La Flotilla e il senso di Netanyahu per la Pace.

 

La Flotilla e il senso di Netanyahu per la Pace.

 

 

La Pirateria Contro la “Flotilla”

e il Senso di Netanyahu per la Pace.

Conoscenzealconfine.it – (3 Ottobre 2025) - Davide Malacaria – ci dice:

 

Minacce, pirateria marittima, sequestro di persona, furto (delle imbarcazioni e dei beni, personali e non), e altre fattispecie di reato sono state consumate tra l’altro ieri sera e la notte scorsa dall’IDF, e dalle autorità israeliane da cui dipendono, nelle acque internazionali prospicenti Gaza.

Tutto questo mentre le autorità dei Paesi dei cittadini contro i quali venivano commessi tali reati si limitavano a chiedere, queruli, ai criminali in questione di non usare violenza.

 

Tale la follia dilagante nel mondo da quando il Diritto è stato bombardato a Gaza, insieme a una moltitudine di inermi.

Non potendo legittimare tale barbarie, i corifei della “Hasbara” nostrani, interpellati sul tema, hanno tirato in ballo la guerra in corso, che renderebbe giustificabili tali azioni.

Anzitutto quanto accade a Gaza non è una guerra.

Una guerra presuppone l’esistenza di due eserciti contrapposti, mentre, come dichiarano esplicitamente le autorità di Tel Aviv, si tratta di un’operazione anti-terrorismo, sebbene condotta con dinamiche di guerra, con tutte le criminali storture del caso.

 

Resta, però, che il Diritto vale anche in tempo di guerra.

A tale scopo sono state stilate le “Convenzioni di Ginevra”, che Israele può decidere di ignorare, come sta ampiamente dimostrando, ma che non possono permettersi di ignorare i corifei in questione, che vivono in un Paese che tali Convenzioni ha sottoscritto, se vogliono conservare un minimo di autorevolezza.

Peraltro, quanto avvenuto è anzitutto un atto di guerra, ché come tale si configura la violenza esercitata contro cittadini stranieri inermi impegnati in una missione umanitaria, per di più in un’area non appartenente alla sovranità israeliana.

Se è ragionevole, stante la situazione, per i Paesi sfidati non adire a una guerra aperta, resta che una reazione era pur doverosa, come ad esempio quella del presidente colombiano “Gustavo Petro”, che ha dato il foglio di via alla delegazione israeliana di stanza presso la sua nazione.

 

Ma, al di là, resta che la Flotilla ha raggiunto il suo scopo, umano prima che politico, che era quello di portare all’attenzione dell’opinione pubblica quanto si sta consumando a Gaza.

E le reazioni dei popoli, insieme all’imbarazzo e alla confusione dei potenti, indicano esattamente questo.

La missione della Flotilla si è conclusa come era prevedibile, ora non resta che attendere la risposta di “Hamas al cosiddetto piano di pace di Trump”.

A stare alle indiscrezioni, la milizia islamica sarebbe propensa ad accoglierlo, com’è ovvio che sia, ma con modifiche, com’è altrettanto ovvio.

 

Quindi la palla passerà a Israele, con Netanyahu che cercherà di dichiarare che Hamas ha respinto l’offerta di pace e che, quindi, Gaza” delenda est” (deve essere distrutta).

In realtà, il cosiddetto piano di pace di Trump, quello concordato tra Stati Uniti e Paesi arabi, con questi ultimi che hanno interloquito con Hamas, è stato modificato all’ultimo minuto, con inserzioni della parte israeliana apposte appositamente per renderlo inaccettabile alla controparte.

 Tanto che i Paesi arabi hanno manifestato la loro irritazione per tale indebita ingerenza, fatta per mandare tutto all’aria.

 

Ma, anche se Hamas accettasse, Netanyahu non si rassegnerebbe a chiudere la sua guerra infinita.

Ne scrive su “Haaretz”” Amos Harel”:

“Nei prossimi giorni, Netanyahu tenterà probabilmente di avviare un lungo negoziato con l’amministrazione (Usa) in merito ai termini dell’accordo, alla sua formulazione definitiva e ai tempi di attuazione. I

l fatto che i redattori del piano non abbiano fissato un calendario vincolante per il “ritiro dell’IDF “potrebbe complicare le cose in futuro”.

 

“Allo stesso tempo, Netanyahu farà leva sulle obiezioni dei partiti messianici di destra della sua coalizione per diffondere allusioni e dichiarazioni volte a mettere in difficoltà Hamas e a far credere ai leader dell’organizzazione che Israele violerà l’accordo quando se ne presenterà l’occasione.

 Israele ha già violato il precedente accordo quando ha ripreso la guerra lo scorso marzo.

Da allora, Trump non ha rispettato il suo impegno di imporre un accordo, anche dopo che Hamas ha rilasciato il soldato israeliano-americano” Edan Alexander”.

“[…] Molte cose potrebbero ancora andare storte, e alcuni stanno già lavorando per far sì che ciò accada.

Una rapida analisi del piano di Trump richiama alla mente ciò che disse “Ehud Barak”, Capo di stato maggiore dell’IDF, a proposito degli” Accordi di Oslo”: ‘Hanno più buchi di un groviera’ [ma hanno dovuto uccidere Rabin per vanificarli ndr.].

Con tutta la pressione esercitata su Hamas, la cui leadership è divisa tra le residenze a Doha e i tunnel a Gaza, è necessaria una buona dose di ottimismo per credere che l’organizzazione accetterà di rilasciare tutti gli ostaggi e i morti entro 72 ore dalla futura firma, basandosi unicamente sulla promessa di Trump di imporre un ritiro graduale dell’esercito israeliano“.

Per parte sua, Netanyahu “spera probabilmente in una risposta negativa da parte di Hamas; a quel punto Israele otterrebbe da Trump il sostegno per un ultimo assalto” a Gaza.

La “soluzione finale”.

(youtube.com/shorts/oljtO5vGrqE).

(Articolo di Davide Malacaria).

(piccolenote.it/mondo/la-pirateria-contro-la-flottilla-e-il-senso-di-netanyahu-per-la-pace).

 

 

Flotilla, Corrado (Pd): “Nessun aiuto sulle

 nostre barche? Solo propaganda di Israele.”

Dire.it – (04 – 10 – 2025) – Marco Tribuzi – ci dice:

Annalisa Corrado, eurodeputata Pd appena rientrata dall’esperienza sulla “Global Sumud Flotilla”, denuncia in conferenza stampa la propaganda di Israele sugli aiuti a Gaza.

Critiche anche al governo italiano: "Nessun canale umanitario attivo."

 

ROMA – “I video circolati per dimostrare che non c’erano aiuti dentro le barche sono stati registrati quando Israele ha sequestrato le imbarcazioni, ci ha trascinato fuori e ha avuto modo di fare qualsiasi cosa sulle nostre navi.

Dire che non ci fossero aiuti è pura propaganda. Questa polemica è allucinante”.

Lo ha dichiarato l’eurodeputata del Partito Democratico “Annalisa Corrado”, nel corso di una conferenza stampa tenuta al suo rientro in Italia, dopo aver partecipato alla missione della “Global Sumud Flotilla”, fermata dalla marina israeliana.

In conferenza stampa anche gli altri politici italiani che hanno partecipato alla missione (il deputato dem, Arturo Scotto, il senatore M5S, Marco Croatti, e l’eurodeputata di Avs, Bendetta Scuderi) e “Maria Elena Delia”, portavoce italiana della flottiglia.

 

Corrado punta il dito anche contro l’operato del governo italiano sugli aiuti umanitari destinati a Gaza:

 “«”Gli aiuti istituzionali dall’Italia non esistono.

Quando dicevano ‘Portate gli aiuti con i canali umanitari istituzionali, in poche ore avremmo potuto portarli lì’ non era vero.

 Non lo avete fatto e non lo state facendo”.

Durissime anche le parole sull’uso della para caduta oggi dall’Italia:

“Buttare dall’aereo della roba sulle persone, provocando ulteriori incidenti e morti, è un’altra fonte di disumanizzazione completa”.

Infine, “Corrado” denuncia il sistema di distribuzione adottato tramite la “Gaza Foundation”:

“È sadico, perché entra pochissimo cibo e acqua, distribuiti in modo sbagliato, e ciò provoca altre decine di vittime ogni giorno”.

 

 

 

Dall’escalation dei droni su Monaco

alla minaccia dei missili su Roma:

nella non guerra Putin la spunta.

 Msn.com - Il Riformista - Storia di Paolo Guzzanti – (06 – 10 -2025) – ci dice:

 

Il Presidente russo Vladimir Putin a incontro con esperti di politica estera a Sochi.

“Vladimir Putin” è stato geniale.

Anziché dire: dato che tutti i paesi della Nato hanno un atteggiamento ostile verso la federazione russa, io dichiaro lo stato di guerra fra la Nato e noi.

Ha invece detto: poiché tutti i paesi della Nato stanno compiendo gesti e assumendo posizioni ostili contro la Russia, dichiaro che i paesi della Nato sono in guerra con la Russia e che la Russia è libera di agire senza ulteriori formalità.

Quindi, Putin non ha dichiarato guerra a nessuno, ma ha fatto un’escalation nelle parole e ha parlato di uno stato di guerra di fatto a cui però non corrisponde alcuna dichiarazione formale.

Gli fa eco il segretario la difesa degli Stati Uniti, il quale dichiara in ogni telegiornale che “tutti gli americani devono sapere che siamo in guerra. Non possiamo dire quanto durerà questo stato, ma ogni cittadino americano deve prendere atto che il suo paese è in guerra”.

E Trump? Che cosa dice Trump?

 “Ho fatto spedire tutti i nostri sottomarini nucleari nelle posizioni utili per vincere una guerra con la Russia immediatamente”.

E lo dice con quel suo tono vago e un po’ distratto, ma sa benissimo da più di una settimana che lo scenario della guerra in Ucraina è radicalmente cambiato da quando ha deciso di fornire Kyiv con missili di lungo raggio tomahawk.

Armi che possono colpire la federazione russa per migliaia di chilometri all’interno del territorio e che sono anche usabili con testata nucleare.

 

Questo ha fatto letteralmente impazzire il Cremlino perché richiede un riposizionamento di tutta l’artiglieria russa.

Lo stato della guerra viene fatto passare come una continua travolgente avanzata nelle zone russofone, ma è una avanzata al rallentatore perché all’attuale velocità di penetrazione fra le linee ucraine occorrerebbero alteri dieci anni di guerra alla Russia prima di incamerare tutti i sei oblast che si è formalmente annessa prima di aver vinto sul terreno.

Questo stato di guerra non dichiarata ha terremotato i trasporti e la sicurezza in tutta l’Europa del nord già sottoposta alla minaccia dei droni.

Così anche l’aeroporto di monaco in Germania apre e chiude a singhiozzo le sue piste “per possibile arrivo di droni”, una nuova voce del vocabolario aeroportuale.

Naturalmente, almeno per ora i doni non ci sono, ma il cielo è pieno di roba volante difficile da identificare.

 I polacchi hanno reagito a questo nuovo stato delle cose mantenendo in volo nelle 24 ore pattuglie di F 35 modificati perché sono molto temuti dei russi.

Hanno tutti l’ordine di abbattere senza ulteriori preavvisi qualsiasi oggetto volante che violi la frontiera polacca.

Tutto è ancora reversibile e questo macchinario è il frutto della scelta di Trump di agire per bloccare l’esportazione del petrolio russo attraverso la flottiglia di petroliere che scendono dal Mar Baltico e si dirigono verso l’Europa meridionale e il Medioriente con meta finale l’India.

 La scommessa è più economiche che militare:

secondo tutti gli studi della Nato e quelli americani Putin è dissanguato dalle paghe e dalle assicurazioni pagate per i nuovi arruolati, mentre il tenore di vita della Russia è sceso persino a Mosca e San Pietroburgo dove si sono già registrate forti manifestazioni contro il carovita.

La scelta è di Donald Trump, offesissimo per la lunga presa in giro da parte di Putin che prometteva l’inizio di trattative pensando ad altro, che ha deciso di usare il freno delle esportazioni di petrolio russo e l’acceleratore della pressione militare scommettendo sul bluff di Putin.

 

“Rutte”, il segretario generale della Nato che era stato molto critico nei confronti di Trump quando il presidente degli Stati Uniti manifestava apertamente la sua simpatia per Putin, adesso è un entusiasta dell’inquilino della casa bianca e lo appoggia sulla questione centrale di cui si è parlato al vertice dell’Aja.

Trump ha riportato gli Stati Uniti al vertice della Nato e però vuole conti in ordine per tutti i paesi membri, cosa che non sarà certamente possibile, però i principali paesi stanno allineando la percentuale di Pil da consegnare alla difesa e “Rutte” sottolinea che è una cosa buona.

Poi, per essere più incisivo ha ricordato che Putin possiede missili che possono raggiungere capitali europei come Roma o come Madrid e che quindi i membri della Nato devono sbrigarsi a difendere i cieli delle loro capitali.

La Spagna ha confermato che non verserà un euro in più nelle casse della Nato e Trump ha commentato:

“È incredibile quello che fanno questi spagnoli. Spero che un giorno non debbano pentirsene”.

Il Primo Ministro spagnolo, “Pedro Sanchez”, ha ringraziato “Rutte” per la sua comprensione e per aver rispettato l’indipendenza della Spagna.

Non una parola di risposta a Trump.

Negli Stati Uniti sta avanzando l’opinione secondo cui, Donald Trump potrebbe aver avuto ragione a mostrare prima di tutto al mondo di non avere la minima intenzione di cominciare una guerra.

Ha scandalizzato e sbalordito americani ed europei col tappeto rosso in Alaska per Putin e tutte le espressioni eccessivamente amichevoli degli ultimi mesi.

Ciò gli dà oggi un vantaggio nei confronti della Cina e dell’India perché questi due paesi hanno sempre avuto un atteggiamento negativo nei confronti dell’invasione russa dell’Ucraina, anche se entrambi ne hanno tratto finora grande vantaggio economico:

la Cina comprando petrolio e fornendo tecnologia e l’India diventando la più grande stazione di rifornimento di benzina del mondo.

Sia “Xi Jinping” che “Modi” sanno di non poter fare a meno del mercato americano in un possibile dopoguerra.

(Il Riformista).

 

 

 

 

Il Ministro Israeliano Katz: Suore e

Clero Cristiano Saranno Considerati

 Terroristi se Non Lasceranno Gaza.

Conoscenzealconfine.it –  5 Ottobre 2025) -Renovatio.21 – Redazione – ci dice:

 

Katz: “Coloro che rimarranno a Gaza saranno considerati terroristi e sostenitori del terrorismo”.

Mercoledì il “ministro della Difesa israeliano “Israel Katz” ha minacciato affermando che i residenti della città di Gaza, colpita dalla carestia, hanno un “ultima opportunità” di fuggire a sud o di essere classificati come “terroristi”, mentre l’esercito israeliano sostenuto dagli Stati Uniti continua la sua operazione di pulizia etnica volta a radere al suolo ogni edificio della città.

Lo riporta” Life Site”.

 

Con un tweet su “X”, Katz ha annunciato che l’esercito di occupazione israeliano (IDF) aveva quasi circondato Gaza City.

“Questa è l’ultima opportunità per i residenti di Gaza che lo desiderano di spostarsi a sud e lasciare i terroristi di Hamas isolati a Gaza City, di fronte alle operazioni in corso dell’IDF a pieno regime”.

 

“Coloro che rimarranno a Gaza saranno considerati terroristi e sostenitori del terrorismo”, ha avvertito.

Secondo l’IDF, circa 780.000 civili palestinesi sono fuggiti da Gaza City da agosto, mentre altre stime riportano che la cifra si aggirerebbe intorno ai 400.000, su un totale di circa 1 milione.

Ciò significa che diverse centinaia di migliaia di persone rimangono in città per vari motivi, tra cui malattie, debolezza a causa della carestia, anziani o disabili, per sopportare un altro crimine contro l’umanità, ovvero lo sfollamento.

Tra coloro che hanno deciso di restare ci sono religiosi e sacerdoti cattolici e ortodossi che hanno concluso che la loro responsabilità è quella di rimanere con i disabili e i malnutriti dei loro gruppi sfollati, che hanno trovato rifugio nelle rispettive parrocchie di Gaza City.

In una dichiarazione del 26 agosto dei “Patriarcati latino e greco di Gerusalemme”, guidati rispettivamente dal cardinale “Pierbattista Pizzaballa” e da “Teofilo III”, è stato spiegato che per coloro che sono indeboliti e malnutriti a causa della carestia provocata dall’uomo in Israele, insieme ai disabili, lasciare Gaza City “e cercare di fuggire verso sud sarebbe niente meno che una condanna a morte”.

 

E così, per queste ragioni, le “Missionarie della Carità” di Santa Madre Teresa, insieme al clero che si è preso cura di queste persone vulnerabili, “hanno deciso di rimanere e continuare a prendersi cura di tutti coloro che saranno nei complessi”.

All’inizio del mese scorso Tel Aviv ha ordinato la completa evacuazione di Gaza City, costringendo i palestinesi sfollati a spostarsi a sud nella regione di “Mawasi”, che l’esercito israeliano ha definito “zona sicura”, nonostante l’abbia bombardata più volte.

 

“Si chiama zona sicura, ma viviamo qui da mesi e sappiamo per certo che non è sicura”, ha detto un giornalista sfollato ad “Al Jazeera”.

“Come posso definirla sicura quando Israele ha ucciso e bombardato mia sorella proprio all’interno di questa ‘zona sicura’?”

A causa dei bombardamenti di routine e delle occasioni in cui i palestinesi sfollati e affamati vengono spesso colpiti dai cecchini israeliani sostenuti dagli Stati Uniti mentre cercano aiuti umanitari, molti altri sono rimasti a Gaza City.

L’attivista “Jason Jones” in un articolo di mercoledì che affrontava questi eventi ha scritto che “non si può sopravvalutare l’urgenza morale della situazione.

È imperativo che i cristiani di ogni tipo e tutte le persone di buona volontà siano solidali con la comunità attualmente minacciata a Gaza”.

 

“Jones”, fondatore e presidente del “Vulnerable People Project” ha avvertito che “il presidente Trump sembra contento di starsene seduto a guardare mentre le forze israeliane uccidono i cristiani di Gaza, tra cui le Missionarie della Carità, insieme ad altri che la comunità cristiana ha preso sotto la sua cura”.

(renovatio21.com/il-ministro-israeliano-katz-suore-e-clero-cristiano-saranno-considerati-terroristi-se-non-lasceranno-gaza/).

 

 

 

 

Attivisti della Flotilla trattenuti in

condizioni disagevoli, Farnesina

chiede intervento di Israele.

It.euronews.com - Fortunato Pinto – (04/10/2025) – ci dice:

Navi militari israeliane nel porto di Ashdod dove sono state trattenute le imbarcazioni della” Flotilla”.

Il ministero degli Esteri italiano ha fornito un aggiornamento sullo stato di detenzione degli attivisti membri dell'equipaggio della “Global Sumud Flotilla”.

La Farnesina ha chiesto un'azione da parte di Israele.

Anche attivisti di Polonia e Portogallo parlano di una situazione difficile.

Italiani e altri attivisti della “Global Sumud Flotilla” trattenuti in condizioni disagevoli.

 Il ministero degli Esteri italiano ha pubblicato una nota sabato mattina fornendo un aggiornamento sullo stato di detenzione dell'equipaggio della missione bloccata dalla Marina israeliana giovedì.

 

"È terminata dopo molte ore la visita consolare dell’Ambasciata d’Italia in Israele ai cittadini italiani fermati sulla Flotilla.

Il team consolare ha potuto incontrare tutti i fermati, che stanno bene anche se sono provati da un mese trascorso in mare e dai due giorni di profondo stress in coincidenza con l’operazione militare contro le barche", ha scritto la Farnesina nella nota diffusa sabato.

"Il team consolare ha segnalato che nel carcere le condizioni detentive sono particolarmente disagevoli", si legge ancora nel comunicato.

Secondo quanto riferito il ministro degli Esteri “Antonio Tajani” ha dato quindi istruzioni all’ambasciata di chiedere tramite il ministero degli Esteri israeliano una verifica e un miglioramento delle condizioni di detenzione.

Dal ministero aggiungono che l’ambasciata d’Italia sta operando per accelerare le pratiche di espulsione.

 "Saranno particolarmente veloci soprattutto per i connazionali che hanno deciso di firmare il foglio di via proposto dalle autorità israeliane", ha aggiunto la Farnesina.

Proteste anche da attivisti di Polonia e Portogallo.

Venerdì sera anche il ministero degli Esteri polacco ha pubblicato una nota in cui ha spiegato che i tre membri polacchi della Flotilla sono sani e salvi e che gli è stata offerta la possibilità di beneficiare di una procedura accelerata per lasciare Israele e tornare in Polonia.

Secondo quanto si apprende, tutti hanno rifiutato di firmare una dichiarazione di sottomissione volontaria all'espulsione, il che significa che ora attenderanno il processo in un tribunale israeliano.

Anche l'ambasciatore portoghese e il console in Israele hanno fatto visita venerdì ai quattro cittadini portoghesi detenuti da Israele.

In una nota inviata all'agenzia di stampa Lusa, il Ministero degli Affari Esteri ha confermato che “Mariana Mortágua,” “Sofia Aparício”, “Miguel Duarte” e Diogo Chaves” sono "in buona salute, nonostante le difficili e dure condizioni all'arrivo al porto di Ashdod e nel centro di detenzione".

 

Gli attivisti però hanno segnalato di essere stati maltrattati.

Sui social media, Joana Mortágua ha raccontato di aver parlato con il console portoghese in Israele, il quale ha spiegato che sua sorella, Mariana Mortágua, è in buona salute fisica e psicologica e che attualmente si trova in una cella con 12 persone.

La parlamentare del “Blocco di Sinistra “ha condiviso un messaggio per dare riposo alla sua famiglia, ma anche per denunciare la difficile situazione degli attivisti che, secondo lei, sono rimasti 48 ore senza cibo né acqua.

 

"Mamma, sto bene, ma non ci hanno trattato bene, senza cibo né acqua per 48 ore ", si legge nel messaggio condiviso da” Joana Mortágua,” dove Mariana Mortágua chiede anche manifestazioni di solidarietà con Gaza.

I quattro cittadini portoghesi avrebbero firmato una dichiarazione in cui accettavano l'espulsione dal Paese.

Questa informazione è stata confermata questo pomeriggio dall'ambasciatore israeliano in Portogallo durante un'intervista alla “Cnn”.

 

Scuderi contro Meloni: "Guardare responsabilità di chi commette crimini"

Delle misure di trattenimento ne ha parlato anche l'eurodeputata “Benedetta Scuderi”, che faceva parte della Flotilla ed è tornata già venerdì con gli altri tre parlamentari italiani.

 Appena arrivata all'aeroporto di Roma Fiumicino, Scuderi aveva parlato di violazioni e poi in un'intervista rilasciata al quotidiano La Repubblica ha raccontato dei maltrattamenti subiti nel porto di Ashdod.

 

"Mi hanno presa per le braccia e strattonata. Una volta dentro ci hanno perquisiti ancora una volta, hanno rovistato nelle nostre borse e buttato via medicine ed effetti personali.

Oltre al cellulare, in cui avevo anche le carte, e che non ci hanno mai più restituito, a me hanno tolto le medicine, l'igienizzante e la protezione solare", ha detto l'eurodeputata, che ha poi criticato la premier italiana “Giorgia Meloni” per non aver condannato il fermo dell'equipaggio della Flotilla.

"Dovrebbe guardare a responsabilità di chi commette crimini e non di chi ne è vittima.

Ripeto:” Netanyahu” ci ha rapiti in acque internazionali e “Meloni “come sempre non lo ha condannato, così come non condanna nessuno dei crimini di Netanyahu", ha detto.

 

Tajani: "26 italiani rientrano oggi, 15 restano in Israele perché non hanno firmato."

Il ministro degli Esteri Antoni Tajani ha poi fatto sapere sabato a margine di una iniziativa a Firenze che 26 italiani sono in partenza da Israele mentre altri rimarranno ancora per 2-3 giorni in Israele perché non hanno voluto firmare la liberatoria, quindi dovranno essere giudicati.

"Credo che all'inizio della prossima settimana saranno in Italia", ha aggiunto il ministro spiegando che gli italiani in partenza oggi viaggeranno con un volo della “Turkish Airlines” diretti in Turchia, per poi arrivare in Italia con l'assistenza del nostro consolato.

Il team legale che supporta la “Sumud Global Flotilla” ha annunciato venerdì che i 473 membri dell'equipaggio delle imbarcazioni sequestrate dalle forze navali israeliane sono stati trasferiti in una prigione nel deserto del Negev, nel sud di Israele.

 La detenzione degli attivisti, che stavano trasportando aiuti umanitari diretti nella Striscia di Gaza, ha scatenato proteste in tutto il mondo.

 

 

 

'Niente cibo'. 'Falso'.

Scontro sugli aiuti sulla Flotilla.

Ansa.it-Mondo – (03-10 -2025) – Redazione Ansa – ci dice:

L'ambasciatore di Israele attacca i volontari.

La replica: 'E' documentato.'

L'azione della Flotilla era solo "una provocazione" e gli aiuti che dovevano arrivare a Gaza, con la volontà degli attivisti di aprire questo corridoio umanitario, in realtà non sono stati trovati sulle barche sequestrate:

è la versione di Tel Aviv, alla quale ha replicato a stretto giro la portavoce italiana del “Global Movement to Gaza”, “Maria Elena Delia”:

"Accuse infondate", ha detto, "è tutto documentato".

 

"Non abbiamo trovato nessun aiuto alimentare sulle barche sequestrate", ha riferito stamane l'ambasciatore israeliano a Roma “Jonathan Peled”, rilanciando quanto affermato sui social dal ministero degli Affari esteri israeliano.

In un post su “X “gli Affari esteri di Tel Aviv avevano infatti sottolineato:

"La polizia sta cercando gli aiuti umanitari provenienti dalla provocazione” Hamas-Sumud” affinché possano essere trasferiti pacificamente a Gaza.

L'unico problema: finora non hanno trovato molto. C

ome abbiamo detto, non si è mai trattato di aiuti. Si è sempre trattato di provocazione".

Il messaggio è stato rilanciato anche dall'account dell'ambasciata israeliana presso la Santa Sede.

Allegato a questa comunicazione di Tel Aviv sui social c'è anche un video nel quale un militare israeliano mostra una stanza vuota di una nave, una delle più grandi - così dice - della Flotilla:

"Quando noi e molti altri Paesi ci siamo offerti di prendere questi aiuti e portarli alla popolazione di Gaza, garantendo un arrivo sicuro, loro hanno rifiutato categoricamente.

E ora sappiamo perché, perché non si è mai trattato di portare gli aiuti, ma solo di ottenere titoli sui social media",

 dice il militare mostrando un ambiente in cui non ci sono gli aiuti e i pacchi alimentari annunciati e per i quali si erano attivati anche enti disposti a fare da ponte, come il “Patriarcato cattolico di Gerusalemme”.

 

"Sono accuse totalmente infondate.

 Sulle barche partite dall'Italia c'erano casse di aiuti, alimentari e medicine, preparati dall'associazione “Music for Peace", ha replicato la portavoce italiana del “Global Movement to Gaza”, “Maria Elena Delia” sottolineando che è tutto verificabile.

 "C'erano dal riso, al miele, alle medicine - riferisce l'attivista - Inoltre al porto di Augusta sono state fatte riprese dai reporter, prima della partenza, mentre venivano caricate le casse sulle varie barche. È tutto documentato",

insiste Delia respingendo l'ulteriore accusa arrivata dal governo israeliano.

 

 

 

Flotilla, la clamorosa rivelazione di Israele:

 “Sulle barche non c’erano aiuti umanitari

, solo droga e alcol”.

Secoloditalia.it - Monica Pucci – (3 Ottobre 2025) – ci dice:

 

Nel gioco delle parti, ogni informazione che arriva dallo scenario di guerra Mediorientale va presa con le pinze.

Ma questa mattina il Ministero degli Esteri israeliano ha lanciato una “bomba” non indifferente:

“Nessuna delle 40 imbarcazioni che partecipavano alla “Global Sumud Flotilla”, intercettata da Israele durante lo Yom Kippur”, trasportava aiuti umanitari”, ha detto una nota del ministero, che ha anche diffuso un video della polizia israeliana, in cui il portavoce Dean Elsdunne” mostra l’interno vuoto di una delle imbarcazioni più grandi della flottiglia.

Il portavoce sottolinea che la totale assenza di aiuti spiega perché gli organizzatori abbiano rifiutato l’offerta di Israele e di numerosi altri Paesi di consegnare gli aiuti e di evitare di entrare in una zona di guerra attiva e violare la legge.

 La notizia è riportata dai “media israeliani” e dal “Jerusalem Post.”

 

Già nella notte tra giovedì e venerdì il ministro della Sicurezza nazionale” Itamar Ben Gvir” aveva visitato la “struttura di Ashdod” dove sono state tradotte le barche della “Global Sumud Flotilla”.

La visita si è trasformata in uno show propagandistico per il ministro estremista. “Ben Gvir” ha diffuso sui social un video in cui arringa animosamente una folla di persone messe sedute a terra in fila, circondati da poliziotti, e li accusa di essere venuti in Israele “per dare supporto ai terroristi”, di non portare nessun aiuto umanitario a bordo ma solo droghe e alcol per fare festa.

Israele protesta con l’Italia per i parlamentari italiani sulla “Flotilla”.

“E’ grave che alcuni rappresentanti del Parlamento italiano abbiano scelto di partecipare attivamente a questa operazione” della “Global Sumud Flotilla”, ”ignorando gli appelli alla responsabilità provenienti dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, dal primo ministro Giorgia Meloni e dalle altre figure istituzionali del governo italiano, e da alte personalità dalla Santa Sede”.

 Lo ha affermato in una nota l‘ambasciatore di Israele in Italia, “Jonathan Peled”.

”La non osservanza degli appelli alla prudenza e alla responsabilità da parte di parlamentari e attivisti non solo ha messo a rischio la loro sicurezza, ma ha contribuito a legittimare un’azione che presenta legami diretti con Hamas”, ha aggiunto” Peled.”

 

 

 

Le bugie di Israele sugli aiuti

umanitari della” Global Sumud

Flotilla” continuano.

 Pressenza.com – (03.10.25) - Global Sumud Flotilla - Redazione Italia – ci dice:

 

A due anni dall’inizio di un genocidio, la posizione di “Ben-Gvir “e di Israele secondo cui la “Global Sumud Flotilla” avrebbe trasportato pochi o nessun aiuto umanitario non è solo palesemente falsa: è oscena.

Le imbarcazioni sono state accuratamente documentate, cariche di forniture mediche, cibo e altri beni vitali per le persone di Gaza, sottoposte a una carestia sistematica imposta da Israele.

 Giornalisti, osservatori per i diritti umani, parlamentari e organizzazioni umanitarie hanno fornito prove innegabili degli aiuti a bordo.

 La negazione di Israele non è altro che un’ulteriore voce in un lungo elenco di menzogne che i media devono smettere di ripulire con formule come “Israele afferma”.

 

La “Global Sumud Flotilla” è sempre stata chiara:

la nostra missione è spezzare il blocco e aprire un corridoio umanitario per consegne di aiuti sostenute e continue.

Le forniture trasportate erano al tempo stesso reali e rappresentative:

reali perché urgentemente necessarie, rappresentative perché navi civili non possono trasportare la scala di aiuti di cui Gaza ha bisogno, possibile solo una volta revocato il blocco.

 

La disinformazione di Israele non è nuova.

 È lo stesso regime che ha affermato di non bombardare ospedali, di non affamare i palestinesi, di non ostacolare i convogli, di non giustiziare civili e operatori umanitari, di non aver seppellito 15 paramedici e le loro ambulanze in una fossa comune poco profonda.

Tutte queste menzogne sono state smascherate:

come abbiamo visto più volte, ogni accusa è una confessione da parte del governo israeliano.

Organizzazioni per i diritti umani, agenzie ONU e innumerevoli foto, video e testimonianze confermano la verità:

Israele sta deliberatamente usando la fame come arma, bloccando gli aiuti, bombardando i centri di distribuzione alimentare e condannando famiglie a morire di fame.

 

Ripetere oggi le falsità di Israele significa essere complici nell’occultare un genocidio.

 I media devono finalmente liberarsi dal riflesso di trattare le dichiarazioni israeliane come credibili.

Non esiste alcun obbligo giornalistico di amplificare propaganda che è stata ripetutamente smentita, a costo di centinaia di migliaia di vite palestinesi.

Questa campagna sistematica di diffamazione contro la flottiglia non riguarda gli aiuti;

riguarda il tentativo di Israele di cancellare le prove dei propri crimini delegittimando chi cerca di difendere il diritto internazionale.

 La verità non può essere cancellata.

 Le immagini di carestia, di bambini scheletrici, scaffali vuoti e famiglie disperate sotto assedio sono impresse nella coscienza del mondo.

I fatti sono chiari:

 la flottiglia ha trasportato aiuti umanitari, Gaza è deliberatamente affamata, e Israele sta perpetrando un genocidio.

È dovere della comunità internazionale smettere di perpetuare le bugie di Israele e iniziare ad agire per porre fine al blocco, alla carestia e al genocidio.

 

 

 

 

Gli obiettivi della Flotilla erano chiari,

a differenza di quanto dice Meloni.

Pagellapolitica.it – (02 ottobre 2025) - Davide Leo, Federico Gonzato – ci dicono:

Gli attivisti hanno dichiarato fin dall’inizio di voler portare aiuti a Gaza e sfidare il blocco navale israeliano.

Il 1° ottobre, durante un punto stampa, la presidente del Consiglio “Giorgia Meloni” ha rinnovato le sue critiche alla “Global Sumud Flotilla”, l’iniziativa internazionale di attivisti che poche ore dopo è stata fermata dall’esercito israeliano al largo di Gaza.

 Meloni ha definito l’operazione pericolosa e irresponsabile, sottolineando che arriva in un momento delicato, mentre è in discussione il piano proposto dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump per porre fine alla crisi nella Striscia di Gaza.

 

Secondo la presidente del Consiglio, la “Global Sumud Flotilla” «diceva di nascere per una questione umanitaria», ma «poi si è scoperto che non era per una questione umanitaria, era per forzare un blocco navale».

 «E già diventa un’altra cosa. Del resto, se fosse stato per una ragione umanitaria si sarebbero accolte le numerose proposte che sono state fatte per poter consegnare quegli aiuti in sicurezza», ha aggiunto.

 In altre parole, “Melon”i ha sostenuto che la Flotilla si sia mascherata da missione umanitaria per sfidare il blocco navale israeliano.

 

Al di là della legittima valutazione politica sull’iniziativa, non è vero che gli organizzatori avessero nascosto i loro intenti:

fin dall’inizio avevano dichiarato che l’obiettivo era rompere il blocco navale, e allo stesso tempo portare aiuti alla popolazione di Gaza.

Gli obiettivi della missione.

Alla spedizione della” Global Sumud Flotilla”, diretta a Gaza, partecipano associazioni, movimenti civili e organizzazioni non governative (ONG) provenienti da oltre 40 Paesi.

Secondo quanto riportato sul sito ufficiale, la Flotilla è una «flotta coordinata e non violenta, composta da piccole imbarcazioni che partono dai porti del Mediterraneo per rompere l’assedio imposto a Gaza».

 

L’operazione nasce con l’obiettivo di contrastare direttamente il blocco navale stabilito da Israele nel 2009 al largo delle coste di fronte alla Striscia di Gaza.

 Gli organizzatori della “Global Sumud Flotilla” spiegano che la missione non mira soltanto a trasportare aiuti, ma soprattutto a lanciare un messaggio politico:

«L’assedio e il genocidio devono finire».

 

Gli obiettivi della missione erano stati resi pubblici già durante la conferenza stampa di presentazione della Flotilla il 31 agosto.

 In quell’occasione sono intervenuti vari attivisti, tra cui la svedese “Greta Thunberg”, che hanno ribadito come l’intenzione principale fosse quella di rompere il blocco navale imposto da Israele.

 «Il nostro obiettivo è molto chiaro:

salpare con centinaia di navi per portare aiuti umanitari, rompere l’assedio illegale, e aprire un corridoio umanitario per portare poi ancora più aiuti a Gaza», ha dichiarato Thunberg.

Lo stesso concetto è stato ripreso dall’attivista brasiliano “Thiago Avila”, che già lo scorso giugno, insieme a Thunberg e ad altri, aveva tentato senza successo di superare il blocco e portare aiuti a Gaza con la nave “Madleen”.

 

La “Global Sumud Flotilla” non è un’iniziativa inedita.

Come ha ricordato “Avila” durante la conferenza stampa, missioni simili erano cominciate subito dopo l’introduzione del blocco navale israeliano nel 2009.

Tra gli episodi più noti c’è quello della nave “Mavi Marmara”, nel maggio 2010. Organizzata dagli attivisti della Freedom Flotilla, la “Mavi Marmara” cercò di trasportare aiuti a Gaza e rompere il blocco, con le stesse finalità della Global Sumud Flotilla.

 La missione fu però fermata dalle forze armate israeliane, che nell’assalto uccisero dieci attivisti.

Anche nei post pubblicati sui social network dagli account delle organizzazioni coinvolte prima della partenza, è stata sempre ribadita la duplice finalità della missione:

 «Rompere l’assedio imposto da Israele» e «portare aiuti alla popolazione palestinese».

Dunque, al contrario di quanto ha sostenuto Meloni, la missione dichiarata della Global Sumud Flotilla è stata sin dall’inizio quella di portare aiuti umanitari e, allo stesso tempo, di forzare il blocco navale israeliano, ritenuto illegittimo dagli attivisti.

Per questo motivo gli organizzatori hanno respinto le proposte alternative, come quella di consegnare gli aiuti tramite la Chiesa cattolica o attraverso canali umanitari ufficiali:

a detta loro, avrebbero snaturato l’obiettivo politico della spedizione.

 

Come abbiamo spiegato in un altro approfondimento, da tempo c’è dibattito sulla legittimità del blocco imposto da Israele nelle acque davanti alla Striscia di Gaza, con valutazioni contrastanti da parte di diverse istituzioni internazionali.

Ma al netto di queste valutazioni, si può dire che la missione della Global Sumud Flotilla – come tutte le spedizioni simili degli ultimi anni – avesse un doppio obiettivo.

Da un lato umanitario, perché le navi trasportavano aiuti per la popolazione di Gaza

. Dall’altro lato politico, perché quegli aiuti venivano portati con l’intenzione di sfidare il blocco navale israeliano.

 

 

Flotilla, colpo di scena sul cibo

a Gaza: “Queste navi sono vuote.”

Nicolaporro.it - Bruno Dardani – (3 Ottobre 2025) -

 

Secondo la polizia israeliana le stive sono vuote.

 In mare con i telefonini?

Misterioso trasbordo di dieci uomini su una nave proveniente dalla Turchia.

Ovviamente sull’autenticità dei filmati diffusi dalla polizia israeliana relativi all’assenza di qualsivoglia aiuto umanitario a bordo delle navi della flottiglia, si apriranno tutti quei dibattiti in talk show che invece non hanno riguardato l’autenticità delle lacrime di cantanti e cantautori.

I filmati relativi alle perquisizioni delle “navi” e delle barche della Flotilla sono disponibili in internet, e vedono la luce dopo lo sbarco degli attivisti che forse, insieme con i telefonini buttati a mare (nessuno ovviamente si chiede quali telefonate dovevano tenere nascoste e segrete) nei minuti prima dell’abbordaggio delle forze israeliane hanno forse regalato ai pesci anche le tonnellate di beni alimentari pronti per sfamare i gazawi.

 

Non diffuso invece il filmato satellitare che documenta il trasbordo circa due ore prima dell’arrivo in acque pericolose, di dieci uomini da una imbarcazione della flottiglia a una nave che – fonti non confermate affermano – pare provenisse dalla Turchia.

È curioso che queste informazioni facciano seguito alle dichiarazioni di una delle principali organizzazioni umanitarie che hanno sostenuto la missione-crociera verso Gaza, ovvero “Music for Peace” che ha caricato in Internet e dichiarato a Rai3 come container di aiuto raccolti per la flottiglia siano stati imbarcati su una nave con destinazione “Aqaba” in Giordania, con l’obiettivo poi di trasportarli via terra sino alla Striscia di Gaza.

“Non abbiamo trovato nessun aiuto alimentare sulle barche sequestrate”, ha detto l’ambasciatore israeliano a Roma “Jonathan Peled” a L’Aria che Tira su La7.

“Sono accuse totalmente infondate.

 Sulle barche partite dall’Italia c’erano casse di aiuti, alimentari e medicine, preparati dall’associazione “Music for Peace””, ha replicato la portavoce italiana del “Global Movement to Gaza”, “Maria Elena Delia”.

 

Dietro l’ondata di sdegno popolare per quello che tutti sapevano sarebbe accaduto, ovvero il blocco delle barche, l’arresto degli attivisti e il sequestro delle barche, la “propaganda Pro-Pal” dimentica anche due dettagli non marginali.

 

Come ogni mediocre velista sa, il problema delle provviste è strategico per chi vuole compiere una crociera superiore ai tre o quattro giorni.

Secondo quanto confermato dall’intelligenza artificiale una barca a vela fra i 12 e i 15 metri, molto ben organizzata può trasportare scorte di cibo secco per 4 persone e una autonomia limitata di acqua.

Considerando che la flottiglia era in mare da un paio di mesi e che gli attivisti, ripresi dalle loro stesse telecamere, non risultavano deperiti, si può pensare che parte delle scorte sia stata giustamente utilizzata per sfamarli e che quindi (al di là dei filmati negazionisti della polizia israeliana) i carichi umanitari (se esistiti) si siano ridotti sensibilmente.

 

Voci ufficiali in ogni caso a stive piene, specie delle imbarcazioni più grandi, l’intera flottiglia avrebbe potuto trasportare un terzo di quanto consegnato ogni giorno per reti umanitarie consolidate ai cittadini di Gaza (Hamas e i suoi predoni permettendo).

Ma esiste una seconda considerazione.

 Gaza non dispone di un singolo porto e anche i pontili provvisori sono stati distrutti in questa lunga e sanguinosa guerra:

lo sbarco dalle imbarcazioni avrebbe dovuto avvenire quindi con gommoni attrezzati per questa necessità e con un passa mano di casse da attivista ad attivista.

Il tutto mentre su Gaza City continuavano i bombardamenti.

Nonostante la presenza di qualche portuale a bordo, avvezzo a queste manovre in habitat ben più confortevoli, l’operazione avrebbe presentato dinamiche e difficoltà difficilmente superabili.

Ma si, allora.

Forse meglio arrivare a stive vuote ma accompagnati dalle lacrime di qualche cantante milionaria.

(Bruno Dardani).

Le Sceneggiate sulla

Pelle dei Palestinesi.

Conoscenzealconfine.it – (6 Ottobre 2025)  - Salvo Ardizzone – ci dice:

 

L’obiettivo di questo ennesimo piano di pace articolato in 20 punti è la smilitarizzazione della Striscia con il disarmo dei militanti della Resistenza che Israele non si è riuscito a piegare in due anni di combattimenti.

 L’altro obiettivo è economico, ovvero, realizzare un colossale business.

In pratica, è una spregevole speculazione immobiliare e finanziaria presentata come un progetto umanitario.

 Netanyahu ha accettato perché il piano rispecchia l’essenza degli interessi israeliani.

Dubbia è invece è l’approvazione della Resistenza, minacciata da Trump di sfracelli se non si suicida sottoscrivendo il piano.

Resta sempre la possibilità di un nuovo attacco di Israele all’Iran nei prossimi mesi. 

 

A oggi, 157 stati su 193 riconoscono” la Palestina”, uno stato che non esiste, né può esistere nelle condizioni poste, ovvero, vivere disarmato accanto a un’entità che ne massacra la popolazione mentre annette progressivamente i suoi territori. Un non-stato privo di qualsiasi attribuzione di uno stato vero, in primis di una qualsivoglia sovranità.

E ciò perché da sempre “Due popoli due stati” è stato ed è uno slogan ipocrita, è servito a chiudere gli occhi dinanzi allo scempio dei palestinesi in corso da decenni, oggi al genocidio;

 a inventare una realtà staccata dalla realtà per non affrontare quella vera, malgrado fosse sotto gli occhi di tutti.

 Adesso, riconoscere questo ircocervo, questa chimerica assurdità, è divenuto moda;

è la scappatoia per fingere di fare qualcosa senza fare nulla.

 

Ed è doppiamente ignobile perché il genocidio può essere fermato senza atti estremi, senza interventi militari o nuove guerre:

deve essere chiaro a tutti che senza appoggio esterno, senza l’assistenza e il continuo aiuto che fornisce l’Occidente, senza i commerci, le partnership, il sostegno finanziario che gli viene dato, Israele collasserebbe in pochi giorni.

E non sono solo gli USA a fornirli.

 

A titolo d’esempio cito il vergognoso caso del Regno Unito:

il primo ministro “Starmer” ha riconosciuto sì la Palestina, ma, contemporaneamente, gli assetti militari inglesi hanno prestato e prestano costante assistenza alle continue aggressioni delle Forze Armate israeliane: ricognizione, rifornimento aereo, ISR, designazione dei bersagli, forniture di sistemi d’arma e munizioni.

E non è il solo a farlo: a parte americani e britannici, anche i francesi, i tedeschi e persino gli italiani lo fanno.

Dietro la facciata imbarazzata, l’Occidente presta un corale quanto sostanziale aiuto al genocidio in atto.

Alle continue, selvagge, aggressioni di Israele.

 

L’ho detto altre volte ma lo ripeto ancora:

fra il Fiume e il Mare può esistere un solo stato democratico che abbracci tutti coloro che ne accettino le regole democratiche;

ma ciò può avvenire solo dopo il collasso dell’entità coloniale che occupa il territorio, con ciò implicando l’esistenza di una lotta di liberazione che ne è naturale conseguenza, e cesserà solo con la fine dell’ultimo regime coloniale esistente al mondo.

È ciò che insegna la lunga storia delle lotte di decolonizzazione.

 

Quella che manca all’Occidente è la volontà politica d’assecondare il principio di autodeterminazione del popolo palestinese, quello stesso riconosciuto – beninteso, a parole – dalle cosiddette liberal-democrazie.

Ennesima dimostrazione di doppio standard occidentale, che applica i principi che dichiara di sostenere secondo spudorata convenienza.

 

Il discorso di Netanyahu all’Assemblea dell’ONU è stato conseguenza di questo atteggiamento subalterno che l’Occidente ha assunto nei confronti di Israele.

Non è stato un discorso rivolto al mondo, il Premier israeliano non ritiene d’averne bisogno e del resto l’aula era in vasta parte vuota.

Il suo intervento si è svolto alle 9, a inizio seduta, e molti hanno preferito disertarlo;

 altri, in massima parte i rappresentanti africani, arabi e sudamericani, hanno scelto di alzarsi e uscire quando ha preso la parola.

Il discorso era rivolto al proprio fronte interno e a Trump, che non era presente;

si trovava a un torneo di golf, dove non ha mancato d’affermare dinanzi ai giornalisti che si è vicini alla pace.

 

Le dichiarazioni di Netanyahu, accompagnate dai soliti cartelli che usa esibire, sono state la più spudorata accozzaglia di menzogne che mi è capitato d’udire: sarebbe una bugia la fame che c’è a Gaza, e se c’è, è causa di Hamas che ruba i viveri;

sarebbe una bugia la strage dei civili, anzi, le IDF prestano la massima attenzione a limitare le vittime collaterali, a suo dire, come mai nessun Esercito ha fatto.

 

A parte le stupefacenti falsità, è semmai interessante come scarichi del tutto l’Autorità Nazionale Palestinese di Abu Mazen, equiparandola ad Hamas.

Trapela chiaro che non la considera più un’interlocutrice utile perché del tutto squalificata.

 E, ponendole sopra lo strumentale marchio del terrorismo, non vuole che nessuno possa usarla al di fuori dei progetti di Israele.

 

Il resto è un’allucinata narrazione:

 spicca il “combattiamo per voi!”, per l’America, per l’Occidente, per il mondo intero, contro il terrorismo (riedizione aggiornata della Guerra al Terrore di Bush figlio).

Respinge in toto la creazione di uno stato palestinese comunque sia.

Dichiara apertamente l’intenzione di una revisione dell’intero Medio Oriente, da rimodellare naturalmente in funzione degli interessi israeliani, che coinciderebbero con quelli della civiltà, dell’umanità intera.

 E sostiene con forza che Israele è terra degli ebrei da 3000 anni!

Naturalmente, non fa nessuna differenza fra ebrei e israeliani, con ciò sostenendo lo strumentale equivoco che equipara ogni atto di critica a Israele, o alle politiche dei suoi governi, a manifestazioni di esecrabile antisemitismo.

Lunedì scorso Netanyahu s’è incontrato con Trump e i rappresentanti dei paesi negoziatori.

 Prima di iniziare la trattativa, il Qatar ha preteso le scuse del Primo Ministro israeliano, quasi l’attacco israeliano fosse stato un’infrazione al galateo, ma suscitando comunque le inviperite reazioni di “Ben-Gvir” e “Smotrich”.

Al centro dei colloqui c’era la prosecuzione del conflitto e la possibilità di addivenire a un accordo.

E per inciso, il “Consiglio Yesha”, ovvero dei rappresentanti delle cosiddette colonie israeliane in Cisgiordania – illegali secondo il diritto internazionale, e peggio che illegali per tutto ciò che fanno – era negli USA.

 

Al centro delle trattative c’era un ennesimo piano di pace articolato in 21 punti, anticipato giorni fa dal “Times of Israel”, poi divenuti 20 nel piano annunciato alla Casa Bianca.

E, a quanto pare, nel suo incontro con “Witkoff” e Kushner di domenica 28 – definito dai due esasperante – Netanyahu ha ottenuto modifiche sostanziali, che hanno fatto infuriare i negoziatori arabi messi dinanzi al fatto compiuto.

Il progetto, coordinato da “Witkoff” nel corso di diversi giorni di incontri con un ristretto numero di leadership arabe (saudite, emiratine, egiziane, giordane, pare coinvolta anche la Turchia) sarebbe già stato approvato da Trump.

Dietro di esso c’è “Jared Kushner”, il genero del Presidente, e “Tony Blair” che è stato coinvolto nel progetto da Kushner perché, con il suo “Tony Blair Institute”, una struttura lobbystica spacciata per think-tank, è assai ammanigliato presso i centri di potere mediorientali.

 

Il piano prevede la restituzione dei prigionieri israeliani entro 3 giorni, e la contemporanea liberazione di 250 palestinesi condannati all’ergastolo e di 1700 gazawi arrestati dall’inizio del conflitto.

 È prevista la fine delle operazioni e il ritiro, graduale e condizionato, delle forze israeliane (che, tuttavia, resta del tutto indeterminato).

 L’obiettivo è la smilitarizzazione della Striscia con il disarmo dei militanti della Resistenza che, se si arrendono e accettano il nuovo status quo, potranno godere di un’amnistia.

In pratica equivale alla resa e allo smantellamento della Resistenza che non si è riuscita a piegare in due anni di combattimenti.

Non solo.

 

Preso atto che, malgrado le condizioni inumane i gazawi non intendono abbandonare la propria terra, ci sarebbe l’incoraggiamento a restare e l’inizio d’un percorso (per nulla chiaro né definito) per costruire un sedicente stato. Inoltre, ci sarebbe pure la garanzia (visto i precedenti, lecito quantomeno dubitarne) dell’ingresso nella Striscia di almeno 600 camion di aiuti al giorno (la stessa quantità garantita nel precedente accordo infranto da Israele a marzo), la cui distribuzione verrebbe affidata all’ONU e alla Mezzaluna Rossa.

 Con conseguente estromissione della “GHF” – la “Gaza Humanitarian Fundation, emanazione della CIA” – che si è macchiata di crimini rivoltanti e non è più in alcun modo presentabile.

 

Il cuore dell’operazione tenderebbe alla ricostruzione delle infrastrutture essenziali e alla costituzione di una zona economica speciale, centrata nel cuore del Mediterraneo e del Medio Oriente, in cui soggetti e interessi esterni impianterebbero i propri traffici al di fuori dall’impiccio di ogni sovranità statale.

 E attenzione: in prospettiva, c’era l’intenzione di reiterare il processo nella Cisgiordania, poi sfumata nella versione della Casa Bianca.

 

In pratica, è una spregevole speculazione immobiliare e finanziaria presentata come un progetto umanitario.

A scanso d’ogni equivoco, il “Tony Blair Institute” ha confermato che Blair sarebbe posto a capo dell’”Autorità Transitoria a Gaza” (GITA nell’acronimo inglese, poi divenuto il Board of Peace nelle dichiarazioni di Trump), come già ventilato in un incontro di fine agosto a Washington.

Che equivarrebbe a mettere Dracula alla presidenza dell’AVIS.

Comprendendo lo scarso appeal mediatico del personaggio, nelle dichiarazioni della Casa Bianca il “Board of Peace” sarà presieduto da Trump.

Ma, con Kushner e Blair dietro.

 

Secondo il progetto, la Striscia verrebbe amministrata da un Consiglio d’Amministrazione (il Board) di 7/10 membri affiancati da venti a venticinque tecnocrati, l’Autorità Esecutiva Palestinese.

 L’iniziativa sarebbe sotto l’egida dell’ONU e le sue decisioni verrebbero sottoposte al potere di veto nel Consiglio di Sicurezza.

La durata del mandato sarebbe di cinque anni, ma si sa come vanno queste cose, e il rinnovo perpetuo non è certo da escludere.

Gli obiettivi sono almeno due; uno è politico: unificare Gaza e Cisgiordania, disinnescando con un’offerta “morbida”, con uno di quei deal all’occidentale tanto cari a Trump, quella Resistenza che in due anni non si è riusciti a piegare con le armi.

 L’altro obiettivo è economico, ovvero, realizzare un colossale business.

Per capirci, la GITA, o Board, sarà chiamata a gestire da 50 a 100 MRD di dollari.

A parte gli assai lucrosi traffici che vi verrebbero impiantati (di cui i palestinesi nulla vedrebbero e meno conterebbero), basterebbe questo a giustificare l’operazione.

 

La sede, all’inizio, sarà posta ad Al-Arish, in Egitto, e questo la dice tutta sul grado di connivenza delle potenze arabe vicine.

Qui è opportuna un’ennesima precisazione:

 come ho avuto modo di sottolineare più volte a chi domanda come mai i paesi arabi facciano molto poco di concreto dinanzi all’aggressività israeliana, ricordo che i gruppi di potere che li controllano appartengono alla medesima cupola che ha sfruttato e soffocato l’area a braccetto con USA e Israele.

Per cui, a parte i proclami retorici a uso delle loro popolazioni, quelle sì interessate – e tanto – alla questione, del destino dei palestinesi a essi assai poco importa.

 

Ciò che quegli stati vogliono è che il continuo stato di guerra che infiamma la regione cessi insieme alle continue aggressioni israeliane, e possano tornare a una convivenza divenuta più che mai conveniente nel nuovo clima multipolare: insomma, che i loro business non siano più disturbati.

 Ma c’è un fatto comunque acclarato:

con la sua a-strategica dinamica aggressiva, Israele è divenuto corpo estraneo nella regione, scheggia impazzita che danneggia i concreti interessi di tutti, fattore di continua destabilizzazione per tutto il Medio Oriente e il Mediterraneo.

 

Il progetto dovrà essere garantito da una “Forza di Stabilizzazione Internazionale”, “ISF” nell’acronimo inglese, messa a disposizione non si sa ancora da chi, e da una cosiddetta polizia palestinese che quanto sarà palestinese o comunque emanazione di un’autorità legata a quella popolazione è eufemisticamente dubbio.

Si tratta di contractors, mercenari al soldo di chi gestisce l’operazione, per garantire i suoi interessi.

 E per inciso, si stanno già addestrando nel Sinai.

Nella pratica, sarà un’ennesima forma di occupazione militare per sfruttare l’area e i suoi abitanti.

 

Netanyahu ha già accettato perché nella sostanza il piano rispecchia l’essenza degli interessi israeliani:

in primis liberarsi della Resistenza che non si è riuscita a piegare con le armi.

 Certo, “Ben-Gvir” e “Smotrich” minacceranno sfracelli, ma, a parte un possibile salvacondotto giudiziario per Netanyahu, che lo garantisca in caso di caduta del governo (il presidente israeliano Hertzog ha già ventilato la possibilità di una grazia al Primo Ministro, come chiesto a gran voce da Trump a giugno), resta sempre la possibilità di un nuovo attacco all’Iran nei prossimi mesi, prima che si avvicinino le elezioni di medio termine americane.

 E questo garantirebbe la tenuta dell’Esecutivo.

 

Dubbia è invece è l’approvazione della Resistenza, minacciata da Trump di sfracelli se non si suicida sottoscrivendo il piano.

 E, al momento in cui scriviamo queste note, l’adesione è assai più che dubbia.

Comunque vada, la regione è destinata a non avere pace, perché il processo avviato con “Al-Aqsa Flood” molto, molto difficilmente potrà essere fermato.

S’inquadra nel generale sfaldamento di assetti ed equilibri propri dell’”Unipolarismo egemonico garantito dagli USA”, che essi non sono più in grado di mantenere.

Indietro non si torna.

 La Storia non si ferma per cui, piaccia o no, in questo processo l’entità sionista, ultima realtà coloniale esistente al mondo, per sue caratteristiche interne e quadro esterno, è destinata a implosione al pari di tutte le altre che l’hanno preceduta su quella via.

(Articolo di Salvo Ardizzone (tratto dalla rubrica Il “Filo Rosso” tenuta dall’Autore sul canale Il Vaso di Pandora).

(centroitalicum.com/le-sceneggiate-sulla-pelle-dei-palestinesi/).

 

 

 

 

In 10 anni è aumentata

la propaganda in Cina.

  30scienza.com – Valentina Di Paola – (7 Aprile 2025) – ci dice:

 

Roma – Le notizie mediatiche in Cina potrebbero essere fortemente influenzate dalla propaganda, in modo più marcato negli ultimi dieci anni.

Lo suggerisce uno studio, pubblicato sulla “rivista Proceedings of the National Academy of Sciences”, condotto dagli scienziati dell’Università dell’Oregon, dell’Università della California a San Diego e della Princeton University.

Il team, guidato da “Hannah Waight”, “Yin Yuan” e “Brandon Stewart”, ha analizzato l’uso della propaganda in Cina, scoprendo che viene utilizzata per trasmettere contenuti ideologici, ma anche per controllare e limitare altri tipi di informazioni, come i disastri naturali e i resoconti sulla salute pubblica.

 “Nelle giornate particolarmente delicate – afferma “Waight” – fino al 30 per cento dei contenuti nei principali quotidiani in Cina viene controllato dallo Stato.

L’uso della propaganda esclude il giornalismo indipendente e ritarda le informazioni durante eventi di crisi come i terremoti e i primi giorni dell’epidemia Covid-19”.

I ricercatori riportano che la propaganda statale è un fenomeno diffuso in Cina, specialmente nella carta stampata.

In media, almeno un articolo di prima pagina sui giornali del partito viene direttamente controllato dallo Stato, un numero quattro volte più elevato rispetto allo scorso decennio.

 I governi autocratici, aggiungono gli esperti, hanno a lungo utilizzato campagne di propaganda per influenzare i media.

Gli studiosi hanno utilizzato un nuovo metodo di misurazione innovativo per valutare il livello di propaganda, attraverso un approccio che potrebbe identificare i casi in cui i giornali sono stati costretti a seguire una determinata notizia attraverso passaggi specifici.

Nell’ambito dell’indagine, gli autori hanno considerato milioni di articoli pubblicati dal 2012 al 2022, e una serie di documenti trapelati ottenuti dall’”organizzazione mediatica non-profit China Digital Times”.

Queste informazioni contenevano le direttive del Governa su cosa i giornali avrebbero dovuto stampare.

I risultati mostrano che la copertura mediatica era più ampia di quanto era stato ipotizzato.

Gli scienziati hanno deciso di valutare le informazioni relative ai terremoti, un argomento delicato per il governo cinese, a seguito dell’”episodio di Sichuan” del 2008.

 Il gruppo di ricerca ha scoperto che la copertura mediatica dei terremoti è diminuita, e che i notiziari che ne parlano tendono a utilizzare sempre più spesso testi governativi.

 “I nostri casi di studio – commenta “Waight” – mostrato che l’uso di script di propaganda non riguarda solo la diffusione di un certo messaggio ideologico.

 Si tratta anche di limitare il modo in cui i giornali riportano eventi particolarmente sensibili come terremoti e Covid-19”.

Il team spera che questi risultati possano contribuire a stimolare progetti simili in altre regioni caratterizzate da governi autocratici.

 “Ci sono ancora molte domande aperte – concludono gli studiosi – su come i governi autocratici stiano usando campagne di propaganda segrete per influenzare l’ecosistema dei media.

Abbiamo bisogno di una migliore comprensione di come la propaganda e la censura governative influenzano le opinioni e le convinzioni dei consumatori di media.”

(30Science.com).

(Valentina Di Paola).

 

 

Come la Cina manipola i social:

una strategia politica.

Agendadigitale.eu – Angelo Alu’ – (16 – 02-2022) – ci dice:

 

internet e regimi.

Cultura e società digitali.

Oltre all’invasiva supervisione di censura politica, la Cina starebbe utilizzando sempre più raffinate strategie di “inquinamento” comunicativo, utilizzate per veicolare disinformazione destinata a rafforzare la propaganda politica favorevole al regime.

 I pericoli.

Rispetto alle insidie individuabili online, senza dubbio la manipolazione dell’opinione pubblica sui social media costituisce una delle principali minacce in grado di compromettere la stabilità degli ordinamenti democratici.

 

Si tratta di un vero e proprio “inquinamento” comunicativo spesso pianificato dai regimi in carica e/o dai partiti politici che controllano la sfera pubblica, talvolta anche con il supporto di aziende private che forniscono servizi di assistenza funzionali a soddisfare le pretese esigenze di propaganda, dagli effetti ancora più amplificati durante il periodo della pandemia COVID-19.

Indice degli argomenti:

La Cina e la degenerazione comunicativa della Rete.

Una vera e propria strategia dietro la manipolazione dei social.

La Cina e la degenerazione comunicativa della Rete.

Negli ultimi anni, come rileva il rapporto “Freedom on the Net”, il contesto cinese, ad esempio, può essere considerato uno dei casi più controversi di degenerazione comunicativa dello spazio virtuale della Rete, ove proliferano campagne di disinformazione dirette a diffondere, per finalità politiche, fake news, con conseguente alterazione della percezione dell’opinione pubblica.

 

Il governo di Pechino starebbe cercando di influenzare i media e gli spazi di informazione mediante una serie diversificata di strumenti predisposti per raggiungere tali obiettivi, che peraltro dimostrano un’abile capacità di elaborare strategie comunicative in grado di massimizzare l’efficacia delle campagne manipolative realizzate.

Non solo, quindi, si assiste al perfezionamento delle classiche pesanti restrizioni di censura che mirano a realizzare il tipico “bavaglio” informativo per soffocare il dissenso interno e filtrare le voci indipendenti di giornalisti ed attivisti interessati a diffondere opinioni divergenti rispetto alla narrazione “ufficiale” del “mainstream” istituzionale a senso unico, ma soprattutto diventano sempre più raffinate le strategie di “inquinamento” comunicativo utilizzate per veicolare disinformazione strumentalmente destinata a rafforzare la propaganda politica favorevole al regime.

 

Uno studio, ad esempio, ha documentato quasi 30.000 account Twitter che hanno amplificato i post di diplomatici cinesi o media statali, con un impatto di viralizzazione attestante ad un range di circa 200.000 volte, prima di essere sospesi dalla piattaforma per violazione delle regole che vietano la manipolazione, mentre i rapporti trimestrali di Google sulle rimozioni di contenuti multimediali pubblicati all’interno della piattaforma YouTube, rilevano la cancellazione di un totale complessivo di canali superiore a 10.000 per aver intrapreso “operazioni di influenza coordinate e/o legate alla Cina”, come peraltro conferma un’ulteriore report a cura di” Pro Publica”.

 

Secondo un’inchiesta del “The New York Times”, il governo cinese avrebbe deliberatamente “inondato” le piattaforme social con account falsi per aumentare, ricorrendo ad una campagna massiccia di post automatici generati da bot, il numero di finti profili, dalle sembianze di presunti “follower” in apparenza reali come convinti sostenitori del regime, anche con l’intento di “ripulire” formalmente la propria immagine (compromessa dai sospetti internazionali di violazione dei diritti umani soprattutto a discapito delle minoranze) e, al contempo, controllare, con impercettibili tecniche di supervisione, gli avversari politici oppositori, scrupolosamente monitorati dal prodigioso sistema “Great Firewall”.

 

Una vera e propria strategia dietro la manipolazione dei social.

Si tratterebbe di una vera e propria strategia gestita direttamente dai funzionari inquadrati all’interno della solida burocrazia cinese, supportata da aziende specializzate nell’elaborazione di campagne marketing per i social network, al fine di promuovere contenuti di propaganda politica da veicolare online e influenzare l’opinione pubblica.

 

Tra le varie tattiche di manipolazione vi sarebbe anche la ricerca di influencer di social media di lingua cinese con elevati seguiti internazionali, cui verrebbe offerto di acquistare i propri account o pagarli per pubblicare determinate informazioni concordate.

 

Sembra, addirittura, che il governo cinese abbia richiesto, tra i vari impegni contrattuali, a ciascun operatore coinvolto nella pianificazione di tali attività, persino mediante formule di abbonamento mensile per la fruizione di servizi di manipolazione dei contenuti, di creare e “animare” circa 300 account al mese, anche di provenienza estera, da utilizzare come “esercito” di profili social falsi per “inquinare” sistematicamente la comunicazione online, con il risultato di “dopare” le informazioni diffuse, a causa del duplice effetto manipolatorio di aggredire gli utenti “ostili” identificati nella condivisione di contenuti critici verso il governo in modo da paralizzarne ex ante la viralizzazione di sostegno, e contemporaneamente incrementare in senso unidirezionale l’engagement del traffico pro-regime favorevole alle relative politiche.

 

Nel novero delle campagne “celebrative” rientrerebbero anche le strategie comunicative volte ad elogiare la Cina, come forma di accreditamento internazionale, per aver fornito, ad esempio, aiuti durante la pandemia di COVID-19, amplificando al contempo le critiche all’Unione Europea per non aver fatto lo stesso, come azione di delegittimazione e disturbo che sembra intrapresa in via sistemica anche all’interno di altri paesi, ove risulterebbero riferibili ad account collegati alla Cina contenuti veicolati con la finalità di generare sfiducia e destabilizzare l’ordine interno nazionale, unitamente al procacciamento di editori incaricati di pubblicare contenuti negativi e spregevoli nei confronti di minoranze perseguite in Cina.

 

Parimenti diffusa risulterebbe anche la realizzazione di servizi di videomaking per diffondere contenuti multimediali originali, ritenuti ancora più “performanti” nella capacità di plasmare l’opinione pubblica.

 

Motivata da esigenze di salvaguardia dell’ordine e della sicurezza pubblica a presidio di interessi generali dello Stato, il modello autoritario dell’Internet cinese consente notoriamente alle forze di polizia, preposte ai relativi controlli, di monitorare in maniera capillare gli utenti che esprimono opinioni politiche, non solo registrati su piattaforme telematiche locali (come, ad esempio, la  piattaforma di social media WeChat potenzialmente utilizzata anche per la disinformazione politica), ma anche se si tratta di attivisti che vivono all’estero: la scoperta delle relative identità permette comunque ai burocrati del regime di esercitare, con notevole forza dissuasiva, forme varie di minacce nei confronti dei familiari residenti in Cina per costringere gli autori dei post incriminati a cancellare i contenuti o addirittura direttamente a rimuovere i propri account.

 

Rispetto all’invasiva supervisione di censura politica, si aggiungono, quindi, anche account e bot automatici utilizzati per rafforzare le campagne di comunicazione “istituzionale” grazie all’incremento del numero di “mi piace” e del livello di condivisione ai post dei media governativi e statali, sfruttando la visibilità generata dagli algoritmi di indicizzazione, in funzione delle strumentali finalità di propaganda perseguite.

 

 

 

Leggere la Cina è

capire il mondo.

 Sbilanciamoci.info - Dario Di Conzo – (30 Giugno 2025) - Mondo, Recensioni – ci dice:

 

Non è semplice, in un periodo di attacco agli atenei e al pensiero non mainstream, trovare studi sulla Cina sottratti al paradigma “noi e loro”.

 Ancora più importante perciò è il lavoro collettivo a cura di “Marco Fumian” “Leggere la Cina, Capire il Mondo: Narrazioni dominanti e discorso critico in un’era di competizione” “Mimesis Edizioni”.

 

In questo presente polarizzante e bellicista, trovare delle coordinate per studiare, insegnare, e raccontare criticamente la Repubblica Popolare Cinese sottraendosi dai ranghi del “noi e loro” è impresa complessa.

Eppure, il futuro prossimo promette di rendere il compito della sinologia e delle scienziate e degli scienziati sociali impegnati nello studio della “Rpc” ancor più arduo.

 Se fino a qualche tempo fa, ci si lamentava a buon diritto di una narrazione mainstream della Cina drogata dal rinnovato “scontro di civiltà” à la “Rampini ”, oggi si deve fare i conti con le “Nuove Indicazioni 2025 per la Scuola dell’infanzia e Primo ciclo di istruzione”.

Queste si aprono con l’apodittico “Solo l’Occidente conosce la Storia”.

Tra le levate di scudi contro questa bieca strumentalizzazione della nota frase di “Marc Bloch ”, è qui necessario citare quella dell’”Associazione Italiana Studi Cinesi” (AISC).

 Preoccupata e sorpresa da tale circolare, l’AISC propone tre sintetiche riflessioni , nelle quali definisce questo approccio allo studio della storia “una provocazione che alimenta la polarizzazione di identità culturali contrapposte (…) isolando artificiosamente narrazioni nazionali, funzionali a una contrapposizione identitaria”.

Si sottolinea, inoltre, che la circoscrizione dello studio dell’Asia orientale alla sola Cina comunista evoca “di fatto solo l’immagine di quel Paese come parte del blocco nemico dell’Occidente” tralasciando “la storia millenaria delle relazioni tra Europa e Cina”.

Se da novizio socio dell’AISC non posso che far mie queste riflessioni, credo sia necessario porre questa ristretta e negativa narrazione della Cina nell’attuale e più ampio disciplinamento della libertà d’insegnamento e d’opinione.

L’attacco al sapere critico e all’autonomia universitaria nel suo complesso va infatti ben oltre il perimetro della Grande Muraglia.

Si pensi ai tagli imposti da Trump agli atenei rei di promuovere proteste e insegnamenti contro l’interesse statunitense, o alla Germania di Scholz (socialdem!) dove il “Professor Hage” è stato licenziato dalla “Max Planck Society” per aver definito sui social Israele come un progetto sionista.

Alle nostre latitudini non tira aria migliore, con il “commissario” per la riforma universitaria “Galli Della Loggia” che, tra le altre, vorrebbe reintrodurre la nomina governativa dei rettori.

Da Washington a Roma, quell’Occidente” unico custode della storia, della democrazia, e dei diritti civili sta rapidamente restringendo quelle stesse libertà che lo renderebbero intrinsecamente migliore di un non ben definito “Oriente”.

 

Questo lungo preambolo sembrerebbe mal sposarsi con la recensione di un saggio sulla Cina contemporanea.

Tuttavia, “Leggere la Cina, Capire il Mondo: narrazioni dominanti e discorso critico in un’era di competizione”, volume collettaneo curato da” Marco Fumian”, credo rappresenti un prezioso antidoto all’avvelenato dibattito pubblico sulla Cina.

Una risposta metodologica alle crescenti difficoltà e alle sfide strutturali che la sinologia, ma il sapere critico in generale, si trovano davanti.

 A partire da un ciclo di seminari patrocinati dalla già citata “AISC “ (“Gli studi cinesi e il discorso pubblico sulla Cina oggi”), e riprendendo le fila di un proficuo dibattito sulla maggiore centralità e responsabilità dei “Sinologi nella Nuova Era” lanciato dal sito “Sinosfere” , il testo vuol proporre la costruzione di una “sinologia critica”.

 Questa mira ad unire il “rigoroso specialismo accademico” con la necessità “di uscire dai compartimenti stagni di quest’ultimo per indagare in modo aperto e critico la compartecipazione della Cina alle trasformazioni in atto nel mondo di oggi, integrando quindi lo studio della Cina nel novero dei saperi pubblici condivisi che coinvolgono noi e i nostri lettori come cittadini di una comunità democratica.” (pp.25-26).

Tale ambizioso quanto necessario obiettivo viene realizzato chiedendo ad autorevoli sinologhe e sinologi di declinare da diverse angolazioni la relazione competitiva tra la Cina e gli Stati Uniti, condividere esperienze e metodologie di ricerca, saldando efficacemente un’analisi di ampio respiro su questo dualismo internazionale con riflessioni e studi sulla sfera nazionale della “Rpc”.

 

Una suddivisione artificiale del volume che aiuti il lettore ad approcciarsi ad un testo che, nella sua vocazione divulgativa e pubblica non risparmia certamente complessità e profondità d’analisi, credo possa essere la seguente.

I primi sei saggi si dipanano attraverso un gioco di specchi in cui Cina e Stati Uniti, con le loro rispettive propagande, narrazioni ed élite si guardano, contendendosi i “sogni”, la Storia, lo sviluppo economico, e, credo aspetto meno noto, anche il primato democratico.

 Sin dal primo saggio a firma del curatore, “Fra democrazia e autocrazia: leggere la propaganda sulla Cina in un’epoca di competizione” (pp. 31-68), la democrazia con le sue conflittuali interpretazioni diviene il trait d’union della prima metà del volume.

Trattando la democrazia, si deve tuttavia discutere quella che dovrebbe essere una sua nemesi, la propaganda.

 

Nella “Propaganda verso l’estero della Repubblica Popolare” (pp 69-94), “Sapio” offre una puntuale ricostruzione storica della comunicazione politica di Pechino, concludendo che “molte delle narrazioni sulla Cina che ormai fanno parte del sentire comune abbiano avuto origine a Pechino, e siano state convogliate da mass-media cinesi che sono parte integrante dell’apparato di propaganda” (p.70).

In qualche modo specchio del saggio di “Sapio”, segue quello di “Lanza”, che gode della posizione “privilegiata” di chi conduce studi storici sulla Cina moderna nell’accademia statunitense da oltre vent’anni.

 Il suo saggio “What does ‘China’ mean?

la doxa americana e la ‘nuova guerra fredda’?” (pp.95-114), si interroga sull’evoluzione della prospettiva statunitense sulla Cina, focalizzandosi sull’uniformità dello spettro politico nell’identificare l’ascesa cinese come minaccia sistemica.

 

Queste narrazioni e propagande a confronto lasciano spazio alla “democrazia con caratteristiche cinesi: le varie elaborazioni fino alla ‘nuova era’ di Xi Jinping” di Miranda (pp. 1115-138).

 In continuità con il contributo di “Fumian,” la sinologa della Sapienza ripercorre “l’importazione del concetto di democrazia” sin dal suo approdo sulle coste cinesi alla fine del XIX secolo.

Uno studio granulare che permette sia di sottolineare come la decostruzione della presunzione universale della democrazia occidentale abbia soddisfatto i “bisogni della propaganda interna e internazionale” sia di comprendere come “la democrazia onniprocedurale”  quan guocheng renmin minzhu (过程人民民主) avanzata oggi da Xi non nasca dal nulla.

Una “democrazia dei risultati”, una “democrazia che funziona” volta a “migliorare la sua posizione a livello mondiale”, accrescendo “il suo potere discorsivo” (huayuquan 话语权).

 

Una figura incastonata tra la propaganda e l’appena descritta esigenza del partito-Stato di rilanciarsi come modello altro, concorrente e migliore di quello occidentale, è quella del protagonista del “saggio di Brusadelli “Lo specchio americano di Wang Huning: il disincanto della democrazia e la guerra dei sogni” (pp.139-166). Membro del Comitato Centrale Permanente del Pcc dal XIX Congresso (2017), Wang può vantare “una continuità della sua influenza sull’intera leadership post-denghista” (p.142).

 Da Jiang a Xi, gli ultimi 30 anni della politologia ufficiale del Partito hanno visto spesso la regia dell’attuale Presidente della Conferenza Politica Consultiva del Popolo Cinese.

In sintesi, Brusadelli non solo ci spiega come il pensiero di Wang sia imprescindibile per decifrare la strategia discorsiva odierna del Pcc ma fornisce elementi per comprendere come “Democrazia”, “sovranità”, o “diritti”, siano diventanti “il campo immateriale su cui si svolge una competizione intellettuale per una egemonia parallela a quella geopolitica” (p.162).

 

L’ultimo saggio di questa sezione “democratica” è a firma di “Gabusi”. “La fortuna del capitalismo e il vantaggio delle democrazie: perché è sbagliato parlare di Modello Cina” (pp. 167-188) sfida sin dal titolo uno dei leitmotiv più diffusi circa l’alterità intrinseca del modello di sviluppo politico-economico della “Rpc”.

Senza eccessive perifrasi, l’autore afferma “che non esiste un vero e proprio “modello Cina” poiché l’esperienza della Rpc degli ultimi quarantacinque anni si colloca a pieno titolo all’interno del paradigma dello Stato sviluppista in Asia Orientale” (p.167).

Partendo da una critica al “The China Model” di Bell, passando per una rassegna del fortunato “Capitalism Alone” di Milanovic, anche Gabusi usa un gioco di specchi per descrivere il modello di sviluppo cinese guardando alla “presunta crisi delle democrazie” e alle “camaleontiche” doti del capitalismo che ne fanno la sua fortuna.

Non nega che le democrazie siano in crisi, soffrendo queste di una evidente “legittimità da output”, ma inchiodando la Rpc alle sue contraddizioni “socialiste” più esplicite, quali l’assenza di democrazia sindacale e diritto di sciopero, riafferma il “vantaggio delle democrazie”. Questo “risiede nell’alternanza al potere di personale politico diverso: nessun errore, nessuna incompetenza è per sempre.”

 

I successivi due capitoli possono essere inquadrati come un ponte tra la competizione USA-Cina con la sua guerra di narrazioni e gioco di specchi ed una conclusiva sezione “metodologica”.

Dalla relazione tra il “soft power” e teoria e pratica della traduzione (Pesaro, pp.189-220), al rinnovato controllo del Pcc sulla diaspora d’oltremare (Brigadoi Cologna, pp.221-248). 

Da un lato, l’autorevole traduttrice e sinologa conclude che le sfide attuali sono “antiche dinamiche dei processi traduttivi (…) entrate in una nuova fase con l’ingresso di Xi nella scena politica cinese”.

 

Dall’altro, “Brigadoi Cologna” ci parla delle politiche verso la diaspora cinese nella Repubblica Popolare.

Ripercorrendo la peculiare storia migratoria dei cosiddetti “cinesi d’oltremare”, l’autore sottolinea come il loro ruolo nella realizzazione del progetto politico del moderno Stato cinese non rappresenti un carattere innovativo della guida comunista stabilita nel 1949 ma affondi le sue radici nella tarda storia imperiale quanto nella più recente Repubblica di Cina.

Gli odierni 40 milioni appartenenti alla diaspora, nonostante abbiano “genealogie, storie famigliari, esperienze migratorie e biografie personali (…) difficilmente riassumibili in una descrizione univoca e monocorde della ‘cinesità’” (p.222), condividono certamente “l’intensificazione del controllo sociale e ideologico”, che il sociologo e sinologo esplora specificatamente nel caso italiano.

 

Infine, come si diceva, gli ultimi tre saggi potrebbero risultare maggiormente specialistici avendo come loro nucleo la metodologia con il quale guardare all’interno del vasto universo cinese.

Partendo dalle narrazioni contrapposte e polarizzanti sull’odierno ruolo della Cina nell’Africa, focalizzandosi in particolare sul tema dei lavoratori transnazionali cinesi nel continente, la sociologa “Ceccagno”, espone come l’adozione di un metodo interdisciplinare possa essere “antidoto all’uniformazione acritica e al posizionamento binario” (p.268).

 

Segue il contributo di” Gullotta” che offre la sua “danza etnografica nella Cina post-pandemica”.

Un saggio che pone al centro limiti e potenzialità della ricerca sul campo nella Cina di “Xi”, esplorando i rapporti di potere e le molteplici forme di autorità che non si esauriscono nel ruolo pervasivo del partito-Stato.

 Se infatti “il controllo totale è impossibile, il partito-Stato sembra accontentarsi d voler dare l’idea, a creare l’idea che ci sia un potere in grado di controllare” (p. 282).

Chiude questa “sezione” metodologica, la traduzione per mano del curatore del testo di “Sinan Chu”, che parafrasando la campagna Maoista “che cento fiori sboccino” discute e riassume “il dibattito sulla politica etnica della Cina tra il 2004 e il 2015” (pp.301-328).

Criticando la semplicistica, e mi permetto di aggiungere spesso “orientalista”, visione monolitica dell’autoritarismo del partito-Stato, l’autore evidenzia come la “svolta assimilazionista” intrapresa da Xi unita ad “un’evidente stretta negli spazi di discussione pubblica a livello nazionale” (p.326) fosse stata anticipata da una vivace e vasto dibattito sulla natura multietnica del Paese e sulle politiche gestionali di tale eterogeneità.

 

Conclude questo volume poliedrico, un’intervista a tre noti giornalisti impegnati nella comunicazione sulla Cina:

 Alessandra Colarizi, Simone Pieranni e Lorenzo Lamperti. 

La selezione non è casuale, avendo questi l’indubbio merito ad aver contribuito ad un parziale quanto fondamentale miglioramento dell’informazione sulla Repubblica Popolare.

Tutti e tre condividono l’esperienza presente o passata presso il sito d’informazione “China Files”, collettivo di giornalisti specializzati in affari asiatici.

 Sito che è divenuto un riferimento e che credo, come me, gli autori e le autrici di questo volume consiglino a studenti e studentesse spesso disorientati sul dove ricercare un’informazione “sana” e indipendente sulla Cina e l’Asia.

 “Fumian” li interroga sulla crisi complessiva dell’informazione sugli esteri sia nella sua natura “finanziaria” sia di “contenuti”, giungendo chiaramente a sollecitarli sul “caso cinese”.

 

In conclusione, se come propriamente affermato da Savina 11 nella sua recensione del medesimo testo, questo rappresenta “un punto di arrivo metodologico di grande rilievo” reso possibile dalla partecipazione di “autorevoli sinologi”, mi permetto retoricamente di aggiungere che esso non può che essere un punto di partenza.

Come si è tentato di mettere in risalto all’inizio del contributo, le difficoltà che si incontrano nello studio contemporaneo della Cina rappresentano un’esasperazione e condensazione delle molteplici difficoltà legate allo sviluppo di un complessivo sapere critico, pubblico e accessibile.

 La “sinologia critica” sapientemente delineata in “Leggere la Cina: capire il mondo” deve essere un tassello di un progetto più ampio per il rilancio di una conoscenza autonoma che scavalchi le mura di quel perimetro che gli esecutivi vogliono restringere. 

 

 

L'impero delle bugie. In Cina

 insabbiare le catastrofi è tradizione.

  Ilfoglio.it - Sigmund Ginsberg – (07 gen. 2023) – ci dice:

 

Una storia nascosta.

 Dai terremoti al Covid.

Così il potere conserva il “Mandato del cielo”.

Ora “Xi Jinping “rischia di perdere il controllo del paese.

 O peggio: la credibilità.

E senza quella, i sudditi possono pensare di reagire.

 

I disastri possono far cadere i regimi dispotici.

 O, al contrario, possono consolidarli.

Il termine “wiki”, disastro, è composto da due caratteri.

L’uno significa “pericolo”, l’altro “fortuna-opportunità”. Dipende dall’efficienza della risposta.

 E, cosa altrettanto se non ancora più importante, dall’efficienza e dalla credibilità della narrazione.

La cosa che conta di più non sono le bugie di stato.

Quelle ci sono sempre, anche nelle migliori democrazie.

 La menzogna fa parte della politica, anche della migliore politica.

 L’importante è come vengono raccontate, se vengono credute o no.

 La storia della Cina è zeppa di imperatori o anche intere dinastie che perdono il “Mandato del cielo” perché non hanno saputo o potuto reagire in modo efficiente e tempestivo a una catastrofe.

Gli ideogrammi per “terremoto” anticamente dicevano letteralmente:

“crolla il cielo, si frattura la terra”.

 Poi hanno deciso di semplificare.

Il carattere “cielo” è stato sostituito con “montagna”, infine è scomparso anche il termine montagna.

 “Cielo” imbarazzava il potere, qualunque potere, fosse quello dell’Imperatore o quello del Partito.

Perché ricordava la perdita del Mandato del cielo, della legittimazione a governare.

 

Il concetto l’aveva inventato la “dinastia Zhou”, agli inizi del primo millennio avanti Cristo.

Poi fu codificato dai confuciani.

 “Per governare non basta che chi governa sia virtuoso”, diceva “Mencio”.

Non basta essere onesti, tradurremmo oggi.

Bisogna essere capaci, e anche fortunati.

Nel corso di tutta la multi-millenaria storia cinese, terremoti, carestie, siccità, alluvioni, epidemie, e anche guerre e invasioni barbariche venivano considerati “segni del cielo”.

L’importante non era che l’imperatore fosse “benevolo” o “dispotico”.

Era che sapesse gestire le catastrofi.

 E, allo stesso tempo, che la sua versione dei fatti, la sua propaganda diremmo oggi, fosse convincente o meno.

Se sì, era legittimato a continuare a governare.

 Se no, altri della sua cerchia, o un movimento ribelle, o anche un invasore straniero, erano legittimati a sostituirlo.

La Cina è sempre stata, e resta, l’impero dei simboli.

Il potere nasce sì dalla forza, dalla canna del fucile, come diceva Mao, ma anche dal “controllo dei simboli”.

 A interpretare i simboli concorrono soprattutto gli intellettuali:

ecco perché da un secolo all’altro, da una dinastia all’altra, i sovrani li hanno coccolati o temuti, e di tanto in tanto li hanno sepolti vivi, mandati al rogo o in esilio.

 

L’ultimo imperatore detronizzato in seguito ad una catastrofe fu Mao.

Non lui, che era già sul letto di morte, ma quelli che traevano legittimazione da lui. Il 28 luglio 1976 la città di “Tangshan”, nello “Hebei”, a sud-ovest della capitale, e tutta l’area attorno, furono rasi al suolo da un terremoto di magnitudo 7,8, a 12 chilometri di profondità.

Uno scienziato giapponese ne calcolò l’effetto come pari all’esplosione di undicimila bombe atomiche come quelle lanciate su Hiroshima e Nagasaki.

 

Erano passate da poco le 3 del mattino, moltissimi rimasero sotto le macerie che erano ancora a letto.

 È una regione mineraria.

 Migliaia di minatori del turno di notte rimasero intrappolati nelle vene di carbone. Si ritiene si sia trattato della peggiore catastrofe naturale del ‘900.

Certamente quella che fece il maggior numero di vittime.

Il calcolo ufficiale è di 250.000 morti, e altrettanti feriti.

In milioni furono costretti a dormire all’aperto, senza acqua, senza luce, senza cibo.

Il sisma si avvertì fortissimo anche a Pechino.

La gente si riversò per le strade. Per fortuna era piena estate.

La prima tentazione in questi casi è nascondere la catastrofe sotto il tappeto.

I media ufficiali semplicemente non ne diedero notizia.

La mia amica “Barbara Alighiero” era studentessa in Cina, non si trovava a Pechino ma a “Wuhan” (sì, proprio la città epicentro dell’esplosione di Covid a cavallo tra 2019 e 2020).

 I suoi, dall’Italia, la cercavano disperatamente per avere notizie.

Finalmente riuscirono a raggiungerla al telefono (non c’erano ancora i cellulari). Ma lei cadeva dalle nuvole.

 A “Wuhan” il terremoto non si era sentito per nulla. Giornali e radio non ne parlavano.

 

A Pechino invece non si poteva ignorare.

 Partì immediatamente, di pari passo con l’organizzazione dei soccorsi, una campagna di propaganda volta a mostrare l’efficienza e tempestività della risposta, l’eroismo e l’abnegazione dei soccorritori, la compattezza di tutto il popolo cinese attorno alla saggia guida del Partito comunista.

Si recò sul posto, con pieni poteri a organizzare e dirigere i soccorsi, il primo ministro “Hua Guofeng”.

Era ancora un giovane quadro sconosciuto ai più.

Appena poche settimane dopo avrebbe rimpiazzato il defunto Mao alla testa del Pcc.

La promozione venne annunciata da giganteschi manifesti in cui lo si vedeva dipinto seduto accanto al Grande timoniere, con Mao che gli poggiava una mano sul ginocchio e gli diceva:

“Con te che te ne occupi, io sono tranquillo”.

 

L’avevano buttata subito in lotta politica.

La stampa di regime lanciò una campagna sulle “Critiche aperte degli operatori impegnati nel lavoro anti-terremoto e nei soccorsi contro Deng Xiaoping”, l’intramontabile “dirigente avviato sulla via del capitalismo”, l’eterna nemesi dei maoisti puri e duri.

Gli editoriali spiegavano che “la guerra di classe, lo scontro tra le due vie e le due linee si intensifica ogni volta che si verifica una calamità naturale”.

Cruciale era, spiegavano, ribadire con la massima fermezza che i Cinesi non avevano bisogno di alcun aiuto straniero.

 La Cina era e doveva assolutamente restare “autosufficiente”, far da sola. Bisognava, dicevano, evitare il rischio che l’importazione di tecnologie straniere significasse importare di soppiatto anche la “corruzione capitalistica” e il “revisionismo sovietico”.

“Meglio mangiare fieno socialista che grano capitalista”, il modo in cui l’aveva messa la “Signora Mao”.

 

Sembrò per un attimo che la narrazione ufficiale avesse avuto successo.

 Il mondo intero assistette con rispetto alla pazienza, anzi stoicismo con cui i Cinesi reagivano alla tragedia che li aveva colpiti.

Venne apprezzata la fierezza con cui rifiutavano aiuti stranieri, la prontezza dell’intervento dell’Esercito popolare di Liberazione, la capacità di mobilitare risorse umane, di far lavorare (e rifocillare) centinaia di migliaia di persone a riparare strade, ponti e linee elettriche e ferroviarie, erigere immense tendopoli, rimettere in sesto le miniere di carbone.

 Si lasciarono convincere anche esperti navigati e grandi giornalisti.

“William Safir”, inviato a Hong Kong dal New York Times, notò che se avevano retto così disciplinatamente all’attacco a sorpresa di 11.000 atomiche, non potevano certo fargli un baffo tutti i missili sovietici e americani.

 

Ma le cose non stavano così.

Il più solido regime del mondo non era così solido.

Finì che, defunto Mao il 9 settembre, poco più di un mese dopo il Grande terremoto, decisero di arrestare la vedova Jiang Qing e gli altri della “Banda dei quattro”.

La catastrofe era stata troppo pesante.

I soccorsi non avevano funzionato. La bugia era troppo grossa.

 Non era in alcun modo possibile fare come l’anno prima, quando un sisma assai più modesto aveva colpito “Haiphong”, 400 chilometri più a Nord-est di Tangshan, e il regime e i suoi organi di stampa si erano vantati di come “grazie al Mao Zedong-pensiero”, i sismologi erano stati in grado di predire l’imminente terremoto, e “minimizzarne le conseguenze”.

 

Era una sciocchezza.

La capacità di previsione era stata inventata ex-post.

Che ci fossero state relativamente poche vittime (duemila o giù di lì) era dovuta a un insieme di circostanze fortunate.

I sismologi avevano “predetto” (si fa per dire, come è noto non si può con esattezza prevedere né il quando né la magnitudo), o per meglio dire avevano colto segni premonitori anche per il “terremoto di Tangshan”.

 Ma le autorità, li avevano zittiti.

 Avevano deciso di non tener conto delle avvisaglie, di non diramare alcun avviso, “per non allarmare la popolazione”.

 Una volta successo, le conseguenze erano così terribili che alla fine si risolsero a coprire tutto con un mare di calce viva, per evitare che al flagello del terremoto subentrasse quello delle epidemie.

 

Sembra, pari, pari, quello che è successo col Covid.

Sapevano dal tardo autunno 2019 (non a caso si chiama Covid-19).

Prima avevano cercato di nascondere il tutto.

Forse non volevano disturbare la festività del Capodanno lunare cinese, l’equivalente del nostro Natale, l’occasione in cui milioni di cinesi si spostano per andare a trovare i parenti.

 “Li Weifang”, il medico che su “Weibo” (l’equivalente cinese di Twitter), aveva cercato di avvertire i colleghi che ci si trovava di fronte a un virus terribilmente simile a quello della “sars”, era finito in carcere per “diffusione di notizie false e tendenziose”.

È diventato un eroe, ma postumo:

 è morto agli inizi del febbraio 2020 di Covid contratto da uno dei suoi pazienti. Infine, quando i buoi erano già scappati dalla stalla, hanno varato la politica dello “Zero Covid”, hanno chiuso tutto.

 Poi sono arrivati, anche lì a tempo record, i vaccini.

 Ma il loro “Sinovac “non funzionava bene come quelli occidentali.

 E, soprattutto, la gente non si fidava a vaccinarsi.

Succede, quando di storie gliene sono state raccontate troppe.

 

Anche la stizzita risposta agli Europei che gli avevano offerto i vaccini è un déjà-vu. Se gli avessero offerto, non ora, ma subito, all’inizio, la licenza per produrli, sarebbe stata un’altra storia.

Negli anni ‘50 si era diffusa a Pechino la psicosi della guerra batteriologica degli Stati Uniti.

Correva voce che avessero lanciato nei boschi fiale contenenti germi della peste, del vaiolo, del carbonchio.

 Era una bufala, montata dai servizi sovietici.

Scattò una campagna a tappeto di vaccinazioni di massa.

 Era obbligatoria anche per gli stranieri.

Questi erano autorizzati ad usare vaccini loro. I cinesi no.

Per orgoglio, ma anche per timore che fossero contraffatti.

Nell’800 l’Inghilterra li aveva avvelenati vendendogli l’oppio.

 

Con una percentuale minima di vaccinati contro il Covid, soprattutto tra gli anziani, i più deboli, l’alternativa era tra rischiare milioni di morti o serrare ancora di più.

Avevano scelto quel che sanno fare meglio, da millenni: la linea dura.

Quarantene per tutti.

Deportazioni obbligatorie e brutali dai caseggiati sospetti di infezione.

Blocco di centri commerciali con tutti i consumatori dentro.

Chiusura di interi quartieri, o anche di intere grandi metropoli moderne, brulicanti di attività come Shanghai.

Finché la gente non ne poteva più, e ha cominciato a protestare.

Non è che negli anni scorsi in Cina non si protestasse.

C’erano centinaia di manifestazioni di protesta ogni giorno.

Ma su questioni particolari.

Questa volta invece il regime si era sentito sotto accusa su questioni che interessavano tutti, sulla sua core activity, la sua stessa ragione di esistere, la sicurezza collettiva.

 

In altre occasioni, il mix di repressione e propaganda aveva funzionato. L’esaltazione dell’organizzazione dei soccorsi per il terremoto nel “Sichuan” nel maggio 2008, tre mesi prima delle Olimpiadi a Pechino era stata una capolavoro.

Ne avevano tratto persino un film di grandissimo successo, su “come si serve il popolo”, con toni epici paragonabili a quelli dell’”Alexandr Nievskij “di staliniana memoria, del documentario sull’adunata nazista a Norimberga di “Leni Riefenstahl”, di “Birth of a Nation” di “Griffith”.

 

Stavolta, fallita la narrazione, potevano decidere di reprimere e basta.

“Xi Jinping” ha deciso probabilmente che era più rischioso essere travolti dalla protesta che essere travolti dal virus. Ma ora rischia di avere sia la protesta che una pandemia fuori controllo.

Soprattutto rischia la perdita di credibilità, che nessuno creda più a quel che gli dice il governo.

 Anzi, peggio ancora, rischia di perdere la faccia, che è, nella cultura cinese, la cosa peggiore che gli possa capitare.

 Improbabile sia stata la voce del popolo a convincerlo.

L’avrà convinto qualcuno i cui consigli non si potevano rifiutare.

 

Ma così facendo ha creato un precedente pericolosissimo.

Se un despota ammette di avere sbagliato, i suoi sudditi possono pensare che sbaglierà ancora.

 Ne va della sua credibilità.

 In una democrazia può cambiare il governo, si può eleggere un altro presidente o mettere assieme un’altra maggioranza.

Caduto un governo se ne fa un altro.

Un regime dispotico non ha le stesse valvole di sicurezza.

Morto o deposto l’imperatore può succedere di tutto, possono ritrovarsi nel caos, in mezzo a una guerra di successione, o addirittura in una guerra civile.

 

“Governare un grande stato è come cuocere dei pesciolini. Se si cuociono troppo li si rovina”, dice il Daodejing.

“Xi” ha evidentemente strafatto la cottura. È messo male.

Ma un po’ se l’è cercata. Ha voluto applicare alla Cina del terzo millennio gli stessi metodi autoritari degli anni di Mao, o anche dei miei anni ‘80 a Pechino.

 Non si può comandare con la baionetta ai mercati, né ai terremoti, né ai virus.

 E nemmeno fargli il lavaggio del cervello.

 

Mao si era assunto la responsabilità del peggior disastro di tutti i tempi, dei milioni di cinesi periti per il “fallimento del Grande balzo”.

Per rimediare, non cedere il potere personale, aveva scatenato la Rivoluzione culturale, una vera e propria guerra civile.

Usufruiva del più formidabile apparato propagandistico di tutti i tempi.

 Non filtrava fuori nulla e nulla da fuori.

 I cinesi non seppero nemmeno che degli americani erano sbarcati sulla Luna. Nell’era dei cellulari, di internet, dei Virtual personal network (Vpn) le frottole funzionano meno.

Anzi, fanno perdere la faccia.

 

 

 

Prove di soft power cinese.

La propaganda passa (anche)

dagli influencer.

 

Mediatrends.it - Redazione - (24 Giugno, 2025) – ci dice:

Insieme alle operazioni di disinformazione e destabilizzazione politica, Pechino sta ideando campagne di pubblicità positiva attraverso i volti più famosi dei social - media in Occidente.

Il partito comunista cinese sta vivendo un cambiamento nel suo modo di fare propaganda.

Gli organi di stampa statale stanno puntando sempre di più su figure del mondo dei social media, con un certo riguardo per le star americane.

Questa strategia è frutto dell’intenzione di diversificare i propri mezzi, oltre ai recenti strumenti forniti dall’intelligenza artificiale come chatbot e deepfake.

L’aggiornamento della strategia di soft power cinese va di pari passo con l’aggressività delle politiche anti-immigrazione degli Stati Uniti di Donald Trump.

 

La scorsa settimana, mentre la Cina apriva le porte al mondo dei “content creator”, la” Cnn” confermava la detenzione del” tiktoker Khaby Lame “all’aeroporto “Harry Reid” di “Las Vegas”.

Il volto del canale più seguito al mondo su “Tiktok”, è stato poi espulso dall’”Ice” – l’agenzia federale per il controllo dell’immigrazione contro gli immigrati irregolari.

 

Piano cinese.

La scorsa settimana, proprio mentre a Los Angeles sono scoppiate le proteste contro i raid anti-immigrazione, gli organi di stampa cinesi annunciavano “ China-Global Youth Influencer Exchange Program”.

 

Stando alle dichiarazioni del governo guidato da “Xi Jinping”, presidente della Repubblica Popolare Cinese, il programma mira a creare delle collaborazioni tra “content creator” occidentali e locali.

In pratica, il governo di Pechino si offre di pagare tour di dieci giorni nel Paese a influencer con più di 300mila follower per promuovere un’immagine positiva sui vari social media come “X”, “Tiktok” e” Instagram”.

 

Reputazione social.

Era già noto che i travel blogger fossero apprezzati dai media locali e le agenzie statali di propaganda.

Un fenomeno simile, ma non coordinato – anzi, spesso, osteggiato – dalle istituzioni, esiste in Corea del Nord.

Il Paese sta diventando meta per molte figure dei social, affascinati dal suo misterioso isolazionismo.

Tuttavia, l’iniziativa di Pechino è il primo piano strutturato organizzato da un governo con l’obiettivo di aumentare il numero di influencer che visitano e raccontano una nazione.

 

Già a marzo il governo cinese aveva invitato lo youtuber statunitense” I Show Speed”, che aveva pubblicato diversi “video blog” in cui raccontava innovazioni tecnologiche e mostrava luoghi turistici.

Poi ad aprile, Pechino si era di nuovo rivolta ai social media per la guerra commerciale con gli Stati Uniti.

Infatti, per combattere i dazi americani molte aziende cinesi avevano deciso di mostrare sui social l’origine del lusso occidentale, sfruttando il potere della viralità.

 

La Cina, come anche l’Iran e la Russia, negli ultimi tempi è stata al centro di diversi scandali riguardo alla disinformazione in rete.

Ultimo fra tutti, quello legato al report di “OpenAI” sull’utilizzo etico dei “chatbot” e gli “strumenti di “IA”.

Ora, però, la strategia adottata sta virando dalla destabilizzazione politica alla pubblicità positiva, proprio tramite voci e volti dell’Occidente.

 

(“Xi Jinping”, segretario generale del Partito Comunista Cinese dal 2012 e presidente della Repubblica Popolare Cinese dal 2013.

 Foto: Wikimedia Commons.)

 

Strategie contrastanti.

Sembra quindi che la Cina stia mirando ad aumentare il proprio soft power anche in Occidente, dopo aver conquistato gran parte del Sud globale.

Ed è interessante, perché gli Stati Uniti dopo decenni di soft power – e diplomazia pubblica – in cui hanno puntato sulla comunicazione e sui media per espandere la propria influenza nel mondo, stanno facendo l’opposto.

Infatti, oltre alla chiusura del “programma Usaid”, che ha danneggiato il predominio culturale americano, a marzo l’amministrazione “Trump ha deciso di tagliare i fondi della United States Agency for Global Media”, smantellando di fatto “Voice of America”, dopo più di 80 anni.

 

L’arma mediatica – usata per combattere la propaganda della Germania nazista durante la seconda guerra mondiale e quella sovietica nel corso della guerra fredda poi – è stata valutata come non più necessaria dal governo Trump.

In questo cambio di prospettiva, Pechino ha visto un’opportunità.

 

Media e cultura.

Secondo il presidente” Xi Jinping”, il vero divario presente tra Stati Uniti e Cina non è l’influenza mediatica, ma è il distacco nella reputazione tra i giovani.

Gli Stati Uniti sono meta turistica per la popolazione cinese, ma anche lavorativa e accademica.

Gli studenti cinesi nelle università americane continuano a crescere, mentre l’influenza culturale della Cina non riesce a fare il salto in avanti che servirebbe.

L’immagine della Repubblica Popolare è spesso collegata alla repressione politica e delle libertà civili.

Gli stessi studenti cinesi sono disillusi dalla forte presenza delle autorità nelle università e guardano verso Occidente quando si tratta di percorsi accademici.

Nonostante il crescente sviluppo tecnologico, la cultura cinese è ancora legata alla tradizione.

Si è dunque sviluppata un ostacolo all’internazionalizzazione della nazione.

Il Paese vuole cambiare e diventare un polo di scambio culturale, non solo a livello asiatico, ma mondiale.

 

La risposta a questo problema, secondo i dirigenti politici di Pechino, è quello di conquistare i media digitali. Non tramite la disinformazione – che comunque rimane un’arma potente per il governo – ma tramite la propaganda positiva.

La soluzione trovata dalla Cina è stata quella di aumentare le collaborazioni tra influencer locali e americani, per migliorare la propria reputazione tra i giovani e ricreare la propria immagine in Occidente.

E forse questo aiuterà a migliorare le relazioni con l’Occidente, oltre che a far riscoprire un Paese che sta vivendo forti cambiamenti e innovazioni.

O, perlomeno, questo raccontano i video dello “youtuber I Show Speed”.

 

 

 

Marco Fumian: Cosa significa

“rafforzare il potere discorsivo della Cina”.

Il punto di vista di un intellettuale cinese.

Sinosfere.com – (August 29, 2025) – Redazione - Numero Ventidue: Potere Discorsivo, Sinografie –  Marco Fumian -ci dicono:

 

Nell’ottobre 2013, alla Conferenza nazionale sul lavoro di propaganda e ideologia, “Xi Jinping”, eletto da meno di un anno segretario generale del Partito Comunista Cinese (PCC), enunciava il seguente obiettivo:

 

“Bisogna sforzarsi di espandere le capacità della comunicazione internazionale, innovando i metodi della propaganda verso l’estero e rafforzando la costruzione del sistema discorsivo (huayu tixi 话语体系); e sforzarsi di creare nuovi concetti, nuove categorie e nuove espressioni che connettano la Cina e l’estero, raccontando bene le storie della Cina, diffondendo bene la voce della Cina e rafforzando il potere discorsivo a livello internazionale (zai guojishang de huayuquan 在国际上的话语权)”.

Huayu quan (huayuquan 话语权), nel suo significato tanto di “diritto di parola” o “potere del discorso”, qui tradotto come “potere discorsivo”, è una nozione centrale dell’attuale “propaganda verso l’estero” del PCC, profondamente rivitalizzata sotto la guida di “Xi Jinping”, fondamentale tanto quanto il precetto di “raccontare bene le storie della Cina”, di cui ci siamo già occupati su questa rivista qualche anno fa.

 

Cosa si intende dunque con questa nozione? Cosa significa dal punto di vista teorico e pratico “rafforzare il potere discorsivo”?1) Se la terminologia del PCC è spesso elusiva, è piuttosto nelle elaborazioni di ambito accademico che di solito troviamo delle illustrazioni estese di come si debbano o si possano intendere, con dei margini interpretativi più o meno ampi, le formule politiche ufficiali.

Si è scelto perciò di presentare su queste pagine alcuni articoli di” Su Changhe”, studioso cinese di politiche e relazioni internazionali, dato che questi illustrano in modo particolareggiato le visioni, le finalità e le strategie del partito-stato cinese inerenti alla diffusione internazionale del cosiddetto potere discorsivo.

 

“Su Changhe”, classe 1971, da anni direttore della “Scuola di relazioni internazionali e affari pubblici” dell’”Università Fudan”, e secondo l’enciclopedia collaborativa “Baidu Baike” membro del PCC dal 1999, si è dedicato soprattutto alla definizione e all’affermazione dei principi del sistema politico cinese, nonché dei metodi per farli conoscere all’estero nel contesto della globalizzazione, come illustrano i suoi articoli selezionati nella sua pagina di Fudan e nel portale dedicato al sapere accademico cinese “Aisixiang”.

 I suoi interessi e le sue visioni, perciò, non solo si allineano con quelli del PCC, ma anzi per certi aspetti li anticipano, contribuendo a definire, nel loro farsi, i temi ideologici ufficiali prediletti dall’attuale propaganda.

Per questo abbiamo deciso di pubblicare alcuni di questi saggi, incentrati sul tema del potere discorsivo, nell’ottima traduzione italiana di “Laura Federico”, che ne ha curato anche la selezione.

 

La nozione di discorso elaborata da “Su Changhe”, vale la pena di notare, trae ispirazione almeno in parte da quella di” Michel Foucault”, per il quale come è noto il sapere è una costruzione discorsiva prodotta socialmente e strutturata dalle azioni del potere.

Gli intenti, però, appaiono diametralmente opposti:

se lo scopo, per il filosofo francese, è quello di decostruire il nesso sapere/potere, in particolare in relazione agli interventi disciplinari del potere dello stato, per il politologo cinese (e per il PCC), viceversa, si tratta piuttosto di saldarlo.

Come si leggerà chiaramente nei saggi dell’autore, l’esigenza di rafforzare il potere discorsivo è legata alla volontà di aumentare l’influenza della Cina a livello internazionale.

A giustificare tale intento, c’è la visione che il cosiddetto Occidente, rappresentato in primo luogo dagli Stati Uniti, eserciti sull’ordine internazionale un’egemonia arbitraria, fondata in modo significativo sul potere normativo del discorso.

Il pensiero politico occidentale, considerato da “Su Changhe” come un pensiero eminentemente locale, si è universalizzato grazie all’espansione del “dominio dell’Occidente”, che ha costretto le altre culture ad assimilare i propri schemi concettuali sopprimendone le potenzialità peculiari di sviluppo.

 La Cina, perciò, costretta in una “posizione svantaggiata” da quest’ordine simbolico coercitivo, deve liberarsi dalle visioni distorte che la ingabbiano, e sfruttare la propria ascesa e il declino percepito del potere occidentale per cominciare a “parlare con le proprie parole”, sia nel contesto nazionale che in quello internazionale, confezionando e diffondendo, in particolare, i “propri” concetti e le “proprie” terminologie nell’ambito della filosofia politica e delle scienze sociali.

 Si tratta perciò di una spinta di “decostruzione contro egemonica” che sottende delle implicite finalità egemoniche, mirando a riprodurre per la Cina lo stesso processo di conquista del potere discorsivo occidentale universalizzando le visioni politiche e sociali cinesi.

 

A questo fine, “Su Changhe” delinea diverse azioni da compiere, che prevedono la partecipazione di più attori. In primo luogo, gli intellettuali e accademici cinesi, troppo proni a suo avviso a sottomettersi ai “sistemi di giudizio occidentali” criticando la Cina a partire da questi ultimi.

Questi, invece, dovrebbero trovare la propria autonomia e consapevolezza culturale, facendosi “interpreti delle politiche del governo”, concentrandosi nell’elaborazione di un sistema autoctono di nozioni e definizioni basate sulla storia e sulla realtà della Cina, al fine di evidenziarne tanto l’incontestabile diversità dei suoi “valori”, quanto gli elementi di “comunanza universale” con i valori delle altre “nazioni e civiltà”, così da creare “convergenze” e “unità di intenti” “pur percorrendo strade diverse”.

Ma si tratta – finalità affatto secondaria – anche di impegnarsi a trasmettere queste visioni e questi valori al pubblico straniero, sforzandosi di adottare strategie creative per renderli comprensibili e attrattivi in un dialogo “paritario” con quest’ultimo.

Fondamentale, a questo scopo, è formare un gran numero di studiosi e studenti stranieri, educandoli non solo alla lingua cinese ma anche alle teorie e ai concetti di matrice cinese, con la fiducia che, quando questi ultimi avranno assimilato i linguaggi e le idee in essi contenuti, contribuiranno a loro volta a diffonderli “cambiando la percezione degli altri” sulla Cina.

 

Si tratta, come si può vedere, di argomentazioni in larga parte legittime, e motivate da intenzioni parzialmente costruttive.

È vero infatti, come peraltro già sappiamo, che la modernità occidentale ha sottomesso con gradi diversi di violenza lo sviluppo mondiale alla propria logica e ai propri fini, ed è altrettanto ovvio, come affermano gli studi postcoloniali non di rado branditi dal nativismo cinese, che occorre “decolonizzare” la “tarda” mentalità eurocentrica che muove oggi i suoi ultimi colpi di coda.

Così come è vero, lo abbiamo più volte osservato, che la visione del sistema politico cinese, nell’ordine del discorso occidentale, tende a essere molto spesso fissata secondo schemi stereotipati che la inchiodano come altro negativo dei propri modelli normativi.

Ed è perciò scontato, alla luce di ciò, che sarebbe necessario sviluppare sguardi più aperti sulla Cina per indagare se dalle sue esperienze storiche e progettualità politiche non possano venire anche dei contributi positivi per una governance mondiale sempre più in crisi, in cui il tanto impugnato “sistema basato sulle regole” viene smantellato oggi proprio da chi dovrebbe difenderlo.

 

Nello stesso tempo, leggere “Su Changhe” ci aiuta a mettere a fuoco gli aspetti più visibilmente problematici di queste argomentazioni, viziate come sono dal loro essere inalveate nella logica della propaganda governativa cinese.

Motivate principalmente dalla volontà di spiegare i “concetti chiave che definiscono la via, il sistema e la teoria cinese”, ovvero le visioni ufficiali del PCC riguardo al percorso di sviluppo “corretto” della Cina, esse hanno, come finalità primaria, quella di legittimare le scelte del potere politico cinese in Cina e all’estero.

 I “concetti”, le “categorie”, e le “espressioni” autoctone che in teoria dovrebbero interpretare in modo più rispondente le esperienze e le soggettività “reali” della Cina, perciò, tendono a configurarsi nella pratica come elaborazioni ideologiche rispondenti prima di tutto alle esigenze del partito.

Inoltre, definite sulla base della loro asserita differenza rispetto alle inclinazioni culturali occidentali, tali elaborazioni non smontano le opposizioni binarie della modernità occidentale, ma anzi le ri-fissano, limitandosi a capovolgerle, erigendo delle contrapposizioni orientalistiche fra un ordine occidentale essenzializzato, che in virtù della sua natura capitalista sarebbe indistintamente votato a creare un “mondo per l’interesse privato”, e un ordine ideale della Cina, che essendo per sua natura portata ad attingere alla “saggezza orientale”, con la sua propensione per le relazioni armoniose e simbiotiche, mirerebbe più naturalmente a creare un mondo “per il bene comune”.

Un modo di immaginare le cose, di conseguenza, che mentre costruisce la rappresentazione di un Occidente sostanzialmente monolitico – come se non fosse lo stesso “Occidente” a generare, al proprio interno, tutti i contro- discorsi e le visioni critiche sullo stesso “Occidente” a cui i nativisti cinesi attingono nel formulare le loro contestazioni anti-egemoniche – in contemporanea promuove la narrazione di un’entità cinese idealizzata (la “comprensione di una Cina vera, progressista, e positiva”, nelle parole dell’autore), da cui tutte le differenze e divisioni interne, a livello politico, economico, sociale, culturale, sono tendenzialmente edulcorate o espunte.

Un esempio molto significativo di questo modo di elaborare i concetti, su cui ho già scritto di recente, riguarda la fabbricazione della nozione di una presunta “democrazia cinese” oggi promossa dal PCC,3) resa possibile dal fatto che, come spiega Su Changhe, a volte parole diverse in culture diverse designano concetti dallo stesso significato (tong yi yi ming 义异名), mentre a volte parole uguali in culture diverse designano concetti con significati diversi (tong ming yi yi同名异).

 Ciò riguarderebbe appunto proprio la nozione cinese di “democrazia”, la quale, ispirata nei suoi contenuti da antichi ideali politici cinesi, e traendo le sue origini moderne “dalla dottrina marxista dello stato”, e quindi trovando la sua legittimità “nel socialismo e non nel capitalismo”, avrebbe, a differenza della democrazia liberale di matrice occidentale, “come fondamento la società e l’uomo, non il capitale e il denaro”.

 

Confrontarsi in modo consapevole con questi concetti “cinesi”, perciò, diventa un lavoro molto importante, soprattutto per quei “70 milioni di persone (sic!) che attualmente studiano il cinese” all’estero, a cui, scriveva “Su Changhe” nel 2017, le istituzioni culturali cinesi dovrebbero strategicamente rivolgersi, al fine di farle “entrare in sintonia” e farle “sentire vicine” ai valori positivi promossi oggi dal “discorso diplomatico” cinese.

 La strategia, nel promuovere questi insegnamenti attraverso gli scambi, sarebbe quella di “concentrarsi sulla costruzione di riviste internazionali, pubblicazioni, sistemi di valutazione e accreditamento, ricerche collaborative, società accademiche, premi onorari e altri meccanismi che utilizzano il cinese come lingua di espressione accademica”.

Di fatto, si tratta proprio delle svariate iniziative che abbiamo visto massicciamente intraprese dalle istituzioni culturali della RPC negli ultimi anni.

 È dunque fondamentale, per chi rientra fra le tante persone che sono in qualche modo interpellate da questi discorsi, elaborare a propria volta strategie per decifrarli, comprendendone meccanismi, finalità e contenuti.

 Interpretare in modo critico le parole e le idee diffuse oggi dalla Cina nel mondo, è uno dei compiti principali di chiunque voglia occuparsi di lingua e cultura cinese in modo serio.

 

Sarebbe tuttavia fuorviante pensare che tutte le elaborazioni degli intellettuali cinesi contemporanei rispondano, come nel caso di “Su Changhe”, al mero obiettivo di “costruire l’ideologia della nazione”, come vorrebbe invece quest’ultimo.

 Sebbene l’orizzonte dei dibattiti intellettuali, dopo una fase di relativa apertura, si sia nel sistema ideologico di “Xi Jinping” effettivamente ristretto, non tutti gli intellettuali cinesi “parlano”, a tutt’oggi, ritenendosi dei semplici interpreti e divulgatori del discorso politico ufficiale.

Molti, ancora, sono gli intellettuali che conservano una loro agenda intellettuale autonoma, negoziata all’interno dei perimetri istituzionali e gli obiettivi ideologici delimitati dallo stato.

È il caso, per esempio, di “Ge Zhaoguang” (1950), figura di rilievo all’interno del panorama storiografico e intellettuale cinese, il quale, mettendo in guardia contro le narrazioni storiche di stampo nazionalista oggi evidentemente molto diffuse, ha avviato negli anni un fecondo dialogo con la “Global History “nel tentativo di ricercare “un linguaggio comune [fra diverse aree geografiche e comunità politico-culturali, nda] per creare una storia che aspiri ad essere globale presentando una pluralità di punti di vista diversi non antitetici, ma complementari”.

Presentiamo pertanto un interessante disamina sul lavoro di questo autore, condotta da “Paolo De Giovanni”, insieme alla traduzione di un saggio originale di “Ge Zhaoguang” svolta dallo stesso curatore.

 

 

 

 

Fake news, come la Cina sfrutta

i motori di ricerca per

distorcere le informazioni.

 Cybersecitalia.it - Andrea Speziale – (14 Luglio 2022) -Redazione -Cybernotes – ci dice:

Da un recente report è emerso come la Cina, attraverso i propri media controllati direttamente dallo Stato, sia in grado di influenzare i risultati dei motori di ricerca più utilizzati nel mondo.

“Quando scoppia la guerra, la prima vittima è la verità.”

 (Hiram Johnson - 1917).

 

SUW 2025.

Propaganda e manipolazione delle informazioni sono armi note sin dall’antichità come mezzi per spezzare il morale del nemico e vincere le guerre.

 E non esiste luogo più favorevole del dominio cibernetico per combattere un conflitto basato sulla distorsione dei fatti, sulla disseminazione di notizie fuorvianti e sulla mistificazione della realtà.

Negli ultimi anni sono stati pubblicati numerosi report su questo argomento, diventato ancora più attuale per via della pandemia e, negli ultimi mesi, a causa della guerra in Ucraina e delle continue campagne di propaganda portate avanti dagli attori coinvolti.

Ovviamente, quando si parla di disinformazione e fake news la prima cosa a cui si pensa sono i social network, ma non ci sono solamente i falsi account Twitter, le pagine complottiste su Facebook e i disinformatori su Telegram.

Esiste un ambito a cui prestiamo meno attenzione e a cui sono stati dedicati meno studi di settore, ma che è altrettanto importante e può influenzare gli utenti della rete persino più dei social media:

i motori di ricerca.

 

Il COVID è americano e nello Xinjiang va tutto bene.

L’arte di creare la propria verità.

Alla fine del mese di maggio del 2022 è stato pubblicato un report scritto da alcuni autori di due dei più importanti think tank dedicati alla geopolitica:” Brookings Institution” e” German Marshall Fund Alliance for Securing Democracy” (ASD).

Il titolo è sicuramente molto evocativo

“Winning the web: How Beijing exploits search results to shape views of Xinjiang and COVID-19” e pone l’accento su una questione fondamentale che spesso però viene trascurata da chi si occupa di propaganda in rete e guerre cibernetiche: l’importanza dei motori di ricerca e dei risultati che restituiscono agli utenti.

Da questo report è emerso come la Cina, attraverso i propri media controllati direttamente dallo Stato, sia in grado di influenzare i risultati dei motori di ricerca più utilizzati nel mondo.

In particolare, lo studio ha evidenziato come il governo di Pechino abbia sfruttato i risultati restituiti dai principali motori di ricerca (Google e Bing), dai siti aggregatori di notizie (Google News e Bing News) e da YouTube per costruire una narrazione più favorevole alla Cina riguardo alcuni temi considerati critici:

il COVID-19 e la regione dello “Xinjiang”.

È un meccanismo semplice: si producono tantissimi contenuti che riportano le informazioni desiderate e si sotterrano (in senso digitale) le fonti che vogliamo nascondere.

Fate una prova: aprite Google, Bing, Google News, Bing News e YouTube e cercate alcuni termini neutri come “Xinjiang” (per chi non lo sapesse, si tratta di una regione cinese in cui il governo di Pechino sta mettendo in atto da tempo campagne di internamento e sostituzione etnica ai danni della popolazione autoctona degli Uiguri, al punto che oggi sempre più spesso si sente parlare di “genocidio”).

Presumibilmente non vi saranno restituiti risultati particolarmente anomali sui motori di ricerca web. Al contrario, sugli aggregatori di notizie e su YouTube è alquanto probabile che vedrete notizie provenienti da fonti governative cinesi o da media legati a Pechino, che spesso riguardano la crescente economia della regione.

Secondo quanto riportato nello studio citato prima, le notizie sullo Xinjiang provenienti da fonti filogovernative cinesi compaiono tra i primissimi risultati dei siti aggregatori di notizie nell’88% dei casi, mentre su YouTube la percentuale arriva addirittura al 98% (soprattutto se la ricerca effettuata non è particolarmente “neutra”).

Al contrario, le ricerche web subiscono questa influenza in percentuale nettamente inferiore.

Nel caso del COVID-19, al contrario, le ricerche effettuate inserendo termini neutrali risultano molto “pulite”, probabilmente per via dell’enorme lavoro di moderazione dei contenuti messo in atto dalle principali piattaforme durante la pandemia.

Ma anche in questo caso l’”operazione di contro narrazione cinese “è riuscita a mostrare tutte le sue capacità.

Infatti, dall’inizio della pandemia l’attività di disseminazione di notizie false riguardo l’origine del COVID-19 è stata pressoché incessante e oggi non è raro imbattersi in notizie che attribuiscono la colpa della pandemia agli Stati Uniti e in particolare a un laboratorio nel Maryland.

Provate ad andare su Google News o YouTube o Bing e cercate “Fort Detrick”, poi verificate l’origine delle fonti dei risultati che avrete ottenuto.

Cina: come si combatte la guerra del web.

Lo scopo di tutto questo gigantesco apparato di propaganda è solo uno:

favorire la narrazione di una buona Cina e mitigarne la percezione nel mondo, rendendo più sfocata l’immagine del regime autoritario e repressivo che non rispetta i diritti umani.

Per raggiungere questo scopo è stato necessario adottare linguaggi e terminologie adeguati, non solo per le questioni di Xinjiang e COVID-19, ma anche per Hong Kong e Taiwan.

Un esempio calzante di quest’uso del lessico per ridisegnare la realtà è dato dalla strategia utilizzata dai media cinesi per contro narrare il genocidio degli Uiguri.

Il primo passo è stato quello di definirlo come “la bugia del secolo” per poi spostare l’attenzione su un altro argomento, inondando la rete di contenuti con specifici hashtag che rimandavano a un altro genocidio: quello dei nativi americani.

Proprio per questi motivi, nel report in questione vi è un lungo capitolo dedicato alle possibili contromisure attuabili sia dalle aziende che gestiscono i motori di ricerca -ad esempio proponendo sistemi per “etichettare” i siti web, identificando quelli che promuovono contenuti di maggiore qualità e distinguendoli da quelli che operano per disseminare disinformazione- sia dai creatori di contenuti, che dovrebbero adottare sistemi per portare in alto nei motori di ricerca i propri articoli adattandoli alle abitudini di ricerca degli utenti della rete.

È difficile prevedere come evolverà nei prossimi anni la guerra delle narrazioni:

se prevarrà una rete il più possibile “pulita” e senza contenuti pilotati da attori statali e non (almeno per quanto riguarda le democrazie occidentali) o se i motori di ricerca e gli aggregatori di notizie finiranno sepolti dagli articoli creati appositamente dagli apparati di propaganda.

L’unica certezza, purtroppo, è che finora la grande vittima di questa guerra mondiale digitale è stata la verità.

 

 

 

Von der Leyen di fronte a due

mozioni di sfiducia. La maggioranza

dell’Eurocamera le fa scudo.

Eunews.it - Enrico Pascarella – (6 Ottobre 2025) - in Politica – ci dice:

 

Destra e sinistra contro la presidente delle Commissione.

Bardella (Pfe): “E' stata firmata con Trump la resa commerciale dell'Europa”. Per Manon Aubry (The Left) "la Commissione è complice del genocidio a Gaza a causa della sua inazione.”

Mozione di sfiducia.

Dall’inviato a Strasburgo – Due mozioni, due voti e due discorsi contro la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen.

Oggi (6 ottobre), nella prima giornata dell’Assemblea plenaria di Strasburgo, le due ali estreme del Parlamento – Patrioti per l’Europa (PfE) e La Sinistra (The Left) – hanno presentato due proposte distinte per far cadere la Commissione.

 

“Votare la sfiducia non significa votare contro l’Europa, ma salvarla” ha affermato “Jordan Bardella”, presidente del gruppo dei Patrioti.

 Per “Manon Aubry”, capogruppo di “The Left”, invece, la presidente si deve dimettere perché è “complice del genocidio a Gaza a causa della sua inazione”.

Le proposte saranno votate giovedì 9 ottobre, sapendo già quasi con certezza di non riuscire a ottenere l’obiettivo dei due terzi dei voti, visto che nessuno tra Socialisti & Democratici, Verdi, Renew o i Conservatori si è detto disponibile a sostenerle.

 In ogni caso, le due iniziative hanno alcune affinità, anche se i due gruppi non le appoggeranno vicendevolmente.

Le mozioni di censura.

I Patrioti si sono concentrati sui problemi economici e sugli allargamenti “insensati” dell’Unione.

Come affermato da “Bardella”:

 “Con l’annessione della Turchia avremo come confini Stati come Siria e Iraq”, mentre sul tema degli accordi con gli Stati Uniti “è stata firmata con Trump la resa commerciale dell’Europa”.

Le critiche più aspre sono rivolte all’accordo commerciale con il “Mercosur” e, soprattutto, alla proposta sulla “nuova PAC” (Politica agricola comune), “che ha messo in ginocchio gli agricoltori”.

 

Molti di questi punti sono cari anche alla Sinistra.

 Aubry ha sottolineato come “la presidente ha chiuso l’accordo con l’America Latina aggirando i governi nazionali, uccidendo la nostra agricoltura e uccidendoci con pesticidi pericolosi”.

 La Sinistra, a differenza dei Patrioti, ha dato però grande peso alla crisi a Gaza.

“La Commissione si è rifiutata di interrompere ogni rapporto commerciale con Israele, mentre siamo al 19° pacchetto di sanzioni contro la Russia” ha ricordato la capogruppo di “The Left”.

A “Manon Aubry”, capogruppo di The Left:

La risposta di von der Leyen.

La risposta della presidente è stata senza pathos né paura.

La consapevolezza che le due mozioni non otterranno il sostegno dell’emiciclo le ha dato l’occasione per un nuovo discorso di unità, basato sulla gravità delle minacce esterne.

“Il nostro mondo si trova nella situazione più precaria e pericolosa degli ultimi decenni.

E l’Europa è in stato di massima allerta, a causa delle incursioni spericolate nel nostro spazio aereo”.

L’accusa ai suoi critici è quella di vantarsi delle “crepe dell’edificio dell’Europa e della unità scossa all’interno della nostra Unione”.

 

Tra i Popolari, la voce grossa al posto della presidente l’ha fatta il collega “Manfred Weber”, capogruppo del PPE (Partito Popolare Europeo):

“Avete usato questa mozione di sfiducia come semplice strumento di propaganda;

spero che abbiate raccolto abbastanza video per la vostra campagna social”.

I punti di contatto tra le due iniziative non sono sfuggiti a Weber, che ha suggerito ai due di fondare “un nuovo partito che si chiama WAAA (We Are Against, Siamo contrari, ndr)”, aggiungendo che, mentre von der Leyen trattava con Trump, i principali leader dei Patrioti erano concentrati a fare altro.

“Matteo Salvini – ha continuato il capogruppo – nuotava tra giocattoli gonfiabili”.

 

Manfred Weber, capogruppo del PPE (Partito Popolare Europeo).

La maggioranza.

Weber può però esultare poco.

Tra le fila della maggioranza, non è certo tutto rosa e fiori.

La presidente di S&D (Socialisti e Democratici),” Iratxe García Pérez”, ha alzato i toni contro von der Leyen:

“Si è prostrata davanti a Trump”, ma, nonostante il malcontento, “non voteremo per sostenere la mozione della Sinistra”.

In un clima di accuse spudorate, il più moderato (contro ogni pronostico) sembra essere “Nicola Procaccini”, capogruppo dei Conservatori europei. Riferendosi all’accordo con Trump, ha strizzato l’occhio alla maggioranza:

 “Non si tratta dell’accordo perfetto, ma del migliore possibile”. L’italiano si è lasciato andare anche a un ammonimento rivolto alle sinistre europee:

 “È interessante notare come non si colga il nesso di causa-effetto che c’è tra il “Green Deal” e un malessere sociale, ed è uno dei motivi per cui gli europei stanno votando per la destra e non per la sinistra”.

 

 

 

Tucker Carlson e la resurrezione del “movimento

per la verità” sull'11 settembre.

Ron Unz • (6 ottobre 2025) -Tucker Carlson – Redazione - ci dice:

La scorsa settimana ho pubblicato un articolo sull'uscita della nuova serie di Tucker Carlson sull'11 settembre, suggerendo che aveva il potenziale per resuscitare l'ormai dormiente movimento per la verità sull'11 settembre.

Ogni anno, quegli eventi epocali del 2001 erano stati oggetto di sempre meno discussioni.

Nel recente ventiquattresimo anniversario, sono passati quasi totalmente inosservati, completamente spazzati via dalla massiccia ondata di attenzione pubblica data all'assassinio del giovane leader conservatore “Charlie Kirk” il giorno prima, il 10 settembre.

 

“Carlson” era stato un caro amico di Kirk, quindi naturalmente ha ritardato l'uscita della sua nuova serie fino alla fine del mese, ma ho scoperto che valeva la pena aspettare quando finalmente è apparsa.

 I molti, molti milioni di visualizzazioni che sia gli elementi della serie stessa che la sua copertura mediatica secondaria avevano ricevuto su YouTube sembravano convalidare il mio verdetto.

Per circa il primo decennio o giù di lì dopo quei massicci attacchi terroristici, non avevo mai prestato molta attenzione a loro né messo seriamente in discussione la versione ufficiale, che avevo supposto fosse in gran parte corretta.

Anche se avevo sempre avuto l'impressione che si fosse verificata una sorta di insabbiamento, avevo pensato che avesse lo scopo di nascondere l'incompetenza e gli errori piuttosto che qualcosa di più sinistro.

 

Ma poi mi sono gradualmente imbattuto in abbastanza elementi anomali da convincermi che la versione ufficiale era in gran parte falsa e che l'America era stata attaccata da forze molto più capaci e meglio organizzate diciannove arabi armati di taglierini, ispirati da un leader malato che abitava in una grotta dell'Afghanistan.

A questo punto ho scoperto il vasto mondo sotterraneo dei “Truthers” dell'11 settembre.

Dal 2001 il loro movimento ha dato origine a una vasta gamma di organizzazioni, sforzi di ricerca e libri, la cui esistenza non avevo mai sospettato.

Digerendo la loro grande mole di materiale, mi sono subito reso conto che generalmente rientrava in due diverse categorie, di solito disgiunte l'una dall'altra.

 

La maggior parte del “movimento per la verità sull'11 settembre”, comprese le sue figure di spicco e organizzazioni come “David Ray Griffin”, “Richard Gage” e “Architects and Engineers for 9/11 Truth” (AE911) hanno tutti concentrato i loro sforzi sulla dimostrazione dei gravi e paralizzanti difetti della versione ufficiale, sostenendo che gli attacchi non sarebbero stati compiuti nel modo in cui le autorità sostenevano.

Ma pochi, se non nessuno, di questi individui ha tentato di fornire una narrazione alternativa dettagliata, per non parlare di indirizzare la cifra della colpa verso qualche altro possibile colpevole.

 

Tuttavia, solo quando questa prima fase è stata raggiunta con successo, le persone hanno potuto ragionevolmente iniziare a prendere in considerazione un'ipotesi alternativa, compresa la questione cruciale di chi fosse stato effettivamente responsabile degli attacchi terroristici.

Ho spesso chiamato questi due segmenti le fasi "Cosa è successo?" e "Chi l'ha fatto?" dell'indagine.

Avevo implicitamente applicato questo schema alla mia analisi dell'11 settembre a partire dal mio primo articolo del 2018 , e l'ho reso esplicito in tutti i miei successivi, seguendo lo stesso approccio nella mia analisi di altri eventi storici estremamente controversi come l'”assassinio di JFK” o anche il “recente assassinio di “Charlie Kirk”.

La nuova serie di Carlson ovviamente rientra perfettamente in questa prima categoria, con questo breve trailer che proclama coraggiosamente che "Tutto ciò che ci è stato detto sull'11 settembre era una bugia" e le oltre due ore del suo documentario in cinque parti che mantiene questa affermazione.

Anche se ha fornito alcuni indizi suggestivi e frammenti di prova riguardanti i veri colpevoli, non erano altro che questo, e questo ha portato alcuni dei “Truthers” più aggressivi, non ultimo sul nostro sito web, a condannarlo come un "guardiano". Ma penso che questa sia una valutazione estremamente errata, poiché dovrebbe applicarsi anche alla stragrande maggioranza dei sostenitori della verità sull'11 settembre, comprese le figure e le organizzazioni di spicco di quel movimento.

Un "guardiano" è qualcuno che fornisce una quantità molto limitata di verità e poi attacca ferocemente chiunque cerchi di andare oltre.

In netto contrasto, un "apriporta" è qualcuno che getta le basi per coloro che desiderano costruire sul suo lavoro e ampliarlo, e Carlson rientra chiaramente in questa seconda categoria.

 

Avevo brevemente riassunto e rivisto i contenuti dei cinque episodi di Carlson la scorsa settimana e ho trovato eccellente la sua serie complessiva.

Solo un paio di settimane dopo l'uscita iniziale, quella serie non solo ha attirato milioni di visualizzazioni su Internet, ma anche milioni di visualizzazioni per le sue interviste secondarie e discussioni su spettacoli relativamente mainstream come quelli di “Piers Morgan”, i” Giovani Turchi” e “Glenn Greenwald”, raggiungendo un pubblico non cospirazionista che altrimenti non avrebbe mai incontrato queste idee molto controverse.

La maggior parte dei conduttori sembrava ammettere che “Carlson” aveva probabilmente ragione e che la versione ufficiale dell'11 settembre era falsa e un insabbiamento.

 La conoscenza degli attacchi era nota in anticipo e le torri del WTC probabilmente non furono distrutte dagli aerei pilotati dai dirottatori arabi.

Questo ha naturalmente aperto le loro menti e quelle dei loro milioni di spettatori alla ricerca dell'identità dei veri responsabili degli attacchi e delle loro vere motivazioni.

 Così, Carlson ha spalancato alcune porte e ora era responsabilità di altri sfruttare appieno quelle opportunità.

 

Penso che tale copertura mediatica secondaria sia una metrica cruciale dell'impatto.

Quando ho consultato “Kevin Barrett”, che era stato un sostenitore della verità sull'11 settembre fin dall'inizio, era d'accordo sul fatto che un gran numero di documentari sull'11 settembre erano stati prodotti nella prima dozzina di anni dopo gli attacchi, ma si erano ridotti quasi a zero nell'ultimo decennio, e durante quest'ultimo periodo non avevano quasi mai ricevuto alcuna copertura mediatica secondaria non cospirativa.

I documentari sulla cospirazione guardati dai credenti della cospirazione equivalgono essenzialmente a cheerleading ideologici, e sono molto meno importanti di quelli che penetrano con successo in circoli molto più ampi e più tradizionali.

 

Secondo “Barrett”, il documentario più completo sull'11 settembre è stato “September 11: The New Pearl Harbor”, uscito nel 2013 e della durata di cinque ore.

Abbastanza sorprendentemente, a quanto pare era stato disponibile su YouTube per tutta la dozzina di anni dalla sua uscita, diviso in tre lunghi video.

 L'ho trovato altrettanto completo ed eccellente come mi era stato suggerito, coprendo quei punti in modo esaustivo e dettagliato, e consiglio vivamente di guardarlo a coloro che possono risparmiare tempo.

Presi insieme, i tre lunghi video hanno accumulato circa 1,7 milioni di visualizzazioni, probabilmente la maggior parte di essi si è verificata vicino al momento dell'uscita.

 

Sfidare la storia ufficiale del crollo delle torri del WTC, compreso l'edificio 7, rappresenta il cuore del caso “Truther” dell'11 settembre, e questo documentario fa il lavoro più accurato e completo che io abbia mai visto in un video.

Questa lunga sezione si chiama "Parte 6: Le Torri Gemelle" e inizia circa a metà del secondo video , quindi coloro che non sono disposti a guardare tutte le cinque ore potrebbero voler iniziare da lì.

 

Un aspetto cruciale degli attacchi dell'11 settembre è che c'è una quantità di prove che dimostrano che la versione ufficiale è in gran parte, forse quasi del tutto falsa, che diversi investigatori possono scegliere di concentrarsi su sottoinsiemi completamente non sovrapposti di tali prove, prendendo così strade completamente diverse pur raggiungendo la stessa conclusione finale.

Quindi, anche se il documentario di una dozzina di anni fa è estremamente dettagliato, si concentra solo su una frazione dei punti ora sollevati da Carlson, e la mia analisi nel corso degli anni ha di solito evidenziato anche altri punti.

 

 Per coloro che ora hanno concluso che la versione ufficiale è falsa e sono passati alla seconda fase delle loro indagini, compresa l'identità dei veri colpevoli, c'è un numero molto più limitato di articoli e video da considerare, e consiglieri il mio, in parte perché ho fatto del mio meglio per fare riferimento a molte di queste altre risorse.

Negli ultimi due anni sono state fatte poche nuove scoperte sull'11 settembre, quindi rimarrei fedele all'analisi che ho fornito nel mio articolo per l'anniversario del 2023.

Nel corso degli anni, ricercatori diligenti e giornalisti coraggiosi hanno in gran parte demolito la narrazione originale di quegli eventi, e hanno sostenuto con forza, forse anche in modo schiacciante, che il Mossad israeliano insieme ai suoi collaboratori americani ha svolto un ruolo centrale.

La mia ricostruzione, basandosi sostanzialmente su queste prove accumulate, è giunta a tali conclusioni, e quindi la ripubblico di seguito, tratta dai miei precedenti articoli apparsi tra la fine del 2018 e l'inizio del 2020, con il materiale successivo che faceva un uso massiccio dell'”autorevole storia del Mossad” di Ronen Bergman del 2018 , che contava più di 750 pagine...

 

Gli attacchi dell'11 settembre – Cosa è successo?

Anche se in qualche modo correlati, gli omicidi politici e gli attacchi terroristici sono argomenti distinti, e l'esauriente volume di Bergman si concentra esplicitamente sui primi, quindi non possiamo biasimarlo per aver fornito solo una leggera copertura dei secondi.

Ma il modello storico dell'attività israeliana, specialmente per quanto riguarda gli attacchi sotto falsa bandiera, è davvero notevole, come ho notato in un articolo del 2018.

 

Uno dei più grandi attacchi terroristici della storia prima dell'11 settembre è stato l'attentato del 1946 al “King David Hotel di Gerusalemme” da parte di militanti sionisti vestiti da arabi, che ha ucciso 91 persone e distrutto in gran parte la struttura.

Nel famoso affare Lavon del 1954 , gli agenti israeliani lanciarono un'ondata di attacchi terroristici contro obiettivi occidentali in Egitto, con l'intenzione di incolparli di gruppi arabi anti-occidentali.

 Ci sono forti affermazioni secondo cui nel 1950 agenti del Mossad israeliano iniziarono una serie di attentati terroristici sotto falsa bandiera contro obiettivi ebraici a Baghdad, usando con successo quei metodi violenti per aiutare a persuadere la millenaria comunità ebraica irachena a emigrare nello stato ebraico. Nel 1967, Israele lanciò un deliberato attacco aereo e marittimo contro la” USS Liberty”, con l'intenzione di non lasciare sopravvissuti, uccidendo o ferendo oltre 200 militari americani prima che la notizia dell'attacco raggiungesse la Sesta Flotta e gli israeliani si ritirarono.

 

L'enorme portata dell'influenza pro-Israele nei circoli politici e mediatici mondiali ha fatto sì che nessuno di questi attacchi brutali abbia mai suscitato una seria rappresaglia, e in quasi tutti i casi, sono stati rapidamente gettati nel buco della memoria, così che oggi probabilmente non più di un americano su cento ne è a conoscenza.

 Inoltre, la maggior parte di questi incidenti è venuta alla luce a causa di circostanze casuali, quindi possiamo facilmente sospettare che molti altri attacchi di natura simile non siano mai entrati lontano dalla parte della documentazione storica.

 

Di questi famosi incidenti, “Bergman” menziona solo l'attentato al “King David Hotel”.

 Ma molto più avanti nel suo racconto, descrive l'enorme ondata di attacchi terroristici sotto falsa bandiera scatenati nel 1981 dal ministro della Difesa israeliano “Ariel Sharon”, che reclutò un ex alto funzionario del Mossad per gestire il progetto.

 

Sotto la direzione israeliana, grandi autobombe hanno cominciato ad esplodere nei quartieri palestinesi di Beirut e di altre città libanesi, uccidendo o ferendo un numero enorme di civili.

Un singolo attacco in ottobre ha inflitto quasi 400 vittime, e a dicembre c'erano diciotto bombardamenti al mese, con la loro efficacia notevolmente migliorata dall'uso della nuova tecnologia innovativa dei droni israeliani.

 La responsabilità ufficiale di tutti gli attacchi è stata rivendicata da un'organizzazione libanese precedentemente sconosciuta, ma l'intento era quello di provocare l'”OLP” a una rappresaglia militare contro Israele, giustificando così l'invasione pianificata da “Sharon” del paese vicino.

 

Dal momento che l'OLP si è ostinatamente rifiutata di abboccare, sono stati messi in moto i piani per l'enorme bombardamento di un intero stadio sportivo di Beirut con tonnellate di esplosivo durante una cerimonia politica del 1° gennaio, con la morte e la distruzione che si prevede saranno "di proporzioni senza precedenti, anche per quanto riguarda il Libano".

Ma i “nemici politici di Sharon” vennero a conoscenza del complotto e sottolinearono che molti diplomatici stranieri, tra cui l'ambasciatore sovietico, sarebbero stati presenti e probabilmente sarebbero stati uccisi, così dopo un aspro dibattito, il primo ministro Begin ordinò l'interruzione dell'attacco.

Un futuro capo del Mossad menziona i grossi grattacapi che hanno dovuto affrontare nel rimuovere la grande quantità di esplosivo che avevano già piazzato all'interno della struttura.

 

Si considera che uno degli argomenti principali addotti contro la teoria secondo cui le torri del WTC sono state abbattute con una demolizione controllata è l'obiezione che sarebbe stato impossibile piazzare segretamente una tale quantità di esplosivo nella struttura.

Eppure sappiamo che durante i primi anni '80 il Mossad israeliano è riuscito a piazzare "tonnellate" di tali esplosivi in un enorme stadio sportivo situato nella capitale di un paese arabo ostile, per poi rimuovere quegli stessi esplosivi.

 Nel frattempo, gli” edifici del WTC erano di proprietà e controllati da “Larry Silverstein”, un fervente sionista, il che avrebbe sicuramente reso l'accesso molto più facile.

 

L'attentato allo stadio di Beirut da parte del Mossad avrebbe probabilmente ucciso molte, molte migliaia di persone e costituisce il parallelo storico più vicino all'11 settembre.

Eppure, a parte il fatto che ho notato e messo in evidenza quell'elemento sepolto nelle 750 pagine del libro di Bergman, è stato praticamente sconosciuto.

 

Stranamente, per molti anni dopo l'11 settembre, ho prestato pochissima attenzione ai dettagli degli attacchi stessi.

Ero completamente preoccupato di costruire il mio sistema software di archiviazione dei contenuti, e con il poco tempo che potevo dedicare alle questioni di politica pubblica, ero totalmente concentrato sul disastro in corso nella guerra in Iraq, così come sui miei terribili timori che Bush poteva in qualsiasi momento estendere improvvisamente il conflitto all'Iran.

Nonostante le menzogne dei neoconservatori riecheggiate spudoratamente dai nostri media corrotti, né l'Iraq né l'Iran avevano avuto nulla a che fare con gli attacchi dell'11 settembre, così quegli eventi sono gradualmente svaniti nella mia coscienza, e sospetto che lo stesso sia stato vero per la maggior parte degli altri americani.

Al Qaeda era in gran parte scomparsa e Bin Laden si supponeva si nascondesse in una grotta da qualche parte.

Nonostante gli infiniti "allarmi" della “Homeland Security”, non c'era stato più terrorismo islamico sul suolo americano, e relativamente poco altrove al di fuori dell'ossario iracheno.

Quindi i dettagli precisi dei complotti dell'11 settembre erano diventati quasi irrilevanti per me.

 

Altri che conoscevo sembravano pensarla allo stesso modo.

Praticamente tutti gli scambi che ho avuto con il mio vecchio amico “Bill Odom”, il generale a tre stelle che aveva diretto la “NSA” per “Ronald Reagan”, avevano riguardato la guerra in Iraq e il rischio che potesse diffondersi in Iran, così come l'amara rabbia che provava verso la perversione di Bush della sua amata NSA in uno strumento extra-costituzionale di spionaggio interno.

Quando il “New York Times” ha pubblicato la storia della massiccia estensione dello spionaggio interno della “NSA”, il generale Odom ha dichiarato che il presidente Bush doveva essere messo sotto accusa e il direttore della NSA “Michael Hayden” portato alla corte marziale.

Ma in tutti gli anni precedenti alla sua prematura scomparsa nel 2008 , non ricordo che gli attacchi dell'11 settembre siano emersi nemmeno una volta come argomento nelle nostre discussioni.

 

Certo, avevo occasionalmente sentito parlare di alcune stranezze considerevoli riguardo agli attacchi dell'11 settembre qua e là, e queste hanno certamente sollevato alcuni sospetti.

Quasi tutti i giorni davo un'occhiata alla prima pagina del “Antiwar.com” , sembrava che alcuni agenti del Mossad israeliano fossero stati catturati mentre filmavano gli attacchi aerei a New York, mentre una più grande operazione di spionaggio del Mossad "studente d'arte" in tutto il paese era stata smantellata nello stesso periodo.

A quanto pare, “Fox News” aveva trasmesso una serie in più parti su quest'ultimo argomento prima che la denuncia fosse affondata e "scomparsa" sotto la pressione dell'ADL.

Anche se non ero del tutto sicuro della credibilità di queste affermazioni, sembrava plausibile che il Mossad fosse a conoscenza degli attacchi in anticipo e avesse permesso loro enormi di procedere, riconoscendo gli benefici che Israele avrebbe tratto dalla reazione anti-araba.

Credo di essere stato vagamente consapevole del fatto che “Justin Raimondo”, direttore editoriale di “Antiwar.com”, aveva pubblicato “The Terror Enigma” , un breve libro su alcuni di questi strani fatti, con il sottotitolo provocatorio "9/11 and the Israeli Connection", ma non ho mai pensato di leggerlo.

Nel 2007, la stessa “Counter punch” pubblicò un'affascinante storia sull'arresto di quel gruppo di agenti del Mossad israeliano a New York, che erano stati sorpresi a filmare e apparentemente celebrare gli attacchi aerei di quel fatidico giorno, e l'attività del Mossad sembrava essere molto più grande di quanto avessi precedentemente realizzato.

 

Inoltre, più o meno nello stesso periodo mi ero imbattuto in un dettaglio sorprendente degli attacchi dell'11 settembre che dimostrava la notevole profondità della mia ignoranza.

 In un articolo di “Counter punch”, avevo scoperto che subito dopo gli attacchi, la presunta mente terrorista “Osama bin Laden” aveva negato qualsiasi coinvolgimento , dichiarando persino che nessun buon musulmano avrebbe commesso tali azioni.

 

Una volta che ho controllato un po' in giro e ho confermato pienamente questo fatto, sono rimasto sbalordito.

 L'11 settembre non è stato solo l'attacco terroristico di maggior successo nella storia del mondo, ma potrebbe essere stato più grande nella sua grandezza fisica di tutte le operazioni terroristiche passate messe insieme.

L'intero scopo del terrorismo è quello di consentire a una piccola organizzazione di mostrare al mondo che può infliggere gravi perdite a uno stato potente, e non avevo mai sentito prima di un leader terrorista negare il suo ruolo in un'operazione di successo, per non parlare della più grande della storia.

 C'era qualcosa di estremamente sbagliato nella narrazione generata dai media che avevo precedentemente accettato.

Cominciai a chiedermi se fossi stato così illuso come le decine di milioni di americani nel 2003 e nel 2004 che ingenuamente credevano che “Saddam” fosse la mente dietro gli attacchi dell'11 settembre.

Viviamo in un mondo di illusioni generate dai nostri media, e all'improvviso mi è sembrato di aver notato una lacrima nelle montagne di cartapesta esposte sullo sfondo di un palcoscenico hollywoodiano.

 Se “Osama” non era probabilmente l'autore dell'11 settembre, quali altre enormi falsità avrei accettato ciecamente?

 

Un paio di anni dopo, mi sono imbattuto in un articolo molto interessante di “Eric Margolis”, un eminente giornalista canadese di politica estera espulso dai media radiotelevisivi per la sua forte opposizione alla guerra in Iraq.

Aveva pubblicato a lungo una settimana sul “Toronto Sun” e quando quel mandato terminò, usò la sua apparizione finale per pubblicare un pezzo a doppia lunghezza esprimendo i suoi forti dubbi sulla storia ufficiale dell'11 settembre , notando anche che l'ex direttore dell'intelligence pakistana insisteva sul fatto che “Israele era dietro gli attacchi”.

 

Alla fine ho scoperto che nel 2003 l'ex ministro del governo tedesco “Andreas von Bülow “aveva pubblicato un libro best-seller che suggeriva fortemente che la “CIA” piuttosto che “Bin Laden” fosse dietro gli attacchi, mentre nel 2007 l'ex presidente italiano” Francesco Cossiga” aveva sostenuto che la “CIA” e il “Mossad israeliano” erano stati responsabili, sostenendo che questo fatto era ben noto tra le agenzie di intelligence occidentali.

 

Nel corso degli anni, tutte queste affermazioni discordanti hanno gradualmente sollevato i miei sospetti sulla storia ufficiale dell'11/9 a livelli piuttosto forti, ma è stato solo molto recentemente che ho finalmente trovato il tempo di iniziare a indagare seriamente sull'argomento e leggere otto o dieci dei principali libri di “Truther” sull'11/9 , per lo più quelli del “Prof. David Ray Griffin”, leader ampiamente riconosciuto in questo campo.

E i suoi libri, insieme agli scritti dei suoi numerosi colleghi e alleati, hanno rivelato ogni sorta di dettagli molto significativi, la maggior parte dei quali mi erano stati precedentemente sconosciuti.

 Sono rimasto anche molto colpito dall'enorme numero di individui apparentemente rispettabili e senza apparente inclinazione ideologica che erano diventati aderenti al “movimento per la verità sull'11 settembre “nel corso degli anni.

 

Quando per un periodo di molti anni vengono fatte affermazioni assolutamente sorprendenti di natura estremamente controversa da numerosi accademici e altri esperti apparentemente rispettabili, e vengono completamente ignorate o soppresse ma mai efficacemente confutate, le conclusioni ragionevoli sembrano puntare in una direzione ovvia.

Sulla base delle mie letture molto recenti su questo argomento, il numero totale di enormi difetti nella storia ufficiale dell'11 settembre è ora cresciuto enormemente, probabilmente a molte decine.

 La maggior parte di questi singoli elementi sembrano ragionevolmente probabili e se decidiamo che anche solo due o tre di essi sono corretti, dobbiamo rifiutare totalmente la narrazione ufficiale a cui molti di noi hanno creduto per così tanto tempo.

Ora sono solo un dilettante nel complesso mestiere dell'intelligenza di estrarre pepite di verità da una montagna di falsità fabbricate.

 Anche se le argomentazioni del “Movimento per la Verità sull'11 settembre” mi sembrano abbastanza convincenti, ovviamente mi sarei sentito molto più a mio agio se fossero state appoggiate da un professionista esperto, come un analista della CIA.

Qualche anno fa, sono rimasto scioccato nello scoprire che era proprio così.

 

“William Christison” aveva trascorso 29 anni alla CIA, fino a diventare una delle sue figure di spicco come “direttore dell'Ufficio di analisi regionale e politica”, con 200 analisti di ricerca sotto di lui.

Nell'agosto 2006, pubblicò un notevole articolo di 2.700 parole che spiegava perché non credeva più alla versione ufficiale dell'11 settembre e si sentiva sicuro che il “rapporto della Commissione sull'11 settembre” costituisse un insabbiamento, con la verità molto diversa.

 L'anno successivo, fornì un forte sostegno a uno dei libri di “Griffin” , scrivendo che "[C'è] un forte corpo di prova che dimostra che la storia ufficiale del governo degli Stati Uniti su ciò che è accaduto l'11 settembre 2001 è quasi certamente una mostruosa serie di bugie".

E l'estremo scetticismo di “Christison” sull'11 settembre è stato assecondato da quello di molti altri ex professionisti dell'intelligence statunitense molto apprezzati.

Ci si potrebbe aspettare che se un ex ufficiale dell'intelligence della CIA del “range di Christison” dovesse denunciare il rapporto ufficiale dell'11 settembre come una frode e un insabbiamento, una storia del genere costituirebbe una notizia da prima pagina.

Ma non è mai stato riportato da nessuna parte nei nostri media mainstream, e mi sono imbattuto in esso solo un decennio dopo.

 

Anche i nostri presunti media "alternativi" sono rimasti quasi altrettanto silenziosi. Nel corso degli anni 2000, “Christison” e sua moglie “Kathleen”, anche lei ex analista della CIA, avevano collaborato regolarmente con “Counter punch” , pubblicando molte dozzine di articoli ed essendo certamente i suoi scrittori più accreditati su questioni di intelligence e sicurezza nazionale.

Ma l'editore “Alexander Cockburn” si rifiutò di pubblicare il loro scetticismo sull'11 settembre, quindi non venne mai alla mia attenzione all'epoca.

In effetti, quando un paio di anni fa ho menzionato le opinioni di “Christison” all'attuale direttore di “Counter punch” “Jeffrey St. Clair”, è rimasto sbalordito nello scoprire che l'amico che aveva tenuto in grande considerazione era in realtà diventato un "sostenitore della verità sull'11 settembre".

Quando gli organi dei media fungono da guardiani ideologici, una condizione di ignoranza diffusa diventa inevitabile.

 

Con così tante lacune nella storia ufficiale degli eventi di diciassette anni fa, ognuno di noi è libero di scegliere di concentrarsi su quelli che personalmente considerano più persuasivi, e io ne ho diversi miei.

Il professore di chimica danese “Niels Harrit” è stato uno degli scienziati che ha analizzato le macerie degli edifici distrutti e ha rilevato la presenza residua di “nano-termite”, un composto esplosivo di livello militare, e l'ho trovato abbastanza credibile durante la sua intervista di un'ora su “Red Ice Radio”.

L'idea che un passaporto di un distruttore non danneggiato sia stata trovata in una strada di New York dopo la massiccia e infuocata distruzione dei grattacieli è totalmente assurda, così come lo è stata l'affermazione che il distruttore ha convenientemente perso il suo patrimonio in uno degli aeroporti e si è scoperto che conteneva una grande massa di informazioni incriminanti.

Le testimonianze delle decine di vigili del fuoco che hanno sentito le esplosioni poco prima del crollo degli edifici sembrano del tutto inspiegabili secondo la versione ufficiale.

 Anche l'improvviso crollo totale dell'edificio sette, mai colpito da alcun aereo di linea, è estremamente implausibile.

Gli attacchi dell'11 settembre: chi è stato?

Supponiamo ora che il peso schiacciante delle prove sia corretto, e concordiamo con ex analisti di intelligence della CIA di alto rango, illustri accademici e professionisti esperti che gli attacchi dell'11 settembre non sono stati ciò che sembravano.

Riconosciamo l'estrema implausibilità che tre enormi grattacieli di New York siano improvvisamente crollati a velocità di caduta libera sulle loro impronte dopo che solo due di essi sono stati colpiti da aerei, e anche che un grande aereo di linea civile probabilmente non ha colpito il Pentagono lasciando dietro di sé assolutamente nessun relitto e solo un piccolo buco.

Cosa è successo in realtà e, soprattutto, chi ne è stato responsabile?

 

Alla prima domanda è ovviamente impossibile rispondere senza un'indagine ufficiale, onesta e approfondita delle prove.

Fino a quando ciò non accadrà, non concede essere sorpresi che numerose ipotesi, in qualche modo contrastanti, siano state avanzate e dibattute all'interno dei confini della “comunità della Verità sull'11 settembre”.

Ma la seconda domanda è probabilmente la più importante e rilevante, e penso che abbia sempre rappresentato una fonte di estrema debolezza per i sostenitori della verità sull'11 settembre.

 

L'approccio più tipico, come generalmente seguito nei numerosi libri di Griffin, è quello di evitare completamente la questione e concentrarsi esclusivamente sui difetti della narrazione ufficiale.

 Questa è una posizione perfettamente accettabile, ma lascia ogni sorta di seri dubbi.

 Quale gruppo organizzato sarebbe stato sufficientemente potente e audace da portare a termine un attacco di così vasta portata contro il cuore centrale dell'unica superpotenza mondiale?

 E come sono stati in grado di orchestrare un insabbiamento mediatico e politico così massicciamente efficace, arruolando anche la partecipazione dello stesso governo degli Stati Uniti?

 

La frazione molto più piccola di “Truthers” sull'11 settembre che sceglie di affrontare questa domanda sul "whodunit" essere concentrata in modo schiacciante tra gli attivisti di base sembra piuttosto che tra i prestigiosi esperti, e di solito rispondono "inside job!".

La loro convinzione diffusa sembra essere che i vertici politici dell'amministrazione Bush, tra cui probabilmente il vicepresidente “Dick Cheney” e il segretario alla Difesa “Donald Rumsfeld”, hanno organizzato gli attacchi terroristici, con o senza la conoscenza del loro “ignorante superiore nominale”, il presidente George W. Bush.

I motivi suggeriti includevano la giustificazione di attacchi militari contro vari paesi, il sostegno agli interessi finanziari della potente industria petrolifera e del complesso militare-industriale e la distruzione delle tradizionali libertà civili americane.

Dal momento che la stragrande maggioranza dei “sostenitori della verità” politicamente attivi sembra provenire dall'estrema sinistra dello spettro ideologico, richiedendo queste nozioni logiche e quasi auto-evidenti.

 

Pur non approvando esplicitamente quelle cospirazioni di “Truther”, il successo al botteghino di sinistra del regista “Michael Moore Fahrenheit 9/11” sembrava sollevare sospetti simili.

 Il suo documentario a basso budget ha guadagnato l'incredibile cifra di 220 milioni di dollari suggerendo che gli stretti legami d'affari tra la famiglia Bush, Cheney, le compagnie petrolifere e sauditi sono stati responsabili delle conseguenze della guerra in Iraq a seguito degli attacchi terroristici, così come la repressione interna delle libertà civili, che era parte integrante dell'agenda repubblicana di destra.

 

Purtroppo, questo quadro apparentemente plausibile sembra non avere quasi alcun fondamento nella realtà.

Durante il viaggio verso la guerra in Iraq, ho letto gli articoli del “Times” che intervistavano numerosi petrolieri di alto livello in Texas che esprimevano totale perplessità sul perché l'America stessa progettando di attaccare Saddam, dicendo che potevano solo presumere che il presidente Bush sapesse qualcosa che loro stessi non sapevano.

I leader dell'Arabia Saudita erano categoricamente contrari a un attacco americano all'Iraq, e ha fatto ogni sforzo per prevenirlo.

Prima di entrare nell'amministrazione Bush, “Cheney” era stato amministratore delegato della “Halliburton”, un gigante dei servizi petroliferi, e la sua azienda aveva fatto forti pressioni per la revoca delle sanzioni economiche statunitensi contro l'Iraq.

“ l Prof. James Petras”, uno studioso di forti tendenze marxiste, ha pubblicato un eccellente libro nel 2008 intitolato “Sionismo, Militarismo e il Declino del Potere degli Stati Uniti”, in cui ha dimostrato in modo conclusivo che gli” interessi sionisti”, piuttosto che” quelli dell'industria petrolifera”, hanno dominato l'amministrazione Bush sulla scia degli attacchi dell'11 settembre e promosso la guerra in Iraq.

 

Per quanto riguarda il film di “Michael Moore”, ricordo che all'epoca mi feci una risata con un mio amico (ebreo), trovando entrambi ridicolo che un governo così sfacciatamente permeato da fanatici neoconservatori filo-israeliani venisse dipinto come schiavo dei sauditi.

 Non solo la trama del film di” Moore” dimostrava il “temibile potere della Hollywood ebraica, ma il suo enorme successo suggeriva che la maggior parte del pubblico americano apparentemente non aveva mai sentito parlare dei neoconservatori.

 

I critici di Bush hanno giustamente ridicolizzato il presidente per la sua dichiarazione imbarazzata che i terroristi dell'11 settembre avevano attaccato l'America "per le sue libertà" e i sostenitori della verità hanno ragionevolmente bollato come non plausibili le affermazioni secondo cui i massicci attacchi sono stati organizzati da un predicatore islamico che viveva nelle caverne.

Ma l'idea che siano stati guidati e organizzati dalle figure di spicco dell'amministrazione Bush sembra ancora più assurda.

 

“Cheney” e “Rumsfeld” avevano entrambi da decenni come sostenitori dell'ala moderatamente pro-business del Partito Repubblicano, ciascuno in posizioni governative di alto livello e anche come amministratori delegati di grandi aziende.

L'idea che hanno coronato la loro carriera unendosi a una nuova amministrazione repubblicana all'inizio del 2001 e che quasi immediatamente si siano messi a organizzare un “gigantesco attacco terroristico sotto falsa bandiera” contro le torri più orgogliose della nostra più grande città insieme al nostro quartier generale militare nazionale, con l'intenzione di uccidere molte migliaia di americani nel processo, è troppo ridicola per far parte di una satira politica di sinistra.

 Facciamo un passo indietro.

 In tutta la storia del mondo, non riesco a pensare a nessun caso documentato in cui la massima leadership politica di un paese ha lanciato un grande attacco sotto falsa bandiera contro i propri centri di potere e di finanza e ha cercato di uccidere un gran numero di persone.

 L'America del 2001 era un paese pacifico e prospero, governato da leader politici relativamente blandi concentrati sui tradizionali obiettivi repubblicani di attuare tagli alle tasse per i ricchi e ridurre le normative ambientali.

Troppi attivisti di “Truther” hanno apparentemente tratto la loro comprensione del mondo dalle caricature dei fumetti di sinistra in cui i repubblicani aziendali sono tutti diabolici “Dr. Evil”, che cercano di uccidere gli americani per pura malevolenza, e “Alexander Cockburn” aveva assolutamente ragione a ridicolizzarli , almeno su questo particolare punto.

 

Considera anche i semplici aspetti pratici della situazione.

La natura gigantesca degli attacchi dell'11 settembre, come postulato dal “movimento per la verità”, avrebbe chiaramente richiesto un'enorme pianificazione e probabilmente avrebbe comportato il lavoro di molte dozzine o addirittura centinaia di agenti qualificati.

 Ordinare agli agenti della CIA o alle unità militari speciali di organizzare attacchi segreti contro obiettivi civili in Venezuela o nello Yemen è una cosa, ma dirigerli a organizzare attacchi contro il Pentagono e il cuore di New York City sarebbe irto di rischi stupendi.

Bush aveva perso il voto popolare nel novembre 2000 ed era arrivato alla Casa Bianca solo a causa di alcuni problemi in Florida e della controversa decisione di una Corte Suprema profondamente divisa.

 Di conseguenza, la maggior parte dei media americani considerava la sua nuova amministrazione dotata di enorme ostilità.

Se il primo atto di una tale squadra presidenziale appena insediata avesse avuto l'ordine alla CIA o all'esercito di preparare attacchi contro New York City e il Pentagono, sicuramente quegli ordini sarebbero stati considerati come emessi da un gruppo di pazzi e sarebbero immediatamente trapelati alla stampa nazionale ostile.

 

L'intero scenario dei principali leader americani come le menti dietro l'11 settembre è oltre il ridicolo, e quei sostenitori della verità sull'11 settembre che fanno o implicano tali affermazioni – facendolo senza un solo straccio di prova solida – hanno purtroppo giocato un ruolo importante nello screditare il loro intero movimento.

 In effetti, il significato comune dello scenario del "lavoro interno" è così palesemente assurdo e controproducente che si potrebbe persino sospettare che l'affermazione sia stata incoraggiata da coloro che “cercano di screditare l'intero movimento per la verità sull'11 settembre”.

 

L'attenzione su “Cheney” e “Rumsfeld” sembra particolarmente mal indirizzata. Anche se non ho mai incontrato né avuto a che fare con nessuno di questi individui, sono stato molto attivamente coinvolto nella politica di Washington durante gli anni '90, e posso dire con una certa certezza che prima dell'11 settembre,” nessuno dei due era considerato neocon”.

 Invece, erano gli esempi archetipici dei repubblicani tradizionali moderati di tipo imprenditoriale, che risalgono ai loro anni ai vertici dell'amministrazione Ford durante la metà degli anni '70.

 

Gli scettici di questa affermazione potrebbero notare che hanno firmato la dichiarazione del 1997 emessa dal “Project for the New American Century” (PNAC), un importante manifesto di politica estera neoconservatore organizzato da “Bill Kristol”, ma lo considererei una sorta di falsa pista.

Nei circoli di Washington, gli individui reclutano sempre i loro amici per firmare varie dichiarazioni, che possono o non possono essere indicativi di qualcosa, e ricordo che” Kristol” ha cercato di convincermi a firmare anche la dichiarazione del PNAC.

Dal momento che le mie opinioni personali su quella questione erano assolutamente contrarie al 100% alla posizione dei neoconservatori, che consideravo una follia in politica estera, ho deviato la sua richiesta e l'ho rifiutato molto educatamente.

Ma all'epoca ero abbastanza amico di lui, quindi se fossi stato una persona senza opinioni forti in quel campo, probabilmente sarei stato d'accordo.

 

Questo solleva un punto più ampio.

Nel 2000, i neoconservatori avevano ottenuto il controllo quasi totale di tutti i principali media conservatori/repubblicani e delle ali di politica estera di quasi tutti i think tank allineati in modo simile a Washington, eliminando con successo la maggior parte dei loro oppositori tradizionali.

Così, anche se “Cheney e Rumsfeld” non erano neoconservatori, nuotavano in un mare neoconservatore, con una frazione molto grande di tutte le informazioni che ricevevano provenienti da tali fonti e con i loro aiutanti di punta come "Scooter" Libby, “Paul Wolfowitz” e “Douglas Feith” che erano neoconservatori.

 Rumsfeld era già un po' anziano mentre Cheney aveva subito diversi attacchi di cuore a partire dall'età di 37 anni, quindi in quelle circostanze potrebbe essere stato relativamente facile per loro essere spostati verso certe posizioni politiche.

 

In effetti, l'intera demonizzazione di “Cheney e Rumsfeld” nei circoli contrari alla guerra in Iraq mi è sembrata in qualche modo sospetta.

Mi sono sempre chiesto se i media liberali, fortemente ebraici, hanno concentrato la loro ira su quei due individui al fine di deviare la colpa dai neoconservatori ebrei che erano gli ovvi ideatori di quella politica disastrosa;

e lo stesso può essere vero per i “sostenitori della verità sull'11 settembre”, che probabilmente temevano accuse di antisemitismo.

 Riguardo a questo primo problema, nel 2003 un eminente editorialista israeliano è stato tipicamente schietto sulla questione, suggerendo fortemente che 25 intellettuali neoconservatori, quasi tutti ebrei, erano i principali responsabili della guerra.

In circostanze normali, il presidente stesso sarebbe stato sicuramente ritratto come la mente malvagia dietro il complotto dell'11 settembre, ma "W" era troppo noto per la sua ignoranza perché tali accuse fossero credibili.

 

Sembra del tutto plausibile che “Cheney, Rumsfeld e altri leader di Bush” possano essere stati manipolati per intraprendere certe azioni che hanno inavvertitamente favorito il complotto dell'11 settembre, mentre alcuni incaricati di Bush di livello inferiore potrebbero essere stati coinvolti più direttamente, forse anche come veri e propri cospiratori.

Ma non credo che questo sia il significato usuale dell'accusa di "lavoro interno".

A che punto siamo?

 Sembra molto probabile che gli attacchi dell'11 settembre siano stati opera di un'organizzazione molto più potente e professionalmente qualificata di una banda di diciannove arabi armati di taglierini, ma anche che è molto improbabile che gli attacchi siano stati opera dello stesso governo americano.

Quindi, chi ha attaccato il nostro paese in quel fatidico giorno di diciassette anni fa, uccidendo migliaia di nostri concittadini?

 

Le operazioni di intelligence efficaci sono nascoste in una sala degli specchi, spesso estremamente difficili da penetrare per gli estranei, e gli attacchi terroristici sotto falsa bandiera rientrano certamente in questa categoria.

Ma se applichiamo una metafora diversa, la complessità di tali eventi può essere vista come un nodo gordiano, quasi impossibile da districare, ma vulnerabile al colpo di spada di porre la semplice domanda "Chi ne ha beneficiato?"

 

L'America e la maggior parte del mondo certamente non lo fecero, e le disastrose eredità di quel fatidico giorno hanno trasformato la nostra società e distrutto molti altri paesi.

Le infinite guerre americane presto scatenate ci sono già costate molti trilioni di dollari e hanno messo la nostra nazione sulla strada della bancarotta, uccidendo o sfollando molti milioni di innocenti mediorientali.

 Più di recente, l'ondata di profughi disperati ha iniziato a travolgere l'Europa, e la pace e la prosperità di quell'antico continente sono ora pesantemente minacciate.

 

Le nostre tradizionali libertà civili e le protezioni costituzionali sono state drasticamente erose, con la nostra società che ha fatto lunghi passi avanti per diventare un vero e proprio stato di polizia.

I cittadini americani ora accettano passivamente violazioni inimmaginabili delle loro libertà personali, tutte originariamente iniziate con il pretesto di prevenire il terrorismo.

Trovo difficile pensare a qualsiasi paese al mondo che abbia chiaramente guadagnato a seguito degli attacchi dell'11 settembre e della reazione militare americana, con una sola, solitaria eccezione.

Durante il 2000 e la maggior parte del 2001, l'America era un paese pacifico e prospero, ma una piccola nazione del Medio Oriente si era trovata in una situazione sempre più disperata.

Sembrava allora che Israele stesse lottando per la sua vita contro le massicce ondate di terrorismo interno che costituivano la “Seconda Intifada palestinese”.

Si credeva che “Ariel Sharon” avesse deliberatamente provocato quella rivolta nel settembre 2000 marciando verso il “Monte del Tempio” sostenuto da un migliaio di poliziotti armati, e la conseguente violenza e polarizzazione della società israeliana lo avevano insediato con successo come Primo Ministro all'inizio del 2001.

Ma una volta in carica, le sue misure brutali non sono riuscite a porre fine all'ondata di attacchi continui, che ha assunto sempre più la forma di attentati suicidi contro obiettivi civili.

Molti credevano che la violenza avrebbe presto innescato un enorme deflusso di cittadini israeliani, forse producendo una spirale mortale per lo Stato ebraico. “L'Iraq, l'Iran, la Libia” e altre grandi potenze musulmane sostenevano i palestinesi con denaro, retorica e talvolta armi, e la società israeliana sembrava vicina al collasso.

Ricordo di aver sentito da alcuni dei miei amici di Washington che numerosi esperti di politica israeliana stavano improvvisamente cercando posti nei think tank neoconservatori in modo da potersi trasferire in America.

 

“Sharon” era un leader notoriamente sanguinario e spericolato, con una lunga storia di scommesse strategiche di sorprendente audacia, a volte scommettendo tutto su un singolo lancio di dadi.

Aveva passato decenni a cercare “la carica di Primo Ministro”, ma dopo averla finalmente ottenuta, ora si trovava con le spalle al muro, senza alcuna fonte di salvezza evidente.

 

Gli attacchi dell'11 settembre hanno cambiato tutto.

Improvvisamente l'unica superpotenza del mondo si è mobilitata completamente contro i movimenti terroristici arabi e musulmani, in particolare quelli legati al Medio Oriente.

Gli stretti alleati politici neoconservatori di Sharon in America hanno usato l'inaspettata crisi come un'opportunità per prendere il controllo della politica estera americana e dell'apparato di sicurezza nazionale, con un membro dello staff della NSA che in seguito ha riferito che i generali israeliani vagavano liberamente per le vendite del Pentagono senza alcun controllo di sicurezza.

 Nel frattempo, la scusa della prevenzione del terrorismo interno è stata usata per implementare nuovi controlli centralizzati della polizia americana che sono stati presto impiegati per molestare o addirittura chiudere varie organizzazioni politiche antisioniste.

Uno degli agenti del Mossad israeliano arrestati dalla polizia a New York mentre lui e i suoi compagni stavano celebrando gli attacchi dell'11 settembre e producendo un filmato ricordo delle torri in fiamme del World Trade Center ha detto agli agenti che "Siamo israeliani... I vostri problemi sono i nostri problemi".

 E così sono diventato.

 

Il generale “Wesley Clark” riferì che subito dopo gli attacchi dell'11 settembre fu informato che un piano militare segreto era in qualche modo entrato in atto in base al quale l'America avrebbe attaccato e distrutto sette importanti paesi musulmani nei prossimi anni, tra cui “Iraq, Iran, Siria e Libia”, che per coincidenza erano tutti i più forti avversari regionali di Israele e i principali sostenitori dei palestinesi.

 Quando l'America ha iniziato a spendere enormi oceani di sangue e di denaro per attaccare tutti i nemici di Israele dopo l'11 settembre, Israele stesso non ha più avuto bisogno di farlo.

In parte come conseguenza, quasi nessun'altra nazione al mondo ha migliorato così enormemente la sua situazione strategica ed economica negli ultimi diciassette anni, anche se una grande frazione della popolazione americana si è completamente impoverita durante lo stesso periodo e il nostro debito nazionale è cresciuto a livelli insormontabili.

 Un parassita può spesso ingrassare anche se il suo ospite soffre e declina.

Ho sottolineato che per molti anni dopo gli attacchi dell'11 settembre ho prestato poca attenzione ai dettagli e ho avuto solo la vaga idea che esistesse un movimento organizzato per la “verità sull'11 settembre”.

Ma se qualcuno mi avesse mai convinto che gli attacchi terroristici erano stati operazioni sotto falsa bandiera e che il responsabile era stato qualcuno diverso da Osama, la mia ipotesi immediata sarebbe stata Israele e il suo Mossad.

 

Certamente nessun'altra nazione al mondo può lontanamente eguagliare il record di omicidi di alto livello e attacchi sotto falsa bandiera di Israele, terroristici e non, contro altri paesi, compresi gli Stati Uniti e le sue forze armate.

Inoltre, l'enorme predominio di elementi ebrei e filo-israeliani nei media dell'establishment americano e sempre più in quello di molti altri grandi paesi occidentali ha a lungo assicurato che, anche quando sono state scoperte le prove concrete di tali attacchi, pochissimi americani comuni avrebbero mai sentito quei fatti.

Una volta accettato che gli attacchi dell'11 settembre sono stati probabilmente un'operazione sotto falsa bandiera, un indizio centrale per i probabili autori è stato il loro straordinario successo nell'assicurare che una storia ricchezza di prova enormemente sospette sia stata totalmente ignorata praticamente da tutti i media americani, siano essi liberali o conservatori, di sinistra o di destra.

Nel caso particolare in questione, il considerevole numero di neoconservatori zelantemente filo-israeliani situati appena sotto la superficie pubblica dell'amministrazione Bush nel 2001 avrebbe potuto facilitare notevolmente sia il successo dell'organizzazione degli attacchi che il loro efficace insabbiamento e occultamento, con” Libby, Wolfowitz, Feith e Richard Perle” che sono solo i nomi più ovvi.

 Non è del tutto chiaro se tali individui fossero cospiratori consapevoli o avessero semplicemente legami personali che permettevano loro di essere sfruttati per promuovere il complotto.

 

La maggior parte di queste informazioni devono essere dichiarate a lungo evidenti agli osservatori esperti, e ho il forte sospetto che molte persone che avevano prestato molta più attenzione di me ai dettagli degli attacchi dell'11 settembre possano aver rapidamente formato una conclusione provvisoria lungo queste stesse linee.

Ma per tutte le ragioni sociali e politiche, c'è una grande riluttanza a puntare il dito contro Israele su una questione di così enorme portata.

 Quindi, ad eccezione di qualche attivista marginale qua e là, tali oscuri sospetti sono rimasti privati.

Nel frattempo, i leader del movimento per la verità sull'11 settembre probabilmente temevano di essere distrutti dalle accuse dei media di antisemitismo squilibrato se loro mai espresso anche solo un accenno di tali idee. Questa strategia politica potrebbe essere stata necessaria, ma non riuscendo a nominare alcun colpevole plausibile, creato hanno un vuoto che è stato presto riempito da "utili idioti" che hanno gridato "inside job!" mentre puntavano il dito accusatore contro “Cheney e Rumsfeld”, e quindi hanno fatto così tanto per screditare l'intero movimento per la verità sull'11 settembre.

Questa sfortunata cospirazione del silenzio si è finalmente conclusa nel 2009 quando il “dottor Alan Sabrosky”, ex direttore degli studi presso l'”US Army War College”, si è fatto avanti e ha dichiarato che il Mossad israeliano era stato molto probabilmente responsabile degli attacchi dell'11 settembre, scrivendo una serie di articoli sull'argomento e presentando infine le sue opinioni in una serie di interviste ai media, insieme ad ulteriori analisi.

 

Ovviamente, tali cariche esplosive non hanno mai raggiunto le pagine del mio “Times” mattutino, ma hanno ricevuto una copertura considerevole, anche se transitoria, in alcune parti dei media alternativi, e ricordo di aver visto i link in primo piano su “Antiwar.com” e ampiamente discussi altrove.

Non avevo mai sentito parlare di “Sabrosky”, così consultai il mio sistema di archiviazione e scoprii subito che aveva un record perfettamente rispettabile di pubblicazioni su questioni militari nei principali periodici di politica estera e aveva anche ricoperto una serie di incarichi accademici presso prestigiose istituzioni.

Leggendo uno o due dei suoi articoli sull'11 settembre, ho avuto l'impressione che avesse presentato un argomento piuttosto convincente per il coinvolgimento del Mossad, con alcune delle sue informazioni già note a me ma molte di esse no.

 

Dal momento che ero molto impegnato con il mio lavoro di software e non avevo mai passato del tempo a indagare sull'11/9 o a leggere uno qualsiasi dei libri sull'argomento, la mia convinzione nelle sue affermazioni di allora era ovviamente piuttosto incerta.

Ma ora che ho finalmente esaminato l'argomento in modo molto più dettagliato e ho fatto una grande quantità di letture, penso che sembri abbastanza probabile che la sua analisi del 2009 fosse del tutto corretta.

 

Consiglierei in particolare la sua lunga intervista del 2011 su “Iran Press TV”, che ho visto per la prima volta solo un paio di giorni fa. Si è rivelato altamente credibile e schietto nelle sue affermazioni.

Ha anche fornito una conclusione combattiva in un'intervista radiofonica molto più lunga del 2010:

 

“Sabrosky” concentrò gran parte della sua attenzione su un particolare segmento di un documentario olandese sugli attacchi dell'11 settembre prodotto diversi anni prima.

In quell'affascinante intervista, un esperto professionista di demolizioni di nome “Danny Jowenko”, che era in gran parte all'oscuro degli attacchi dell'11 settembre, identificò immediatamente il crollo filmato dell'edificio 7 del WTC come una demolizione controllata, e la notevole clip fu trasmessa in tutto il mondo su” Press TV” e ampiamente discussa su “Internet”.

 

E per una strana coincidenza, appena tre giorni dopo che l'”intervista video di Jowenko” aveva ricevuto un'attenzione così intensa, ha avuto la sfortuna di morire in uno scontro frontale con un albero in Olanda.

Sospetto che la comunità degli esperti professionisti di demolizione sia piccola, e i colleghi dell'industria sopravvissuti di “Jowenko” potrebbero aver rapidamente concluso che una grave sfortuna potrebbe colpire coloro che hanno espresso “opinioni controverse sul crollo delle tre torri del World Trade Center”.

Nel frattempo, l'ADL ha presto messo in atto uno sforzo enorme e in gran parte riuscito per far bandire “Press TV in Occidente” per aver promosso "teorie del complotto antisemita", convincendo persino YouTube ad eliminare completamente l'enorme archivio video di quegli spettacoli passati, in particolare la “lunga intervista di Sabrosky”.

Più di recente, “Sabrosky “ha tenuto una presentazione di un'ora alla conferenza video di “Deep Truth” di giugno, durante la quale ha espresso un notevole pessimismo sulla difficile situazione politica dell'America e ha suggerito che il controllo sionista sulla nostra politica e sui nostri media è diventato ancora più forte nell'ultimo decennio.

La sua discussione fu presto ritrasmessa da “Guns & Butter”, un “importante programma radiofonico progressista”, che di conseguenza fu presto eliminato dalla sua stazione di casa dopo diciassette anni di grande popolarità nazionale e forte sostegno da parte degli ascoltatori.

Anche il compianto “Alan Hart”, un illustre giornalista televisivo britannico e corrispondente estero, ha rotto il silenzio nel 2010 e allo stesso modo ha indicato gli israeliani come i probabili colpevoli degli attacchi dell'11 settembre.

Coloro che sono interessati potrebbero voler ascoltare la sua lunga intervista.

 

Il giornalista “Christopher Bollyn” è stato uno dei primi scrittori ad esplorare i possibili legami israeliani con gli attacchi dell'11 settembre, e i dettagli contenuti nella sua lunga serie di articoli di giornale sono spesso citati da altri ricercatori.

Nel 2012 ha raccolto questo materiale e lo ha pubblicato sotto forma di un libro intitolato “Solving 9-11”, rendendo così disponibili le sue informazioni sul possibile ruolo del Mossad israeliano a un pubblico molto più ampio, con una versione disponibile online.

Purtroppo il suo volume stampato soffre pesantemente della tipica mancanza di risorse a disposizione degli scrittori di frangia politica, con una scarsa organizzazione e frequenti ripetizioni degli stessi punti a causa delle sue origini in un insieme di singoli articoli, e questo può diminuire la sua credibilità tra alcuni lettori.

 Quindi chi lo acquista dovrebbe essere avvisato di queste gravi debolezze stilistiche.

 

Probabilmente un compendio molto migliore delle prove molto estese che indicano la mano israeliana dietro gli attacchi dell'11 settembre è stato fornito più di recente dallo scrittore francese “Laurent Guénon”, sia nel suo libro del 2017 "JFK-9/11: 50 Years of the Deep State" sia nel suo articolo di 8.500 parole "9/11 was an Israeli Job" , pubblicato contemporaneamente a questo e che fornisce una ricchezza di dettagli molto maggiore di quella qui contenuta.

 Sebbene non condivida necessariamente tutte le sue affermazioni e argomentazioni, la sua analisi complessiva sembra pienamente coerente con la mia.

Questi autori hanno fornito una grande quantità di materiale a sostegno dell'ipotesi del Mossad israeliano, ma vorrei concentrare l'attenzione su un solo punto importante.

Normalmente ci aspetteremmo che gli attacchi terroristici che hanno portato alla completa distruzione di tre giganteschi edifici per uffici a New York City e un attacco aereo al Pentagono siano un'operazione di dimensioni e scala, che coinvolge infrastrutture organizzative e manodopera molto considerevoli.

All'indomani degli attacchi, il governo degli Stati Uniti intraprese grandi sforzi per localizzare e arrestare i cospiratori islamici sopravvissuti, ma riuscì a malapena a trovarne uno.

A quanto pare, erano tutti morti negli attacchi o comunque erano semplicemente svaniti nel nulla.

 

Ma senza fare molti sforzi, il governo americano riuscì rapidamente a radunare e arrestare circa 200 agenti del Mossad israeliano, molti dei quali erano stati stanziati esattamente nelle stesse località geografiche dei presunti 19 dirottatori arabi.

Inoltre, la polizia di New York ha arrestato alcuni di questi agenti mentre celebravano pubblicamente gli attacchi dell'11 settembre, e altri sono stati sorpresi alla guida di furgoni nell'area di New York contenenti esplosivi o le loro tracce residue.

La maggior parte di questi agenti del Mossad si sono rifiutati di rispondere a qualsiasi domanda, e molti di quelli che hanno fatto i test del poligrafo hanno fallito, ma sotto una massiccia pressione politica sono stati alla fine rilasciati e deportati in Israele.

C'è un'altra curiosità affascinante che ho visto molto raramente menzionata. Appena un mese dopo gli attacchi dell'11 settembre, due israeliani furono sorpresi a introdurre di nascosto armi ed esplosivi nell'edificio del “Parlamento Casabella”, una storia che naturalmente produce diversi titoli di testa sui principali giornali messicani dell'epoca, ma che fu accolta da un silenzio totale nei media americani. Alla fine, sotto una massiccia pressione politica, tutte le accuse sono state ritirate e gli agenti israeliani sono stati deportati a casa.

Questo notevole incidente è stato riportato solo su un piccolo sito web di attivisti ispanici e discusso in pochi altri luoghi.

Qualche anno fa ho trovato facilmente le prime pagine scannerizzate dei giornali messicani che riportavano su Internet quei drammatici eventi, ma non riesco più a trovarle facilmente.

I dettagli sono ovviamente un po' frammentari e forse confusi, ma sicuramente piuttosto intriganti.

 

Si potrebbe ipotizzare che se i presunti terroristi islamici avessero dato seguito ai loro attacchi dell'11 settembre attaccando e distruggendo il palazzo del parlamento messicano un mese dopo, il sostegno latinoamericano alle invasioni militari americane in Medio Oriente sarebbe stato notevolmente amplificato.

Inoltre, qualsiasi scena di una distruzione così massiccia nella capitale messicana da parte di terroristi arabi sarebbe stata sicuramente trasmessa ininterrottamente su” Univision” , la principale rete televisiva americana in lingua spagnola, consolidando pienamente il sostegno ispanico alle iniziative militari del presidente Bush.

Sebbene i miei crescenti sospetti sugli attacchi dell'11 settembre risalgano a un decennio o più fa, la mia seria indagine sull'argomento è piuttosto recente, quindi sono certamente un neofita del settore.

 A volte, però, un osservatore esterno può notare dettagli che potrebbero sfuggire a chi ha trascorso così tanti anni immerso in un determinato argomento.

 

Dal mio punto di vista, una parte enorme della” comunità della Verità sull'11 settembre” trascorre troppo tempo immersa nei dettagli degli attacchi, dibattendo sul metodo preciso con cui le torri gemelle del World Trade Center di New York furono abbattute o su cosa colpì effettivamente il Pentagono.

Ma questo tipo di questioni sembrano di scarsa importanza ultima.

 

Sostengo che l'unico aspetto importante di tali questioni tecniche sia se le prove complessive siano sufficientemente solide da dimostrare la falsità della narrazione ufficiale dell'11 settembre e anche che gli attacchi debbano essere stati opera di un'organizzazione altamente sofisticata con accesso a tecnologie militari avanzate, piuttosto che di una banda eterogenea di 19 arabi armati di taglierini.

 A parte questo, nessuno di questi dettagli ha importanza.

 

A questo proposito, credo che la mole di materiale effettivamente raccolto dai ricercatori determinati nel corso degli ultimi diciassette anni abbia facilmente soddisfatto tale requisito, forse anche dieci o venti volte.

 Ad esempio, anche concordare su un singolo elemento particolare come la chiara presenza di nano-termite, un composto esplosivo di livello militare, soddisferebbe immediatamente questi due criteri.

Quindi vedo poco senso negli infiniti dibattiti sul fatto che sia stata usata la nano-termite, o la nano-termite più qualcos'altro, o solo qualcos'altro.

 E tali complessi dibattiti tecnici possono servire a oscurare il quadro più ampio, confondendo e intimidendo qualsiasi spettatore casualmente interessato, risultando così piuttosto controproducenti per gli2 obiettivi generali del movimento per la verità sull'11 settembre2.

 

Una volta concluso che i colpevoli facevano parte di un'organizzazione altamente sofisticata, possiamo quindi concentrarci sul Chi e sul Perché, che sicuramente sarebbero di maggiore importanza rispetto ai dettagli particolari del Come. Eppure, attualmente tutto l'infinito dibattito sul come tende a spiazzare il chi e il perché, e mi chiedo se questa sfortunata situazione possa essere intenzionale.

 

Forse una ragione è che una volta che i sinceri sostenitori della verità sull'11 settembre si concentrano su quelle questioni più importanti, l'enorme peso delle prove punta chiaramente in un'unica direzione, coinvolgendo Israele e il suo servizio di intelligence Mossad, con il caso che è estremamente forte nelle motivazioni, nei mezzi e nelle opportunità.

E accusare Israele e i suoi collaboratori interni per il più grande attacco mai lanciato contro l'America sul nostro suolo comporta enormi rischi sociali e politici.

Più o meno nello stesso periodo in cui pubblicai quell'articolo di recensione, ero stato intervistato su vari argomenti controversi dalla televisione iraniana, raggiungendo un pubblico potenziale di dieci milioni di persone.

 In due di quei segmenti di mezz'ora, ho presentato la mia ricostruzione degli attacchi dell'11 settembre, e sono disponibili sulla “nostra piattaforma video Rumble”, così chi fosse interessato ad ascoltare le mie stesse opinioni espresse in video può facilmente guardarli.

 

Ho notato anche un paio di altri documentari video degni di nota incentrati sul probabile ruolo israeliano negli attacchi dell'11 settembre, uno di “Laurent Gudeno” e un altro di “Ryan Dawson”.

Quest'ultimo è un po' meno ben organizzato e promuove anche alcune posizioni eccentriche diverse da quelle di quasi tutti gli altri sostenitori della verità sull'11 settembre, ma bilancia queste carenze fornendo numerose storie dei media mainstream che riportano l'arresto da parte della polizia l'11 settembre di agenti del Mossad israeliano alla guida di furgoni carichi di esplosivo che erano stati apparentemente destinati ad ulteriori attacchi terroristici nell'area di New York City.

È estremamente difficile fornire una spiegazione non sinistra del perché gli agenti del Mossad avrebbero guidato furgoni pieni di tali contenuti in giro per New York l'11 settembre, o perché così tanti diversi media avrebbero riportato quelle storie se non fossero state vere.

Ho estratto quelle clip per una visione più comoda.

Gli attacchi dell'11 settembre sono avvenuti più di ventiquattro anni fa, e pochi fatti nuovi sono venuti alla luce di recente.

Quindi una lunga analisi delle circostanze pubblicata anni fa è probabilmente altrettanto valida di una nuova analisi prodotta oggi.

 

Ma questo ovviamente non è il caso degli sviluppi epocali del caso dell'assassinio di “Charlie Kirk2.

Avevo sostenuto molto rapidamente che la sua morte era probabilmente profondamente legata agli attacchi dell'11 settembre, ben oltre la coincidenza temporale del 10 e dell'11 settembre.

“Larry Johnson” è un ex agente della CIA con una grande esperienza nel campo delle armi da fuoco, e venerdì ha parlato a nome dei membri di quest'ultima comunità, dichiarando categoricamente che era fisicamente impossibile che “Kirk” fosse stato ucciso dal gioco 30-06 che le autorità hanno sostenuto.

 Pertanto, secondo lui, “Tyler Robinson “sarà sicuramente dichiarato innocente se verrà processato.

 

Quindi, se “Robinson” era semplicemente un innocente capro espiatorio che non ha ucciso Kirk, allora chi lo ha fatto e perché?

Come ho spiegato nel mio primo articolo dopo l'assassinio, poche ore dopo aver appreso della morte di Kirk, ho deciso di sollevare la questione con molta cautela con qualcuno ben inserito nei circoli conservatori che conosceva personalmente Kirk, e sono rimasto scioccato dalla sua risposta.

 Anche se non avevo mai menzionato Israele per nome, mi ha detto inequivocabilmente che tutti nella cerchia di Kirk, compresi anche importanti funzionari dell'amministrazione Trump, sospettavano che Israele avesse probabilmente ucciso il giovane leader conservatore.

Nel mio articolo della scorsa settimana ho descritto come quella prima scioccante proposta, privata e incerta, presto a causa di una marea di dichiarazioni pubbliche a sostegno di quella stessa conclusione:

… durante i due mesi precedenti la morte di Kirk, il giovane leader conservatore era stato oggetto di aspri attacchi personali da parte di elementi filo-israeliani che erano infuriati per quello che consideravano il suo sostegno vacillante allo Stato sionista.

Questi fatti non erano stati ampiamente noti a coloro che al di fuori della cerchia personale di Kirk, ma subito dopo la sua morte alcuni eccezionali rapporti investigativi di “Max Blumenthal” e dei suoi colleghi di” Garzone” hanno rivelato la pressione molto pesante esercitata contro il giovane leader conservatore, comprese le offerte di nuovi enormi finanziamenti da parte di Netanyahu che Kirk aveva categoricamente rifiutato.

 Secondo il racconto di “Blumenthal”, Kirk si era "spaventato" di queste forze filo-israeliane improvvisamente schierate contro di lui e aveva persino detto ad alcuni dei suoi amici che temeva per la sua vita.

 

In una clip di un'intervista di inizio agosto con “Megyn Kelly”, Kirk ha descritto come Israele e i suoi sostenitori americani siano entrati in uno "stato iper-paranoico", considerando lui e chiunque altro deviasse dalla loro linea incrollabilmente filo-israeliana come i loro "nemici".

 

A causa di questa storia recente, l'improvviso assassinio di Kirk ha portato molti a sospettare che Israele e il suo Mossad fossero coinvolti, e a causa dichiarazioni pubbliche di Netanyahu che dichiaravano di non aver ordinato l'assassinio di Kirk hanno semplicemente alimentato piuttosto che smorzato tali speculazioni diffuse. Secondo” Proverbi 28:1”, "Gli empi fuggono quando nessuno li insegue".

 

Il sospetto che Israele avesse ucciso Kirk si estendeva ben oltre i soliti circoli cospiratori.

 Tali teorie furono presto espresse pubblicamente da figure di tutto rispetto come gli ex analisti della CIA “Ray McGovern” e “Larry Johnson” , l'ex membro del Consiglio di Sicurezza Nazionale, il “Tenente Colonnello Karen Kwiatkowski”, e l'ex agente della CIA “Philip Giraldi”.

Il “Prof. John Mearsheimer” sembrò prendere questa possibilità molto seriamente, così come l'editorialista” Patrick Lawrence”, che aveva trascorso decenni come giornalista per importanti quotidiani.

 

Solo un paio di giorni fa, un attivista anti-israeliano ha twittato un video in cui Kirk assumeva posizioni estremamente sgradite alla lobby israeliana poco prima della sua morte.

Negli ultimi anni, molti americani hanno concluso che Israele e il suo Mossad abbiano probabilmente ucciso JFK, e che uno dei motivi principali per cui il nostro presidente è stato assassinato sia stato probabilmente il suo determinato tentativo di spezzare il crescente potere della stessa lobby israeliana, suggerendo una forte analogia tra l'omicidio di Kennedy e quello di Kirk.

 

Tuttavia, se il “Mossad” ha ucciso Kirk, il complotto e l'insabbiamento che hanno messo insieme sono stati estremamente deboli, con così tanti esperti di spicco che hanno notato che il calibro della competizione era ovviamente sbagliato e che “Robinson” era chiaramente un capro espiatorio poche settimane dopo il suo arresto. Tutto questo porta i segni di un lavoro estremamente frettoloso.

 

Il mio suggerimento è che la ragione di quella fretta fosse quella di eliminazione Kirk prima che potesse iniziare ad appoggiare e promuovere “la serie di Carlson” sull'11 settembre ai suoi milioni di seguaci entusiasti, portando così quella visione altamente cospirativa dell'11 settembre nel mainstream di una nuova generazione di giovani conservatori americani.

 Carlson era un caro amico di Kirk, e se quest'ultimo non fosse stato ucciso quattro settimane fa, a quest'ora il pubblico della serie – e le implicazioni della sua storia – avrebbero già raggiunto un pubblico molto più vasto di quello che ha raggiunto.

Quindi, se la mia analisi è corretta, la serie di Carlson sull'11 settembre probabilmente è costata la vita a uno dei più importanti leader conservatori d'America, e coloro che la guardano dovrebbero darle il giusto peso.

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