abitanti di Gaza deceduti.

Una volta che tutti gli ostaggi saranno stati restituiti, i membri di Hamas che si impegneranno a coesistere pacificamente e a smantellare le loro armi saranno graziati.

 Ai membri di Hamas che desiderano lasciare Gaza sarà garantito un passaggio sicuro verso i paesi di accoglienza.

Una volta accettato il presente accordo, saranno immediatamente inviati aiuti completi nella Striscia di Gaza.

Come minimo, le quantità di aiuti saranno coerenti con quanto previsto dall’accordo del 19 gennaio 2025 in materia di aiuti umanitari, compreso il ripristino delle infrastrutture (acqua, elettricità, fognature), il ripristino di ospedali e panifici e l’ingresso delle attrezzature necessarie per rimuovere le macerie e aprire le strade.

L’ingresso degli aiuti e la loro distribuzione nella Striscia di Gaza avverranno senza interferenze da parte delle due parti attraverso le Nazioni Unite e le sue agenzie, la Mezzaluna Rossa e altre istituzioni internazionali non associate in alcun modo a nessuna delle due parti. L’apertura del valico di Rafah in entrambe le direzioni sarà soggetta allo stesso meccanismo attuato nell’ambito dell’accordo del 19 gennaio 2025.

Gaza sarà governata da un comitato palestinese tecnocratico e apolitico, responsabile della gestione quotidiana dei servizi pubblici e delle municipalità per la popolazione di Gaza.

Questo comitato sarà composto da palestinesi qualificati ed esperti internazionali, con la supervisione e il controllo di un nuovo organismo internazionale di transizione, il “Consiglio di pace”, che sarà guidato e presieduto dal presidente Donald J. Trump, con altri membri e capi di Stato da annunciare, tra cui l’ex primo ministro Tony Blair.

Questo organismo definirà il quadro di riferimento e gestirà i finanziamenti per la ricostruzione di Gaza fino a quando l’Autorità Palestinese non avrà completato il suo programma di riforme, come delineato in varie proposte, tra cui il piano di pace del presidente Trump del 2020 e la proposta saudita-francese, e potrà riprendere in modo sicuro ed efficace il controllo di Gaza.

Questo organismo farà appello ai migliori standard internazionali per creare un governo moderno ed efficiente che sia al servizio della popolazione di Gaza e favorisca gli investimenti.

Verrà elaborato un piano di sviluppo economico di Trump per ricostruire e rilanciare Gaza, convocando un gruppo di esperti che hanno contribuito alla nascita di alcune delle fiorenti città moderne del Medio Oriente.

 Molte proposte di investimento ponderate e idee di sviluppo entusiasmanti sono state elaborate da gruppi internazionali ben intenzionati e saranno prese in considerazione per sintetizzare i quadri di sicurezza e governance al fine di attrarre e facilitare questi investimenti che creeranno posti di lavoro, opportunità e speranza per il futuro di Gaza.

Sarà istituita una zona economica speciale con tariffe preferenziali e tassi di accesso da negoziare con i paesi partecipanti.

Nessuno sarà costretto a lasciare Gaza e coloro che desiderano andarsene saranno liberi di farlo e liberi di tornare.

Incoraggeremo le persone a rimanere e offriremo loro l’opportunità di costruire una Gaza migliore.

Hamas e le altre fazioni accettano di non svolgere alcun ruolo nella governance di Gaza, né direttamente, né indirettamente, né in alcuna altra forma.

Tutte le infrastrutture militari, terroristiche e offensive, compresi i tunnel e gli impianti di produzione di armi, saranno distrutte e non ricostruite.

 Ci sarà un processo di smilitarizzazione di Gaza sotto la supervisione di osservatori indipendenti, che includerà la messa fuori uso definitiva delle armi attraverso un processo concordato di smantellamento, supportato da un programma di riacquisto e reintegrazione finanziato a livello internazionale, il tutto verificato dagli osservatori indipendenti. La nuova Gaza si impegnerà pienamente a costruire un’economia prospera e a coesistere pacificamente con i propri vicini.

I partner regionali forniranno una garanzia per assicurare che Hamas e le fazioni rispettino i loro obblighi e che la nuova Gaza non rappresenti una minaccia per i suoi vicini o per la sua popolazione.

Gli Stati Uniti collaboreranno con i partner arabi e internazionali per costituire una forza internazionale di stabilizzazione (ISF) temporanea da dispiegare immediatamente a Gaza.

 L’ISF addestrerà e fornirà supporto alle forze di polizia palestinesi controllate a Gaza e si consulterà con la Giordania e l’Egitto, che hanno una vasta esperienza in questo campo.

Questa forza costituirà la soluzione a lungo termine per la sicurezza interna.

 L’ISF collaborerà con Israele ed Egitto per contribuire a garantire la sicurezza delle zone di confine, insieme alle forze di polizia palestinesi appena addestrate.

È fondamentale impedire l’ingresso di munizioni a Gaza e facilitare il flusso rapido e sicuro di merci per ricostruire e rivitalizzare Gaza. Le parti concorderanno un meccanismo di risoluzione dei conflitti.

Israele non occuperà né annetterà Gaza.

 Man mano che l’ISF stabilirà il controllo e la stabilità, le Forze di Difesa Israeliane (IDF) si ritireranno sulla base di standard, tappe fondamentali e tempistiche legati alla smilitarizzazione che saranno concordati tra l’IDF, l’ISF, i garanti e gli Stati Uniti, con l’obiettivo di garantire la sicurezza di Gaza, che non costituirà più una minaccia per Israele, l’Egitto o i suoi cittadini.

 In pratica, l’IDF cederà progressivamente il territorio di Gaza che occupa all’ISF secondo un accordo che stipulerà con l’autorità di transizione fino al suo completo ritiro da Gaza, fatta eccezione per una presenza di sicurezza perimetrale che rimarrà fino a quando Gaza non sarà adeguatamente protetta da qualsiasi minaccia terroristica.

Nel caso in cui Hamas ritardi o respinga questa proposta, quanto sopra, compresa l’operazione di aiuto potenziata, procederà nelle aree libere dal terrorismo consegnate dall’IDF all’ISF.

Sarà avviato un processo di dialogo interreligioso basato sui valori della tolleranza e della coesistenza pacifica per cercare di cambiare la mentalità e la narrativa dei palestinesi e degli israeliani, sottolineando i benefici che possono derivare dalla pace.

Con il progredire della ricostruzione di Gaza e l’attuazione fedele del programma di riforme dell’Autorità Palestinese, potrebbero finalmente crearsi le condizioni per un percorso credibile verso l’autodeterminazione e la statualità palestinese, che riconosciamo come aspirazione del popolo palestinese.

Gli Stati Uniti avvieranno un dialogo tra Israele e i palestinesi per concordare un orizzonte politico per una coesistenza pacifica e prospera.

(Agence France-Presse).

 

 

 

 

Hamas diviso sul sì. Trump,

'se rifiuta sarà l'inferno.'

Ansa.it – Mondo (ROMA, 30 settembre 2025) - Silvana Logozzo – ci dice:

 

Il presidente Usa dà 3-4 giorni di tempo.

“Smotrich”: 'Il piano un fallimento'.

Il capo dell'intelligence turca “Ibrahim Kalin” è arrivato in Qatar, inviato dal presidente Erdogan, per partecipare ai colloqui con Hamas sul piano Trump per porre fine alla guerra a Gaza.

La pressione sull'organizzazione che governa la Striscia dal 2008 è fortissima.

 

I media israeliani riferiscono di profonde divisioni all'interno del gruppo.

 A Gerusalemme il team negoziale potrebbe ricevere da un momento all'altro dal governo l'indicazione di partire per nuovi colloqui.

Il presidente degli Stati Uniti, riferiscono fonti ben informate, si aspetta che Ankara e Doha facciano la loro parte fino in fondo.

Specie perché entrambi ospitano da anni la leadership politica di Hamas, con quel che ne consegue.

 

I Paesi arabi e islamici, lunedì sera hanno rilasciato una dichiarazione congiunta accogliendo con favore gli sforzi dell'amministrazione Usa per mettere la parola fine sul conflitto.

 Arabia Saudita, Giordania, Emirati Arabi Uniti, Indonesia, Pakistan, Turchia, Qatar ed Egitto si sono detti pronti a "cooperare positivamente" con gli Usa.

Donald Trump ha dato 3-4 giorni al gruppo islamista per accettare il piano di pace, in caso contrario "espierà all'inferno".

 

Cioè: Benyamin Netanyahu avrà l'appoggio americano se le cose andassero per il verso sbagliato e la guerra dovesse continuare per "distruggere Hamas".

Dal canto suo, l'organizzazione ha fatto trapelare su “Sky news Arabia” di essere "vicina ad accettare il piano Trump".

Ma ha chiesto una serie di chiarimenti sulle garanzie che la guerra non riprenderà dopo che Netanyahu avrà ricevuto gli ostaggi, sul calendario del ritiro dell'”Idf”, sulla portata del ritiro e sulle garanzie contro futuri attacchi ai leader del movimento all'estero.

Una diversa fonte di Hamas ha dichiarato alla Bbc che "un rifiuto è probabile".

 

Martedì mattina, neanche 12 ore dopo il discorso di Trump e Netanyahu alla Casa Bianca, in una dichiarazione ufficiale la presidenza dell'Autorità nazionale palestinese, ha definito il lavoro del presidente americano "sincero e determinato", impegnandosi ad attuare entro due anni - tra l'altro - lo sviluppo di programmi di studio in linea con gli standard Unesco (con l'esclusione dai libri di testo di concetti antisemiti e che inneggiano alla distruzione di Israele) e l'abolizione di leggi in base alle quali vengono erogati pagamenti alle famiglie di detenuti palestinesi e terroristi arrestati o condannati.

 

"Affermiamo la disponibilità a collaborare con gli Stati Uniti e tutte le parti per raggiungere la pace", si legge nella dichiarazione a nome dello 'Stato di Palestina'. Tuttavia nel documento reso noto dalla Casa Bianca uno specifico riferimento alla nascita dello Stato palestinese non c'è.

 

Mentre il documento indica il futuro di Gaza contenuto in "un piano economico di sviluppo per ricostruire e rilanciare la Striscia che sarà creato convocando un gruppo di esperti che hanno contribuito alla nascita di alcune delle moderne città-miracolo del Medio Oriente".

In conferenza stampa Trump lunedì sera ha sottolineato che Bibi rimane "fermo nella sua opposizione a uno Stato di Palestina", "lui è un guerriero ma "capisce che è tempo di mettere fine alla guerra a Gaza".

Nuovo piano di Trump per la pace in Palestina, la popolazione di Tel Aviv: 'Ottime notizie.'

 

 Netanyahu infatti, pur nella piena armonia con Donald (a dispetto degli analisti che da mesi narrano di 'rapporti tesi' tra i due), deve tenersi in equilibrio con il suo governo, specie con i due ministri messianici “Itamar Ben Gvir” e “Bezalel Smotrich” (soprattutto quest'ultimo) che già paventano di far crollare l'esecutivo.

In un lungo post sui social,” Smotrich” ha definito un "clamoroso fallimento diplomatico" il piano di pace a guida statunitense.

Pur non arrivando a dire apertamente che il suo partito cercherà di far cadere Bibi. Il messaggio su “X” del resto è uno dei pochi commenti critici nel folto coro di elogi sia in Israele che all'estero per il progetto del presidente Usa, accettato dal primo ministro.

 

Che ha incassato anche un ritiro graduale dell'”Idf” dalla Striscia, con tempi non specificati.

 Non solo: in un video pubblicato su Telegram, Netanyahu ha dichiarato che le "truppe resteranno nella maggior parte della Striscia".

 "Ora il mondo intero, compreso quello arabo e musulmano, sta facendo pressione su Hamas affinché accetti i termini che abbiamo creato insieme a Trump, per riportare indietro tutti gli ostaggi, vivi e morti. Chi ci avrebbe mai creduto?", ha detto in ebraico.

In serata migliaia di persone sono scese in piazza a Tel Aviv per chiedere la fine della guerra e il ritorno degli ostaggi.

 

Axios: 'Qatar,Egitto e Turchia esortano Hamas all'ok al piano.'

Qatar, Egitto e Turchia stanno esortando Hamas a dare una risposta positiva al piano di pace di Trump.

Lo scrive Axios citando due fonti a conoscenza dei colloqui.

 Tutti e tre i paesi hanno svolto il ruolo di intermediari per Hamas nei negoziati e hanno una certa influenza sul gruppo militante.

 

 

 

Trump ai generali: 'Pronti

alla guerra anche nel Paese.'

Ansa.it – Mondo – (WASHINGTON, 30 settembre 2025) - Benedetta Guerrera – ci dice:

 

 

'Stop invasione e criminalità. Spero di non usare armi nucleari.'

Contro il "nemico interno" - che siano i migranti, la criminalità nelle città o "la sinistra radicale - gli Stati Uniti devono combattere una vera e propria guerra.

Donald Trump ha arringato circa 800 generali americani arrivati da tutto il mondo nella base di Quantico e avvertito che le priorità delle forze armate con lui sono cambiate:

 l'invasione del territorio Usa è il problema numero uno.

Mentre sul fronte estero, oltre a rivendicare di aver messo fine a sette guerre e forse otto con Gaza, il “commander-in-chief “ha minacciato che l'arsenale nucleare degli Stati è pronto anche se l'auspicio è di non doverlo usare mai.

 

"Anche quella ai confini e nelle città è una guerra", ha detto “The Donald” ad una platea che, nelle parole del tycoon, è stata la più silenziosa alla quale si sia mai rivolto.

 "L'America è sotto invasione dall'interno e non è diversa da un nemico straniero, ma per molti versi è più difficile perché non indossano uniformi.

 Quando le indossano puoi eliminarli", ha ammonito il presidente rivolgendosi ai più alti vertici militari arrivati da luoghi di conflitti e guerre un po' diverse da quelle a cui si è riferito Trump.

 

La verità è che, secondo quanto riferito da diversi funzionari al Washington Post, molti generali sono frustrati dal nuovo corso del Pentagono.

Tra questi ci sarebbe anche il capo di stato maggiore congiunto, il generale “Dan Caine,” che il tycoon ha elogiato più volte nel suo discorso.

 Per molti la riforma del dipartimento presentata da “Pete Hegseth” su input del “commander-in-chief “è "miope e potenzialmente irrilevante, dato l'approccio altamente personale e talvolta contraddittorio di Donald Trump alla politica estera".

 

Ed in particolare è poco gradita quest'l'enfasi della nuova strategia sulle minacce in patria, mentre la Cina continua a rafforzarsi militarmente, oltre ad un ridimensionamento del ruolo degli Usa in Europa e Africa.

 Con il mondo in fiamme, nel suo intervento Trump ha solo accennato ai fronti esterni, auspicando una risoluzione dei conflitti in Ucraina e a Gaza e esprimendo la speranza di non dover usare l'arsenale nucleare americano.

"L'ho ricostruito", ha comunque assicurato.

Quanto ai cambiamenti all'interno del dipartimento, “Trump ed Hegseth” hanno delineato un vero e proprio ritorno al settecento.

 

E non soltanto perché' il Pentagono è stato ribattezzato "dipartimento della guerra", il nome che gli aveva dato il primo presidente americano George Washington.

In un discorso a braccio di circa un'ora il segretario ha attaccato la "deriva woke" del dipartimento e i "decenni di declino" che ha vissuto.

Ha avvertito le donne soldato che se non raggiungeranno "gli standard maschili" non potranno combattere e perfino minacciato di licenziare i militari "grassi", una parola che ormai, almeno nella società americana, è considerata un insulto e non viene quasi mai usata.

"Il nostro compito è prepararsi alla guerra e vincerla", ha dichiarato Hegseth nel suo monologo sullo "spirito guerriero".

"L'era del politically correct è finita", ha incalzato lamentando che "per troppo tempo abbiamo promosso leader per le ragioni sbagliate:

in base alla loro razza, alle quote di genere, ai cosiddetti primati storici.

 Stiamo ponendo fine alla guerra contro i guerrieri", ha detto citando il titolo del suo libro.

Trump ha rincarato la dose avvertendo che "licenzierà i generali che non gli piacciono, usando il famigerato "you'r fired", reso celebre dal suo “reality show.” "Ho ricostruito l'esercito in parte cacciando persone", ha rivendicato citando l'ex segretario alla Difesa” Jim Mattis”, che si è dimesso durante il suo primo mandato dopo uno scontro sul ritiro delle truppe Usa da Siria e Afghanistan.

 

Ma anche al “dipartimento della Guerra”, dopo fiumi di parole sulla necessità di "vincere per non essere sconfitti, il tycoon non ha potuto fare a meno di menzionare il suo ultimo pallino: il Nobel per la pace.

 "Ho risolto otto guerre ma non me lo daranno e sarà un'offesa per gli Stati Uniti. Lo daranno ad uno che non ha combinato nulla o ha scritto un libro su come risolvere le guerre". 

 

 

 

Trump detta la pace: Striscia

appaltata, palestinesi prigionieri.

Ilmanifesto.it - Chiara Cruciati – (30 settembre 2025) – ci dice:

 

L’emiro di Gaza.

 Il presidente Usa annuncia il via libera di Netanyahu al suo piano: a Tel Aviv la «sicurezza» dei confini, a lui e Blair il governo dell’enclave.

Gaza conta, Gaza vale:

 un premio Nobel, affari multimiliardari di ricostruzione, il flusso di denaro che il Golfo inietta nell’economia statunitense, una stabilità regionale camuffata da pace che non prevede liberazione.

 

Sta qua il senso dietro il piano di venti punti che ieri Donald Trump ha estorto a Benyamin Netanyahu alla Casa bianca in quello che il presidente Usa ha definito «uno dei giorni più belli della storia della civiltà, un giorno storico non solo per Gaza ma per l’intera regione» perché lui, Donald Trump, ha «risolto tutto, si chiama pace perenne in Medio Oriente».

 

NEL DISCORSO-FIUME con cui ha aperto la conferenza stampa congiunta con il primo ministro israeliano, Trump ha annunciato il via libera di Tel Aviv al piano della Casa bianca.

 Dentro c’è molto:

 ci sono la liberazione di tutti gli ostaggi israeliani in 72 ore e il cessate il fuoco a Gaza, c’è l’ingresso degli aiuti umanitari gestiti dall’Onu, c’è l’amnistia per i membri di Hamas «che rinunciano alla violenza», c’è la negazione della pulizia etnica («residenti liberi di stare o di andare e tornare) e c’è soprattutto la cornice più generale, un futuro di neo-colonizzazione mascherata.

Ha un nome, Board of Peace, il Consiglio della Pace;

 ha un presidente, Donald Trump che però ci tiene a precisare che non lo ha chiesto lui, hanno insistito gli altri;

 c’è un obiettivo, togliere ai palestinesi il controllo del proprio futuro e della ricostruzione, un affare troppo succoso per lasciarlo marcire.

 Al suo fianco, ci saranno «figure internazionali» come l’ex premier britannico Tony Blair, noto distruttore di paesi altrui.

Ora, ha detto Trump tra un attacco a Biden e uno alla «corrotta» Onu, la palla è nel campo di “Hamas”:

 se si tira indietro, Washington sosterrà la reazione israeliana, qualunque essa sia.

 

NETANYAHU ne approfitta ed entra a gamba tesa, a differenza di Trump è un politico e sa come si gioca:

«Sosterrò il tuo piano per porre fine alla guerra a Gaza», dice, perché ricalca «le priorità del governo israeliano».

Ovvero la liberazione di tutti gli ostaggi, il disarmo di Hamas e la demilitarizzazione di Gaza, ma anche la permanenza dell’esercito israeliano ai suoi confini («responsabile della sicurezza per il futuro») e un’amministrazione pacifica che escluda tanto Hamas quanto l’Autorità nazionale palestinese.

 Insomma, una Gaza che libera non lo sarà mai.

 

È LA PRIMA CREPA:

l’”Anp” è nel piano Usa come c’è il percorso verso la statualità palestinese.

 Ma per Bibi sono linee rosse:

c’è solo una via per fargli digerire l’”Anp”, che si trasformi radicalmente, che rinunci alla Corte penale e alla Corte internazionale e che riconosca lo stato di Israele (già fatto, nel 1993).

Sono le mine che Netanyahu semina sul percorso, quello immediato e quello futuro, le mani che si tiene slegate.

In attesa della risposta ufficiale, ieri funzionari di Hamas ribadivano di non aver ricevuto ancora il piano e, in ogni caso, di ritenere il disarmo una richiesta irricevibile in assenza di uno stato.

 

NELLE ORE PRECEDENTI al quarto incontro in nove mesi tra i due leader, si sono susseguite dichiarazioni e indiscrezioni, specchio delle aspettative per la rottura di uno stallo insopportabile.

 Trump ha parlato con l’emiro del Qatar, “Tamim Al-Thani”, ha riportato “Axios”:

“Doha”, ancora furiosa per il raid israeliano che il 9 settembre ha tentato di decapitare i vertici di Hamas sul proprio territorio, gli ha ricordato le preoccupazioni del Golfo.

Ed ecco il colpo di scena: durante l’incontro nello Studio ovale, Netanyahu ha chiamato il primo ministro del Qatar per esprimere «profondo rammarico» per le bombe su Doha e la violazione della sovranità del paese e per promettere che «Israele non condurrà più attacchi simili».

 

UNA PRIMA ASSOLUTA figlia di una frustrazione che non è solo araba: secondo una fonte del governo Usa citata da “Axios”, «tutti, e intendo tutti, sono esasperati da Bibi».

 Tutti, compreso Trump, che da un orecchio sente i suoi consiglieri ricordargli i danni in credibilità che gli arreca l’incapacità di tenere a bada l’amico israeliano e dall’altro gli alleati arabi, finanziatori della sua economia nazionale e personale. Domenica l’inviato “Steve Witkoff “ha trascorso due ore nella camera di albergo di Netanyahu a Washington per assicurarsi il sì al piano.

 

NETANYAHU SI LASCIA le mani libere ma è comunque stretto all’angolo.

Anche in casa non se la passa bene, schiacciato tra le proteste delle famiglie degli ostaggi che implorano un accordo e l’ultradestra che non intende stringerne nessuno.

Non solo gli alleati di coalizione (“Smotrich” ha elencato le sue linee rosse: presenza dell’esercito israeliano lungo il confine, libertà di agire al suo interno e assenza dell’Anp dall’orizzonte futuro), ma anche il movimento dei coloni che ha visto nel 7 ottobre l’opportunità di una vita, quella “persa” nel 1948:

 ieri “Yossi Dagan”, capo del consiglio regionale della Samaria (il rappresentante dei coloni nel nord della Cisgiordania occupata) si è detto insoddisfatto dell’incontro di domenica con il premier perché non avrebbe ottenuto rassicurazioni sull’”annessione della West Bank”.

(Chiara Cruciati).

 

 

 

Gaza. Netanyahu ha accettato il nuovo

 piano Trump e si è scusato per

 l'attacco in Qatar.

Avvenire.it - Elena Molinari – (29 settembre 2025) – ci dice:

 

Oltre tre ore di colloqui alla Casa Bianca.

 Il presidente Usa esulta: giorno storico.

Gelo di Hamas: «Blair come garante dell'intesa per noi è inaccettabile».

L'Italia sosterrà il piano.

Benjamin Netanyahu e Donald Trump alla Casa Bianca, dopo l'incontro durato oltre tre ore – (Ansa)

 

È tutto all’insegna di Donald Trump il nuovo piano per la pace in Medio Oriente emerso ieri della Casa Bianca dopo oltre tre ore di colloqui fra il presidente statunitense e il primo ministro Benjamin Netanyahu, mentre l’invasione terrestre e i bombardamenti israeliani continuavano a uccidere palestinesi e a distruggere il più grande centro urbano della Striscia di Gaza.

Sarà infatti lo stesso capo della Casa Bianca, in base alla sua proposta, a guidare l’”organismo transitorio internazionale”, che assumerà il controllo dell’enclave dopo la fine dei combattimenti.

 «È un giorno storico per la pace in Medio Oriente», ha detto ieri Trump a fianco di Netanyahu, assicurando che la Striscia «è solo una piccola parte» della sua idea che porterà a una «pace eterna nella regione» e che ha ricevuto, a suo dire, «il consenso di moltissimi Paesi», anche europei.

Questi, ha aggiunto, sono stati «molto coinvolti nell'elaborazione del piano».

In serata è arrivato il sostegno del Governo italiano al progetto.

 «L’Italia è pronta a fare la sua parte, in stretto coordinamento con gli Stati Uniti, i partner europei e della Regione, e ringrazia il Presidente Trump per il lavoro di mediazione e i suoi sforzi per portare la pace in Medio Oriente», si legge in una nota di Palazzo Chigi.

«L’Italia - prosegue il comunicato - esorta quindi tutte le parti a cogliere questa opportunità e ad accettare il Piano».

 

In serata è arrivata anche la presa di posizione dell'”Autorità nazionale palestinese” (Anp), che ha accolto con favore gli «sforzi determinati» di Trump per porre fine al conflitto.

Anche Arabia Saudita, Giordania, Emirati Arabi Uniti, Indonesia, Pakistan, Turchia, Qatar ed Egitto hanno rilasciato una dichiarazione congiunta accogliendo con favore gli sforzi di Trump per porre fine alla guerra a Gaza.

 I ministri degli Esteri di questi otto Paesi hanno dichiarato di essere pronti a «cooperare positivamente» con gli Stati Uniti e altri Paesi per finalizzare l'accordo e garantirne l'attuazione.

 

Il “consiglio della pace” (Board of Peace) di Gaza includerà altri capi di Stato e leader internazionali, incluso l'ex premier britannico “Tony Blair”, il primo ad avanzare l’idea di un’amministrazione temporanea a controllo non palestinese di Gaza, da affiancare a un comitato locale.

Nella versione, molto simile, del tycoon, questo gruppo responsabile della gestione quotidiana dei servizi pubblici sarà «tecnocratico e apolitico, composto da palestinesi qualificati e da esperti internazionali».

Netanyahu sembra aver accolto il piano anche se contrasta con alcune delle posizioni fondamentali del suo governo di estrema destra.

 In particolare, la visione lascia la porta aperta a un futuro Stato palestinese, che Netanyahu la scorsa settimana all’Onu ha definito «suicida» per Israele.

La proposta sottolinea che Israele non vuole espellere con la forza i palestinesi da Gaza e che questi avrebbero il diritto di tornare se scegliessero di andarsene.

Hamas è tenuta a rilasciare tutti i 48 ostaggi ancora nelle sue mani, circa 20 dei quali si ritiene siano ancora vivi, nel giro di 72 ore dall’entrata in vigore dell’accordo e a smilitarizzarsi.

 In cambio, ai suoi combattenti verrebbe permesso di lasciare Gaza e verrebbe offerta l'amnistia a coloro rinunciano alla resistenza.

Quantità significative di aiuti umanitari verrebbero autorizzate nell’enclave, e Israele libererebbe 250 prigionieri palestinesi condannati all’ergastolo, più 1.700 cittadini di Gaza arrestati dopo il 7 ottobre 2023.

 Le forze israeliane inoltre si ritirerebbero gradualmente.

 

Ma è tutta teoria fino al sì di “Hamas”, che ieri, prima della conferenza stampa alla Casa Bianca, ha rifiutato la proposta dell’ex premier britannico.

 «Tony Blair è una figura inaccettabile per il nostro popolo. Non accetteremo l’imposizione di una tutela straniera», ha dichiarato “Taher al-Nono”, consigliere per i media del leader politico di Hamas, che ha anche detto di non aver ricevuto alcuna nuova proposta da Egitto e Qatar, che avrebbero entrambi ricevuto il piano di Trump.

Durante l'incontro alla Casa Bianca, però, Netanyahu si è scusato al telefono con l'omologo del Qatar “Mohammed bin Abdulrahman al-Thani” per aver violato la sovranità del suo Paese attaccando Doha per colpire i vertici di Hamas il 9 settembre, promettendo di non intraprendere azioni simili in futuro, e le scuse erano tese a convincere il Qatar a fare pressioni su Hamas affinché accetti la proposta dell’Amministrazione repubblicana.

 Se non accettasse, ha detto Trump, Israele avrebbe il via libera degli Usa «per distruggerli».

Lo scetticismo è legittimo, perché anche i tre incontri precedenti fra il premier israeliano e il presidente Usa si erano conclusi con dichiarazioni roboanti, non seguite da una tregua.

Dopo l’annuncio della creazione di una “Riviera di Gaza” di Trump di febbraio come dopo la proposta di Netanyahu di attribuire il Nobel per la Pace al presidente Usa a luglio, solo dodici ostaggi sono stati rilasciati, mentre nella Striscia si è continuato a morire, di guerra e di fame.

Ma da qualche settimana il vento a Washington è cambiato.

Trump ha bisogno di risultati su almeno uno dei due conflitti — Gaza e Ucraina — che aveva promesso di risolvere “dal primo giorno” del suo insediamento e si è adoperato per raccogliere consensi attorno alla sua idea, presentando il suo piano ai leader arabi all'Assemblea Generale Onu la scorsa settimana e poi modificandolo per renderlo più accettabile per Netanyahu.

 Questi ieri ha accolto i principi dell’idea di Trump, ma ha evidenziato che Israele manterrà «la responsabilità per la sicurezza e il perimetro di Gaza», che il suo ritiro sarà proporzionale al «disarmo di Hamas» e che se Hamas rifiuterà la proposta «Israele finirà il lavoro».

 

 

Trump annuncia l’accordo di pace per Gaza.

C’è il sì di Israele. Ultimatum a Hamas.

Italiaoggi.it - Redazione – (30/09/2025) – ci dice:

 

La proposta, accolta da Israele, prevede, la liberazione degli ostaggi e la deposizione delle armi.

 la resa di Hamas e un nuovo organo internazionale per amministrare la Striscia. Hamas ha 72 ore per accettare.

 

"Pace per il Medio Oriente", è questo il nome dell'accordo annunciato dal presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, nella East Room della Casa Bianca, insieme con il premier israeliano Benjamin Netanyahu.

Un accordo che Trump definisce "storico, uno dei più grandi della civiltà". La proposta delineata da Washington ha ottenuto l'ok di Tel Aviv, per porre fine alla guerra a Gaza. Un piano condizionato a una serie di punti (20 contro i 21 inizialmente annunciati) che implicano, di fatto, la resa politica e militare di Hamas.

Sin da subito, infatti, sia Trump che Netanyahu hanno chiarito che non stavano lasciando all'organizzazione islamista alcuna scelta in materia.

In caso di rifiuto, ha scandito Trump, "Israele avrebbe il pieno sostegno statunitense per portare a termine il lavoro di distruzione della minaccia".

Intanto, Hamas che, dal canto suo, ha immediatamente risposto di non aver preso parte ai negoziati e tramite un suo alto funzionario, “Mahmoud Mardawi”, ha dichiarato che il piano di pace per Gaza "propende verso la prospettiva israeliana", prende tempo.

Non un no secco, ma un primo freno, con la garanzia che il team negoziale "studierà la proposta in "buona fede".

 Proposta che ha un punto di partenza, ossia le 72 ore di tempo concesse ad Hamas, per liberare tutti gli ostaggi, vivi o deceduti.

Questa la condicio sine qua non, senza la quale il resto dei 19 punti non verranno minimamente presi in considerazione.

 A seguire, la deposizione delle armi e la rinunci a qualsiasi 'sogno' di governare o avere ancora un ruolo nella Striscia.

 A incentivare l'accettazione di queste prime tre condizioni la promessa di un'amnistia per i membri dell'organizzazione con la possibilità di rimanere a Gaza o di un passaggio sicuro verso i Paesi di accoglienza, mentre - e questo è un altro dei punti del piano - ad amministrare quello che resta dell'enclave palestinese sarebbe un "comitato tecnico palestinese apolitico", supervisionato da un nuovo organo internazionale, il "Board of Peace", presieduto dallo stesso Trump e con membri di primo piano, tra cui l'ex premier britannico Tony Blair.

 

Le reazioni.

Reazioni positive sono arrivate anche da otto Paesi musulmani: Arabia Saudita, Giordania, Emirati Arabi Uniti, Indonesia, Pakistan, Turchia, Qatar ed Egitto hanno accolto con favore il piano annunciato, così come uno dei diretti interessati, l’Autorità nazionale palestinese, che ha definito gli "sforzi sinceri e determinati".

 

Netanyahu: ora Hamas è isolata.

Dopo il suo incontro con Donald Trump, Benjamin Netanyahu ha affermato che "invece di farsi isolare da Hamas, Israele ha ribaltato la situazione, isolando l'organizzazione palestinese".

"Ora il mondo intero, compreso il mondo arabo e musulmano, sta facendo pressione su Hamas affinché' accetti le condizioni che abbiamo posto insieme al presidente Trump", ha aggiunto il premier israeliano elencando due delle condizioni del piano: "rilasciare tutti i rapiti, sia vivi che morti, mentre l'Idf rimane nella maggior parte della Striscia di Gaza".

Netanyahu ha poi chiarito di non essere d'accordo sul riconoscimento di uno Stato palestinese:

 "Non è scritto nell'accordo. Ci opporremo con forza a uno Stato palestinese e il presidente Trump ha detto che lo capisce".

 

In attesa della decisione di Hamas.

Ora la palla passa ad Hamas, che pur indebolito resta l'altro protagonista principale del match, con il countdown dei tre giorni già scoccato, e con un dilemma esistenziale sullo sfondo.

Rinunciare alle armi, accettare un programma che fondamentalmente eliminerebbe - almeno a Gaza - l'organizzazione terroristica come forza politica e militare e guardare un "Consiglio di Pace" guidato da Trump prendere il controllo di Gaza.

In cambio un'amnistia, il cessate il fuoco, il ritiro delle forze israeliane a linee concordate, la sospensione di tutte le operazioni militari, la liberazione di 250 detenuti palestinesi condannati all'ergastolo e altri 1700 abitanti di Gaza arrestati dopo il pogrom del 7 ottobre 2023.

Un piano che per la prima volta sembra mette sul tavolo una tregua e anche una possibile via d'uscita dal conflitto.

 

Una fonte del gruppo militante palestinese ha riferito a Reuters che il piano del presidente statunitense Donald Trump per un cessate il fuoco a Gaza è "completamente sbilanciato a favore di Israele" e impone "condizioni impossibili" volte a eliminare Hamas.

"Ciò' che Trump ha proposto è la piena adozione di tutte le condizioni israeliane, che non garantiscono al popolo palestinese o ai residenti della Striscia di Gaza alcun diritto legittimo", ha sottolineato la fonte sotto anonimato.

Il canale saudita “Al-Sharq” ha riferito che "la delegazione negoziale di Hamas discuterà la proposta di pace di Donald Trump all'interno dei suoi quadri di leadership, e con le fazioni palestinesi, al fine di studiarla e presentare una risposta che rappresenti tutto il popolo".

Secondo quanto affermano le fonti, "Hamas è ansioso di fermare la guerra e porre fine alle sofferenze della sua popolazione".

 

Witkoff: qualche dettaglio e ci siamo.

Dopo l'incontro tra Trump e Netanyahu, Steve Witkoff, parlerà "sia con il primo ministro del Qatar sia con il capo dell'intelligence egiziana".

Lo ha annunciato lo stesso inviato speciale degli Usa in Medio Oriente in un'intervista a Fox News, in cui ha aggiunto che i due, dopo il piano annunciato da Trump, "si sono incontrati con i rappresentanti di Hamas".

Witkoff ha poi affermato di essere "molto ottimista e fiducioso" ai fini del raggiungimento di un accordo di pace a Gaza, soprattutto "per via del sostegno dei Paesi arabi e dell'Europa".

 "Abbiamo un grande sostegno al piano. Dobbiamo definire qualche dettaglio, certo, ma conoscete Trump, con il suo spirito arriveremo presto al traguardo", ha sottolineato l'inviato speciale della Casa Bianca.

 

LA FLOTILLA ENTRA NELLA

ZONA A RISCHIO.

 Opinione.it - Eugenio Vittorio – (01 ottobre 2025) – ci dice:

 

La Flotilla entra nella zona a rischio.

Un ultimo avvertimento, poi il dietrofront.

 La fregata Alpino della Marina italiana ha ricordato al bastimento della “Global Sumud Flotilla”: noi ci fermiamo qui.

La linea rossa per la nave militare italiana erano le 150 miglia nautiche da Gaza, ormai superate dalle barche di attivisti, che d’ora in poi dovranno vedersela da soli.

E in flottiglia lo sanno, di essere scoperti.

“Siamo entrati nella zona ad alto rischio. Siamo in stato di massima allerta. L’attività dei droni sulla flottiglia è in aumento.

Diverse segnalazioni indicano diversi scenari che si potrebbero verificare nelle prossime ore”.

È il messaggio diffuso sui canali ufficiali della spedizione, che avanza verso la Striscia di Gaza.

Gli organizzatori avvertono:

Siamo nell’area in cui le flottiglie precedenti sono state attaccate o intercettate. Rimanete vigili.

 

Per ora nessuna nave è stata intercettata, ma tutte hanno predisposto procedure d’emergenza per un eventuale abbordaggio.

 Un partecipante alla dimostrazione ha scritto su” X” che unità navali israeliane si starebbero avvicinando e che diversi sistemi di sorveglianza delle imbarcazioni sarebbero stati messi fuori uso.

La tensione cresce.

“Imbarcazioni non identificate si sono avvicinate nella notte a diverse barche della Flotilla, alcune con le luci spente.

I partecipanti hanno applicato i protocolli di sicurezza in preparazione a un possibile abbordaggio.

Le imbarcazioni si sono ora allontanate dalla Flotilla”.

Così la portavoce italiana del “Global movement to Gaza”, Maria Elena Delia. Anche i rappresentanti politici hanno parlato della situazione a bordo.

“Abbiamo visto l’esercito israeliano che sta arrivando e ci stiamo mettendo in posizione”, afferma in un video l’eurodeputata di Alleanza verdi sinistra “Benedetta Scuderi”, ripresa con giubbotto di salvataggio a 120 miglia nautiche da Gaza.

Nel post che accompagna le immagini scrive:

“L’esercito israeliano sta per abbordare le nostre barche.

Continuiamo a navigare verso Gaza, avvicinandoci al limite delle 120 miglia nautiche, vicino all’area in cui le precedenti flottiglie sono state intercettate e attaccate”.

Sulla stessa linea, il deputato del Partito democratico “Arturo Scotto” riferisce: “Siamo a 130-135 miglia dalla costa di Gaza.

Al momento non abbiamo avuto segnali di alt da Israele ma siamo in allerta permanente.

Siamo consapevoli che in giornata potremmo essere avvicinati per l’abbordaggio”.

 

Anche la Spagna segue con attenzione la vicenda.

 L’Esecutivo di Pedro Sánchez ha avvertito i propri connazionali della Flotilla, raccomandando “fortemente” di non entrare nella zona di esclusione dichiarata da Israele nelle acque antistanti Gaza, giudicata a “rischio severo per la loro incolumità”.

 La nave militare spagnola “Furor” si trova già in un raggio operativo per eventuali operazioni di salvataggio, ma fonti ufficiali precisano che “la nave non potrà entrare nella zona di esclusione stabilita dall’esercito israeliano poiché metterebbe a rischio l’integrità fisica dell’equipaggio e quella della stessa Flotilla”.

Il governo, progressista, di Madrid riconosce la legittimità della missione umanitaria, ma sottolinea che “la vita dei suoi componenti deve venire anzitutto”.

Una posizione che l’organizzazione della Flotilla giudica insufficiente:

in un comunicato, accusa il governo spagnolo di aver rinunciato a fornire “la protezione necessaria per arrivare” a Gaza, denunciando che “per azione e omissione, il governo spagnolo diventa un complice di quanto potrà accadere”.

 

 

 

 

La lunga notte della Sumud Flotilla.

Primi attacchi israeliani.

Contropiano.org - Redazione Contropiano – (1-10-2025) – ci dice:

 

In aggiornamento. Ore 8.30. Dopo una notte di provocazioni, disturbi, tentativi abbozzati di speronamento, la Flotilla continua ad avvicinarsi a Gaza.

Tutto può succedere ancora.

Ore 5. Le prime imbarcazioni intercettate:

 “Alcune imbarcazioni non identificate si sono avvicinate a diverse navi della Flottiglia, alcune delle quali con le luci spente.

I partecipanti hanno applicato i protocolli di sicurezza in preparazione di un’intercettazione. Le imbarcazioni hanno ora lasciato la Flottiglia”.

 

Come si può intuire dal video in diretta, in contemporanea su diverse imbarcazioni, alcune sono diventate “buie”, segno che le telecamere sono state spente o danneggiate.

La tattica di attacco israeliano sembra quella di colpire la strumentazione per le comunicazioni prima di abbordare effettivamente alcune imbarcazioni alla volta, evitando le complicazioni di un maxi attacco in simultanea a 51 barche.

Una nave non identificata ha rischiato di speronare la Alma e l’ Aurora, poi si è allontanata dopo aver danneggiato da remoto i sistemi di comunicazione a bordo. “NON siamo stati intercettati, ma siamo stati circondati da una grande nave militare senza luci (probabilmente la stessa avvistata da Aurora pochi minuti fa).

Poiché questa nave non ha seguito le procedure di intercettazione a cui siamo abituati, ha cercato di tagliarci la strada, rischiando di speronarci fisicamente. Abbiamo deciso di fermarci, rivalutare la situazione e attendere l’alba.

A breve comunicheremo come procedere“.

Qui si può seguire l’andamento in diretta, grazie al collegamento con diverse imbarcazioni della Flotilla.

L’atteggiamento del governo italiano è diventato finalmente chiarissimo quando sulla Flotilla è arrivato l’alert dalla fregata Alpino.

A 180 miglia da Gaza, ha comunicato alla flotta che alle 2 di notte, ora in cui la distanza di accorcerà a 150 miglia, la nave si sarebbe fermata “per non pregiudicare in alcun modo le garanzie di sicurezza delle persone imbarcate“.

 

Ed è forse il caso di ricordare che tra loro ci sono anche 4 parlamentari della Repubblica, oltre a cittadini di altri 43 paesi

 

Era questa la linea rossa concordata tra l’Italia e l’Idf.

In pratica l’invio della fregata era solo un “gesto simbolico” della propaganda meloniana per coprire almeno in parte la complicità sostanziale, ferma e indifferente alla legalità internazionale (fermare e assaltare imbarcazioni civili con a bordo aiuti umanitari è un crimine di guerra; farlo in acque internazionali è un “atto di pirateria”).

Una fregatura e basta.

 

Semplicemente inqualificabile l’ultimo messaggio della presidente del consiglio: “Flotilla si fermi. Ogni altra scelta rischia di trasformarsi in un pretesto per impedire la pace, alimentare il conflitto e colpire così soprattutto quella popolazione di Gaza alla quale si dice di voler portare sollievo.

 È il tempo della serietà e della responsabilità“.

 

Sarebbero i gesti umanitari, dunque, a “impedire la pace“, non l’azione criminale di un governo genocida e l’appoggio concreto di tutto l’Occidente euro-atlantico. Riassumendo: il genocidio è “pace”, e la Flotilla sarebbe un attentato alla “pace”. Giudicate voi…

 

Sacrosanta la risposta dalla Flotilla: “questa non è protezione. È sabotaggio. È un tentativo di demoralizzare e dividere una missione pacifica e umanitaria. Il blocco di Israele è illegale ed il silenzio del mondo intollerabile. Se il governo italiano vuole essere ricordato per il coraggio, deve navigare con noi “.

 

In particolare la portavoce,” Maria Elena Delia”, ha fatto notare: “Leggo che Giorgia Meloni sostiene che se il piano di ‘pace’ di Trump fallirà, sarà colpa della Global Sumud Flotilla.

Saremmo onorati di poterci prendere questo merito, ma purtroppo non abbiamo questo potere.

Quello, però, di ribadire che il diritto internazionale non può essere applicato solo ad alcuni, questo potere ce l’abbiamo e lo rivendichiamo.

Israele non ha alcun diritto sulle acque in cui stiamo navigando e se ci fermerà commetterà un reato.

Questo è quello che avrebbe dovuto scrivere Giorgia Meloni, in un mondo normale, ma forse in quel mondo il nostro paese non sarebbe in mano a lei e al suo governo.”

 

150 miglia dalle coste di Gaza, oltretutto, è un punto oltre 10 volte più grande delle 12 miglia riconosciute dalle convenzioni internazionali, quindi in acque totalmente internazionali, dove anche il signor Mario Rossi dovrebbe poter regatare liberamente…

Andarsene, però, ha anche un altro significato, da parte del governo Meloni. Significa infatti “non vogliamo neanche esser testimoni di quello che accadrà, ci accontenteremo della versione del genocida Netanyahu, a cui vi consegniamo”. Alla faccia del governo “sovranista”… Neanche un maggiordomo inglese del ‘700 sarebbe stato così servizievole.

 

Di lì in poi è cominciata anche la marcia di avvicinamento alle imbarcazioni da parte delle forze armate israeliane, precedute da uno sciame di droni che hanno fatto avanti e indietro a scopo intimidatorio sulla Flotilla.

Come del resto spigato nel loro messaggio:

“Siamo in stato di massima allerta. L’attività dei droni sulla flottiglia è in aumento.

Diverse segnalazioni indicano diversi scenari che si potrebbero verificare nelle prossime ore.

Siamo entrati nella zona ad alto rischio, l’area in cui le flottiglie precedenti sono state attaccate e/o intercettate.

Rimanete vigili“.

 

 

 

 

La vendetta per il raid su Kiev:

 dagli Usa il via libera a Zelensky

per attacchi a lungo raggio.

 

Today.it -Mondo -Redazione – (29 settembre 2025) – ci dice:

Due morti vicino a Mosca durante un attacco di droni ucraini.

Vasti blackout nella regione russa di Belgorod dopo un raid a una centrale termoelettrica.

L'inviato Usa Keith Kellogg: "Per Trump non ci sono santuari"

Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky aveva promesso conseguenze per Mosca dopo il sanguinoso raid russo su Kiev.

 E dopo neppure 24 ore dalla pioggia di droni e missili sulla capitale ucraina è stata la città russa di Belgorod, capoluogo della omonima regione di confine, a subire un attacco che ha provocato un vasto blackout.

Obiettivo del raid, avvenuto nella serata di domenica 28 settembre, una centrale termoelettrica e alcune sottostazioni.

 

Oggi due persone - una donna di 76 anni e suo nipote di 6 anni - sono invece morte a Voskresensk, vicino a Mosca a causa di un incendio in un'abitazione privata, scoppiato durante attacchi con droni delle Forze Armate ucraine.

 La notizia arriva a poche ore dal via libera degli Stati Uniti all'uso dei sistemi d'arma occidentali per colpire in profondità il territorio russo.

 

Trump: "Non ci sono santuari".

Per il presidente americano Donald Trump "non ci sono santuari".

Lo ha dichiarato l'inviato speciale degli Stati Uniti in Ucraina Keith Kellogg in una intervista alla rete statunitense Fox News.

 La scorsa settimana il presidente ucraino Volodymyr Zelensky negli Stati Uniti per l'assemblea generale dell'Onu aveva chiesto a Trump di fornire a Kiev missili da crociera a lungo raggio Tomahawk.

E il vicepresidente americano JD Vance ha confermato che gli Stati Uniti stanno "valutando" la possibilità di questa ulteriore fornitura militare a Kiev "mentre Mosca continua a rifiutare i colloqui di pace bilaterali e trilaterali mediati da Trump".

 

 

Intanto le autorità russe hanno arrestato a Sebastopoli, nella Crimea occupata da Mosca, una donna che lavorava come chef in un ristorante locale e progettava di avvelenare i soldati impiegati nella difesa aerea.

Secondo le accuse la donna collaborava con l'intelligence ucraina e avrebbe fornito a Kiev foto del dispiegamento delle navi della flotta del Mar Nero, che le forze armate ucraine hanno poi utilizzato per pianificare attacchi missilistici.

 

 

 

 

Oltre il veto -L’Unione europea

lavora per superare l’unanimità.

Linkiesta.it – (28 agosto 2025) – Redazione – ci dice:

 

Al consiglio informale di Copenaghen i ministri degli Esteri mettono in agenda i “metodi di lavoro” del Consiglio Affari Esteri. Sul tavolo l’ipotesi di abbandonare l’obbligo di un consenso condiviso da tutti in politica estera e sicurezza, che rischia di paralizzare un’Ue sempre più ampia.

Superare il meccanismo dell’unanimità per contare di più nello scacchiere internazionale.

 È l’obiettivo che i ministri degli Esteri dell’Unione europea proveranno a perseguire al “Gymnich di Copenaghen”, l’incontro informale del 29-30 agosto organizzato dalla presidenza danese.

La notizia l’ha data il Sole 24 ore in un articolo di “Angelica Migliorisi”.

 

All’ordine del giorno ci saranno i “working methods” del Consiglio Affari Esteri, vale a dire l’esplorazione di ipotesi per superare l’unanimità, che regge la Politica estera e di sicurezza comune (Pesc) e spesso rallenta decisioni cruciali.

 

La regola del veto, nata per proteggere la sovranità nazionale, è sempre più percepita come un freno:

lo si è visto sulle sanzioni contro la Russia, spesso rallentate da governi riluttanti come quello ungherese, e sulle prese di posizione sul conflitto in Medio Oriente, dove le divergenze hanno annacquato dichiarazioni comuni.

«La regola del veto, nata per proteggere la sovranità nazionale, è sempre più percepita come un cappio che rallenta decisioni cruciali», scrive il Sole 24 ore.

 

Il quadro giuridico è chiaro:

l’articolo 31 del Trattato sull’Unione europea stabilisce che le decisioni della Politica estera e di sicurezza comune sono prese all’unanimità, salvo eccezioni specifiche.

Il Trattato di Lisbona ha introdotto valvole di flessibilità, come l’astensione costruttiva, che permette a uno Stato di non partecipare formalmente a una decisione senza bloccare gli altri, e il freno d’emergenza, che rinvia al Consiglio europeo questioni considerate vitali per un Paese.

C’è anche la possibilità, tramite l’articolo 31 paragrafo 3, di estendere la maggioranza qualificata in alcuni ambiti, ma richiede comunque consenso unanime: una porta teorica mai davvero percorsa.

 

La cultura dell’unanimità ha radici profonde.

La crisi della sedia vuota del 1965, con Charles De Gaulle che bloccò i lavori del Consiglio per tutelare la politica agricola francese, dimostrò come il timore di perdere sovranità potesse paralizzare l’Unione.

Il successivo “Compromesso di Lussemburgo” conferì un diritto di veto informale a ogni capitale.

Con Maastricht e Amsterdam, e più tardi con il compromesso di Ioannina del 1994, la “Pesc” si è strutturata attorno a una negoziazione permanente che mantiene viva la regola unanimistica, creando un sistema stratificato che spesso rallenta le decisioni.

 

Oggi la situazione spinge verso il cambiamento.

Con gli allargamenti previsti verso Ucraina, Moldavia, Georgia e Balcani occidentali, un’Unione a trenta o più membri non potrebbe più funzionare con le regole attuali:

 ogni nuovo ingresso moltiplicherebbe i veti, allungando i tempi decisionali già oggi insostenibili.

Nel 2023, uno studio del “Servizio Ricerca del Parlamento europeo” ha parlato del “costo della non-Europa” in politica estera:

ritardi e divisioni che indeboliscono la credibilità internazionale e offrono terreno fertile ai rivali.

La maggioranza qualificata è già norma in settori come il mercato interno, l’agricoltura, la concorrenza e le politiche ambientali:

serve il cinquantacinque per cento degli Stati che rappresentino almeno il sessantacinque per cento della popolazione.

Come sottolinea il Sole 24 Ore, «applicare la maggioranza qualificata alla “Pesc” significherebbe trasformare una cooperazione intergovernativa in un sistema più simile a una postura federale».

 

Le cronache confermano l’urgenza.

L’ultimo pacchetto di sanzioni alla Russia ha richiesto trattative estenuanti con Slovacchia e Malta per superare i veti.

Anche il maxi-pacchetto di aiuti a” Kyjiv “è passato solo dopo un lungo braccio di ferro.

Questi casi mostrano come la regola dell’unanimità rallenti l’azione europea e dia l’impressione di esitazione a partner e avversari internazionali.

 

Il fronte riformatore è guidato da Germania e Francia, con l’appoggio di Italia, Spagna, Paesi Bassi e diversi Paesi nordici e baltici.

 All’opposto, l’Ungheria e altri Stati più piccoli difendono il veto come garanzia di legittimità interna e strumento di leva politica, temendo che la maggioranza qualificata trasformi l’Unione in una piattaforma dominata dai grandi.

A Copenaghen si aprirà un confronto complesso:

un primo passo verso decisioni più rapide e incisive, ma senza compromettere l’equilibrio tra sovranità nazionale e azione comune.

A Copenaghen Costa cercherà

di aggirare l’ostacolo unanimità

per l’adesione dell’Ucraina all’UE.

Eunews.it – Emanuele Bonini – (29 settembre 2025) – ci dice:

Il presidente del Consiglio europeo discute con i leader come cambiare le regole per aprire i capitoli negoziali a favore di Kiev.

I nodi giuridici non mancano, ma neppure la sensazione di potercela fare.

Ucraina Adesione Ue.

Bruxelles – Superare il veto dell’Ungheria e avviare davvero il processo di adesione dell’Ucraina all’UE aggirando l’ostacolo dell’unanimità: il vertice informale dei capi di Stato e di governo di mercoledì (1° ottobre) diventa un banco di prova tutto politico per un’Unione europea decisa a mantenere le promesse fatte al partner ucraino. Il presidente del Consiglio europeo, Antonio Costa, proverà a convincere i leader a modificare il diritto consuetudinario per mandare un segnale chiaro alla Russia di Putin circa l’avvenire di Kiev.

 

Fonti altamente qualificate assicurano che uno dei punti caldi del dibattito sull’Ucraina riguarderà per l’appunto la possibilità di cambiare le regole sui capitoli negoziali.

L’obiettivo è aggirare i veti dei Paesi, nello specifico quello ungherese, e magari provare a cambiare l’ordine dei capitoli negoziali da aprire.

Non si ci si sbilancia, però “se Costa avesse visto che non ci sono margini per superare l’ostacolo dell’unanimità non si sarebbe speso, quindi ha la percezione che possa essere possibile“, si ragiona a Bruxelles.

Certo, i nodi giuridici non sono pochi.

 Per quanto vago sia, l’articolo 49 dei trattati che regola l’allargamento dell’UE con l’adesione di altri Paesi prevede unanimità, ma la formula è comunque poco articolata, e questo lascia spazio a interpretazioni di diritto.

 La Commissione europea ha già proposto una rivisitazione giuridica con la comunicazione di marzo 2024, in cui sostiene che “si potrebbe valutare la possibilità di conferire al Consiglio il potere di decidere a maggioranza qualificata per alcune fasi intermedie del processo di allargamento“.

Una siffatta decisione, sarebbe peraltro “in linea con la richiesta del Consiglio europeo di accelerare il processo di adesione”, recita la stessa comunicazione di oltre un anno fa.

La linea dell’esecutivo comunitario non è cambiata, tanto che oggi (29 settembre) il portavoce responsabile per l’”Allargament”, “Guillaume Mercier”, ha ribadito che questa possibilità per il Consiglio andrebbe esplorata, per ragioni non solo politiche ma pratiche:

 “Quando un Paese viene bloccato senza ragioni oggettive, nonostante soddisfi i criteri, la credibilità dell’intero processo di allargamento è a rischio,“ afferma in relazione al processo di adesione dell’Ucraina.

Per la Commissione europea il Paese soddisfa i criteri e merita di vedersi aprire il cluster 1 “senza indugio” come peraltro già raccomandato, e dati i progressi registrati “non c’è motivo per opporsi”, sottolinea “Mercier.”

 

L’UE dunque è al centro di una questione di credibilità, e cambiare abitudini potrebbe aiutare.

La prassi di aprire i capitoli negoziali tutti insieme è per l’appunto una pratica non scritta.

È una consuetudine, e la consuetudine è la fonte di diritto non scritta per eccellenza. Basta cambiare comportamenti, quindi.

È su questo che gioca Costa, ed è su questo che si gioca il vertice dei leader.

 

Attenzione, però: intanto il processo rischia di prendere tempo. Anche qualora i servizi giuridici di Commissione e Consiglio dovessero sbrigarsi si tratterebbe comunque di mesi, e comunque non sarebbero da escludere ricorsi in Corte di giustizia.

 In secondo luogo la Commissione europea, che è guardiana dei trattati e per questo deve farli rispettare, ridimensiona il cambio di passo: Mercier chiarisce che la maggioranza qualificata potrebbe essere usata per permettere l’apertura dei capitoli negoziali, salvo aggiungere che “la chiusura dei capitolo negoziali dovrebbe continuare all’unanimità degli Stati membri”.

In sostanza il veto ungherese verrebbe solo spostato ma non eliminato, ma questa eventualità è comunque utile all’UE per avviare i negoziati come promesso e far sapere a Mosca che l’Ucraina è ormai nella sfera d’influenza europea.

Anche per questo Costa ci prova. “

Non ha ricevuto ‘no’ espliciti dai leader”, nel corso del suo tour per le capitali europee effettuato per preparare il vertice informale, e questa assenza di resistenze viene letta come un buon auspicio.

“Il vertice di Copenaghen serve per capire meglio” che direzione saprà prendere l’UE, e magari preparare il terreno per il vertice del 20 e 21 ottobre, quello formale, dove conclusioni andranno prese.

 

 

 

GIOVANI SENZA SCOPO: QUANDO DIO

È MORTO E IL VUOTO DIVENTA DESTINO.

Inchiostronero.it - Redazione Inchiostro nero – (01 -10 -2025) – ci dice:

 

Nietzsche, Heidegger e Camus di fronte al disagio delle nuove generazioni.

Tra nichilismo e ricerca di senso.

Il crescente smarrimento dei giovani non è solo una questione sociale, ma affonda le radici in una crisi filosofica profonda.

Con la morte di Dio annunciata da Nietzsche, è venuto meno ogni fondamento ultimo;

ciò che resta è il nichilismo, ossia “l’assenza di scopo, la mancanza di risposta al perché” (Heidegger).

Camus, osservando lo stesso abisso, parlava dell’“unico problema filosofico veramente serio: il suicidio”.

 In questo vuoto si muovono le nuove generazioni, attratte da surrogati effimeri ma incapaci di trovare senso.

La sfida, allora, è trasformare il nichilismo in occasione creativa:

assumersi la responsabilità di forgiare nuovi valori, per non soccombere a un mondo che, senza trascendenza, rischia di diventare ostile alla vita stessa.

Tra nichilismo e ricerca di senso.

Giovani senza scopo: quando Dio è morto e il vuoto diventa destino.

Nietzsche, Heidegger e Camus di fronte al disagio delle nuove generazioni.

 

La morte di Dio e l’ombra del nichilismo.

 

Le società occidentali hanno rimosso l’idea di un senso “oltre” la vita materiale. La fede religiosa, i grandi ideali collettivi o le utopie politiche che davano orizzonte alle generazioni passate si sono sgretolati.

Rimane il vuoto.

 

Nietzsche, nel celebre aforisma de “La gaia scienza”, annunciò la morte di Dio.

Non era una provocazione ateistica, ma la constatazione che i valori supremi dell’Occidente avevano perso forza normativa.

Con Dio tramontava l’orizzonte di senso condiviso, lasciando l’uomo solo di fronte al compito di dare significato alla propria esistenza.

Per Nietzsche, il nichilismo è “la svalutazione dei valori supremi”, un deserto in cui tutto appare privo di scopo.

Oggi questo deserto lo abitano soprattutto i giovani, che avvertono con urgenza l’assenza di direzione e il peso del vuoto.

Nietzsche, però, offriva anche un’altra via:

il “superuomo” come colui che crea valori nuovi al posto di quelli crollati.

Forse la sfida per i giovani di oggi è proprio questa:

non rassegnarsi al nichilismo, ma trasformarlo in una spinta creativa.

 

Heidegger: il nichilismo come destino dell’Occidente.

Heidegger definì il nichilismo come “l’assenza di scopo, la mancanza di risposta al perché”.

Non una semplice malattia culturale, ma il destino stesso della civiltà occidentale, che ha ridotto l’essere a pura disponibilità tecnica.

In un mondo dominato dall’efficienza, tutto diventa mezzo e nulla resta come fine. Per i giovani ciò si traduce in una vita fatta di strumenti – smartphone, reti sociali, intelligenza artificiale – che promettono connessione ma non colmano il bisogno di significato.

L’“esserci” (Dasein) rischia così di ridursi a sopravvivenza anonima, senza autenticità né trascendenza.

 

Camus e l’assurdo della vita.

Albert Camus apriva Il mito di Sisifo con parole sconvolgenti:

 “Vi è un solo problema filosofico veramente serio: il suicidio”.

Di fronte all’assurdo, ossia allo scarto tra il bisogno umano di senso e il silenzio del mondo, l’uomo può cedere o ribellarsi.

Camus rifiutava tanto la fuga religiosa quanto il nichilismo distruttivo:

 la sua risposta era una rivolta lucida, una fedeltà alla vita anche senza fondamenti ultimi.

È forse questa la sfida che oggi si ripropone ai giovani:

 imparare a vivere con l’assurdo, senza smarrire dignità né speranza.

Il vuoto contemporaneo: surrogati e illusioni.

Nell’epoca della sovrabbondanza materiale, la mancanza di scopo diventa ancora più paradossale.

La società dei consumi offre surrogati del senso: successo, carriera, divertimento, dipendenze.

Ma nessuno di questi tocca il cuore dell’inquietudine.

Heidegger parlava del dominio dell’“inautentico”, dell’esserci che si lascia guidare dal “si dice” e dal “si fa”.

 Così i giovani, bombardati da modelli effimeri e standardizzati, finiscono per aderire a un’esistenza prefabbricata, senza mai misurarsi con le domande radicali: chi sono? perché vivere? verso cosa orientarmi?

 

Trasformare il nichilismo in possibilità.

Nietzsche intravide, tuttavia, una via d’uscita:

 dal deserto può nascere un nuovo inizio.

Il compito del “superuomo” è proprio quello di creare valori nuovi, non ereditati ma forgiati nell’esperienza.

Se Dio è morto e i vecchi ideali sono crollati, non resta che assumersi la responsabilità di inventare scopi, di ridare forma al mondo.

 In questo senso, la crisi dei giovani non è solo tragedia, ma anche occasione:

un appello a non soccombere al vuoto, ma a trasformarlo in campo di possibilità.

È questa, forse, l’unica speranza di un’epoca segnata dal nichilismo:

che le nuove generazioni trovino il coraggio di reinventare il senso stesso del vivere.

 

Il Male protagonista – In mancanza di una prospettiva di bene condiviso, spesso a emergere è il contrario: violenza, sopraffazione, culto dell’apparenza, cinismo.

Non è il Male metafisico dei teologi, ma quello pratico e quotidiano che si infiltra nelle relazioni, nelle dipendenze, nel consumismo spinto fino all’autodistruzione.

I giovani respirano questo clima e, non trovando alternative credibili, oscillano tra l’adattamento passivo e la fuga nel nulla:

 dipendenze, autolesionismo, talvolta il suicidio.

Conclusione.

In questo senso, la crisi dei giovani non è soltanto tragedia, ma anche occasione: un appello a non soccombere al vuoto, ma a trasformarlo in campo di possibilità.

 È questa, forse, l’unica speranza di un’epoca segnata dal nichilismo: che le nuove generazioni trovino il coraggio di reinventare il senso stesso del vivere.

“Bisogna immaginare Sisifo felice.” (Camus)

La vita reale non è un videogioco.

(Le sfide concrete dei giovani di oggi).

 

Lavoro e precarietà

I giovani dovranno affrontare mercati del lavoro radicalmente trasformati: mestieri che scompaiono, altri che nascono, tutti resi incerti dall’automazione e dall’intelligenza artificiale.

La stabilità di un tempo sembra irraggiungibile; ciò che servirà sarà la capacità di apprendere continuamente e di reinventarsi.

Crisi ambientale e climatica.

Il pianeta che erediteranno non è neutro, ma segnato da decenni di sfruttamento. La crisi climatica rischia di condizionare scelte di vita, migrazioni e conflitti, ma può diventare anche terreno di impegno e di nuove forme di responsabilità collettiva.

Identità e salute mentale.

Mai come oggi la solitudine, le dipendenze digitali e il malessere psicologico colpiscono le nuove generazioni.

 Senza comunità solide e senza punti di riferimento, il rischio è che il nichilismo diventi disperazione.

La cura della mente e del cuore diventerà decisiva tanto quanto quella del corpo.

 

Nuovi valori e trascendenza.

Se Dio è morto, come annunciava Nietzsche, resta ai giovani il compito di inventare nuovi valori e nuove forme di trascendenza.

Non si tratta solo di religione, ma di creare ideali e fini condivisi – dalla giustizia sociale alla custodia del pianeta – capaci di dare direzione e senso all’esistenza.

 

Un bivio.

Il futuro non è predeterminato.

Le nuove generazioni potranno lasciarsi inghiottire dal vuoto e dalla rassegnazione, oppure trasformare la crisi in un’occasione di rinascita.

La scelta è se essere spettatori passivi di un declino o protagonisti di un nuovo inizio fondato su senso, responsabilità e speranza.

 

 

“UCRAINA, LA RUSSIA

COLPISCE I SOLDI DELLA NATO.”

 Inchiostronero.it - Redazione Inchiostro nero – (01-10-2025) – ci dice:

Ucraina, il fronte invisibile.

Mosca colpisce le fabbriche NATO, ma i media giocano alla caricatura.

(Il Simplicissimus).

 

Mentre il Corriere della Sera gioca a fare satira involontaria descrivendo Putin come un “dittatore comunista”, la Russia passa dalle parole ai fatti:

distrutte numerose infrastrutture militari legate alla NATO in Ucraina, inclusi impianti di produzione di droni e almeno cinque F16.

 Un’operazione chirurgica che smaschera la nuova aggressività dell’Alleanza Atlantica e rivela, ancora una volta, quanto siano mediocri e controproducenti i sistemi di difesa occidentali.

Ma nel teatrino della propaganda, anche le carcasse dei missili finiscono per diventare narrativa: quella in cui i carnefici si travestono da vittime. (Nota Redazionale)

 

Il Corriere della Sera dice ai suoi lettori che Putin è un dittatore comunista, com’è d’uso per un giornale satirico che i suoi lettori e persino i suoi redattori prendono invece sul serio, dimostrando così il livello a cui è giunta quella che una volta si chiamava la buona borghesia italiana.

Non dice invece, assieme ai confratelli dell’ordine giornalistico “Fate male fratelli”, che Putin va ascoltato con molta attenzione.

Qualche tempo fa il presidente russo aveva detto che se i Paesi della Nato avessero creato in Ucraina nuove fabbriche di armi, esse sarebbero state distrutte.

E il monito si è trasformata in realtà:

 è stata completamente azzerata la fabbrica di droni sentinella che i tedeschi avevano impiantato in una delle officine attorno al complesso Antonov, quello che ai tempi dell’Unione sovietica produceva l’aereo da trasporto più grande del mondo.

Si tratta di un cambiamento di strategia da parte russa che risponde alla nuova ondata di aggressività delle Nato e al suo tentativo di aggirare il problema del trasporto di armi in Ucraina, installando stabilimenti direttamente in loco.

 

Ma non si tratta solo di questo stabilimento:

 decine di fabbriche legare alla Nato in numerose località sono state colpite e distrutte, assieme a un certo numero, dai 5 ai 6, di F16 nell’aeroporto di Starokonstantinov.

Naturalmente l’Alleanza Atlantica”, com’è suo inveterato costume, non bada molto alle vittime civili e così le fabbriche di armi sono situate, di proposito, in mezzo alle città in modo da rendere più problematico colpirle.

Ma missili e droni russi sono piuttosto precisi e raramente danneggiano strutture civili:

 a fare vittime è piuttosto la contraerea ucraina i cui missili finiscono per cadere sulle case dopo aver colpito l’aria.

I cittadini ucraini hanno prodotto fino ad ora centinaia di migliaia, se non milioni di foto che raffigurano i resti di tali missili, dei Patriot in particolare, disseminati sulle strade e in qualche caso caduti anche sulle case e su ospedale.

Poco male, è tutta carne al fuoco per la propaganda antirussa:

è molto facile per i carnefici trasformarsi in vittime, come hanno tentato persino di fare i sionisti, la cui strage era sotto gli occhi di tutti.

Con il piccolo particolare che i missili ricadono sulla città quando non colpiscono i loro obiettivi e dunque alla fine si tratta di carcasse che narrano soprattutto la mediocrità dei sistemi di difesa occidentali.

Ad ogni modo questa nuova strategia russa, di passare dal colpire le infrastrutture energetiche e militari ucraine, alle vere e proprie fabbriche di armi, ha un significato che va al di là dell’ovvia distruzione della residua capacità militare ucraina, ma punta a colpire gli interessi economici che tengono viva la guerra al di là di ogni ragionevolezza.

Negli ultimi due anni parecchie industrie, soprattutto tedesche e francesi, ma anche britanniche e statunitensi hanno investito in fabbriche di armi in ucraina, soprattutto volte alla realizzazione di droni e rischiano ora di ritrovarsi con un mucchio di macerie.

Dunque, il nuovo verso della guerra da parte dei russi è quella di scoraggiare chi pensasse di speculare sull’ucraina e di demolire assieme alle fabbriche, anche quell’atmosfera favorevole alla guerra che è anche frutto di questi investimenti.

Insomma Putin che non è un dittatore comunista come dicono i venditori di balle all’ingrosso, sta dicendo agli occidentali:

 l’Ucraina non è un posto dove potrete fare soldi fomentando un’inutile strage.

 Ma come si desume anche alla distruzione del “centro logistico Nato” di Vinnitsa, avvenuto due giorni fa, Mosca non ha più alcuna prudenza nel colpire le strutture dell’Alleanza.

Ora che la pace sembra più lontana e l’accanimento della Nato non ha più ritegno nel sostegno della guerra, non c’è ragione di non colpire strutture che di ucraino hanno solo il nome.

È certamente un argomento molto più efficace di tutti quelli proponibili per porre fine al conflitto.

 Del resto, l’unica strategia della Nato è ormai quella di colpire le città russe, di portare attacchi sotto falsa bandiera, di importare mercenari di cui intero battaglione è stato sgominato proprio l’altro giorno.

Ma alla fine, persa la guerra, la Nato perderà anche la sua guerriglia.

 

 

«LA TRASMUTAZIONE DEI DESIDERI

 IN DIVIDENDI»

 Inchiostronero.it - Redazione Inchiostro nero – (30-09 -2025) – ci dice:

 

ANTROPOLOGIA -FILOSOFICA -CULTURA.

Quando la magia smise di guarire e cominciò a servire.

Dal sacro vissuto al profitto ritualizzato: storia di un’anima esiliata.

Un tempo, il desiderio era ponte tra l’umano e il divino.

Oggi è carburante per l’economia.

Questo saggio esplora la trasformazione silenziosa ma radicale dei sistemi simbolici e religiosi:

dalla magia sciamanica come esperienza incarnata del mistero, alla liturgia svuotata della magia cerimoniale, fino all’odierna mercificazione dell’energia desiderante.

L’anima, privata dei suoi strumenti simbolici e mitici, è stata respinta nell’ombra — dove oggi giace, frammentata e smarrita, mentre il desiderio, ridotto a bisogno, viene contabilizzato in dividendi.

 

Il passaggio dalla magia naturale primordiale (sciamanica) alla magia cerimoniale (sacerdotale) spinse l’anima nell’ombra, causando la perdita di molti mezzi di ordine spirituale.

Un tempo intrisi di autentica sacralità, i culti si trasformarono in una sequela di gesti meccanici e parole recitate a memoria.

Ma ugualmente i popoli – sempre più ignoranti – continuarono a credere, a obbedire, e infine a desiderare… ciò che veniva loro detto di desiderare.

Così, il sacro divenne spettacolo, il rito divenne profitto, e il desiderio si trasmutò in dividendo.

L’esilio del desiderio:

«La salvezza non dipende da altri, ma da noi stessi.»

(Senofonte, Anabasi, III.2.39)

Un tempo, il desiderio era un richiamo sacro.

Non un bisogno da soddisfare, ma una soglia da varcare.

 Era ciò che spingeva l’essere umano a viaggiare tra mondi — visibili e invisibili — a interrogare il cielo, a parlare con gli spiriti degli alberi, a danzare attorno al fuoco come atto cosmico e curativo.

Desiderare significava partecipare a un mistero.

Poi qualcosa è cambiato.

Nel lungo processo che ha portato l’uomo dalla magia naturale alla magia cerimoniale, dalla rivelazione alla ripetizione, il desiderio ha cominciato a perdere la sua anima.

Svuotato del suo contenuto mitico, è diventato funzione.

E infine, formula.

Il fuoco del rito è stato sostituito dal neon del supermercato.

La preghiera dal click.

La soglia dal codice a barre.

«L’uomo moderno non ha perduto la capacità di desiderare, ha solo smesso di comprenderne il linguaggio.»

(Jung, seminari inediti, 1933).

 

Ma tutto è avvenuto lentamente, quasi impercettibilmente.

 E proprio per questo, in profondità.

Nel momento in cui il desiderio ha smesso di orientare l’anima verso il sacro, ha cominciato a subire un processo di trasmutazione silenziosa.

Come in una formula alchemica rovesciata, ciò che prima serviva all’elevazione ora viene impiegato per la distrazione, il controllo, la produzione.

Il desiderio oggi non è più una chiamata. È una leva.

Una leva economica.

«Il capitalismo non è che un’operazione alchemica degenerata, dove l’oro spirituale è stato ridotto a profitto bancario.»

(Ernst Jünger, Trattato del ribelle).

In questa nuova religione dell’economia globale, non è più importante perché desideri, ma quanto puoi pagare per farlo.

Magia naturale vs. magia cerimoniale.

Dal mistero vissuto al potere ritualizzato.

 

«Il mago primitivo non si sentiva signore della natura: si sentiva parte di essa, dentro la sua anima e la sua voce.»

(Mircea Eliade, Trattato di storia delle religioni).

 

All’origine, la magia non era dominio. Era partecipazione.

Nella magia naturale, lo sciamano non imponeva la sua volontà al mondo: si faceva tramite, ponte tra le forze del visibile e quelle del misterioso.

Non c’era separazione tra gesto, corpo, spirito e ambiente.

Il rito era danza, medicina, visione. Era una liturgia viva, generata nel momento, in risposta a un bisogno reale della comunità.

E soprattutto, era esperienza.

Ma con il tempo — e con l’avvento delle religioni organizzate — questa forma primordiale di sacralità è stata progressivamente sostituita da un modello sacerdotale, verticale, gerarchico.

Il mistero non veniva più attraversato, ma amministrato.

 

La magia cerimoniale, nata nelle corti dei re e nei templi degli dèi intermediari, trasformò il rito in codice, il simbolo in formula, l’invocazione in protocollo.

Il sacerdote prese il posto dello sciamano.

E il sacro divenne territorio recintato, protetto da lingue morte, dogmi inaccessibili e poteri intermediari.

 

«La decadenza dei riti è la decadenza di un popolo: perché significa che non si parla più con gli dèi.»

(René Guénon, Il regno della quantità)

 

La magia naturale curava, rivelava, riconnetteva.

La magia cerimoniale gestisce, separa, istituzionalizza.

Dove prima c’era estasi, ora c’è ordine.

Dove prima c’era comunione, ora c’è autorità.

Dove prima c’era l’esperienza diretta del numinoso, ora c’è l’intermediazione del potere.

E così, in questo passaggio epocale, l’anima è stata spinta nell’ombra.

 

«L’anima non è scomparsa. È stata esiliata. E aspetta, nel sogno, nel sintomo, nel silenzio.»

(Carl Gustav Jung, Tipi psicologici)

Questo esilio ha un prezzo: abbiamo perso i simboli che parlavano alla psiche profonda. Abbiamo disimparato a guarire attraverso il mito, la danza, la voce.

Eppure, continuiamo a desiderare. Ma senza sapere cosa.

E soprattutto: senza sapere perché.

Il desiderio come forza spirituale.

Dalla mancanza divina al carburante dell’anima.

 

«Δαιμονίων δὲ ἐστὶ τὸ ἐρᾶν — Desiderare è una cosa da spiriti intermedi

(Platone, Simposio, 202d)

In molte tradizioni antiche, il desiderio non è un difetto, ma un ponte.

Un impulso che nasce dalla consapevolezza della propria incompletezza, e che proprio per questo ci spinge verso la totalità.

Il desiderio, dice Platone nel “Simposio”, non appartiene agli dèi (che sono già completi), né agli ignoranti (che ignorano il proprio vuoto): appartiene a chi sa di mancare, e perciò cerca.

È la via del filosofo, del mistico, del poeta.

 

«Il desiderio è il demone che collega il finito all’infinito.»

(Pierre Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica)

 

Nel pensiero junghiano, il desiderio è il linguaggio della psiche profonda.

Non è semplicemente libido, né mero appetito: è la voce degli archetipi, che chiedono di essere riconosciuti e incarnati nel mondo.

Ogni vero desiderio è una chiamata. Una forma mitica che bussa alla soglia della coscienza.

 

«Il desiderio è il messaggero dell’anima. Se non lo ascolti, si trasforma in sintomo.»

(C.G. Jung, Il Libro Rosso)

 

“James Hillman”, da parte sua, ci invita a “restare nel desiderio”, senza cercare di risolverlo subito.

Perché è nel tendere, non nell’ottenere, che si apre lo spazio simbolico del senso.

Il desiderio, dunque, non va consumato: va abitato.

Oggi, però, ci viene detto l’esatto opposto: che il desiderio è una frustrazione da spegnere, un’urgenza da soddisfare il prima possibile.

Ogni ritardo è dolore. Ogni attesa è inutile.

Ma questa logica – la logica del consumo istantaneo – è ciò che ha rotto il legame fra desiderio e anima.

Abbiamo trasformato il desiderare in volere. E il volere in acquistare.

 

«Abbiamo ridotto il desiderio a bisogno, e il bisogno a budget.»

— (Detto contemporaneo, anonimo ma reale)

 

Il risultato? Una fame perpetua e senza volto.

Un’umanità che desidera senza sapere cosa cerca, e che possiede senza sapere cosa ha perduto.

 

L’economia del desiderio.

Dal fuoco sacro al motore del consumo.

 

«Il consumatore ideale è un desiderante perennemente insoddisfatto.»

(“Zygmunt Bauman”, Consumo, dunque sono)

 

Una volta svuotato di sacralità, il desiderio non ha smesso di agire.

Ha semplicemente cambiato direzione.

Ciò che prima era una forza spirituale, una tensione verso l’alto, è diventato un vettore orizzontale: una spinta verso l’acquisto, la performance, la gratificazione immediata.

Il desiderio non è stato represso. È stato convertito in carburante.

«Il capitalismo funziona come una macchina desiderante: cattura il desiderio, lo moltiplica, lo sfrutta

(“Byung-Chul Han”, Psicopolitica)

 

I miti sono stati sostituiti dai marchi.

I simboli, dai loghi.

Il fuoco iniziatico, dal display retroilluminato.

La pubblicità ha imparato a mimare il linguaggio del sacro, usando archetipi, narrazione, estetica rituale.

Ma anziché aprire un varco tra mondo e mistero, crea falsi bisogni che si esauriscono nel momento stesso in cui vengono soddisfatti.

 

«Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale mediato da immagini.»

(“Guy Debord”, La società dello spettacolo)

 

E così il desiderio si trasforma in ciclo infinito:

sentire una mancanza → colmarla con un prodotto → sentirsi vuoti di nuovo → ripartire.

Ma ogni giro di ruota consuma un po’ di più l’energia interiore, anestetizza il senso, atrofizza la volontà.

Non ci viene più chiesto di desiderare il bene, il vero, il bello.

Ci viene chiesto di comprare per esistere, consumare per sentirsi vivi.

 

«Il soggetto neoliberale è un soggetto performante. Il desiderio non è più un’eco dell’anima, ma una funzione del rendimento.»

 (“Byung-Chul Han”, La società della stanchezza)

 

Ed è qui che il desiderio si trasmuta in dividendo.

Ogni tuo click, ogni tuo “mi piace”, ogni tua scelta — reale o virtuale — genera valore.

Ma non per te.

Il capitalismo cognitivo e digitale ha realizzato ciò che nessuna religione aveva mai osato: monetizzare il desiderio umano in tempo reale.

E mentre tutto questo accade, la parola “desiderio” continua a fluttuare nella nostra cultura — svuotata, decorativa, manipolata — come una reliquia privata del suo nume.

 

Popoli senza simboli: il vuoto mascherato.

La spiritualità come surrogato, l’anima come assente.

«Il grande problema del nostro tempo è che l’anima ha perduto i suoi strumenti di orientamento.»

(“James Hillman, Il codice dell’anima).

 

Una cultura che perde i suoi simboli è una cultura che non sa più chi è.

Senza simboli, non esistono soglie. Non esistono riti di passaggio, né mappe per l’interiorità.

Il desiderio si spegne o impazzisce, perché non ha più dove andare.

Così oggi, nel vuoto lasciato dal sacro, affiora una spiritualità da centro commerciale.

Un’esperienza anestetizzata del trascendente: addomesticata, neutra, vendibile.

Yoga per ridurre lo stress. “Mindfulness” per aumentare la produttività.

Cristalli per dormire meglio. Tarocchi per il weekend.

Ma nulla che davvero sconvolga. Nulla che trasformi.

 

«Il rito moderno è un gesto svuotato: si fa perché si deve, non perché ci si trasforma.»

(Carl Gustav Jung).

Il rito vero — quello sciamanico, iniziatico, tribale — non serviva a “stare bene”. Serviva a morire e rinascere.

A incontrare l’ombra, a sopportare la paura, a scendere nel profondo.

Oggi invece si rifugge tutto ciò che turba, che scuote, che brucia.

 

E intanto l’anima tace.

Non perché sia morta, ma perché non è più ascoltata.

 

«L’anima sopravvive nel non detto. E se non le diamo voce, ci parla col disagio, col sintomo, col vuoto.»

(“Hillman).

 

Viviamo così, come popoli senza simboli.

Assuefatti alla superficie, riempiti di stimoli, ma interiormente orfani.

E per non sentire quel silenzio, moltiplichiamo le voci, le immagini, le notifiche.

Ma nessuna di esse risponde davvero.

 

«Siamo un popolo che consuma tutto: anche i sentimenti, anche i corpi, anche Dio.»

(“Pier Paolo Pasolini”, Scritti corsari).

 

Nel deserto del sacro, il desiderio cerca ancora una forma, un’immagine, un nome.

Ma spesso trova solo il suo simulacro, confezionato, venduto, algoritmizzato.

Ritrovare l’oro interiore.

Non un ritorno, ma un risveglio.

 

«Per l’anima, è morte diventare acqua; per l’acqua, è morte diventare terra. Ma dalla terra nasce l’acqua, e dall’acqua l’anima.»

(“Eraclito”, Frammento 36 -DK)

 

Non si tratta di tornare allo sciamano, né di rifiutare il mondo moderno.

Il tempo non si riavvolge. Ma può trasmutarsi.

Come insegnavano gli alchimisti, ogni decadenza contiene un seme d’oro nascosto, e ogni ombra cela una possibilità di luce.

Il problema non è il desiderio.

Il problema è dimenticare cosa può diventare.

 

Ritrovare l’oro interiore non significa negare il corpo, il mercato o la tecnica.

Significa riaccendere la fiamma del senso dentro ogni gesto.

Fare un acquisto, ma con coscienza.

Celebrare un rito, ma con presenza.

Desiderare, ma chiedendosi da dove nasce quel desiderio e dove porta.

Non serve inventare nuovi culti.

Serve riscoprire il sacro nell’impermanente, nel quotidiano, nel profondo.

«Il vero rito non è ciò che si ripete. È ciò che si vive con attenzione, nel tempo sacro dell’anima.»

 (anonimo tradizione orale).

 

Ritrovare l’oro interiore è ascoltare il desiderio originario — quello che non chiede possesso, ma partecipazione.

Non ci renderà più ricchi, ma più presenti.

Non ci salverà dal sistema, ma da noi stessi svuotati.

Forse è tutto qui il compito del nostro tempo:

rimettere l’anima al centro, anche se il mondo continua a girare come se non esistesse.

E forse, come scriveva “Jung”,

 

«Nel profondo di ogni essere umano c’è un punto in cui vive il divino. Il nostro compito non è trovarlo, ma smettere di ignorarlo.»

Appendice – Cosa resta del desiderio?

 

«Abbiamo desiderato troppo, troppo in fretta, e ora non ricordiamo più perché.»

 (frammento contemporaneo)

 

Cosa rimane oggi del desiderio?

Dopo la sua trasmutazione in funzione, la sua manipolazione pubblicitaria, il suo sfruttamento algoritmico?

Rimane un impulso riflesso.

Un gesto automatico verso lo schermo, lo scaffale, lo sfogo.

Un desiderio indotto, consumato prima ancora di essere riconosciuto.

Non viene più da dentro, ma da fuori.

Non nasce da un vuoto esistenziale, ma da una strategia di marketing.

È un desiderio che non sa aspettare. Che brucia tutto al primo contatto.

Che non costruisce, non plasma, non trasforma.

È il contrario dell’iniziazione: è gratificazione istantanea, senza profondità.

Ma nel cuore di tutto questo rumore, qualcosa ancora resiste.

Un frammento. Una scintilla.

A volte si manifesta come noia, a volte come angoscia, a volte come senso di mancanza inspiegabile.

Non è depressione.

È desiderio non ascoltato.

 

«Quando il desiderio non può parlare, si traveste da inquietudine

(James Hillman).

Cosa ne resta, allora?

Resta la possibilità.

La possibilità di riconoscere il falso desiderio, di spegnere il rumore, di tornare a sentire davvero.

Non per tornare indietro.

Ma per andare sotto. In profondità. Dove il desiderio non è impulso, ma fuoco.

E forse, proprio lì, ritroveremo l’anima.

 

 

 

 

 

Il colpo di scena della saga Agnelli

e Edoardo legittimo erede:

chi ha ucciso il rampollo di casa Agnelli?

Lacrunadellago.net – (30/09/2025) – Cesare Sacchetti – ci dice:

 

Gli avvocati della famiglia Elkann devono aver avuto probabilmente un sussulto.

A Torino, è iniziato uno dei processi civili più importanti e decisivi della storia d’Italia, quello che vede contrapposta Margherita Agnelli, figlia di Gianni e Marella Caracciolo, e i suoi tre figli, John, Lapo e Ginevra.

 

Si potrebbe essere tentati dal liquidare la faccenda come una saga famigliare, una guerra fratricida tra parenti incompresi che si sono odiati per anni e adesso hanno deciso di portare le loro beghe in tribunale, ma in realtà lo scontro tra Margherita e i suoi figli riguarda la storia d’Italia.

La storia di questo Paese ha preso infatti una piega completamente diversa quando 25 anni orsono, l’avvocato, Gianni Agnelli, l’uomo che amava frequentare i salotti dei circoli mondialisti e che si sentiva spesso con il suo amico Henry Kissinger, decise che la FIAT, la creatura di suo nonno, non sarebbe andata ai suoi legittimi eredi, Edoardo e Margherita, ma a suo nipote, John Elkann.

 

Gli Agnelli uscivano di scena in quel momento per volontà dello stesso avvocato che aveva deciso probabilmente già molto tempo prima, negli anni’70 ai tempi del matrimonio tra sua figlia e John Elkann, che la FIAT sarebbe passata nelle mani di questa famiglia di origini ebraiche, imparentata con i potentissimi Rothschild.

C’era un disegno o una visione, per così dire, per questa grande azienda che avrebbe dovuto passare dalle mani di imprenditori italiani a quelli di spregiudicati finanzieri che avevano e hanno al primo posto della loro agenda non il bene comune che un’industria può creare, ma solo e soltanto il profitto.

Si vedono oggi i “frutti” della scellerata decisione di Gianni.

La sua volontà di passare l’azienda di famiglia agli Elkann ha di fatto de-italianizzato la FIAT, oggi fusa in una holding internazionale nella quale sono i francesi di Peugeot e Citroen a farla da padrone, e ha avviato la svendita di importanti asset del “gruppo Stellantis” come la “Comau”, gioiello della robotica, che John Elkann non ha esitato un momento a vendere agli americani di “One Equity Partners”, nelle mani della famigerata banca d’affari JP Morgan.

 

A casa Elkann, c’è la spregiudicatezza più assoluta.

Nulla importa dell’operaio che perde il suo posto di lavoro, e nulla importa che l’Italia perda la sua dimensione di potenza industriale, perché ciò che conta per i figli di Elkann è soltanto accumulare profitti e ridurre perdite, senza badare troppo ai cosiddetti “danni collaterali” che sono pagati ovviamente da coloro che non siedono alla tavola di questa famiglia.

Talmente è senza limiti la fame di profitti degli Elkann che sembra che purtroppo i tre abbiano anche intenzione di cedere altri due gioielli del marchio FIAT, come le leggendarie Alfa Romeo e Maserati, offerte entrambe agli emiri di Dubai.

 

Il testamento segreto di Gianni Agnelli: Edoardo legittimo erede.

Margherita però ha deciso che deve venire fuori la verità, insabbiata da quel tragico 15 novembre del 2000, quando scomparse il suo amato fratello, Edoardo, in circostanze a dir poco sospette come si dirà meglio in un istante.

Il dibattimento civile a Torino è appena iniziato, e già Margherita ha calato l’asso dalla manica.

I suoi avvocati infatti hanno presentato un testamento olografo di Gianni Agnelli, scritto dalla mano dell’avvocato che decideva nel 1998 di passare il 25% delle quote della sua società, la ormai nota “Dicembre”, nelle mani di Edoardo.

 

Esiste il testamento olografo di Gianni Agnelli.

Nel 1998 quindi Edoardo Agnelli era stato, seppur temporaneamente, nominato come l’erede dell’impero FIAT.

 

A lui sarebbero toccati gli onori e gli oneri di prendere sulle proprie spalle l’azienda di famiglia e di traghettarla nel XXI secolo, un secolo fatto di sfide, soprattutto dalla allora emergente globalizzazione che avrebbe sconvolto completamente gli equilibri economici e politici dell’Italia e dell’Europa Occidentale.

Sulle macerie del muro di Berlino, sorgeva un nuovo “ordine” economico nel quale gli scambi venivano liberalizzati e alla Cina veniva assegnato il ruolo di serbatoio delle merci a basso costo del pianeta.

Gli architetti di Davos e del club di Roma, i circoli tanto amati da Gianni Agnelli, avevano stabilito che l’Italia subisse una violenta deindustrializzazione iniziata nel 1992 e proseguita per gli anni a venire, soprattutto con l’ingresso nella moneta unica.

 

La FIAT doveva seguire una simile sorte.

Doveva passare dalla dimensione nazionale a quella internazionale, ed Edoardo non era l’uomo giusto per accompagnare una simile transizione.

Edoardo era un uomo certamente tormentato, ma era anche un’anima sensibile, estremamente colto e vicino al mondo dell’islam sciita in Iran, che agli occhi degli ambienti sionisti è considerato una sorta di bestia nera.

A destra, Edoardo Agnelli durante la preghiera islamica a Teheran.

La visione dell’economia del figlio di Gianni non era certo quella del materialismo più sfrenato, ma piuttosto quella che vede la morale indirizzare e dirigere l’economia.

La ricchezza non deve essere qualcosa di fine a sé stesso, ma qualcosa utilizzato per il bene comune, per far crescere un Paese e la sua industria, ovvero tutto ciò che la finanza speculativa vuole distruggere.

 

Edoardo così viene messo ai margini di Gianni, che forse nel 1998 aveva ancora qualche intenzione di lasciare a lui le redini dell’impero prima che la sua vita finisse tragicamente il 15 novembre del 2000.

Secondo quanto dichiarato dalla magistratura dell’epoca, che praticamente nemmeno fece un’indagine, Edoardo si sarebbe gettato dal ponte dell’autostrada Torino – Savona, nonostante nessuno lo abbia visto arrampicarsi sulla balaustra di una strada alquanto trafficata, e nonostante dopo un volo di quasi 80 metri il corpo del figlio di Gianni non presentasse fratture ed era praticamente intatto.

 

Vicino alla balaustra dalla quale la magistratura sostiene che Edoardo, dotato di bastone, si fosse arrampicato c’era la sua FIAT Croma, sulla quale però non c’era nemmeno un’impronta.

La FIAT Croma di Edoardo parcheggiata sul viadotto dell’autostrada Torino-Savona.

Qualcuno aveva cancellato tutte le impronte dall’auto, internamente ed esternamente, e già questa è la prova schiacciante che quel giorno qualcun altro agì su quella macchina per cancellare le tracce di quello che accadde veramente.

Ancora più surreale quanto accaduto alla villa di Edoardo, dove la ormai leggendaria DIGOS ha “dimenticato”, per così dire, di rilevare le immagini degli ultimi attimi di vita del 46enne che sulla carta sarebbe dovuto uscire da quei cancelli quella mattina per andarsi a lanciare nel vuoto, ma il video che dovrebbe far vedere Edoardo a bordo della sua Croma non c’è, forse perché quel giorno il figlio dell’avvocato non era da solo.

Sul greto del torrente Stura, finisce la vita di Edoardo e inizia invece quella degli Elkann che da quel preciso momento non hanno più alcun ostacolo per salire ai vertici della FIAT e iniziare così la tanto agognata internazionalizzazione dell’azienda.

Il raggiro degli Elkann contro Margherita.

Successivamente, dopo la morte di Gianni nel 2003 e quella di Marella nel 2019, si verificherà il raggiro del quale è stata vittima Margherita, la sorella di Edoardo, che mai ha creduto alla versione del suicidio.

Gianni mette tutto il patrimonio di famiglia nella citata” Dicembre”, ma alla sua morte le quote passano agli Elkann, e Margherita viene spogliata delle sue quote attraverso una donazione di sua madre, Marella, ai suoi tre nipoti, John, Lapo, e Ginevra.

 

Si tratta probabilmente di uno degli aspetti più laceranti e incredibili della intera vicenda.

Gianni e Marella avrebbero di fatto agito negli ultimi anni della loro vita per tagliare fuori dall’asse ereditario Margherita, dopo che Edoardo era già uscito di scena nel 2000, molto probabilmente ucciso da chi voleva consegnare a tutti i costi la FIAT nelle mani della famiglia Elkann, e dunque in quelle dei Rothschild.

Marella Agnelli.

Il testamento che ha mostrato Margherita apre però un nuovo fronte.

Prim’ancora che si consumasse il raggiro attraverso la cessione simulata delle quote della “Dicembre” in mano a Marella a favore dei tre Elkann per estromettere Margherita, ce ne sarebbe stato un altro alla morte di Edoardo.

Il testamento olografo di Gianni Agnelli non è mai venuto alla luce prima d’ora.

Se il testamento è valido, e non ci sono apparentemente ragioni perché non lo sia, allora le quote della “Dicembre” che l’avvocato aveva assegnato a suo figlio nel 1998 sarebbero dovute passare nelle mani di sua sorella, legittima erede della citata “Dicembr”e e di tutto il patrimonio che c’era in essa.

Il documento è uscito fuori nel corso della perquisizione del commercialista della famiglia Elkann, “Gianluca Ferrero”, che nella cantina della sua casa aveva sia le prove dello schema elaborato per estromettere Margherita dalla successione della Dicembre sia il testamento nascosto di Gianni.

 

Sembra che l’attuale presidente della Juventus volesse tenere a casa sua dei documenti altamente compromettenti, forse per avere una qualche polizza assicurativa nei riguardi degli Elkann, ma sta di fatto che a distanza di 25 anni si stanno chiudendo tutti i cerchi.

C’è stato con ogni probabilità un grosso raggiro ai danni di Margherita, ma giunti a tal punto allora bisognerebbe una buona volta riaprire le indagini, mai avvenute, della morte di Edoardo Agnelli.

Il piano per tagliare fuori dalla FIAT i due figli carnali di Gianni, Edoardo e Margherita, non è iniziato dopo la morte di Gianni Agnelli il 24 gennaio del 2003.

È iniziato il 15 novembre del 2000, quando Edoardo venne rinvenuto privo di vita sotto quel maledetto viadotto.

Chi voleva impossessarsi della FIAT voleva porre fine alla vita di Edoardo perché il figlio maschio di Gianni era considerato una minaccia troppo grossa per chi aveva stabilito che la potenza industriale dell’Italia dovesse finire.

In questa fase storica, tutto è possibile e forse si potrà finalmente fare luce anche sulla morte di Edoardo Agnelli.

Da quando è iniziata la guerra tra bande nell’establishment italiano, e da quando è iniziata la “faida tra gli Elkann e De Benedetti,” i fantasmi dimenticati del passato hanno iniziato improvvisamente a riemergere, e la magistratura immobile per anni, improvvisamente si è mossa.

 

A giudicare da questa continua escalation che vede protagonisti oligarchi sul piede di guerra e massonerie dilaniate da scismi, ne verranno fuori molti altri ancora.

Il crepuscolo della repubblica di Cassibile sembra essere diventato tramonto, e le teste di personaggi “eccellenti” iniziano a rotolare.

 

 

 

La lobby israeliana vuole che

Thomas Massei se ne vada.

Gli elettori obbediranno?

Unz.com - José Alberto Nino – (29 settembre 2025) – ci dice:

I coltelli sono puntati contro il deputato “Thomas Massei” (R-KY) e la sua sopravvivenza politica potrebbe dimostrare se il Congresso risponde ancora agli elettori americani o a una lobby straniera con denaro illimitato.

 

I mega-donatori repubblicani filo-israeliani hanno recentemente istituito il” super PAC MAGA Kentucky “con 2 milioni di dollari specificamente per estromettere “Massei”.

“ Paul Singer” ha contribuito con 1 milione di dollari, “John Paulson” ha aggiunto 250.000 dollari e il “PAC Preserve America” di “Miriam Adelson” ha fornito 750.000 dollari.

La “Coalizione Ebraica Repubblicana “ha promesso una spesa "illimitata" per la campagna elettorale se “Massei” si candida al Senato, con il “CEO Matt Brooks” che ha dichiarato che "se Tom massaie sceglie di candidarsi al Senato degli Stati Uniti in Kentucky, il budget della campagna del RJC per garantire la sua sconfitta sarà illimitato".

 

Anche il presidente Donald Trump si è gettato nella mischia, definendo “Massei” un " patetico perdente " che dovrebbe essere abbandonato "come la peste".

 Nel complesso, una costellazione di forze filo-sioniste si sta mobilitando a pieno regime per spodestare il politico non interventista più rigoroso del Congresso da quando “Ron Paul” si è ritirato nel 2013.

Per molti aspetti, “Massei” ha assunto il “ruolo di Paul”, sostenendo la sua moderazione in politica estera – un programma politico che non è mai stato ben accolto dall'ebraismo organizzato.

Il curriculum legislativo di “Massei” in politica estera parla da sé.

 

La lunga storia di “Massei” nel votare” contro l'interventismo” in politica estera.

Nel corso della sua carriera congressuale, “Massei” e si è affermato come il più coerente oppositore del consenso neoconservatore/neoliberista in politica estera.

La sua opposizione di principio alle guerre infinite e ai coinvolgimenti stranieri gli è valsa il soprannome di "Mr. No" – simile al suo predecessore “Ron Paul” – per aver spesso espresso voti dissidenti isolati contro gli interventi militari.

 

Nel 2013, “Massei” presentò il “War Powers Protection Act” per "bloccare gli aiuti militari non autorizzati degli Stati Uniti ai ribelli siriani".

Sostenne che "poiché i nostri interessi di sicurezza nazionale in Siria non sono chiari, rischiamo di dare denaro e assistenza militare ai nostri nemici".

Quando Obama cercò di armare i ribelli siriani nel 2014, “Massei” votò contro il piano, dichiarando che era "immorale usare la minaccia di una chiusura del governo per fare pressione sui membri affinché votassero a favore del coinvolgimento in una guerra, figuriamoci in una guerra civile dall'altra parte del mondo".

 

“Massei” si è costantemente opposto al coinvolgimento degli Stati Uniti nella guerra civile dello Yemen, co-sponsorizzando molteplici risoluzioni bipartisan per invocare la “War Powers Risoluzione” e "rimuovere le forze armate degli Stati Uniti dalle ostilità non autorizzate nella Repubblica dello Yemen".

Ha affermato che "il Congresso non ha mai autorizzato un'azione militare nello Yemen come richiede la nostra Costituzione, eppure continuiamo a finanziare e assistere l'Arabia Saudita in questo tragico conflitto".

 

La sua opposizione all'espansione della NATO si dimostrò altrettanto coerente.

Nel 2017, “Massei” è stato uno dei soli quattro membri della Camera a votare contro una risoluzione pro-NATO, spiegando che "la mossa di espandere la NATO nell'Europa orientale è imprudente e insostenibile", e tale espansione contraddiceva l'affermazione della campagna elettorale di Trump secondo cui "la NATO è obsoleta".

 

Per quanto riguarda la guerra russo-ucraina, “Massei” ha mantenuto la sua posizione non interventista, ricevendo un voto "F" dai repubblicani per l'Ucraina.

Si è opposto all'”Ukraine Democracy Defense Lend-Lease Act”, ai molteplici pacchetti di aiuti e agli sforzi per togliere i finanziamenti all'Ucraina.

“Massei” ha sostenuto che sostenere gli aiuti all'Ucraina era "economicamente analfabeta e moralmente carente,"dichiarando che "i contribuenti americani sono stati costretti a pagare il welfare a questo governo straniero".

 

Più di recente, nel giugno 2025, “massaie” ha presentato una risoluzione bipartisan sui poteri di guerra con il deputato” Ro Hanna “per "vietare alle forze armate degli Stati Uniti di partecipare non autorizzata" al conflitto israelo-iraniano.

Dopo gli attacchi di Trump agli impianti nucleari iraniani, massaie ha criticato l'azione come "non costituzionale", rimanendo l'unico co-sponsor repubblicano della risoluzione sui poteri di guerra.

La vena antisionista di “massei.”

Le posizioni politicamente più pericolose di Massei riguardano la sua costante opposizione alla legislazione filo-israeliana, che gli è valsa la distinzione di essere l'unico repubblicano che si oppone a numerose misure relative a Israele.

 

Nel luglio 2019, Massei ha espresso l'unico voto repubblicano contro una risoluzione che si opponeva al movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni.

La risoluzione è stata approvata con 398 voti a favore e 17 contrari , ma Massei ha difeso la sua posizione affermando di non sostenere "gli sforzi federali per condannare qualsiasi tipo di boicottaggio privato, indipendentemente dal fatto che il boicottaggio sia basato o meno su cattive intenzioni" e che "queste sono questioni che il Congresso dovrebbe lasciare agli Stati e al popolo la decisione".

 

Nel settembre 2021, Massei è stato l'unico repubblicano a votare contro un finanziamento di 1 miliardo di dollari per il sistema di difesa israeliano “Iron Dome”.

Ha spiegato che "la mia posizione di 'nessun aiuto estero' potrebbe sembrare estrema ad alcuni, ma penso che sia estremo mandare in bancarotta il nostro Paese e mettere le future generazioni di americani in debito con i nostri debitori".

Questo voto ha spinto l'”AIPAC “a pubblicare annunci su Facebook affermando: "Quando Israele ha dovuto affrontare attacchi missilistici, Thomas Massei ha votato contro “Iron Dome".

 

Forse il fatto più controverso è che il 18 maggio 2022 Massei ha espresso l'unico voto contro una risoluzione che condannava l'antisemitismo, approvata con 420 voti a favore e uno contrario.

 L'”American Jewish Committee” lo ha criticato, affermando che "mentre Democratici e Repubblicani erano uniti, il deputato Massei, che si è anche opposto alle proposte di legge sull'educazione all'Olocausto e sui finanziamenti per l'Iron Dome, ha deciso che combattere l'odio crescente non è importante".

Massei ha difeso il suo voto twittando che "un governo legittimo esiste, in parte, per punire coloro che commettono violenza immotivata contro gli altri, ma il governo non può legiferare sul pensiero".

 

Nell'ottobre 2023, Massei si oppose a un pacchetto di aiuti da 14 miliardi di dollari per Israele, dichiarando che "se il Congresso invia 14,5 miliardi di dollari a Israele, in media prenderemo circa 100 dollari da ogni lavoratore negli Stati Uniti.

Questi saranno sottratti attraverso l'inflazione e le tasse.

Sono contrario".

Quando l'”AIPAC” lo criticò, Massei rispose :

"L'AIPAC si arrabbia sempre quando metto l'America al primo posto. Non voterò nemmeno per il loro estorsione da oltre 14 miliardi di dollari ai contribuenti americani".

 

Il 25 ottobre 2023, Massei è stato l'unico repubblicano a votare contro una risoluzione che affermava il diritto di Israele a difendersi dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre.

 Un mese dopo, il 28 novembre 2023, è diventato l'unico membro del Congresso a opporsi a una risoluzione che affermava il diritto di Israele ad esistere e equiparava l'antisionismo all'antisemitismo, che è passata con 412 voti a favore e 1 contrario.

 

Il momento più esplosivo arrivò nel dicembre 2023, quando Massei pubblicò un “meme” del “rapper Drake” che contrapponeva il "patriottismo americano" al "sionismo", insinuando che il Congresso desse priorità a quest'ultimo.

 Il leader della maggioranza al Senato “Chuck Schumer” definì il post "antisemita, disgustoso, pericoloso" e gli chiese di rimuoverlo.

La Casa Bianca lo definì "antisemitismo virulento".

Il CEO della Coalizione ebraica repubblicana “Matt Brooks” lo condannò, affermando:

 "Vergognati @RepThomasMassie. Sei una vergogna per il Congresso degli Stati Uniti e per il Partito Repubblicano".

 

“Massei” contro Trump.

I crescenti attacchi di Trump a Massei rivelano quanto il presidente in carica serva interessi filo-israeliani anziché perseguire autentiche divergenze ideologiche.

La tempistica e l'intensità delle critiche di Trump coincidono in modo sospetto con le più accese critiche di Massei si all'influenza israeliana nel Congresso.

 

Nel giugno 2025, dopo che Massei aveva criticato gli attacchi di Trump all'Iran definendoli "non costituzionali", Trump ha scatenato una feroce risposta su Truth Social definendo Massei "non MAGA" e dichiarando che "MAGA non lo vuole, non lo conosce e non lo rispetta".

Trump ha bollato Massei come un "semplice 'super partes' che pensa che sia una buona politica per l'Iran avere l'arma nucleare di massimo livello" e ha concluso che "MAGA dovrebbe abbandonare questo patetico PERDENTE, Tom Massei, come la peste!"

 

Questo sarcasmo rappresenta un netto cambiamento rispetto all'endorsement di Trump del 2022, quando definì Massei un "guerriero conservatore" e un "difensore della Costituzione di prim'ordine". La trasformazione avvenne proprio mentre Massei intensificava le sue critiche all'influenza israeliana e agli aiuti esteri. Gli attacchi di Trump si intensificarono ulteriormente dopo l'esplosiva intervista di Massei a Tucker Carlson del giugno 2024, in cui rivelò che "tutti tranne me hanno una persona dell'AIPAC... È come la tua babysitter, la tua babysitter dell'AIPAC che ti parla sempre per conto dell'AIPAC".

 

Massei ha spiegato che "ho repubblicani che vengono da me e dicono che è sbagliato quello che l'AIPAC ti sta facendo, lasciami parlare con la mia persona dell'AIPAC ... Ho avuto quattro membri del Congresso che mi hanno detto che parlerò con la mia persona dell'AIPAC e che è casualmente come li chiamiamo i miei ragazzi dell'AIPAC".

 Questa rivelazione ha messo in luce la natura sistematica dell'influenza israeliana al Congresso, provocando un'immediata reazione da parte delle organizzazioni filo-israeliane e probabilmente contribuendo ad aumentare i finanziamenti dei donatori contro la sua campagna per la rielezione.

 

Questo schema chiarisce che l'ostilità di Trump nei confronti di Massei deriva meno da disaccordi politici che dalla sua deferenza verso i potenti donatori ebrei. Sebbene affermi spesso di opporsi alle "guerre infinite", gli attacchi di Trump a Massei – il non interventista più coerente del Congresso – rivelano dove risiede la sua vera lealtà nel promuovere l'agenda degli interessi suprematisti ebrei piuttosto che nel perseguire una politica estera indipendente.

 Il Presidente della Camera Mike Johnson ha segnalato che la leadership del GOP abbandonerà Massei, affermando che "sta lavorando attivamente contro la sua squadra quasi quotidianamente e sembra apprezzare quel ruolo. Quindi, sapete, sta decidendo il proprio destino".

 

L'AIPAC è a caccia.

 

Le vittorie elettorali dell'AIPAC nel 2024 dimostrano la disponibilità della lobby a spendere somme senza precedenti per eliminare i critici della politica israeliana.

 Il successo dell'organizzazione nello sconfiggere i Democratici progressisti e proteggere i Repubblicani dell'establishment rivela una strategia coordinata per epurare il Congresso dalle voci indipendenti.

 L'AIPAC cercherà di replicare i suoi successi contro critici di Israele come Massei.

 

Contro il deputato” Jama al Bowman” nel 16° distretto di New York, lo “United Democracy Project” (UDP) dell'AIPAC ha speso 14,5 milioni di dollari per opporsi a Bowman e sostenere lo sfidante “George Laimer”.

Il quotidiano indipendente “Sludge” ha riportato che "i 14,5 milioni di dollari spesi dal “super PAC dell'AIPAC” nelle primarie democratiche di New York- 16 sono più di quanto qualsiasi altro gruppo esterno abbia mai speso per una singola campagna elettorale alla Camera dei Rappresentanti".

 

La spesa è stata alimentata dai mega donatori repubblicani canalizzati attraverso l'AIPAC, con il fondatore di WhatsApp “Jan Koum “che ha donato 5 milioni di dollari all'UDP.

Politica responsabile ha osservato che "l'AIPAC ha agito efficacemente per riciclare i fondi della campagna elettorale per i mega donatori repubblicani nelle primarie democratiche, dove la spesa è stata generalmente identificata dai media come 'pro-Israele', non 'repubblicana'".

 Il giorno delle elezioni, i gruppi allineati a” Laimer” avevano più dei sostenitori di Bowman di oltre sette a uno.

Contro la deputata “Cori Bush” nel primo distretto del Missouri, l'UDP ha speso oltre 8,5 milioni di dollari per attaccare il suo operato contro Israele e sostenere il suo sfidante filo-sionista Wesley Bell.

Le primarie di Bush-Bell sono diventate una delle primarie della Camera più costose di sempre, con oltre 18 milioni di dollari di spesa pubblicitaria totale.

Cespuglio l'ha definita "la seconda corsa al Congresso più costosa nella storia della nostra nazione, 19 milioni di dollari e oltre" finanziata da "super PAC per lo più finanziati dall'estrema destra, contro gli interessi del popolo di St. Louis".

 

Anche nelle primarie repubblicane, l'AIPAC è intervenuta per proteggere gli alleati dell'establishment.

Per difendere il deputato moderato “Tony Gonzales” dallo sfidante “Brandon Herrera” nel 23° distretto del Texas, l'UDP ha speso 1 milione di dollari per contrastare Herrera in un "acquisto di spazi pubblicitari di due settimane".

La Coalizione ebraica repubblicana ha aggiunto 400.000 dollari in spazi pubblicitari offensivi contro Herrera.

La spesa complessiva di AIPAC e RJC è stata di circa 1,4-1,5 milioni di dollari, aiutando Gonzales a sconfiggere Herrera di misura per soli 354 voti, con il 50,6% contro il 49,4%.

 

Queste vittorie sono arrivate come parte di un più ampio ciclo di spesa di oltre 100 milioni di dollari dell'AIPAC, con “Common Dreams” che ha osservato che "i soldi dell'AIPAC hanno già avuto un impatto significativo, aiutando una coppia di democratici filo-israeliani a sconfiggere i deputati progressisti Jama al Bowman (DN.Y.) e Cori Bush (D-Mo.), due dei più accesi critici del Congresso dell'attacco di Israele a Gaza, nelle recenti primarie".

Come la razza di Massei potrebbe determinare il potere effettivo della lobby israeliana.

 

Le primarie di Massei del 2026 rappresentano la prova definitiva per stabilire se un politico possa sopravvivere alla forza dell'opposizione filo-israeliana.

La corsa del Kentucky determinerà se le precedenti vittorie dell'AIPAC rappresentino un potere sostenibile o vittorie di Pirro che mettono a nudo le vulnerabilità a lungo termine della lobby.

 

La posizione unica di Massei potrebbe rivelarsi più difendibile rispetto ai distretti urbani di Bowman o Bush.

Il suo collegio elettorale rurale del Kentucky mostra una minore suscettibilità alle campagne mediatiche urbane e mantiene un maggiore scetticismo nei confronti dei coinvolgimenti stranieri.

 Inoltre, le sue radici locali gli conferiscono una credibilità che trascende i tipici attacchi politici.

La capacità del rappresentante del Kentucky di inquadrare l'opposizione come un'interferenza straniera piuttosto che come disaccordi di politica interna potrebbe trovare riscontro negli elettori sempre più diffidenti nei confronti dell'establishment filo-israeliano che domina la scena politica di Washington.

 

La tensione finanziaria delle precedenti vittorie dell'AIPAC potrebbe anche limitare la spesa futura.

L'impegno di oltre 100 milioni di dollari dell'organizzazione nelle gare più rappresenta un ritmo insostenibile che potrebbe affrontare la stanchezza dei donatori.

Ogni costosa vittoria espone i metodi della lobby a un maggiore controllo ea potenziali contraccolpi.

 I gruppi progressisti sottolineano sempre più il ruolo dell'AIPAC nelle sconfitte primarie, mobilitando potenzialmente un'opposizione che ne limita l'efficacia futura.

 

La sopravvivenza di Massei dimostrerebbe che i politici di principio possono resistere alle pressioni pro-Israele attraverso la lealtà degli elettori e il sostegno della base.

 La sua sconfitta confermerebbe che nessun funzionario eletto può sfidare gli interessi israeliani, indipendentemente dal suo sostegno interno.

 La corsa al Kentucky rappresenta quindi un momento cruciale nel determinare se la politica estera americana serve gli interessi americani o rimane subordinata all'influenza straniera.

 

Se Massei resisterà all'assalto, segnerà la prima crepa nella facciata dell'invulnerabilità sionista;

se cadrà, dimostrerà che i politici americani possono essere comprati e sepolti dalle illimitate scorte di denaro dell'ebraismo mondiale.

 

 

 

 

 

 

La distruzione dell'economia statunitense

da parte di Trump, a partire dall'agricoltura.

Unz.com - Michael Hudson – (19 settembre 2025) – ci dice:

 

Trump ha creato una crisi per l'agricoltura degli Stati Uniti con la sua militarizzazione della Guerra Fredda del commercio estero con la Cina e la Russia, per l'industria manifatturiera a causa delle sue tariffe su acciaio e alluminio, per l'acquisto dei prezzi al consumo principalmente dalle sue tariffe, e per le abitazioni a prezzi accessibili con i suoi tagli fiscali che hanno mantenuto alti i tassi di interesse a lungo termine per i mutui.

L'acquisto di auto e attrezzature e la deregolamentazione dei mercati che danno mano libera ai prezzi di monopolio.

 

L'impoverimento dell'agricoltura statunitense da parte di Trump.

Trump ha creato una tempesta perfetta per l'agricoltura degli Stati Uniti, in primo luogo con la sua politica della Guerra Fredda che ha chiuso la Cina come mercato della soia contro la Russia, in secondo luogo nella sua politica tariffaria che blocca le importazioni e quindi aumenta i prezzi delle attrezzature agricole e di altri fattori produttivi, è in terzo luogo nei suoi deficit di bilancio inflazionistici che mantengono alti i tassi di interesse per le abitazioni ei mutui ipotecari agricoli e il finanziamento delle attrezzature, mantenendo bassi i prezzi dei terreni.

 

L'esempio più noto è la soia, il principale prodotto agricolo esportato dagli Stati Uniti verso la Cina.

 La trasformazione del commercio estero statunitense in un'arma da parte di Trump tratta le esportazioni e le importazioni come strumenti per privare i paesi stranieri dipendenti dall'accesso ai mercati statunitensi per le loro esportazioni e dalle esportazioni controllate dagli Stati Uniti di beni essenziali come cibo e petrolio (e, più recentemente, alta tecnologia per chip e apparecchiature informatiche).

Dopo la rivoluzione di Mao nel 1945, gli Stati Uniti imposero sanzioni sulle esportazioni di grano e altri prodotti alimentari statunitensi verso la Cina, nella speranza di affamare il nuovo governo comunista.

 Il Canada ruppe questo blocco alimentare, ma ora è diventato un braccio della politica estera statunitense della NATO.

 

L'uso del commercio estero come arma da parte di Trump – mantenendo aperta la costante minaccia statunitense di bloccare le esportazioni da cui altri Paesi dipendono – ha portato la Cina a interrompere completamente gli acquisti anticipati del raccolto di soia statunitense di quest'anno.

La Cina, comprensibilmente, cerca di evitare di essere nuovamente minacciata da un blocco alimentare e ha imposto dazi del 34% sulle importazioni di soia dagli Stati Uniti.

 Il risultato è stato uno spostamento delle sue importazioni verso il Brasile, con zero acquisti negli Stati Uniti finora nel 2025.

Questo è traumatico per gli agricoltori statunitensi, perché quattro decenni di esportazioni di soia verso la Cina hanno portato metà della produzione di soia statunitense a essere normalmente esportata in Cina; nel Dakota del Nord la percentuale è del 70%.

 

Lo spostamento della Cina verso il Brasile nei suoi acquisti di soia è irreversibile, poiché gli agricoltori di quel paese hanno adattato di conseguenza le loro decisioni in materia di semina.

Come membro dei BRICS, soprattutto sotto la guida del presidente Lula, il Brasile promette di essere un fornitore molto più affidabile degli Stati Uniti, la cui politica estera ha designato la Cina come un nemico esistenziale.

Ci sono poche possibilità che la Cina risponda alla promessa degli Stati Uniti di ripristinare la normalità degli scambi commerciali spostando le sue importazioni dal Brasile, perché ciò sarebbe traumatico per l'agricoltura brasiliana e renderebbe la Cina un partner commerciale inaffidabile.

 

Quindi la domanda è:

cosa ne sarà dell'enorme quantità di terreni agricoli statunitensi che sono stati dedicati alla produzione di soia?

Incapaci di trovare mercati esteri per sostituire la Cina, gli agricoltori hanno subito una perdita sulla loro produzione di soia, che si sta accumulando in eccesso rispetto alla capacità di stoccaggio delle colture esistenti.

Il risultato è una minaccia di pignoramenti agricoli e bancarotta, che abbasserebbe i prezzi dei terreni agricoli.

 E poiché i tassi di interesse rimangono elevati per i prestiti a lungo termine come i mutui, ciò incoraggia i piccoli agricoltori dall'acquisire proprietà in difficoltà.

Il risultato è quello di accelerare la concentrazione dei terreni agricoli nelle mani di grandi fondi finanziari assenti e dei ricchi.

 

Questo cambiamento è irreversibile.

Nonostante la sentenza della Corte Suprema che ha dichiarato incostituzionali e quindi illegali i dazi di Trump, sembra probabile che Trump possa semplicemente farli imporre dal Congresso e dal Senato bipartisan anti-Cina.

In ogni caso, la politica di Trump rappresenta un cambiamento radicale, un salto di qualità nell'aggressione commerciale coercitiva degli Stati Uniti.

 

Non c'è alcuna possibilità che il commercio tra Stati Uniti e Cina di soia o di altri beni di prima necessità cinesi venga ripreso.

 Né Stati Uniti né altri Paesi minacciati dall'aggressione commerciale statunitense possono correre il rischio di dipendere dal mercato statunitense.

 

La contrazione dei costi e dei redditi agricoli americani va ben oltre le vendite di soia.

Anche i costi di produzione stanno aumentando a causa dei dazi di Trump, in particolare su macchinari agricoli e fertilizzanti, e della stretta creditizia, con l'aumento del rischio di arretrati nei pagamenti dei debiti agricoli.

 

I dazi di Trump stanno aumentando i costi di produzione industriale degli Stati Uniti.

L'anarchia tariffaria di Trump sta inoltre causando perdite e licenziamenti di duemila dipendenti per “John Deere and Company”, con un calo della domanda anche per altri produttori di attrezzature agricole.

Il problema più grave è che le sue attrezzature per la raccolta, come le automobili e tutti gli altri macchinari, sono realizzate in acciaio, oltre che in alluminio.

Trump ha infranto la logica di base dei dazi:

 promuovere la competitività di un'industria ad alta intensità di capitale e ad alto profitto (soprattutto per i monopoli consolidati), in gran parte minimizzando il costo delle materie prime. Acciaio e alluminio sono materie prime di base.

 

Questi dazi hanno colpito “John Deere” in due modi.

 Per la sua produzione nazionale, le vendite sono basse a causa della depressione del reddito agricolo sopra citata.

Quest'anno, le rese sono aumentate vertiginosamente sia per il mais che per la soia, con conseguente calo dei prezzi e del reddito agricolo.

 Ciò limita la possibilità degli agricoltori di acquistare nuovi macchinari.

 

“Deere” importa circa il 25 percento dei componenti dei suoi prodotti, il cui costo è aumentato a causa dei dazi di Trump.

Gli stabilimenti produttivi di “Deere” in Germania sono stati particolarmente colpiti.

Trump ha sorpreso “Deere” stabilendo che, oltre ai dazi del 15% sulle importazioni dall'UE, imporrà un'imposta del 50% sul contenuto di acciaio e alluminio di queste importazioni.

 

Ciò colpisce anche i produttori stranieri di attrezzature agricole, portando a nuove lamentele da parte dell'UE sulle costanti "sorprese" di Trump che si aggiungono alla sua richiesta di "restituzioni" in cambio del non ulteriore aumento delle tariffe sulle importazioni dall'UE.

 

La lotta di Trump per accelerare la dipendenza estera dal petrolio e quindi il riscaldamento globale.

 

Opponendosi a qualsiasi misura di mitigazione del riscaldamento globale, Trump si è ritirato dall'accordo di Parigi e ha cancellato i sussidi per l'energia eolica e per i trasporti pubblici.

Questo è l'effetto delle pressioni esercitate dall'industria petrolifera. Non solo la politica estera statunitense è dominata dalla richiesta di controllo del petrolio come chiave per trasformare le sanzioni commerciali in un'arma, ma anche la politica economica interna.

 Subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, Los Angeles distrusse i suoi tram, costringendo i suoi abitanti a unirsi all'economia automobilistica.

Dwight Eisenhower avviò il programma autostradale interstatale per favorire il trasporto automobilistico e, con esso, il consumo di petrolio.

 

Ad affliggere l'agricoltura statunitense è anche l'aggravarsi della carenza d'acqua per i raccolti e la distruzione causata da inondazioni, siccità e altre condizioni meteorologiche estreme.

Una delle cause è il clima estremo derivante dal riscaldamento globale, che Trump nega come parte della sua politica di sostegno al petrolio e al carbone degli Stati Uniti, mentre combatte attivamente contro la produzione di energia eolica e solare.

Ha ritirato il sostegno degli Stati Uniti all'Accordo di Parigi con altre nazioni per decarbonizzare la produzione mondiale.

 

I costi assicurativi stanno raggiungendo livelli insostenibili per molte aree più soggette a tempeste e inondazioni, proprio come è aumentato vertiginosamente il costo annuale degli alloggi a Miami e in altre città della Florida e negli stati di confine meridionali minacciati dagli uragani.

 

Un'interruzione parallela è l'aumento del prezzo dell'elettricità e la carenza d'acqua causata dalla crescente domanda di raffreddamento dei computer necessari per il supporto di Trump all'intelligenza automatica e all'informatica quantistica.

La crescente domanda di elettricità supera di gran lunga i piani di investimento delle aziende elettriche per aumentare la loro produzione. Tale pianificazione richiede molti anni e le aziende sono liete di vedere che le carenze spingono la domanda ben oltre l'offerta, consentendo ai prezzi dell'elettricità di essere uno dei principali fattori che contribuiscono all'inflazione dei costi di produzione.

 

Trump e il suo governo hanno preso in giro la Cina per aver speso così tanto denaro nel suo servizio ferroviario ad alta velocità.

I calcoli occidentali sull'efficienza economica tralasciano gli importantissimi effetti sulla bilancia dei pagamenti di questo sviluppo ferroviario:

evita di costringere i cinesi a guidare automobili utilizzando petrolio importato.

 La Cina non ha un'industria petrolifera nazionale che possa dominare la sua pianificazione economica o la sua politica estera.

 Di fatto, i suoi obiettivi di politica estera riguardo al commercio di petrolio sono opposti a quelli degli Stati Uniti.

 

Le sanzioni di Trump per armare le esportazioni statunitensi verso i suoi nemici designati.

La minaccia di Trump (e del Congresso) di sabotare le esportazioni di interruttori per computer con "kill switch" segreti per spegnerli da parte della fiat statunitense ha portato la Cina a cancellare i suoi acquisti pianificati da Nvidia.

 L'azienda ha avvertito che senza i profitti delle esportazioni verso la Cina, non sarà in grado di permettersi la ricerca e lo sviluppo necessari per rimanere competitivi e mantenere il monopolio sulla produzione di chip.

 

Queste politiche commerciali che stanno riducendo i mercati di esportazione e di importazione degli Stati Uniti sono solo una delle ragioni dell'indebolimento del dollaro.

Altre cause sono il calo del turismo dovuto alle vessazioni degli Stati Uniti, in particolare nei confronti degli studenti stranieri provenienti dalla Cina, da cui le università statunitensi dipendono in quanto studenti più pagati.

 

Queste tendenze non commerciali della bilancia dei pagamenti spiegano perché la politica tariffaria elevata di Trump non ha portato a un rafforzamento del tasso di cambio del dollaro, nonostante il suo effetto di scoraggiare le importazioni.

Normalmente, ciò aumenterebbe la bilancia commerciale.

 Ma la guerra di Trump contro tutti gli altri paesi (principalmente i suoi alleati europei, Giappone e Corea) ha portato a un cambiamento nella loro dipendenza dalle esportazioni statunitensi (come la soia) e dai prodotti contro cui stanno attuando ritorsioni per proteggere la propria bilancia dei pagamenti, ad esempio, tagli al turismo estero negli Stati Uniti, agli studenti stranieri, dipendenza dalle esportazioni di armi statunitensi – e soprattutto, fuga di capitali finanziari, poiché la contrazione del mercato interno statunitense deve incidere sui profitti esteri e il calo del dollaro ridurrà la sua valutazione in termini di valuta estera.

 

Inoltre, poiché i BRICS e gli altri paesi commerciano nelle proprie valute, ciò riduce la necessità di detenere riserve valutarie in dollari.

Stanno spostando le loro riserve verso le rispettive valute e, naturalmente, verso l'oro, il cui prezzo ha appena superato i 3.500 dollari l'oncia.

 

Il forte aumento dell'inflazione provocato da Trump, dall'elettricità e dall'edilizia abitativa ai prodotti industriali realizzati in alluminio e acciaio, o soggetti a dazi paralizzanti sulla fornitura di componenti e fattori produttivi necessari.

La decisione di Trump di imporre dazi sui prodotti di base, in particolare sull'alluminio e sull'acciaio, sta facendo aumentare i prezzi di tutti i prodotti industriali realizzati con questi metalli.

 

E naturalmente, i suoi dazi in genere aumentano i prezzi in generale, poiché le aziende hanno aspettato per cortesia circa un mese prima di aumentare i prezzi, dato che le loro scorte esistenti di beni prodotti da Cina, India e altri paesi sono esaurite.

 

L'espulsione degli immigrati da parte di Trump ha aumentato i costi dell'edilizia, che si basava in gran parte sulla manodopera immigrata, così come l'agricoltura in California e in altri stati durante il periodo del raccolto.

Non è chiaro chi, se mai ce ne sarà uno, sostituirà questa manodopera.

 

Invece di attrarre investimenti esteri, come Trump ha chiesto all'Europa e agli altri "partner" commerciali, ha reso questo mercato molto meno desiderabile.

Quello che ha fatto è fornire una lezione pratica su ciò che gli altri paesi devono evitare nella creazione di regolamenti, regole fiscali e politiche commerciali per ridurre al minimo i loro costi di produzione e diventare più competitivi.

 

La politica monetaria sta aumentando bruscamente i tassi di interesse a lungo termine, anche se i tassi a breve termine diminuiscono.

I tassi d'interesse a lungo termine determinano il costo delle ipoteche e quindi la sostenibilità economica delle abitazioni.

 La politica inflazionistica di Trump ha anche aumentato i tassi di interesse per le obbligazioni a lungo termine.

 L'effetto è quello di concentrare l'indebitamento a scadenze a breve termine, concentrando i problemi di rinnovo del debito in tempi di crisi finanziaria.

 Ciò compromette la resilienza dell'economia.

 

Molti beni di consumo importati vengono acquistati dagli ultra-ricchi, ovvero il 10% della popolazione che si dice rappresenti il 50% della spesa dei consumatori.

Per loro, prezzi più alti non fanno altro che aumentare il prestigio di tali beni di consumo vistosi (tra cui prelibatezze alimentari costose).

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