La Flotilla e il senso di Netanyahu per la Pace.
La
Flotilla e il senso di Netanyahu per la Pace.
La
Pirateria Contro la “Flotilla”
e il
Senso di Netanyahu per la Pace.
Conoscenzealconfine.it
– (3 Ottobre 2025) - Davide Malacaria – ci dice:
Minacce,
pirateria marittima, sequestro di persona, furto (delle imbarcazioni e dei
beni, personali e non), e altre fattispecie di reato sono state consumate tra
l’altro ieri sera e la notte scorsa dall’IDF, e dalle autorità israeliane da
cui dipendono, nelle acque internazionali prospicenti Gaza.
Tutto
questo mentre le autorità dei Paesi dei cittadini contro i quali venivano
commessi tali reati si limitavano a chiedere, queruli, ai criminali in
questione di non usare violenza.
Tale
la follia dilagante nel mondo da quando il Diritto è stato bombardato a Gaza,
insieme a una moltitudine di inermi.
Non
potendo legittimare tale barbarie, i corifei della “Hasbara” nostrani,
interpellati sul tema, hanno tirato in ballo la guerra in corso, che renderebbe
giustificabili tali azioni.
Anzitutto
quanto accade a Gaza non è una guerra.
Una
guerra presuppone l’esistenza di due eserciti contrapposti, mentre, come
dichiarano esplicitamente le autorità di Tel Aviv, si tratta di un’operazione
anti-terrorismo, sebbene condotta con dinamiche di guerra, con tutte le
criminali storture del caso.
Resta,
però, che il Diritto vale anche in tempo di guerra.
A tale
scopo sono state stilate le “Convenzioni di Ginevra”, che Israele può decidere
di ignorare, come sta ampiamente dimostrando, ma che non possono permettersi di
ignorare i corifei in questione, che vivono in un Paese che tali Convenzioni ha
sottoscritto, se vogliono conservare un minimo di autorevolezza.
Peraltro,
quanto avvenuto è anzitutto un atto di guerra, ché come tale si configura la
violenza esercitata contro cittadini stranieri inermi impegnati in una missione
umanitaria, per di più in un’area non appartenente alla sovranità israeliana.
Se è
ragionevole, stante la situazione, per i Paesi sfidati non adire a una guerra
aperta, resta che una reazione era pur doverosa, come ad esempio quella del
presidente colombiano “Gustavo Petro”, che ha dato il foglio di via alla
delegazione israeliana di stanza presso la sua nazione.
Ma, al
di là, resta che la Flotilla ha raggiunto il suo scopo, umano prima che
politico, che era quello di portare all’attenzione dell’opinione pubblica
quanto si sta consumando a Gaza.
E le
reazioni dei popoli, insieme all’imbarazzo e alla confusione dei potenti,
indicano esattamente questo.
La
missione della Flotilla si è conclusa come era prevedibile, ora non resta che
attendere la risposta di “Hamas al cosiddetto piano di pace di Trump”.
A
stare alle indiscrezioni, la milizia islamica sarebbe propensa ad accoglierlo,
com’è ovvio che sia, ma con modifiche, com’è altrettanto ovvio.
Quindi
la palla passerà a Israele, con Netanyahu che cercherà di dichiarare che Hamas
ha respinto l’offerta di pace e che, quindi, Gaza” delenda est” (deve essere
distrutta).
In
realtà, il cosiddetto piano di pace di Trump, quello concordato tra Stati Uniti
e Paesi arabi, con questi ultimi che hanno interloquito con Hamas, è stato
modificato all’ultimo minuto, con inserzioni della parte israeliana apposte
appositamente per renderlo inaccettabile alla controparte.
Tanto che i Paesi arabi hanno manifestato la
loro irritazione per tale indebita ingerenza, fatta per mandare tutto all’aria.
Ma,
anche se Hamas accettasse, Netanyahu non si rassegnerebbe a chiudere la sua
guerra infinita.
Ne
scrive su “Haaretz”” Amos Harel”:
“Nei
prossimi giorni, Netanyahu tenterà probabilmente di avviare un lungo negoziato
con l’amministrazione (Usa) in merito ai termini dell’accordo, alla sua
formulazione definitiva e ai tempi di attuazione. I
l
fatto che i redattori del piano non abbiano fissato un calendario vincolante
per il “ritiro dell’IDF “potrebbe complicare le cose in futuro”.
“Allo
stesso tempo, Netanyahu farà leva sulle obiezioni dei partiti messianici di
destra della sua coalizione per diffondere allusioni e dichiarazioni volte a
mettere in difficoltà Hamas e a far credere ai leader dell’organizzazione che
Israele violerà l’accordo quando se ne presenterà l’occasione.
Israele ha già violato il precedente accordo
quando ha ripreso la guerra lo scorso marzo.
Da
allora, Trump non ha rispettato il suo impegno di imporre un accordo, anche
dopo che Hamas ha rilasciato il soldato israeliano-americano” Edan Alexander”.
“[…]
Molte cose potrebbero ancora andare storte, e alcuni stanno già lavorando per
far sì che ciò accada.
Una
rapida analisi del piano di Trump richiama alla mente ciò che disse “Ehud Barak”,
Capo di stato maggiore dell’IDF, a proposito degli” Accordi di Oslo”: ‘Hanno
più buchi di un groviera’ [ma hanno dovuto uccidere Rabin per vanificarli
ndr.].
Con
tutta la pressione esercitata su Hamas, la cui leadership è divisa tra le
residenze a Doha e i tunnel a Gaza, è necessaria una buona dose di ottimismo
per credere che l’organizzazione accetterà di rilasciare tutti gli ostaggi e i
morti entro 72 ore dalla futura firma, basandosi unicamente sulla promessa di
Trump di imporre un ritiro graduale dell’esercito israeliano“.
Per
parte sua, Netanyahu “spera probabilmente in una risposta negativa da parte di
Hamas; a quel punto Israele otterrebbe da Trump il sostegno per un ultimo
assalto” a Gaza.
La
“soluzione finale”.
(youtube.com/shorts/oljtO5vGrqE).
(Articolo
di Davide Malacaria).
(piccolenote.it/mondo/la-pirateria-contro-la-flottilla-e-il-senso-di-netanyahu-per-la-pace).
Flotilla,
Corrado (Pd): “Nessun aiuto sulle
nostre barche? Solo propaganda di Israele.”
Dire.it
– (04 – 10 – 2025) – Marco Tribuzi – ci dice:
Annalisa
Corrado, eurodeputata Pd appena rientrata dall’esperienza sulla “Global Sumud
Flotilla”, denuncia in conferenza stampa la propaganda di Israele sugli aiuti a
Gaza.
Critiche
anche al governo italiano: "Nessun canale umanitario attivo."
ROMA –
“I video circolati per dimostrare che non c’erano aiuti dentro le barche sono
stati registrati quando Israele ha sequestrato le imbarcazioni, ci ha
trascinato fuori e ha avuto modo di fare qualsiasi cosa sulle nostre navi.
Dire
che non ci fossero aiuti è pura propaganda. Questa polemica è allucinante”.
Lo ha
dichiarato l’eurodeputata del Partito Democratico “Annalisa Corrado”, nel corso
di una conferenza stampa tenuta al suo rientro in Italia, dopo aver partecipato
alla missione della “Global Sumud Flotilla”, fermata dalla marina israeliana.
In
conferenza stampa anche gli altri politici italiani che hanno partecipato alla
missione (il deputato dem, Arturo Scotto, il senatore M5S, Marco Croatti, e
l’eurodeputata di Avs, Bendetta Scuderi) e “Maria Elena Delia”, portavoce
italiana della flottiglia.
Corrado
punta il dito anche contro l’operato del governo italiano sugli aiuti umanitari
destinati a Gaza:
“«”Gli aiuti istituzionali dall’Italia non
esistono.
Quando
dicevano ‘Portate gli aiuti con i canali umanitari istituzionali, in poche ore
avremmo potuto portarli lì’ non era vero.
Non lo avete fatto e non lo state facendo”.
Durissime
anche le parole sull’uso della para caduta oggi dall’Italia:
“Buttare
dall’aereo della roba sulle persone, provocando ulteriori incidenti e morti, è
un’altra fonte di disumanizzazione completa”.
Infine,
“Corrado” denuncia il sistema di distribuzione adottato tramite la “Gaza
Foundation”:
“È
sadico, perché entra pochissimo cibo e acqua, distribuiti in modo sbagliato, e
ciò provoca altre decine di vittime ogni giorno”.
Dall’escalation
dei droni su Monaco
alla
minaccia dei missili su Roma:
nella
non guerra Putin la spunta.
Msn.com - Il Riformista - Storia di Paolo
Guzzanti – (06 – 10 -2025) – ci dice:
Il Presidente
russo Vladimir Putin a incontro con esperti di politica estera a Sochi.
“Vladimir
Putin” è stato geniale.
Anziché
dire: dato che tutti i paesi della Nato hanno un atteggiamento ostile verso la
federazione russa, io dichiaro lo stato di guerra fra la Nato e noi.
Ha
invece detto: poiché tutti i paesi della Nato stanno compiendo gesti e
assumendo posizioni ostili contro la Russia, dichiaro che i paesi della Nato
sono in guerra con la Russia e che la Russia è libera di agire senza ulteriori
formalità.
Quindi,
Putin non ha dichiarato guerra a nessuno, ma ha fatto un’escalation nelle
parole e ha parlato di uno stato di guerra di fatto a cui però non corrisponde
alcuna dichiarazione formale.
Gli fa
eco il segretario la difesa degli Stati Uniti, il quale dichiara in ogni
telegiornale che “tutti gli americani devono sapere che siamo in guerra. Non
possiamo dire quanto durerà questo stato, ma ogni cittadino americano deve
prendere atto che il suo paese è in guerra”.
E
Trump? Che cosa dice Trump?
“Ho fatto spedire tutti i nostri sottomarini
nucleari nelle posizioni utili per vincere una guerra con la Russia
immediatamente”.
E lo
dice con quel suo tono vago e un po’ distratto, ma sa benissimo da più di una
settimana che lo scenario della guerra in Ucraina è radicalmente cambiato da
quando ha deciso di fornire Kyiv con missili di lungo raggio tomahawk.
Armi
che possono colpire la federazione russa per migliaia di chilometri all’interno
del territorio e che sono anche usabili con testata nucleare.
Questo
ha fatto letteralmente impazzire il Cremlino perché richiede un
riposizionamento di tutta l’artiglieria russa.
Lo
stato della guerra viene fatto passare come una continua travolgente avanzata
nelle zone russofone, ma è una avanzata al rallentatore perché all’attuale
velocità di penetrazione fra le linee ucraine occorrerebbero alteri dieci anni
di guerra alla Russia prima di incamerare tutti i sei oblast che si è
formalmente annessa prima di aver vinto sul terreno.
Questo
stato di guerra non dichiarata ha terremotato i trasporti e la sicurezza in
tutta l’Europa del nord già sottoposta alla minaccia dei droni.
Così
anche l’aeroporto di monaco in Germania apre e chiude a singhiozzo le sue piste
“per possibile arrivo di droni”, una nuova voce del vocabolario aeroportuale.
Naturalmente,
almeno per ora i doni non ci sono, ma il cielo è pieno di roba volante
difficile da identificare.
I polacchi hanno reagito a questo nuovo stato
delle cose mantenendo in volo nelle 24 ore pattuglie di F 35 modificati perché
sono molto temuti dei russi.
Hanno
tutti l’ordine di abbattere senza ulteriori preavvisi qualsiasi oggetto volante
che violi la frontiera polacca.
Tutto
è ancora reversibile e questo macchinario è il frutto della scelta di Trump di
agire per bloccare l’esportazione del petrolio russo attraverso la flottiglia
di petroliere che scendono dal Mar Baltico e si dirigono verso l’Europa
meridionale e il Medioriente con meta finale l’India.
La scommessa è più economiche che militare:
secondo
tutti gli studi della Nato e quelli americani Putin è dissanguato dalle paghe e
dalle assicurazioni pagate per i nuovi arruolati, mentre il tenore di vita
della Russia è sceso persino a Mosca e San Pietroburgo dove si sono già
registrate forti manifestazioni contro il carovita.
La
scelta è di Donald Trump, offesissimo per la lunga presa in giro da parte di
Putin che prometteva l’inizio di trattative pensando ad altro, che ha deciso di
usare il freno delle esportazioni di petrolio russo e l’acceleratore della
pressione militare scommettendo sul bluff di Putin.
“Rutte”,
il segretario generale della Nato che era stato molto critico nei confronti di
Trump quando il presidente degli Stati Uniti manifestava apertamente la sua
simpatia per Putin, adesso è un entusiasta dell’inquilino della casa bianca e
lo appoggia sulla questione centrale di cui si è parlato al vertice dell’Aja.
Trump
ha riportato gli Stati Uniti al vertice della Nato e però vuole conti in ordine
per tutti i paesi membri, cosa che non sarà certamente possibile, però i
principali paesi stanno allineando la percentuale di Pil da consegnare alla
difesa e “Rutte” sottolinea che è una cosa buona.
Poi,
per essere più incisivo ha ricordato che Putin possiede missili che possono
raggiungere capitali europei come Roma o come Madrid e che quindi i membri
della Nato devono sbrigarsi a difendere i cieli delle loro capitali.
La
Spagna ha confermato che non verserà un euro in più nelle casse della Nato e
Trump ha commentato:
“È
incredibile quello che fanno questi spagnoli. Spero che un giorno non debbano
pentirsene”.
Il
Primo Ministro spagnolo, “Pedro Sanchez”, ha ringraziato “Rutte” per la sua
comprensione e per aver rispettato l’indipendenza della Spagna.
Non
una parola di risposta a Trump.
Negli
Stati Uniti sta avanzando l’opinione secondo cui, Donald Trump potrebbe aver
avuto ragione a mostrare prima di tutto al mondo di non avere la minima
intenzione di cominciare una guerra.
Ha
scandalizzato e sbalordito americani ed europei col tappeto rosso in Alaska per
Putin e tutte le espressioni eccessivamente amichevoli degli ultimi mesi.
Ciò
gli dà oggi un vantaggio nei confronti della Cina e dell’India perché questi
due paesi hanno sempre avuto un atteggiamento negativo nei confronti
dell’invasione russa dell’Ucraina, anche se entrambi ne hanno tratto finora
grande vantaggio economico:
la
Cina comprando petrolio e fornendo tecnologia e l’India diventando la più
grande stazione di rifornimento di benzina del mondo.
Sia “Xi
Jinping” che “Modi” sanno di non poter fare a meno del mercato americano in un
possibile dopoguerra.
(Il Riformista).
Il
Ministro Israeliano Katz: Suore e
Clero
Cristiano Saranno Considerati
Terroristi se Non Lasceranno Gaza.
Conoscenzealconfine.it
– 5 Ottobre 2025) -Renovatio.21 –
Redazione – ci dice:
Katz:
“Coloro che rimarranno a Gaza saranno considerati terroristi e sostenitori del
terrorismo”.
Mercoledì
il “ministro della Difesa israeliano “Israel Katz” ha minacciato affermando che
i residenti della città di Gaza, colpita dalla carestia, hanno un “ultima
opportunità” di fuggire a sud o di essere classificati come “terroristi”,
mentre l’esercito israeliano sostenuto dagli Stati Uniti continua la sua
operazione di pulizia etnica volta a radere al suolo ogni edificio della città.
Lo
riporta” Life Site”.
Con un
tweet su “X”, Katz ha annunciato che l’esercito di occupazione israeliano (IDF)
aveva quasi circondato Gaza City.
“Questa
è l’ultima opportunità per i residenti di Gaza che lo desiderano di spostarsi a
sud e lasciare i terroristi di Hamas isolati a Gaza City, di fronte alle
operazioni in corso dell’IDF a pieno regime”.
“Coloro
che rimarranno a Gaza saranno considerati terroristi e sostenitori del
terrorismo”, ha avvertito.
Secondo
l’IDF, circa 780.000 civili palestinesi sono fuggiti da Gaza City da agosto,
mentre altre stime riportano che la cifra si aggirerebbe intorno ai 400.000, su
un totale di circa 1 milione.
Ciò
significa che diverse centinaia di migliaia di persone rimangono in città per
vari motivi, tra cui malattie, debolezza a causa della carestia, anziani o
disabili, per sopportare un altro crimine contro l’umanità, ovvero lo
sfollamento.
Tra
coloro che hanno deciso di restare ci sono religiosi e sacerdoti cattolici e
ortodossi che hanno concluso che la loro responsabilità è quella di rimanere
con i disabili e i malnutriti dei loro gruppi sfollati, che hanno trovato
rifugio nelle rispettive parrocchie di Gaza City.
In una
dichiarazione del 26 agosto dei “Patriarcati latino e greco di Gerusalemme”,
guidati rispettivamente dal cardinale “Pierbattista Pizzaballa” e da “Teofilo
III”, è stato spiegato che per coloro che sono indeboliti e malnutriti a causa
della carestia provocata dall’uomo in Israele, insieme ai disabili, lasciare
Gaza City “e cercare di fuggire verso sud sarebbe niente meno che una condanna
a morte”.
E
così, per queste ragioni, le “Missionarie della Carità” di Santa Madre Teresa,
insieme al clero che si è preso cura di queste persone vulnerabili, “hanno
deciso di rimanere e continuare a prendersi cura di tutti coloro che saranno
nei complessi”.
All’inizio
del mese scorso Tel Aviv ha ordinato la completa evacuazione di Gaza City,
costringendo i palestinesi sfollati a spostarsi a sud nella regione di
“Mawasi”, che l’esercito israeliano ha definito “zona sicura”, nonostante
l’abbia bombardata più volte.
“Si
chiama zona sicura, ma viviamo qui da mesi e sappiamo per certo che non è
sicura”, ha detto un giornalista sfollato ad “Al Jazeera”.
“Come
posso definirla sicura quando Israele ha ucciso e bombardato mia sorella
proprio all’interno di questa ‘zona sicura’?”
A
causa dei bombardamenti di routine e delle occasioni in cui i palestinesi
sfollati e affamati vengono spesso colpiti dai cecchini israeliani sostenuti
dagli Stati Uniti mentre cercano aiuti umanitari, molti altri sono rimasti a
Gaza City.
L’attivista
“Jason Jones” in un articolo di mercoledì che affrontava questi eventi ha
scritto che “non si può sopravvalutare l’urgenza morale della situazione.
È
imperativo che i cristiani di ogni tipo e tutte le persone di buona volontà
siano solidali con la comunità attualmente minacciata a Gaza”.
“Jones”,
fondatore e presidente del “Vulnerable People Project” ha avvertito che “il
presidente Trump sembra contento di starsene seduto a guardare mentre le forze
israeliane uccidono i cristiani di Gaza, tra cui le Missionarie della Carità,
insieme ad altri che la comunità cristiana ha preso sotto la sua cura”.
(renovatio21.com/il-ministro-israeliano-katz-suore-e-clero-cristiano-saranno-considerati-terroristi-se-non-lasceranno-gaza/).
Attivisti
della Flotilla trattenuti in
condizioni
disagevoli, Farnesina
chiede
intervento di Israele.
It.euronews.com
- Fortunato Pinto – (04/10/2025) – ci dice:
Navi
militari israeliane nel porto di Ashdod dove sono state trattenute le
imbarcazioni della” Flotilla”.
Il
ministero degli Esteri italiano ha fornito un aggiornamento sullo stato di
detenzione degli attivisti membri dell'equipaggio della “Global Sumud
Flotilla”.
La
Farnesina ha chiesto un'azione da parte di Israele.
Anche
attivisti di Polonia e Portogallo parlano di una situazione difficile.
Italiani
e altri attivisti della “Global Sumud Flotilla” trattenuti in condizioni
disagevoli.
Il ministero degli Esteri italiano ha
pubblicato una nota sabato mattina fornendo un aggiornamento sullo stato di
detenzione dell'equipaggio della missione bloccata dalla Marina israeliana
giovedì.
"È
terminata dopo molte ore la visita consolare dell’Ambasciata d’Italia in
Israele ai cittadini italiani fermati sulla Flotilla.
Il
team consolare ha potuto incontrare tutti i fermati, che stanno bene anche se
sono provati da un mese trascorso in mare e dai due giorni di profondo stress
in coincidenza con l’operazione militare contro le barche", ha scritto la
Farnesina nella nota diffusa sabato.
"Il
team consolare ha segnalato che nel carcere le condizioni detentive sono
particolarmente disagevoli", si legge ancora nel comunicato.
Secondo
quanto riferito il ministro degli Esteri “Antonio Tajani” ha dato quindi
istruzioni all’ambasciata di chiedere tramite il ministero degli Esteri
israeliano una verifica e un miglioramento delle condizioni di detenzione.
Dal
ministero aggiungono che l’ambasciata d’Italia sta operando per accelerare le
pratiche di espulsione.
"Saranno particolarmente veloci
soprattutto per i connazionali che hanno deciso di firmare il foglio di via
proposto dalle autorità israeliane", ha aggiunto la Farnesina.
Proteste
anche da attivisti di Polonia e Portogallo.
Venerdì
sera anche il ministero degli Esteri polacco ha pubblicato una nota in cui ha
spiegato che i tre membri polacchi della Flotilla sono sani e salvi e che gli è
stata offerta la possibilità di beneficiare di una procedura accelerata per
lasciare Israele e tornare in Polonia.
Secondo
quanto si apprende, tutti hanno rifiutato di firmare una dichiarazione di
sottomissione volontaria all'espulsione, il che significa che ora attenderanno
il processo in un tribunale israeliano.
Anche
l'ambasciatore portoghese e il console in Israele hanno fatto visita venerdì ai
quattro cittadini portoghesi detenuti da Israele.
In una
nota inviata all'agenzia di stampa Lusa, il Ministero degli Affari Esteri ha
confermato che “Mariana Mortágua,” “Sofia Aparício”, “Miguel Duarte” e Diogo
Chaves” sono "in buona salute, nonostante le difficili e dure condizioni
all'arrivo al porto di Ashdod e nel centro di detenzione".
Gli
attivisti però hanno segnalato di essere stati maltrattati.
Sui
social media, Joana Mortágua ha raccontato di aver parlato con il console
portoghese in Israele, il quale ha spiegato che sua sorella, Mariana Mortágua,
è in buona salute fisica e psicologica e che attualmente si trova in una cella
con 12 persone.
La
parlamentare del “Blocco di Sinistra “ha condiviso un messaggio per dare riposo
alla sua famiglia, ma anche per denunciare la difficile situazione degli
attivisti che, secondo lei, sono rimasti 48 ore senza cibo né acqua.
"Mamma,
sto bene, ma non ci hanno trattato bene, senza cibo né acqua per 48 ore ",
si legge nel messaggio condiviso da” Joana Mortágua,” dove Mariana Mortágua
chiede anche manifestazioni di solidarietà con Gaza.
I
quattro cittadini portoghesi avrebbero firmato una dichiarazione in cui
accettavano l'espulsione dal Paese.
Questa
informazione è stata confermata questo pomeriggio dall'ambasciatore israeliano
in Portogallo durante un'intervista alla “Cnn”.
Scuderi
contro Meloni: "Guardare responsabilità di chi commette crimini"
Delle
misure di trattenimento ne ha parlato anche l'eurodeputata “Benedetta Scuderi”,
che faceva parte della Flotilla ed è tornata già venerdì con gli altri tre
parlamentari italiani.
Appena arrivata all'aeroporto di Roma
Fiumicino, Scuderi aveva parlato di violazioni e poi in un'intervista
rilasciata al quotidiano La Repubblica ha raccontato dei maltrattamenti subiti
nel porto di Ashdod.
"Mi
hanno presa per le braccia e strattonata. Una volta dentro ci hanno perquisiti
ancora una volta, hanno rovistato nelle nostre borse e buttato via medicine ed
effetti personali.
Oltre
al cellulare, in cui avevo anche le carte, e che non ci hanno mai più
restituito, a me hanno tolto le medicine, l'igienizzante e la protezione
solare", ha detto l'eurodeputata, che ha poi criticato la premier italiana
“Giorgia Meloni” per non aver condannato il fermo dell'equipaggio della
Flotilla.
"Dovrebbe
guardare a responsabilità di chi commette crimini e non di chi ne è vittima.
Ripeto:”
Netanyahu” ci ha rapiti in acque internazionali e “Meloni “come sempre non lo
ha condannato, così come non condanna nessuno dei crimini di Netanyahu",
ha detto.
Tajani:
"26 italiani rientrano oggi, 15 restano in Israele perché non hanno
firmato."
Il
ministro degli Esteri Antoni Tajani ha poi fatto sapere sabato a margine di una
iniziativa a Firenze che 26 italiani sono in partenza da Israele mentre altri
rimarranno ancora per 2-3 giorni in Israele perché non hanno voluto firmare la
liberatoria, quindi dovranno essere giudicati.
"Credo
che all'inizio della prossima settimana saranno in Italia", ha aggiunto il
ministro spiegando che gli italiani in partenza oggi viaggeranno con un volo
della “Turkish Airlines” diretti in Turchia, per poi arrivare in Italia con
l'assistenza del nostro consolato.
Il
team legale che supporta la “Sumud Global Flotilla” ha annunciato venerdì che i
473 membri dell'equipaggio delle imbarcazioni sequestrate dalle forze navali
israeliane sono stati trasferiti in una prigione nel deserto del Negev, nel sud
di Israele.
La detenzione degli attivisti, che stavano
trasportando aiuti umanitari diretti nella Striscia di Gaza, ha scatenato
proteste in tutto il mondo.
'Niente
cibo'. 'Falso'.
Scontro
sugli aiuti sulla Flotilla.
Ansa.it-Mondo
– (03-10 -2025) – Redazione Ansa – ci dice:
L'ambasciatore
di Israele attacca i volontari.
La
replica: 'E' documentato.'
L'azione
della Flotilla era solo "una provocazione" e gli aiuti che dovevano
arrivare a Gaza, con la volontà degli attivisti di aprire questo corridoio
umanitario, in realtà non sono stati trovati sulle barche sequestrate:
è la
versione di Tel Aviv, alla quale ha replicato a stretto giro la portavoce
italiana del “Global Movement to Gaza”, “Maria Elena Delia”:
"Accuse
infondate", ha detto, "è tutto documentato".
"Non
abbiamo trovato nessun aiuto alimentare sulle barche sequestrate", ha
riferito stamane l'ambasciatore israeliano a Roma “Jonathan Peled”, rilanciando
quanto affermato sui social dal ministero degli Affari esteri israeliano.
In un
post su “X “gli Affari esteri di Tel Aviv avevano infatti sottolineato:
"La
polizia sta cercando gli aiuti umanitari provenienti dalla provocazione”
Hamas-Sumud” affinché possano essere trasferiti pacificamente a Gaza.
L'unico
problema: finora non hanno trovato molto. C
ome
abbiamo detto, non si è mai trattato di aiuti. Si è sempre trattato di
provocazione".
Il
messaggio è stato rilanciato anche dall'account dell'ambasciata israeliana
presso la Santa Sede.
Allegato
a questa comunicazione di Tel Aviv sui social c'è anche un video nel quale un
militare israeliano mostra una stanza vuota di una nave, una delle più grandi -
così dice - della Flotilla:
"Quando
noi e molti altri Paesi ci siamo offerti di prendere questi aiuti e portarli
alla popolazione di Gaza, garantendo un arrivo sicuro, loro hanno rifiutato
categoricamente.
E ora
sappiamo perché, perché non si è mai trattato di portare gli aiuti, ma solo di
ottenere titoli sui social media",
dice il militare mostrando un ambiente in cui
non ci sono gli aiuti e i pacchi alimentari annunciati e per i quali si erano
attivati anche enti disposti a fare da ponte, come il “Patriarcato cattolico di
Gerusalemme”.
"Sono
accuse totalmente infondate.
Sulle barche partite dall'Italia c'erano casse
di aiuti, alimentari e medicine, preparati dall'associazione “Music for
Peace", ha replicato la portavoce italiana del “Global Movement to Gaza”,
“Maria Elena Delia” sottolineando che è tutto verificabile.
"C'erano dal riso, al miele, alle
medicine - riferisce l'attivista - Inoltre al porto di Augusta sono state fatte
riprese dai reporter, prima della partenza, mentre venivano caricate le casse
sulle varie barche. È tutto documentato",
insiste
Delia respingendo l'ulteriore accusa arrivata dal governo israeliano.
Flotilla,
la clamorosa rivelazione di Israele:
“Sulle barche non c’erano aiuti umanitari
, solo
droga e alcol”.
Secoloditalia.it
- Monica Pucci – (3 Ottobre 2025) – ci dice:
Nel
gioco delle parti, ogni informazione che arriva dallo scenario di guerra
Mediorientale va presa con le pinze.
Ma
questa mattina il Ministero degli Esteri israeliano ha lanciato una “bomba” non
indifferente:
“Nessuna
delle 40 imbarcazioni che partecipavano alla “Global Sumud Flotilla”,
intercettata da Israele durante lo Yom Kippur”, trasportava aiuti umanitari”,
ha detto una nota del ministero, che ha anche diffuso un video della polizia
israeliana, in cui il portavoce Dean Elsdunne” mostra l’interno vuoto di una
delle imbarcazioni più grandi della flottiglia.
Il
portavoce sottolinea che la totale assenza di aiuti spiega perché gli
organizzatori abbiano rifiutato l’offerta di Israele e di numerosi altri Paesi
di consegnare gli aiuti e di evitare di entrare in una zona di guerra attiva e
violare la legge.
La notizia è riportata dai “media israeliani”
e dal “Jerusalem Post.”
Già
nella notte tra giovedì e venerdì il ministro della Sicurezza nazionale” Itamar
Ben Gvir” aveva visitato la “struttura di Ashdod” dove sono state tradotte le
barche della “Global Sumud Flotilla”.
La
visita si è trasformata in uno show propagandistico per il ministro estremista.
“Ben Gvir” ha diffuso sui social un video in cui arringa animosamente una folla
di persone messe sedute a terra in fila, circondati da poliziotti, e li accusa
di essere venuti in Israele “per dare supporto ai terroristi”, di non portare
nessun aiuto umanitario a bordo ma solo droghe e alcol per fare festa.
Israele
protesta con l’Italia per i parlamentari italiani sulla “Flotilla”.
“E’
grave che alcuni rappresentanti del Parlamento italiano abbiano scelto di
partecipare attivamente a questa operazione” della “Global Sumud Flotilla”, ”ignorando gli appelli alla
responsabilità provenienti dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella,
dal primo ministro Giorgia Meloni e dalle altre figure istituzionali del
governo italiano, e da alte personalità dalla Santa Sede”.
Lo ha affermato in una nota l‘ambasciatore di
Israele in Italia, “Jonathan Peled”.
”La
non osservanza degli appelli alla prudenza e alla responsabilità da parte di
parlamentari e attivisti non solo ha messo a rischio la loro sicurezza, ma ha
contribuito a legittimare un’azione che presenta legami diretti con Hamas”, ha
aggiunto” Peled.”
Le
bugie di Israele sugli aiuti
umanitari
della” Global Sumud
Flotilla”
continuano.
Pressenza.com – (03.10.25) - Global Sumud
Flotilla - Redazione Italia – ci dice:
A due
anni dall’inizio di un genocidio, la posizione di “Ben-Gvir “e di Israele
secondo cui la “Global Sumud Flotilla” avrebbe trasportato pochi o nessun aiuto
umanitario non è solo palesemente falsa: è oscena.
Le
imbarcazioni sono state accuratamente documentate, cariche di forniture
mediche, cibo e altri beni vitali per le persone di Gaza, sottoposte a una
carestia sistematica imposta da Israele.
Giornalisti, osservatori per i diritti umani,
parlamentari e organizzazioni umanitarie hanno fornito prove innegabili degli
aiuti a bordo.
La negazione di Israele non è altro che
un’ulteriore voce in un lungo elenco di menzogne che i media devono smettere di
ripulire con formule come “Israele afferma”.
La “Global
Sumud Flotilla” è sempre stata chiara:
la
nostra missione è spezzare il blocco e aprire un corridoio umanitario per
consegne di aiuti sostenute e continue.
Le
forniture trasportate erano al tempo stesso reali e rappresentative:
reali
perché urgentemente necessarie, rappresentative perché navi civili non possono
trasportare la scala di aiuti di cui Gaza ha bisogno, possibile solo una volta
revocato il blocco.
La
disinformazione di Israele non è nuova.
È lo stesso regime che ha affermato di non
bombardare ospedali, di non affamare i palestinesi, di non ostacolare i
convogli, di non giustiziare civili e operatori umanitari, di non aver
seppellito 15 paramedici e le loro ambulanze in una fossa comune poco profonda.
Tutte
queste menzogne sono state smascherate:
come
abbiamo visto più volte, ogni accusa è una confessione da parte del governo
israeliano.
Organizzazioni
per i diritti umani, agenzie ONU e innumerevoli foto, video e testimonianze
confermano la verità:
Israele
sta deliberatamente usando la fame come arma, bloccando gli aiuti, bombardando
i centri di distribuzione alimentare e condannando famiglie a morire di fame.
Ripetere
oggi le falsità di Israele significa essere complici nell’occultare un
genocidio.
I media devono finalmente liberarsi dal
riflesso di trattare le dichiarazioni israeliane come credibili.
Non
esiste alcun obbligo giornalistico di amplificare propaganda che è stata
ripetutamente smentita, a costo di centinaia di migliaia di vite palestinesi.
Questa
campagna sistematica di diffamazione contro la flottiglia non riguarda gli
aiuti;
riguarda
il tentativo di Israele di cancellare le prove dei propri crimini
delegittimando chi cerca di difendere il diritto internazionale.
La verità non può essere cancellata.
Le immagini di carestia, di bambini
scheletrici, scaffali vuoti e famiglie disperate sotto assedio sono impresse
nella coscienza del mondo.
I
fatti sono chiari:
la flottiglia ha trasportato aiuti umanitari, Gaza è
deliberatamente affamata, e Israele sta perpetrando un genocidio.
È
dovere della comunità internazionale smettere di perpetuare le bugie di Israele
e iniziare ad agire per porre fine al blocco, alla carestia e al genocidio.
Gli
obiettivi della Flotilla erano chiari,
a
differenza di quanto dice Meloni.
Pagellapolitica.it
– (02 ottobre 2025) - Davide Leo, Federico Gonzato – ci dicono:
Gli
attivisti hanno dichiarato fin dall’inizio di voler portare aiuti a Gaza e
sfidare il blocco navale israeliano.
Il 1°
ottobre, durante un punto stampa, la presidente del Consiglio “Giorgia Meloni”
ha rinnovato le sue critiche alla “Global Sumud Flotilla”, l’iniziativa
internazionale di attivisti che poche ore dopo è stata fermata dall’esercito
israeliano al largo di Gaza.
Meloni ha definito l’operazione pericolosa e
irresponsabile, sottolineando che arriva in un momento delicato, mentre è in
discussione il piano proposto dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump per
porre fine alla crisi nella Striscia di Gaza.
Secondo
la presidente del Consiglio, la “Global Sumud Flotilla” «diceva di nascere per
una questione umanitaria», ma «poi si è scoperto che non era per una questione
umanitaria, era per forzare un blocco navale».
«E già diventa un’altra cosa. Del resto, se
fosse stato per una ragione umanitaria si sarebbero accolte le numerose
proposte che sono state fatte per poter consegnare quegli aiuti in sicurezza»,
ha aggiunto.
In altre parole, “Melon”i ha sostenuto che la
Flotilla si sia mascherata da missione umanitaria per sfidare il blocco navale
israeliano.
Al di
là della legittima valutazione politica sull’iniziativa, non è vero che gli
organizzatori avessero nascosto i loro intenti:
fin
dall’inizio avevano dichiarato che l’obiettivo era rompere il blocco navale, e
allo stesso tempo portare aiuti alla popolazione di Gaza.
Gli
obiettivi della missione.
Alla
spedizione della” Global Sumud Flotilla”, diretta a Gaza, partecipano
associazioni, movimenti civili e organizzazioni non governative (ONG)
provenienti da oltre 40 Paesi.
Secondo
quanto riportato sul sito ufficiale, la Flotilla è una «flotta coordinata e non
violenta, composta da piccole imbarcazioni che partono dai porti del
Mediterraneo per rompere l’assedio imposto a Gaza».
L’operazione
nasce con l’obiettivo di contrastare direttamente il blocco navale stabilito da
Israele nel 2009 al largo delle coste di fronte alla Striscia di Gaza.
Gli organizzatori della “Global Sumud
Flotilla” spiegano che la missione non mira soltanto a trasportare aiuti, ma
soprattutto a lanciare un messaggio politico:
«L’assedio
e il genocidio devono finire».
Gli
obiettivi della missione erano stati resi pubblici già durante la conferenza
stampa di presentazione della Flotilla il 31 agosto.
In quell’occasione sono intervenuti vari
attivisti, tra cui la svedese “Greta Thunberg”, che hanno ribadito come
l’intenzione principale fosse quella di rompere il blocco navale imposto da
Israele.
«Il nostro obiettivo è molto chiaro:
salpare
con centinaia di navi per portare aiuti umanitari, rompere l’assedio illegale,
e aprire un corridoio umanitario per portare poi ancora più aiuti a Gaza», ha
dichiarato Thunberg.
Lo
stesso concetto è stato ripreso dall’attivista brasiliano “Thiago Avila”, che
già lo scorso giugno, insieme a Thunberg e ad altri, aveva tentato senza
successo di superare il blocco e portare aiuti a Gaza con la nave “Madleen”.
La
“Global Sumud Flotilla” non è un’iniziativa inedita.
Come
ha ricordato “Avila” durante la conferenza stampa, missioni simili erano
cominciate subito dopo l’introduzione del blocco navale israeliano nel 2009.
Tra
gli episodi più noti c’è quello della nave “Mavi Marmara”, nel maggio 2010.
Organizzata dagli attivisti della Freedom Flotilla, la “Mavi Marmara” cercò di
trasportare aiuti a Gaza e rompere il blocco, con le stesse finalità della
Global Sumud Flotilla.
La missione fu però fermata dalle forze armate
israeliane, che nell’assalto uccisero dieci attivisti.
Anche
nei post pubblicati sui social network dagli account delle organizzazioni
coinvolte prima della partenza, è stata sempre ribadita la duplice finalità
della missione:
«Rompere l’assedio imposto da Israele» e
«portare aiuti alla popolazione palestinese».
Dunque,
al contrario di quanto ha sostenuto Meloni, la missione dichiarata della Global
Sumud Flotilla è stata sin dall’inizio quella di portare aiuti umanitari e,
allo stesso tempo, di forzare il blocco navale israeliano, ritenuto illegittimo
dagli attivisti.
Per
questo motivo gli organizzatori hanno respinto le proposte alternative, come
quella di consegnare gli aiuti tramite la Chiesa cattolica o attraverso canali
umanitari ufficiali:
a
detta loro, avrebbero snaturato l’obiettivo politico della spedizione.
Come
abbiamo spiegato in un altro approfondimento, da tempo c’è dibattito sulla
legittimità del blocco imposto da Israele nelle acque davanti alla Striscia di
Gaza, con valutazioni contrastanti da parte di diverse istituzioni
internazionali.
Ma al
netto di queste valutazioni, si può dire che la missione della Global Sumud
Flotilla – come tutte le spedizioni simili degli ultimi anni – avesse un doppio
obiettivo.
Da un
lato umanitario, perché le navi trasportavano aiuti per la popolazione di Gaza
.
Dall’altro lato politico, perché quegli aiuti venivano portati con l’intenzione
di sfidare il blocco navale israeliano.
Flotilla,
colpo di scena sul cibo
a
Gaza: “Queste navi sono vuote.”
Nicolaporro.it
- Bruno Dardani – (3 Ottobre 2025) -
Secondo
la polizia israeliana le stive sono vuote.
In mare con i telefonini?
Misterioso
trasbordo di dieci uomini su una nave proveniente dalla Turchia.
Ovviamente
sull’autenticità dei filmati diffusi dalla polizia israeliana relativi
all’assenza di qualsivoglia aiuto umanitario a bordo delle navi della
flottiglia, si apriranno tutti quei dibattiti in talk show che invece non hanno
riguardato l’autenticità delle lacrime di cantanti e cantautori.
I
filmati relativi alle perquisizioni delle “navi” e delle barche della Flotilla
sono disponibili in internet, e vedono la luce dopo lo sbarco degli attivisti
che forse, insieme con i telefonini buttati a mare (nessuno ovviamente si
chiede quali telefonate dovevano tenere nascoste e segrete) nei minuti prima
dell’abbordaggio delle forze israeliane hanno forse regalato ai pesci anche le
tonnellate di beni alimentari pronti per sfamare i gazawi.
Non
diffuso invece il filmato satellitare che documenta il trasbordo circa due ore
prima dell’arrivo in acque pericolose, di dieci uomini da una imbarcazione
della flottiglia a una nave che – fonti non confermate affermano – pare
provenisse dalla Turchia.
È
curioso che queste informazioni facciano seguito alle dichiarazioni di una
delle principali organizzazioni umanitarie che hanno sostenuto la
missione-crociera verso Gaza, ovvero “Music for Peace” che ha caricato in
Internet e dichiarato a Rai3 come container di aiuto raccolti per la flottiglia
siano stati imbarcati su una nave con destinazione “Aqaba” in Giordania, con
l’obiettivo poi di trasportarli via terra sino alla Striscia di Gaza.
“Non
abbiamo trovato nessun aiuto alimentare sulle barche sequestrate”, ha detto
l’ambasciatore israeliano a Roma “Jonathan Peled” a L’Aria che Tira su La7.
“Sono
accuse totalmente infondate.
Sulle barche partite dall’Italia c’erano casse
di aiuti, alimentari e medicine, preparati dall’associazione “Music for Peace””,
ha replicato la portavoce italiana del “Global Movement to Gaza”, “Maria Elena
Delia”.
Dietro
l’ondata di sdegno popolare per quello che tutti sapevano sarebbe accaduto,
ovvero il blocco delle barche, l’arresto degli attivisti e il sequestro delle
barche, la “propaganda Pro-Pal” dimentica anche due dettagli non marginali.
Come
ogni mediocre velista sa, il problema delle provviste è strategico per chi
vuole compiere una crociera superiore ai tre o quattro giorni.
Secondo
quanto confermato dall’intelligenza artificiale una barca a vela fra i 12 e i
15 metri, molto ben organizzata può trasportare scorte di cibo secco per 4
persone e una autonomia limitata di acqua.
Considerando
che la flottiglia era in mare da un paio di mesi e che gli attivisti, ripresi
dalle loro stesse telecamere, non risultavano deperiti, si può pensare che
parte delle scorte sia stata giustamente utilizzata per sfamarli e che quindi
(al di là dei filmati negazionisti della polizia israeliana) i carichi
umanitari (se esistiti) si siano ridotti sensibilmente.
Voci
ufficiali in ogni caso a stive piene, specie delle imbarcazioni più grandi,
l’intera flottiglia avrebbe potuto trasportare un terzo di quanto consegnato
ogni giorno per reti umanitarie consolidate ai cittadini di Gaza (Hamas e i
suoi predoni permettendo).
Ma
esiste una seconda considerazione.
Gaza non dispone di un singolo porto e anche i
pontili provvisori sono stati distrutti in questa lunga e sanguinosa guerra:
lo
sbarco dalle imbarcazioni avrebbe dovuto avvenire quindi con gommoni attrezzati
per questa necessità e con un passa mano di casse da attivista ad attivista.
Il
tutto mentre su Gaza City continuavano i bombardamenti.
Nonostante
la presenza di qualche portuale a bordo, avvezzo a queste manovre in habitat
ben più confortevoli, l’operazione avrebbe presentato dinamiche e difficoltà
difficilmente superabili.
Ma si,
allora.
Forse
meglio arrivare a stive vuote ma accompagnati dalle lacrime di qualche cantante
milionaria.
(Bruno
Dardani).
Le
Sceneggiate sulla
Pelle
dei Palestinesi.
Conoscenzealconfine.it
– (6 Ottobre 2025) - Salvo Ardizzone –
ci dice:
L’obiettivo
di questo ennesimo piano di pace articolato in 20 punti è la smilitarizzazione
della Striscia con il disarmo dei militanti della Resistenza che Israele non si
è riuscito a piegare in due anni di combattimenti.
L’altro obiettivo è economico, ovvero,
realizzare un colossale business.
In
pratica, è una spregevole speculazione immobiliare e finanziaria presentata
come un progetto umanitario.
Netanyahu ha accettato perché il piano
rispecchia l’essenza degli interessi israeliani.
Dubbia
è invece è l’approvazione della Resistenza, minacciata da Trump di sfracelli se
non si suicida sottoscrivendo il piano.
Resta
sempre la possibilità di un nuovo attacco di Israele all’Iran nei prossimi
mesi.
A
oggi, 157 stati su 193 riconoscono” la Palestina”, uno stato che non esiste, né
può esistere nelle condizioni poste, ovvero, vivere disarmato accanto a
un’entità che ne massacra la popolazione mentre annette progressivamente i suoi
territori. Un non-stato privo di qualsiasi attribuzione di uno stato vero, in
primis di una qualsivoglia sovranità.
E ciò
perché da sempre “Due popoli due stati” è stato ed è uno slogan ipocrita, è
servito a chiudere gli occhi dinanzi allo scempio dei palestinesi in corso da
decenni, oggi al genocidio;
a inventare una realtà staccata dalla realtà
per non affrontare quella vera, malgrado fosse sotto gli occhi di tutti.
Adesso, riconoscere questo ircocervo, questa
chimerica assurdità, è divenuto moda;
è la
scappatoia per fingere di fare qualcosa senza fare nulla.
Ed è
doppiamente ignobile perché il genocidio può essere fermato senza atti estremi,
senza interventi militari o nuove guerre:
deve
essere chiaro a tutti che senza appoggio esterno, senza l’assistenza e il
continuo aiuto che fornisce l’Occidente, senza i commerci, le partnership, il
sostegno finanziario che gli viene dato, Israele collasserebbe in pochi giorni.
E non
sono solo gli USA a fornirli.
A
titolo d’esempio cito il vergognoso caso del Regno Unito:
il
primo ministro “Starmer” ha riconosciuto sì la Palestina, ma,
contemporaneamente, gli assetti militari inglesi hanno prestato e prestano
costante assistenza alle continue aggressioni delle Forze Armate israeliane:
ricognizione, rifornimento aereo, ISR, designazione dei bersagli, forniture di
sistemi d’arma e munizioni.
E non
è il solo a farlo: a parte americani e britannici, anche i francesi, i tedeschi
e persino gli italiani lo fanno.
Dietro
la facciata imbarazzata, l’Occidente presta un corale quanto sostanziale aiuto
al genocidio in atto.
Alle
continue, selvagge, aggressioni di Israele.
L’ho
detto altre volte ma lo ripeto ancora:
fra il
Fiume e il Mare può esistere un solo stato democratico che abbracci tutti
coloro che ne accettino le regole democratiche;
ma ciò
può avvenire solo dopo il collasso dell’entità coloniale che occupa il
territorio, con ciò implicando l’esistenza di una lotta di liberazione che ne è
naturale conseguenza, e cesserà solo con la fine dell’ultimo regime coloniale
esistente al mondo.
È ciò
che insegna la lunga storia delle lotte di decolonizzazione.
Quella
che manca all’Occidente è la volontà politica d’assecondare il principio di
autodeterminazione del popolo palestinese, quello stesso riconosciuto –
beninteso, a parole – dalle cosiddette liberal-democrazie.
Ennesima
dimostrazione di doppio standard occidentale, che applica i principi che
dichiara di sostenere secondo spudorata convenienza.
Il
discorso di Netanyahu all’Assemblea dell’ONU è stato conseguenza di questo
atteggiamento subalterno che l’Occidente ha assunto nei confronti di Israele.
Non è
stato un discorso rivolto al mondo, il Premier israeliano non ritiene d’averne
bisogno e del resto l’aula era in vasta parte vuota.
Il suo
intervento si è svolto alle 9, a inizio seduta, e molti hanno preferito disertarlo;
altri, in massima parte i rappresentanti
africani, arabi e sudamericani, hanno scelto di alzarsi e uscire quando ha
preso la parola.
Il
discorso era rivolto al proprio fronte interno e a Trump, che non era presente;
si
trovava a un torneo di golf, dove non ha mancato d’affermare dinanzi ai
giornalisti che si è vicini alla pace.
Le
dichiarazioni di Netanyahu, accompagnate dai soliti cartelli che usa esibire,
sono state la più spudorata accozzaglia di menzogne che mi è capitato d’udire:
sarebbe una bugia la fame che c’è a Gaza, e se c’è, è causa di Hamas che ruba i
viveri;
sarebbe
una bugia la strage dei civili, anzi, le IDF prestano la massima attenzione a
limitare le vittime collaterali, a suo dire, come mai nessun Esercito ha fatto.
A
parte le stupefacenti falsità, è semmai interessante come scarichi del tutto
l’Autorità Nazionale Palestinese di Abu Mazen, equiparandola ad Hamas.
Trapela
chiaro che non la considera più un’interlocutrice utile perché del tutto
squalificata.
E, ponendole sopra lo strumentale marchio del
terrorismo, non vuole che nessuno possa usarla al di fuori dei progetti di
Israele.
Il
resto è un’allucinata narrazione:
spicca il “combattiamo per voi!”, per
l’America, per l’Occidente, per il mondo intero, contro il terrorismo
(riedizione aggiornata della Guerra al Terrore di Bush figlio).
Respinge
in toto la creazione di uno stato palestinese comunque sia.
Dichiara
apertamente l’intenzione di una revisione dell’intero Medio Oriente, da
rimodellare naturalmente in funzione degli interessi israeliani, che
coinciderebbero con quelli della civiltà, dell’umanità intera.
E sostiene con forza che Israele è terra degli
ebrei da 3000 anni!
Naturalmente,
non fa nessuna differenza fra ebrei e israeliani, con ciò sostenendo lo
strumentale equivoco che equipara ogni atto di critica a Israele, o alle
politiche dei suoi governi, a manifestazioni di esecrabile antisemitismo.
Lunedì
scorso Netanyahu s’è incontrato con Trump e i rappresentanti dei paesi
negoziatori.
Prima di iniziare la trattativa, il Qatar ha
preteso le scuse del Primo Ministro israeliano, quasi l’attacco israeliano
fosse stato un’infrazione al galateo, ma suscitando comunque le inviperite
reazioni di “Ben-Gvir” e “Smotrich”.
Al
centro dei colloqui c’era la prosecuzione del conflitto e la possibilità di
addivenire a un accordo.
E per
inciso, il “Consiglio Yesha”, ovvero dei rappresentanti delle cosiddette
colonie israeliane in Cisgiordania – illegali secondo il diritto
internazionale, e peggio che illegali per tutto ciò che fanno – era negli USA.
Al
centro delle trattative c’era un ennesimo piano di pace articolato in 21 punti,
anticipato giorni fa dal “Times of Israel”, poi divenuti 20 nel piano
annunciato alla Casa Bianca.
E, a
quanto pare, nel suo incontro con “Witkoff” e Kushner di domenica 28 – definito
dai due esasperante – Netanyahu ha ottenuto modifiche sostanziali, che hanno
fatto infuriare i negoziatori arabi messi dinanzi al fatto compiuto.
Il
progetto, coordinato da “Witkoff” nel corso di diversi giorni di incontri con
un ristretto numero di leadership arabe (saudite, emiratine, egiziane,
giordane, pare coinvolta anche la Turchia) sarebbe già stato approvato da
Trump.
Dietro
di esso c’è “Jared Kushner”, il genero del Presidente, e “Tony Blair” che è
stato coinvolto nel progetto da Kushner perché, con il suo “Tony Blair
Institute”, una struttura lobbystica spacciata per think-tank, è assai
ammanigliato presso i centri di potere mediorientali.
Il
piano prevede la restituzione dei prigionieri israeliani entro 3 giorni, e la
contemporanea liberazione di 250 palestinesi condannati all’ergastolo e di 1700
gazawi arrestati dall’inizio del conflitto.
È prevista la fine delle operazioni e il
ritiro, graduale e condizionato, delle forze israeliane (che, tuttavia, resta
del tutto indeterminato).
L’obiettivo è la smilitarizzazione della
Striscia con il disarmo dei militanti della Resistenza che, se si arrendono e
accettano il nuovo status quo, potranno godere di un’amnistia.
In
pratica equivale alla resa e allo smantellamento della Resistenza che non si è
riuscita a piegare in due anni di combattimenti.
Non
solo.
Preso
atto che, malgrado le condizioni inumane i gazawi non intendono abbandonare la
propria terra, ci sarebbe l’incoraggiamento a restare e l’inizio d’un percorso
(per nulla chiaro né definito) per costruire un sedicente stato. Inoltre, ci
sarebbe pure la garanzia (visto i precedenti, lecito quantomeno dubitarne)
dell’ingresso nella Striscia di almeno 600 camion di aiuti al giorno (la stessa
quantità garantita nel precedente accordo infranto da Israele a marzo), la cui
distribuzione verrebbe affidata all’ONU e alla Mezzaluna Rossa.
Con conseguente estromissione della “GHF” – la
“Gaza Humanitarian Fundation, emanazione della CIA” – che si è macchiata di
crimini rivoltanti e non è più in alcun modo presentabile.
Il
cuore dell’operazione tenderebbe alla ricostruzione delle infrastrutture
essenziali e alla costituzione di una zona economica speciale, centrata nel
cuore del Mediterraneo e del Medio Oriente, in cui soggetti e interessi esterni
impianterebbero i propri traffici al di fuori dall’impiccio di ogni sovranità
statale.
E attenzione: in prospettiva, c’era
l’intenzione di reiterare il processo nella Cisgiordania, poi sfumata nella
versione della Casa Bianca.
In
pratica, è una spregevole speculazione immobiliare e finanziaria presentata
come un progetto umanitario.
A
scanso d’ogni equivoco, il “Tony Blair Institute” ha confermato che Blair
sarebbe posto a capo dell’”Autorità Transitoria a Gaza” (GITA nell’acronimo
inglese, poi divenuto il Board of Peace nelle dichiarazioni di Trump), come già
ventilato in un incontro di fine agosto a Washington.
Che
equivarrebbe a mettere Dracula alla presidenza dell’AVIS.
Comprendendo
lo scarso appeal mediatico del personaggio, nelle dichiarazioni della Casa
Bianca il “Board of Peace” sarà presieduto da Trump.
Ma,
con Kushner e Blair dietro.
Secondo
il progetto, la Striscia verrebbe amministrata da un Consiglio
d’Amministrazione (il Board) di 7/10 membri affiancati da venti a venticinque
tecnocrati, l’Autorità Esecutiva Palestinese.
L’iniziativa sarebbe sotto l’egida dell’ONU e
le sue decisioni verrebbero sottoposte al potere di veto nel Consiglio di
Sicurezza.
La
durata del mandato sarebbe di cinque anni, ma si sa come vanno queste cose, e
il rinnovo perpetuo non è certo da escludere.
Gli
obiettivi sono almeno due; uno è politico: unificare Gaza e Cisgiordania,
disinnescando con un’offerta “morbida”, con uno di quei deal all’occidentale
tanto cari a Trump, quella Resistenza che in due anni non si è riusciti a
piegare con le armi.
L’altro obiettivo è economico, ovvero,
realizzare un colossale business.
Per
capirci, la GITA, o Board, sarà chiamata a gestire da 50 a 100 MRD di dollari.
A
parte gli assai lucrosi traffici che vi verrebbero impiantati (di cui i
palestinesi nulla vedrebbero e meno conterebbero), basterebbe questo a
giustificare l’operazione.
La
sede, all’inizio, sarà posta ad Al-Arish, in Egitto, e questo la dice tutta sul
grado di connivenza delle potenze arabe vicine.
Qui è
opportuna un’ennesima precisazione:
come ho avuto modo di sottolineare più volte a
chi domanda come mai i paesi arabi facciano molto poco di concreto dinanzi
all’aggressività israeliana, ricordo che i gruppi di potere che li controllano
appartengono alla medesima cupola che ha sfruttato e soffocato l’area a
braccetto con USA e Israele.
Per
cui, a parte i proclami retorici a uso delle loro popolazioni, quelle sì
interessate – e tanto – alla questione, del destino dei palestinesi a essi
assai poco importa.
Ciò
che quegli stati vogliono è che il continuo stato di guerra che infiamma la
regione cessi insieme alle continue aggressioni israeliane, e possano tornare a
una convivenza divenuta più che mai conveniente nel nuovo clima multipolare:
insomma, che i loro business non siano più disturbati.
Ma c’è un fatto comunque acclarato:
con la
sua a-strategica dinamica aggressiva, Israele è divenuto corpo estraneo nella
regione, scheggia impazzita che danneggia i concreti interessi di tutti,
fattore di continua destabilizzazione per tutto il Medio Oriente e il
Mediterraneo.
Il
progetto dovrà essere garantito da una “Forza di Stabilizzazione Internazionale”,
“ISF” nell’acronimo inglese, messa a disposizione non si sa ancora da chi, e da
una cosiddetta polizia palestinese che quanto sarà palestinese o comunque
emanazione di un’autorità legata a quella popolazione è eufemisticamente
dubbio.
Si
tratta di contractors, mercenari al soldo di chi gestisce l’operazione, per
garantire i suoi interessi.
E per inciso, si stanno già addestrando nel
Sinai.
Nella
pratica, sarà un’ennesima forma di occupazione militare per sfruttare l’area e
i suoi abitanti.
Netanyahu
ha già accettato perché nella sostanza il piano rispecchia l’essenza degli
interessi israeliani:
in
primis liberarsi della Resistenza che non si è riuscita a piegare con le armi.
Certo, “Ben-Gvir” e “Smotrich” minacceranno sfracelli,
ma, a parte un possibile salvacondotto giudiziario per Netanyahu, che lo
garantisca in caso di caduta del governo (il presidente israeliano Hertzog ha
già ventilato la possibilità di una grazia al Primo Ministro, come chiesto a gran
voce da Trump a giugno), resta sempre la possibilità di un nuovo attacco
all’Iran nei prossimi mesi, prima che si avvicinino le elezioni di medio
termine americane.
E questo garantirebbe la tenuta
dell’Esecutivo.
Dubbia
è invece è l’approvazione della Resistenza, minacciata da Trump di sfracelli se
non si suicida sottoscrivendo il piano.
E, al momento in cui scriviamo queste note,
l’adesione è assai più che dubbia.
Comunque
vada, la regione è destinata a non avere pace, perché il processo avviato con “Al-Aqsa
Flood” molto, molto difficilmente potrà essere fermato.
S’inquadra
nel generale sfaldamento di assetti ed equilibri propri dell’”Unipolarismo
egemonico garantito dagli USA”, che essi non sono più in grado di mantenere.
Indietro
non si torna.
La Storia non si ferma per cui, piaccia o no,
in questo processo l’entità sionista, ultima realtà coloniale esistente al
mondo, per sue caratteristiche interne e quadro esterno, è destinata a
implosione al pari di tutte le altre che l’hanno preceduta su quella via.
(Articolo
di Salvo Ardizzone (tratto dalla rubrica Il “Filo Rosso” tenuta dall’Autore sul
canale Il Vaso di Pandora).
(centroitalicum.com/le-sceneggiate-sulla-pelle-dei-palestinesi/).
In 10
anni è aumentata
la
propaganda in Cina.
30scienza.com – Valentina Di Paola – (7
Aprile 2025) – ci dice:
Roma –
Le notizie mediatiche in Cina potrebbero essere fortemente influenzate dalla
propaganda, in modo più marcato negli ultimi dieci anni.
Lo
suggerisce uno studio, pubblicato sulla “rivista Proceedings of the National
Academy of Sciences”, condotto dagli scienziati dell’Università dell’Oregon,
dell’Università della California a San Diego e della Princeton University.
Il
team, guidato da “Hannah Waight”, “Yin Yuan” e “Brandon Stewart”, ha analizzato
l’uso della propaganda in Cina, scoprendo che viene utilizzata per trasmettere
contenuti ideologici, ma anche per controllare e limitare altri tipi di
informazioni, come i disastri naturali e i resoconti sulla salute pubblica.
“Nelle giornate particolarmente delicate –
afferma “Waight” – fino al 30 per cento dei contenuti nei principali quotidiani
in Cina viene controllato dallo Stato.
L’uso
della propaganda esclude il giornalismo indipendente e ritarda le informazioni
durante eventi di crisi come i terremoti e i primi giorni dell’epidemia
Covid-19”.
I
ricercatori riportano che la propaganda statale è un fenomeno diffuso in Cina,
specialmente nella carta stampata.
In
media, almeno un articolo di prima pagina sui giornali del partito viene
direttamente controllato dallo Stato, un numero quattro volte più elevato
rispetto allo scorso decennio.
I governi autocratici, aggiungono gli esperti,
hanno a lungo utilizzato campagne di propaganda per influenzare i media.
Gli
studiosi hanno utilizzato un nuovo metodo di misurazione innovativo per
valutare il livello di propaganda, attraverso un approccio che potrebbe
identificare i casi in cui i giornali sono stati costretti a seguire una
determinata notizia attraverso passaggi specifici.
Nell’ambito
dell’indagine, gli autori hanno considerato milioni di articoli pubblicati dal
2012 al 2022, e una serie di documenti trapelati ottenuti dall’”organizzazione
mediatica non-profit China Digital Times”.
Queste
informazioni contenevano le direttive del Governa su cosa i giornali avrebbero
dovuto stampare.
I
risultati mostrano che la copertura mediatica era più ampia di quanto era stato
ipotizzato.
Gli
scienziati hanno deciso di valutare le informazioni relative ai terremoti, un
argomento delicato per il governo cinese, a seguito dell’”episodio di Sichuan”
del 2008.
Il gruppo di ricerca ha scoperto che la copertura
mediatica dei terremoti è diminuita, e che i notiziari che ne parlano tendono a
utilizzare sempre più spesso testi governativi.
“I nostri casi di studio – commenta “Waight” –
mostrato che l’uso di script di propaganda non riguarda solo la diffusione di
un certo messaggio ideologico.
Si tratta anche di limitare il modo in cui i
giornali riportano eventi particolarmente sensibili come terremoti e Covid-19”.
Il
team spera che questi risultati possano contribuire a stimolare progetti simili
in altre regioni caratterizzate da governi autocratici.
“Ci sono ancora molte domande aperte –
concludono gli studiosi – su come i governi autocratici stiano usando campagne
di propaganda segrete per influenzare l’ecosistema dei media.
Abbiamo
bisogno di una migliore comprensione di come la propaganda e la censura
governative influenzano le opinioni e le convinzioni dei consumatori di media.”
(30Science.com).
(Valentina
Di Paola).
Come
la Cina manipola i social:
una
strategia politica.
Agendadigitale.eu
– Angelo Alu’ – (16 – 02-2022) – ci dice:
internet
e regimi.
Cultura
e società digitali.
Oltre
all’invasiva supervisione di censura politica, la Cina starebbe utilizzando
sempre più raffinate strategie di “inquinamento” comunicativo, utilizzate per
veicolare disinformazione destinata a rafforzare la propaganda politica
favorevole al regime.
I pericoli.
Rispetto
alle insidie individuabili online, senza dubbio la manipolazione dell’opinione
pubblica sui social media costituisce una delle principali minacce in grado di
compromettere la stabilità degli ordinamenti democratici.
Si
tratta di un vero e proprio “inquinamento” comunicativo spesso pianificato dai
regimi in carica e/o dai partiti politici che controllano la sfera pubblica,
talvolta anche con il supporto di aziende private che forniscono servizi di
assistenza funzionali a soddisfare le pretese esigenze di propaganda, dagli
effetti ancora più amplificati durante il periodo della pandemia COVID-19.
Indice
degli argomenti:
La
Cina e la degenerazione comunicativa della Rete.
Una
vera e propria strategia dietro la manipolazione dei social.
La
Cina e la degenerazione comunicativa della Rete.
Negli
ultimi anni, come rileva il rapporto “Freedom on the Net”, il contesto cinese,
ad esempio, può essere considerato uno dei casi più controversi di
degenerazione comunicativa dello spazio virtuale della Rete, ove proliferano
campagne di disinformazione dirette a diffondere, per finalità politiche, fake
news, con conseguente alterazione della percezione dell’opinione pubblica.
Il
governo di Pechino starebbe cercando di influenzare i media e gli spazi di
informazione mediante una serie diversificata di strumenti predisposti per
raggiungere tali obiettivi, che peraltro dimostrano un’abile capacità di
elaborare strategie comunicative in grado di massimizzare l’efficacia delle
campagne manipolative realizzate.
Non
solo, quindi, si assiste al perfezionamento delle classiche pesanti restrizioni
di censura che mirano a realizzare il tipico “bavaglio” informativo per
soffocare il dissenso interno e filtrare le voci indipendenti di giornalisti ed
attivisti interessati a diffondere opinioni divergenti rispetto alla narrazione
“ufficiale” del “mainstream” istituzionale a senso unico, ma soprattutto
diventano sempre più raffinate le strategie di “inquinamento” comunicativo
utilizzate per veicolare disinformazione strumentalmente destinata a rafforzare
la propaganda politica favorevole al regime.
Uno
studio, ad esempio, ha documentato quasi 30.000 account Twitter che hanno
amplificato i post di diplomatici cinesi o media statali, con un impatto di
viralizzazione attestante ad un range di circa 200.000 volte, prima di essere
sospesi dalla piattaforma per violazione delle regole che vietano la
manipolazione, mentre i rapporti trimestrali di Google sulle rimozioni di
contenuti multimediali pubblicati all’interno della piattaforma YouTube,
rilevano la cancellazione di un totale complessivo di canali superiore a 10.000
per aver intrapreso “operazioni di influenza coordinate e/o legate alla Cina”,
come peraltro conferma un’ulteriore report a cura di” Pro Publica”.
Secondo
un’inchiesta del “The New York Times”, il governo cinese avrebbe
deliberatamente “inondato” le piattaforme social con account falsi per
aumentare, ricorrendo ad una campagna massiccia di post automatici generati da
bot, il numero di finti profili, dalle sembianze di presunti “follower” in
apparenza reali come convinti sostenitori del regime, anche con l’intento di
“ripulire” formalmente la propria immagine (compromessa dai sospetti
internazionali di violazione dei diritti umani soprattutto a discapito delle
minoranze) e, al contempo, controllare, con impercettibili tecniche di
supervisione, gli avversari politici oppositori, scrupolosamente monitorati dal
prodigioso sistema “Great Firewall”.
Una
vera e propria strategia dietro la manipolazione dei social.
Si
tratterebbe di una vera e propria strategia gestita direttamente dai funzionari
inquadrati all’interno della solida burocrazia cinese, supportata da aziende
specializzate nell’elaborazione di campagne marketing per i social network, al
fine di promuovere contenuti di propaganda politica da veicolare online e
influenzare l’opinione pubblica.
Tra le
varie tattiche di manipolazione vi sarebbe anche la ricerca di influencer di
social media di lingua cinese con elevati seguiti internazionali, cui verrebbe
offerto di acquistare i propri account o pagarli per pubblicare determinate
informazioni concordate.
Sembra,
addirittura, che il governo cinese abbia richiesto, tra i vari impegni
contrattuali, a ciascun operatore coinvolto nella pianificazione di tali
attività, persino mediante formule di abbonamento mensile per la fruizione di
servizi di manipolazione dei contenuti, di creare e “animare” circa 300 account
al mese, anche di provenienza estera, da utilizzare come “esercito” di profili
social falsi per “inquinare” sistematicamente la comunicazione online, con il
risultato di “dopare” le informazioni diffuse, a causa del duplice effetto
manipolatorio di aggredire gli utenti “ostili” identificati nella condivisione
di contenuti critici verso il governo in modo da paralizzarne ex ante la
viralizzazione di sostegno, e contemporaneamente incrementare in senso unidirezionale
l’engagement del traffico pro-regime favorevole alle relative politiche.
Nel
novero delle campagne “celebrative” rientrerebbero anche le strategie
comunicative volte ad elogiare la Cina, come forma di accreditamento
internazionale, per aver fornito, ad esempio, aiuti durante la pandemia di
COVID-19, amplificando al contempo le critiche all’Unione Europea per non aver
fatto lo stesso, come azione di delegittimazione e disturbo che sembra
intrapresa in via sistemica anche all’interno di altri paesi, ove
risulterebbero riferibili ad account collegati alla Cina contenuti veicolati
con la finalità di generare sfiducia e destabilizzare l’ordine interno
nazionale, unitamente al procacciamento di editori incaricati di pubblicare
contenuti negativi e spregevoli nei confronti di minoranze perseguite in Cina.
Parimenti
diffusa risulterebbe anche la realizzazione di servizi di videomaking per
diffondere contenuti multimediali originali, ritenuti ancora più “performanti”
nella capacità di plasmare l’opinione pubblica.
Motivata
da esigenze di salvaguardia dell’ordine e della sicurezza pubblica a presidio
di interessi generali dello Stato, il modello autoritario dell’Internet cinese
consente notoriamente alle forze di polizia, preposte ai relativi controlli, di
monitorare in maniera capillare gli utenti che esprimono opinioni politiche,
non solo registrati su piattaforme telematiche locali (come, ad esempio, la piattaforma di social media WeChat
potenzialmente utilizzata anche per la disinformazione politica), ma anche se
si tratta di attivisti che vivono all’estero: la scoperta delle relative
identità permette comunque ai burocrati del regime di esercitare, con notevole
forza dissuasiva, forme varie di minacce nei confronti dei familiari residenti
in Cina per costringere gli autori dei post incriminati a cancellare i
contenuti o addirittura direttamente a rimuovere i propri account.
Rispetto
all’invasiva supervisione di censura politica, si aggiungono, quindi, anche
account e bot automatici utilizzati per rafforzare le campagne di comunicazione
“istituzionale” grazie all’incremento del numero di “mi piace” e del livello di
condivisione ai post dei media governativi e statali, sfruttando la visibilità
generata dagli algoritmi di indicizzazione, in funzione delle strumentali
finalità di propaganda perseguite.
Leggere
la Cina è
capire
il mondo.
Sbilanciamoci.info - Dario Di Conzo – (30
Giugno 2025) - Mondo, Recensioni – ci dice:
Non è
semplice, in un periodo di attacco agli atenei e al pensiero non mainstream,
trovare studi sulla Cina sottratti al paradigma “noi e loro”.
Ancora più importante perciò è il lavoro
collettivo a cura di “Marco Fumian” “Leggere la Cina, Capire il Mondo:
Narrazioni dominanti e discorso critico in un’era di competizione” “Mimesis
Edizioni”.
In
questo presente polarizzante e bellicista, trovare delle coordinate per
studiare, insegnare, e raccontare criticamente la Repubblica Popolare Cinese
sottraendosi dai ranghi del “noi e loro” è impresa complessa.
Eppure,
il futuro prossimo promette di rendere il compito della sinologia e delle
scienziate e degli scienziati sociali impegnati nello studio della “Rpc” ancor
più arduo.
Se fino a qualche tempo fa, ci si lamentava a
buon diritto di una narrazione mainstream della Cina drogata dal rinnovato
“scontro di civiltà” à la “Rampini ”, oggi si deve fare i conti con le “Nuove
Indicazioni 2025 per la Scuola dell’infanzia e Primo ciclo di istruzione”.
Queste
si aprono con l’apodittico “Solo l’Occidente conosce la Storia”.
Tra le
levate di scudi contro questa bieca strumentalizzazione della nota frase di
“Marc Bloch ”, è qui necessario citare quella dell’”Associazione Italiana Studi
Cinesi” (AISC).
Preoccupata e sorpresa da tale circolare,
l’AISC propone tre sintetiche riflessioni , nelle quali definisce questo
approccio allo studio della storia “una provocazione che alimenta la
polarizzazione di identità culturali contrapposte (…) isolando artificiosamente
narrazioni nazionali, funzionali a una contrapposizione identitaria”.
Si
sottolinea, inoltre, che la circoscrizione dello studio dell’Asia orientale
alla sola Cina comunista evoca “di fatto solo l’immagine di quel Paese come
parte del blocco nemico dell’Occidente” tralasciando “la storia millenaria
delle relazioni tra Europa e Cina”.
Se da
novizio socio dell’AISC non posso che far mie queste riflessioni, credo sia
necessario porre questa ristretta e negativa narrazione della Cina nell’attuale
e più ampio disciplinamento della libertà d’insegnamento e d’opinione.
L’attacco
al sapere critico e all’autonomia universitaria nel suo complesso va infatti
ben oltre il perimetro della Grande Muraglia.
Si
pensi ai tagli imposti da Trump agli atenei rei di promuovere proteste e
insegnamenti contro l’interesse statunitense, o alla Germania di Scholz
(socialdem!) dove il “Professor Hage” è stato licenziato dalla “Max Planck
Society” per aver definito sui social Israele come un progetto sionista.
Alle
nostre latitudini non tira aria migliore, con il “commissario” per la riforma
universitaria “Galli Della Loggia” che, tra le altre, vorrebbe reintrodurre la
nomina governativa dei rettori.
Da
Washington a Roma, quell’Occidente” unico custode della storia, della
democrazia, e dei diritti civili sta rapidamente restringendo quelle stesse
libertà che lo renderebbero intrinsecamente migliore di un non ben definito
“Oriente”.
Questo
lungo preambolo sembrerebbe mal sposarsi con la recensione di un saggio sulla
Cina contemporanea.
Tuttavia,
“Leggere la Cina, Capire il Mondo: narrazioni dominanti e discorso critico in
un’era di competizione”, volume collettaneo curato da” Marco Fumian”, credo
rappresenti un prezioso antidoto all’avvelenato dibattito pubblico sulla Cina.
Una
risposta metodologica alle crescenti difficoltà e alle sfide strutturali che la
sinologia, ma il sapere critico in generale, si trovano davanti.
A partire da un ciclo di seminari patrocinati
dalla già citata “AISC “ (“Gli studi cinesi e il discorso pubblico sulla Cina
oggi”), e riprendendo le fila di un proficuo dibattito sulla maggiore
centralità e responsabilità dei “Sinologi nella Nuova Era” lanciato dal sito
“Sinosfere” , il testo vuol proporre la costruzione di una “sinologia critica”.
Questa mira ad unire il “rigoroso specialismo
accademico” con la necessità “di uscire dai compartimenti stagni di
quest’ultimo per indagare in modo aperto e critico la compartecipazione della
Cina alle trasformazioni in atto nel mondo di oggi, integrando quindi lo studio
della Cina nel novero dei saperi pubblici condivisi che coinvolgono noi e i
nostri lettori come cittadini di una comunità democratica.” (pp.25-26).
Tale
ambizioso quanto necessario obiettivo viene realizzato chiedendo ad autorevoli
sinologhe e sinologi di declinare da diverse angolazioni la relazione
competitiva tra la Cina e gli Stati Uniti, condividere esperienze e metodologie
di ricerca, saldando efficacemente un’analisi di ampio respiro su questo
dualismo internazionale con riflessioni e studi sulla sfera nazionale della “Rpc”.
Una
suddivisione artificiale del volume che aiuti il lettore ad approcciarsi ad un
testo che, nella sua vocazione divulgativa e pubblica non risparmia certamente
complessità e profondità d’analisi, credo possa essere la seguente.
I
primi sei saggi si dipanano attraverso un gioco di specchi in cui Cina e Stati
Uniti, con le loro rispettive propagande, narrazioni ed élite si guardano,
contendendosi i “sogni”, la Storia, lo sviluppo economico, e, credo aspetto
meno noto, anche il primato democratico.
Sin dal primo saggio a firma del curatore,
“Fra democrazia e autocrazia: leggere la propaganda sulla Cina in un’epoca di
competizione” (pp. 31-68), la democrazia con le sue conflittuali
interpretazioni diviene il trait d’union della prima metà del volume.
Trattando
la democrazia, si deve tuttavia discutere quella che dovrebbe essere una sua
nemesi, la propaganda.
Nella
“Propaganda verso l’estero della Repubblica Popolare” (pp 69-94), “Sapio” offre
una puntuale ricostruzione storica della comunicazione politica di Pechino,
concludendo che “molte delle narrazioni sulla Cina che ormai fanno parte del
sentire comune abbiano avuto origine a Pechino, e siano state convogliate da
mass-media cinesi che sono parte integrante dell’apparato di propaganda”
(p.70).
In
qualche modo specchio del saggio di “Sapio”, segue quello di “Lanza”, che gode
della posizione “privilegiata” di chi conduce studi storici sulla Cina moderna
nell’accademia statunitense da oltre vent’anni.
Il suo saggio “What does ‘China’ mean?
la
doxa americana e la ‘nuova guerra fredda’?” (pp.95-114), si interroga
sull’evoluzione della prospettiva statunitense sulla Cina, focalizzandosi
sull’uniformità dello spettro politico nell’identificare l’ascesa cinese come
minaccia sistemica.
Queste
narrazioni e propagande a confronto lasciano spazio alla “democrazia con
caratteristiche cinesi: le varie elaborazioni fino alla ‘nuova era’ di Xi
Jinping” di Miranda (pp. 1115-138).
In continuità con il contributo di “Fumian,”
la sinologa della Sapienza ripercorre “l’importazione del concetto di
democrazia” sin dal suo approdo sulle coste cinesi alla fine del XIX secolo.
Uno
studio granulare che permette sia di sottolineare come la decostruzione della
presunzione universale della democrazia occidentale abbia soddisfatto i
“bisogni della propaganda interna e internazionale” sia di comprendere come “la
democrazia onniprocedurale” quan
guocheng renmin minzhu (全过程人民民主) avanzata oggi da Xi non nasca dal
nulla.
Una
“democrazia dei risultati”, una “democrazia che funziona” volta a “migliorare
la sua posizione a livello mondiale”, accrescendo “il suo potere discorsivo” (huayuquan 话语权).
Una
figura incastonata tra la propaganda e l’appena descritta esigenza del
partito-Stato di rilanciarsi come modello altro, concorrente e migliore di
quello occidentale, è quella del protagonista del “saggio di Brusadelli “Lo
specchio americano di Wang Huning: il disincanto della democrazia e la guerra
dei sogni” (pp.139-166). Membro del Comitato Centrale Permanente del Pcc dal
XIX Congresso (2017), Wang può vantare “una continuità della sua influenza
sull’intera leadership post-denghista” (p.142).
Da Jiang a Xi, gli ultimi 30 anni della
politologia ufficiale del Partito hanno visto spesso la regia dell’attuale
Presidente della Conferenza Politica Consultiva del Popolo Cinese.
In
sintesi, Brusadelli non solo ci spiega come il pensiero di Wang sia
imprescindibile per decifrare la strategia discorsiva odierna del Pcc ma
fornisce elementi per comprendere come “Democrazia”, “sovranità”, o “diritti”,
siano diventanti “il campo immateriale su cui si svolge una competizione
intellettuale per una egemonia parallela a quella geopolitica” (p.162).
L’ultimo
saggio di questa sezione “democratica” è a firma di “Gabusi”. “La fortuna del
capitalismo e il vantaggio delle democrazie: perché è sbagliato parlare di
Modello Cina” (pp. 167-188) sfida sin dal titolo uno dei leitmotiv più diffusi
circa l’alterità intrinseca del modello di sviluppo politico-economico della “Rpc”.
Senza
eccessive perifrasi, l’autore afferma “che non esiste un vero e proprio
“modello Cina” poiché l’esperienza della Rpc degli ultimi quarantacinque anni
si colloca a pieno titolo all’interno del paradigma dello Stato sviluppista in
Asia Orientale” (p.167).
Partendo
da una critica al “The China Model” di Bell, passando per una rassegna del
fortunato “Capitalism Alone” di Milanovic, anche Gabusi usa un gioco di specchi
per descrivere il modello di sviluppo cinese guardando alla “presunta crisi
delle democrazie” e alle “camaleontiche” doti del capitalismo che ne fanno la
sua fortuna.
Non
nega che le democrazie siano in crisi, soffrendo queste di una evidente
“legittimità da output”, ma inchiodando la Rpc alle sue contraddizioni
“socialiste” più esplicite, quali l’assenza di democrazia sindacale e diritto
di sciopero, riafferma il “vantaggio delle democrazie”. Questo “risiede
nell’alternanza al potere di personale politico diverso: nessun errore, nessuna
incompetenza è per sempre.”
I
successivi due capitoli possono essere inquadrati come un ponte tra la
competizione USA-Cina con la sua guerra di narrazioni e gioco di specchi ed una
conclusiva sezione “metodologica”.
Dalla
relazione tra il “soft power” e teoria e pratica della traduzione (Pesaro,
pp.189-220), al rinnovato controllo del Pcc sulla diaspora d’oltremare
(Brigadoi Cologna, pp.221-248).
Da un
lato, l’autorevole traduttrice e sinologa conclude che le sfide attuali sono
“antiche dinamiche dei processi traduttivi (…) entrate in una nuova fase con
l’ingresso di Xi nella scena politica cinese”.
Dall’altro,
“Brigadoi Cologna” ci parla delle politiche verso la diaspora cinese nella
Repubblica Popolare.
Ripercorrendo
la peculiare storia migratoria dei cosiddetti “cinesi d’oltremare”, l’autore
sottolinea come il loro ruolo nella realizzazione del progetto politico del
moderno Stato cinese non rappresenti un carattere innovativo della guida
comunista stabilita nel 1949 ma affondi le sue radici nella tarda storia
imperiale quanto nella più recente Repubblica di Cina.
Gli
odierni 40 milioni appartenenti alla diaspora, nonostante abbiano “genealogie,
storie famigliari, esperienze migratorie e biografie personali (…)
difficilmente riassumibili in una descrizione univoca e monocorde della
‘cinesità’” (p.222), condividono certamente “l’intensificazione del controllo
sociale e ideologico”, che il sociologo e sinologo esplora specificatamente nel
caso italiano.
Infine,
come si diceva, gli ultimi tre saggi potrebbero risultare maggiormente
specialistici avendo come loro nucleo la metodologia con il quale guardare
all’interno del vasto universo cinese.
Partendo
dalle narrazioni contrapposte e polarizzanti sull’odierno ruolo della Cina
nell’Africa, focalizzandosi in particolare sul tema dei lavoratori
transnazionali cinesi nel continente, la sociologa “Ceccagno”, espone come
l’adozione di un metodo interdisciplinare possa essere “antidoto
all’uniformazione acritica e al posizionamento binario” (p.268).
Segue
il contributo di” Gullotta” che offre la sua “danza etnografica nella Cina
post-pandemica”.
Un
saggio che pone al centro limiti e potenzialità della ricerca sul campo nella
Cina di “Xi”, esplorando i rapporti di potere e le molteplici forme di autorità
che non si esauriscono nel ruolo pervasivo del partito-Stato.
Se infatti “il controllo totale è impossibile,
il partito-Stato sembra accontentarsi d voler dare l’idea, a creare l’idea che
ci sia un potere in grado di controllare” (p. 282).
Chiude
questa “sezione” metodologica, la traduzione per mano del curatore del testo di
“Sinan Chu”, che parafrasando la campagna Maoista “che cento fiori sboccino”
discute e riassume “il dibattito sulla politica etnica della Cina tra il 2004 e
il 2015” (pp.301-328).
Criticando
la semplicistica, e mi permetto di aggiungere spesso “orientalista”, visione
monolitica dell’autoritarismo del partito-Stato, l’autore evidenzia come la
“svolta assimilazionista” intrapresa da Xi unita ad “un’evidente stretta negli
spazi di discussione pubblica a livello nazionale” (p.326) fosse stata
anticipata da una vivace e vasto dibattito sulla natura multietnica del Paese e
sulle politiche gestionali di tale eterogeneità.
Conclude
questo volume poliedrico, un’intervista a tre noti giornalisti impegnati nella
comunicazione sulla Cina:
Alessandra Colarizi, Simone Pieranni e Lorenzo
Lamperti.
La
selezione non è casuale, avendo questi l’indubbio merito ad aver contribuito ad
un parziale quanto fondamentale miglioramento dell’informazione sulla
Repubblica Popolare.
Tutti
e tre condividono l’esperienza presente o passata presso il sito d’informazione
“China Files”, collettivo di giornalisti specializzati in affari asiatici.
Sito che è divenuto un riferimento e che
credo, come me, gli autori e le autrici di questo volume consiglino a studenti
e studentesse spesso disorientati sul dove ricercare un’informazione “sana” e
indipendente sulla Cina e l’Asia.
“Fumian” li interroga sulla crisi complessiva
dell’informazione sugli esteri sia nella sua natura “finanziaria” sia di
“contenuti”, giungendo chiaramente a sollecitarli sul “caso cinese”.
In
conclusione, se come propriamente affermato da Savina 11 nella sua recensione
del medesimo testo, questo rappresenta “un punto di arrivo metodologico di
grande rilievo” reso possibile dalla partecipazione di “autorevoli sinologi”,
mi permetto retoricamente di aggiungere che esso non può che essere un punto di
partenza.
Come
si è tentato di mettere in risalto all’inizio del contributo, le difficoltà che
si incontrano nello studio contemporaneo della Cina rappresentano un’esasperazione
e condensazione delle molteplici difficoltà legate allo sviluppo di un
complessivo sapere critico, pubblico e accessibile.
La “sinologia critica” sapientemente delineata
in “Leggere la Cina: capire il mondo” deve essere un tassello di un progetto
più ampio per il rilancio di una conoscenza autonoma che scavalchi le mura di
quel perimetro che gli esecutivi vogliono restringere.
L'impero
delle bugie. In Cina
insabbiare le catastrofi è tradizione.
Ilfoglio.it - Sigmund Ginsberg – (07 gen.
2023) – ci dice:
Una
storia nascosta.
Dai terremoti al Covid.
Così
il potere conserva il “Mandato del cielo”.
Ora
“Xi Jinping “rischia di perdere il controllo del paese.
O peggio: la credibilità.
E
senza quella, i sudditi possono pensare di reagire.
I
disastri possono far cadere i regimi dispotici.
O, al contrario, possono consolidarli.
Il
termine “wiki”, disastro, è composto da due caratteri.
L’uno
significa “pericolo”, l’altro “fortuna-opportunità”. Dipende dall’efficienza
della risposta.
E, cosa altrettanto se non ancora più
importante, dall’efficienza e dalla credibilità della narrazione.
La
cosa che conta di più non sono le bugie di stato.
Quelle
ci sono sempre, anche nelle migliori democrazie.
La menzogna fa parte della politica, anche
della migliore politica.
L’importante è come vengono raccontate, se
vengono credute o no.
La storia della Cina è zeppa di imperatori o
anche intere dinastie che perdono il “Mandato del cielo” perché non hanno
saputo o potuto reagire in modo efficiente e tempestivo a una catastrofe.
Gli
ideogrammi per “terremoto” anticamente dicevano letteralmente:
“crolla
il cielo, si frattura la terra”.
Poi hanno deciso di semplificare.
Il
carattere “cielo” è stato sostituito con “montagna”, infine è scomparso anche
il termine montagna.
“Cielo” imbarazzava il potere, qualunque
potere, fosse quello dell’Imperatore o quello del Partito.
Perché
ricordava la perdita del Mandato del cielo, della legittimazione a governare.
Il
concetto l’aveva inventato la “dinastia Zhou”, agli inizi del primo millennio
avanti Cristo.
Poi fu
codificato dai confuciani.
“Per governare non basta che chi governa sia
virtuoso”, diceva “Mencio”.
Non
basta essere onesti, tradurremmo oggi.
Bisogna
essere capaci, e anche fortunati.
Nel
corso di tutta la multi-millenaria storia cinese, terremoti, carestie, siccità,
alluvioni, epidemie, e anche guerre e invasioni barbariche venivano considerati
“segni del cielo”.
L’importante
non era che l’imperatore fosse “benevolo” o “dispotico”.
Era
che sapesse gestire le catastrofi.
E, allo stesso tempo, che la sua versione dei
fatti, la sua propaganda diremmo oggi, fosse convincente o meno.
Se sì,
era legittimato a continuare a governare.
Se no, altri della sua cerchia, o un movimento
ribelle, o anche un invasore straniero, erano legittimati a sostituirlo.
La
Cina è sempre stata, e resta, l’impero dei simboli.
Il
potere nasce sì dalla forza, dalla canna del fucile, come diceva Mao, ma anche
dal “controllo dei simboli”.
A interpretare i simboli concorrono
soprattutto gli intellettuali:
ecco
perché da un secolo all’altro, da una dinastia all’altra, i sovrani li hanno
coccolati o temuti, e di tanto in tanto li hanno sepolti vivi, mandati al rogo
o in esilio.
L’ultimo
imperatore detronizzato in seguito ad una catastrofe fu Mao.
Non
lui, che era già sul letto di morte, ma quelli che traevano legittimazione da
lui. Il 28 luglio 1976 la città di “Tangshan”, nello “Hebei”, a sud-ovest della
capitale, e tutta l’area attorno, furono rasi al suolo da un terremoto di
magnitudo 7,8, a 12 chilometri di profondità.
Uno
scienziato giapponese ne calcolò l’effetto come pari all’esplosione di
undicimila bombe atomiche come quelle lanciate su Hiroshima e Nagasaki.
Erano passate
da poco le 3 del mattino, moltissimi rimasero sotto le macerie che erano ancora
a letto.
È una regione mineraria.
Migliaia di minatori del turno di notte
rimasero intrappolati nelle vene di carbone. Si ritiene si sia trattato della
peggiore catastrofe naturale del ‘900.
Certamente
quella che fece il maggior numero di vittime.
Il
calcolo ufficiale è di 250.000 morti, e altrettanti feriti.
In
milioni furono costretti a dormire all’aperto, senza acqua, senza luce, senza
cibo.
Il
sisma si avvertì fortissimo anche a Pechino.
La
gente si riversò per le strade. Per fortuna era piena estate.
La
prima tentazione in questi casi è nascondere la catastrofe sotto il tappeto.
I
media ufficiali semplicemente non ne diedero notizia.
La mia
amica “Barbara Alighiero” era studentessa in Cina, non si trovava a Pechino ma
a “Wuhan” (sì, proprio la città epicentro dell’esplosione di Covid a cavallo
tra 2019 e 2020).
I suoi, dall’Italia, la cercavano
disperatamente per avere notizie.
Finalmente
riuscirono a raggiungerla al telefono (non c’erano ancora i cellulari). Ma lei
cadeva dalle nuvole.
A “Wuhan” il terremoto non si era sentito per
nulla. Giornali e radio non ne parlavano.
A
Pechino invece non si poteva ignorare.
Partì immediatamente, di pari passo con
l’organizzazione dei soccorsi, una campagna di propaganda volta a mostrare
l’efficienza e tempestività della risposta, l’eroismo e l’abnegazione dei
soccorritori, la compattezza di tutto il popolo cinese attorno alla saggia
guida del Partito comunista.
Si
recò sul posto, con pieni poteri a organizzare e dirigere i soccorsi, il primo
ministro “Hua Guofeng”.
Era
ancora un giovane quadro sconosciuto ai più.
Appena
poche settimane dopo avrebbe rimpiazzato il defunto Mao alla testa del Pcc.
La
promozione venne annunciata da giganteschi manifesti in cui lo si vedeva
dipinto seduto accanto al Grande timoniere, con Mao che gli poggiava una mano
sul ginocchio e gli diceva:
“Con
te che te ne occupi, io sono tranquillo”.
L’avevano
buttata subito in lotta politica.
La
stampa di regime lanciò una campagna sulle “Critiche aperte degli operatori
impegnati nel lavoro anti-terremoto e nei soccorsi contro Deng Xiaoping”,
l’intramontabile “dirigente avviato sulla via del capitalismo”, l’eterna nemesi
dei maoisti puri e duri.
Gli
editoriali spiegavano che “la guerra di classe, lo scontro tra le due vie e le
due linee si intensifica ogni volta che si verifica una calamità naturale”.
Cruciale
era, spiegavano, ribadire con la massima fermezza che i Cinesi non avevano
bisogno di alcun aiuto straniero.
La Cina era e doveva assolutamente restare
“autosufficiente”, far da sola. Bisognava, dicevano, evitare il rischio che
l’importazione di tecnologie straniere significasse importare di soppiatto
anche la “corruzione capitalistica” e il “revisionismo sovietico”.
“Meglio
mangiare fieno socialista che grano capitalista”, il modo in cui l’aveva messa
la “Signora Mao”.
Sembrò
per un attimo che la narrazione ufficiale avesse avuto successo.
Il mondo intero assistette con rispetto alla
pazienza, anzi stoicismo con cui i Cinesi reagivano alla tragedia che li aveva
colpiti.
Venne
apprezzata la fierezza con cui rifiutavano aiuti stranieri, la prontezza
dell’intervento dell’Esercito popolare di Liberazione, la capacità di
mobilitare risorse umane, di far lavorare (e rifocillare) centinaia di migliaia
di persone a riparare strade, ponti e linee elettriche e ferroviarie, erigere
immense tendopoli, rimettere in sesto le miniere di carbone.
Si lasciarono convincere anche esperti
navigati e grandi giornalisti.
“William
Safir”, inviato a Hong Kong dal New York Times, notò che se avevano retto così
disciplinatamente all’attacco a sorpresa di 11.000 atomiche, non potevano certo
fargli un baffo tutti i missili sovietici e americani.
Ma le
cose non stavano così.
Il più
solido regime del mondo non era così solido.
Finì
che, defunto Mao il 9 settembre, poco più di un mese dopo il Grande terremoto,
decisero di arrestare la vedova Jiang Qing e gli altri della “Banda dei
quattro”.
La
catastrofe era stata troppo pesante.
I
soccorsi non avevano funzionato. La bugia era troppo grossa.
Non era in alcun modo possibile fare come
l’anno prima, quando un sisma assai più modesto aveva colpito “Haiphong”, 400
chilometri più a Nord-est di Tangshan, e il regime e i suoi organi di stampa si
erano vantati di come “grazie al Mao Zedong-pensiero”, i sismologi erano stati
in grado di predire l’imminente terremoto, e “minimizzarne le conseguenze”.
Era
una sciocchezza.
La
capacità di previsione era stata inventata ex-post.
Che ci
fossero state relativamente poche vittime (duemila o giù di lì) era dovuta a un
insieme di circostanze fortunate.
I
sismologi avevano “predetto” (si fa per dire, come è noto non si può con
esattezza prevedere né il quando né la magnitudo), o per meglio dire avevano
colto segni premonitori anche per il “terremoto di Tangshan”.
Ma le autorità, li avevano zittiti.
Avevano deciso di non tener conto delle
avvisaglie, di non diramare alcun avviso, “per non allarmare la popolazione”.
Una volta successo, le conseguenze erano così
terribili che alla fine si risolsero a coprire tutto con un mare di calce viva,
per evitare che al flagello del terremoto subentrasse quello delle epidemie.
Sembra,
pari, pari, quello che è successo col Covid.
Sapevano
dal tardo autunno 2019 (non a caso si chiama Covid-19).
Prima
avevano cercato di nascondere il tutto.
Forse
non volevano disturbare la festività del Capodanno lunare cinese, l’equivalente
del nostro Natale, l’occasione in cui milioni di cinesi si spostano per andare
a trovare i parenti.
“Li Weifang”, il medico che su “Weibo”
(l’equivalente cinese di Twitter), aveva cercato di avvertire i colleghi che ci
si trovava di fronte a un virus terribilmente simile a quello della “sars”, era
finito in carcere per “diffusione di notizie false e tendenziose”.
È
diventato un eroe, ma postumo:
è morto agli inizi del febbraio 2020 di Covid
contratto da uno dei suoi pazienti. Infine, quando i buoi erano già scappati
dalla stalla, hanno varato la politica dello “Zero Covid”, hanno chiuso tutto.
Poi sono arrivati, anche lì a tempo record, i
vaccini.
Ma il loro “Sinovac “non funzionava bene come
quelli occidentali.
E, soprattutto, la gente non si fidava a
vaccinarsi.
Succede,
quando di storie gliene sono state raccontate troppe.
Anche
la stizzita risposta agli Europei che gli avevano offerto i vaccini è un
déjà-vu. Se gli avessero offerto, non ora, ma subito, all’inizio, la licenza
per produrli, sarebbe stata un’altra storia.
Negli
anni ‘50 si era diffusa a Pechino la psicosi della guerra batteriologica degli
Stati Uniti.
Correva
voce che avessero lanciato nei boschi fiale contenenti germi della peste, del
vaiolo, del carbonchio.
Era una bufala, montata dai servizi sovietici.
Scattò
una campagna a tappeto di vaccinazioni di massa.
Era obbligatoria anche per gli stranieri.
Questi
erano autorizzati ad usare vaccini loro. I cinesi no.
Per
orgoglio, ma anche per timore che fossero contraffatti.
Nell’800
l’Inghilterra li aveva avvelenati vendendogli l’oppio.
Con
una percentuale minima di vaccinati contro il Covid, soprattutto tra gli
anziani, i più deboli, l’alternativa era tra rischiare milioni di morti o
serrare ancora di più.
Avevano
scelto quel che sanno fare meglio, da millenni: la linea dura.
Quarantene
per tutti.
Deportazioni
obbligatorie e brutali dai caseggiati sospetti di infezione.
Blocco
di centri commerciali con tutti i consumatori dentro.
Chiusura
di interi quartieri, o anche di intere grandi metropoli moderne, brulicanti di
attività come Shanghai.
Finché
la gente non ne poteva più, e ha cominciato a protestare.
Non è
che negli anni scorsi in Cina non si protestasse.
C’erano
centinaia di manifestazioni di protesta ogni giorno.
Ma su
questioni particolari.
Questa
volta invece il regime si era sentito sotto accusa su questioni che
interessavano tutti, sulla sua core activity, la sua stessa ragione di
esistere, la sicurezza collettiva.
In
altre occasioni, il mix di repressione e propaganda aveva funzionato.
L’esaltazione dell’organizzazione dei soccorsi per il terremoto nel “Sichuan”
nel maggio 2008, tre mesi prima delle Olimpiadi a Pechino era stata una
capolavoro.
Ne
avevano tratto persino un film di grandissimo successo, su “come si serve il
popolo”, con toni epici paragonabili a quelli dell’”Alexandr Nievskij “di
staliniana memoria, del documentario sull’adunata nazista a Norimberga di “Leni
Riefenstahl”, di “Birth of a Nation” di “Griffith”.
Stavolta,
fallita la narrazione, potevano decidere di reprimere e basta.
“Xi
Jinping” ha deciso probabilmente che era più rischioso essere travolti dalla
protesta che essere travolti dal virus. Ma ora rischia di avere sia la protesta
che una pandemia fuori controllo.
Soprattutto
rischia la perdita di credibilità, che nessuno creda più a quel che gli dice il
governo.
Anzi, peggio ancora, rischia di perdere la
faccia, che è, nella cultura cinese, la cosa peggiore che gli possa capitare.
Improbabile sia stata la voce del popolo a
convincerlo.
L’avrà
convinto qualcuno i cui consigli non si potevano rifiutare.
Ma
così facendo ha creato un precedente pericolosissimo.
Se un
despota ammette di avere sbagliato, i suoi sudditi possono pensare che
sbaglierà ancora.
Ne va della sua credibilità.
In una democrazia può cambiare il governo, si
può eleggere un altro presidente o mettere assieme un’altra maggioranza.
Caduto
un governo se ne fa un altro.
Un
regime dispotico non ha le stesse valvole di sicurezza.
Morto
o deposto l’imperatore può succedere di tutto, possono ritrovarsi nel caos, in
mezzo a una guerra di successione, o addirittura in una guerra civile.
“Governare
un grande stato è come cuocere dei pesciolini. Se si cuociono troppo li si
rovina”, dice il Daodejing.
“Xi”
ha evidentemente strafatto la cottura. È messo male.
Ma un
po’ se l’è cercata. Ha voluto applicare alla Cina del terzo millennio gli
stessi metodi autoritari degli anni di Mao, o anche dei miei anni ‘80 a
Pechino.
Non si può comandare con la baionetta ai
mercati, né ai terremoti, né ai virus.
E nemmeno fargli il lavaggio del cervello.
Mao si
era assunto la responsabilità del peggior disastro di tutti i tempi, dei
milioni di cinesi periti per il “fallimento del Grande balzo”.
Per
rimediare, non cedere il potere personale, aveva scatenato la Rivoluzione
culturale, una vera e propria guerra civile.
Usufruiva
del più formidabile apparato propagandistico di tutti i tempi.
Non filtrava fuori nulla e nulla da fuori.
I cinesi non seppero nemmeno che degli
americani erano sbarcati sulla Luna. Nell’era dei cellulari, di internet, dei
Virtual personal network (Vpn) le frottole funzionano meno.
Anzi,
fanno perdere la faccia.
Prove
di soft power cinese.
La
propaganda passa (anche)
dagli
influencer.
Mediatrends.it
- Redazione - (24 Giugno, 2025) – ci dice:
Insieme
alle operazioni di disinformazione e destabilizzazione politica, Pechino sta ideando
campagne di pubblicità positiva attraverso i volti più famosi dei social -
media in Occidente.
Il
partito comunista cinese sta vivendo un cambiamento nel suo modo di fare
propaganda.
Gli
organi di stampa statale stanno puntando sempre di più su figure del mondo dei
social media, con un certo riguardo per le star americane.
Questa
strategia è frutto dell’intenzione di diversificare i propri mezzi, oltre ai
recenti strumenti forniti dall’intelligenza artificiale come chatbot e
deepfake.
L’aggiornamento
della strategia di soft power cinese va di pari passo con l’aggressività delle
politiche anti-immigrazione degli Stati Uniti di Donald Trump.
La
scorsa settimana, mentre la Cina apriva le porte al mondo dei “content creator”,
la” Cnn” confermava la detenzione del” tiktoker Khaby Lame “all’aeroporto “Harry
Reid” di “Las Vegas”.
Il
volto del canale più seguito al mondo su “Tiktok”, è stato poi espulso
dall’”Ice” – l’agenzia federale per il controllo dell’immigrazione contro gli
immigrati irregolari.
Piano
cinese.
La
scorsa settimana, proprio mentre a Los Angeles sono scoppiate le proteste
contro i raid anti-immigrazione, gli organi di stampa cinesi annunciavano “
China-Global Youth Influencer Exchange Program”.
Stando
alle dichiarazioni del governo guidato da “Xi Jinping”, presidente della
Repubblica Popolare Cinese, il programma mira a creare delle collaborazioni tra
“content creator” occidentali e locali.
In
pratica, il governo di Pechino si offre di pagare tour di dieci giorni nel
Paese a influencer con più di 300mila follower per promuovere un’immagine
positiva sui vari social media come “X”, “Tiktok” e” Instagram”.
Reputazione
social.
Era già
noto che i travel blogger fossero apprezzati dai media locali e le agenzie
statali di propaganda.
Un
fenomeno simile, ma non coordinato – anzi, spesso, osteggiato – dalle
istituzioni, esiste in Corea del Nord.
Il
Paese sta diventando meta per molte figure dei social, affascinati dal suo
misterioso isolazionismo.
Tuttavia,
l’iniziativa di Pechino è il primo piano strutturato organizzato da un governo
con l’obiettivo di aumentare il numero di influencer che visitano e raccontano
una nazione.
Già a
marzo il governo cinese aveva invitato lo youtuber statunitense” I Show Speed”,
che aveva pubblicato diversi “video blog” in cui raccontava innovazioni
tecnologiche e mostrava luoghi turistici.
Poi ad
aprile, Pechino si era di nuovo rivolta ai social media per la guerra
commerciale con gli Stati Uniti.
Infatti,
per combattere i dazi americani molte aziende cinesi avevano deciso di mostrare
sui social l’origine del lusso occidentale, sfruttando il potere della
viralità.
La
Cina, come anche l’Iran e la Russia, negli ultimi tempi è stata al centro di
diversi scandali riguardo alla disinformazione in rete.
Ultimo
fra tutti, quello legato al report di “OpenAI” sull’utilizzo etico dei “chatbot”
e gli “strumenti di “IA”.
Ora,
però, la strategia adottata sta virando dalla destabilizzazione politica alla
pubblicità positiva, proprio tramite voci e volti dell’Occidente.
(“Xi
Jinping”, segretario generale del Partito Comunista Cinese dal 2012 e
presidente della Repubblica Popolare Cinese dal 2013.
Foto: Wikimedia Commons.)
Strategie
contrastanti.
Sembra
quindi che la Cina stia mirando ad aumentare il proprio soft power anche in
Occidente, dopo aver conquistato gran parte del Sud globale.
Ed è
interessante, perché gli Stati Uniti dopo decenni di soft power – e diplomazia
pubblica – in cui hanno puntato sulla comunicazione e sui media per espandere
la propria influenza nel mondo, stanno facendo l’opposto.
Infatti,
oltre alla chiusura del “programma Usaid”, che ha danneggiato il predominio
culturale americano, a marzo l’amministrazione “Trump ha deciso di tagliare i
fondi della United States Agency for Global Media”, smantellando di fatto “Voice
of America”, dopo più di 80 anni.
L’arma
mediatica – usata per combattere la propaganda della Germania nazista durante
la seconda guerra mondiale e quella sovietica nel corso della guerra fredda poi
– è stata valutata come non più necessaria dal governo Trump.
In
questo cambio di prospettiva, Pechino ha visto un’opportunità.
Media
e cultura.
Secondo
il presidente” Xi Jinping”, il vero divario presente tra Stati Uniti e Cina non
è l’influenza mediatica, ma è il distacco nella reputazione tra i giovani.
Gli
Stati Uniti sono meta turistica per la popolazione cinese, ma anche lavorativa
e accademica.
Gli
studenti cinesi nelle università americane continuano a crescere, mentre
l’influenza culturale della Cina non riesce a fare il salto in avanti che
servirebbe.
L’immagine
della Repubblica Popolare è spesso collegata alla repressione politica e delle
libertà civili.
Gli
stessi studenti cinesi sono disillusi dalla forte presenza delle autorità nelle
università e guardano verso Occidente quando si tratta di percorsi accademici.
Nonostante
il crescente sviluppo tecnologico, la cultura cinese è ancora legata alla
tradizione.
Si è
dunque sviluppata un ostacolo all’internazionalizzazione della nazione.
Il
Paese vuole cambiare e diventare un polo di scambio culturale, non solo a
livello asiatico, ma mondiale.
La
risposta a questo problema, secondo i dirigenti politici di Pechino, è quello
di conquistare i media digitali. Non tramite la disinformazione – che comunque
rimane un’arma potente per il governo – ma tramite la propaganda positiva.
La
soluzione trovata dalla Cina è stata quella di aumentare le collaborazioni tra
influencer locali e americani, per migliorare la propria reputazione tra i
giovani e ricreare la propria immagine in Occidente.
E
forse questo aiuterà a migliorare le relazioni con l’Occidente, oltre che a far
riscoprire un Paese che sta vivendo forti cambiamenti e innovazioni.
O,
perlomeno, questo raccontano i video dello “youtuber I Show Speed”.
Marco
Fumian:
Cosa significa
“rafforzare
il potere discorsivo della Cina”.
Il
punto di vista di un intellettuale cinese.
Sinosfere.com
– (August
29, 2025) – Redazione - Numero Ventidue: Potere Discorsivo, Sinografie – Marco Fumian -ci dicono:
Nell’ottobre
2013, alla Conferenza nazionale sul lavoro di propaganda e ideologia, “Xi
Jinping”, eletto da meno di un anno segretario generale del Partito Comunista
Cinese (PCC), enunciava il seguente obiettivo:
“Bisogna
sforzarsi di espandere le capacità della comunicazione internazionale,
innovando i metodi della propaganda verso l’estero e rafforzando la costruzione del
sistema discorsivo (huayu tixi 话语体系); e sforzarsi di creare nuovi concetti,
nuove categorie e nuove espressioni che connettano la Cina e l’estero,
raccontando bene le storie della Cina, diffondendo bene la voce della Cina e
rafforzando il potere discorsivo a livello internazionale (zai guojishang de huayuquan 在国际上的话语权)”.
Huayu
quan (huayuquan 话语权), nel suo significato tanto di “diritto di parola” o “potere del
discorso”, qui tradotto come “potere discorsivo”, è una nozione centrale
dell’attuale “propaganda verso l’estero” del PCC, profondamente rivitalizzata
sotto la guida di “Xi Jinping”, fondamentale tanto quanto il precetto di “raccontare
bene le storie della Cina”, di cui ci siamo già occupati su questa rivista
qualche anno fa.
Cosa
si intende dunque con questa nozione? Cosa significa dal punto di vista teorico
e pratico “rafforzare il potere discorsivo”?1) Se la terminologia del PCC è
spesso elusiva, è piuttosto nelle elaborazioni di ambito accademico che di
solito troviamo delle illustrazioni estese di come si debbano o si possano
intendere, con dei margini interpretativi più o meno ampi, le formule politiche
ufficiali.
Si è
scelto perciò di presentare su queste pagine alcuni articoli di” Su Changhe”,
studioso cinese di politiche e relazioni internazionali, dato che questi
illustrano in modo particolareggiato le visioni, le finalità e le strategie del
partito-stato cinese inerenti alla diffusione internazionale del cosiddetto
potere discorsivo.
“Su
Changhe”, classe 1971, da anni direttore della “Scuola di relazioni
internazionali e affari pubblici” dell’”Università Fudan”, e secondo
l’enciclopedia collaborativa “Baidu Baike” membro del PCC dal 1999, si è
dedicato soprattutto alla definizione e all’affermazione dei principi del
sistema politico cinese, nonché dei metodi per farli conoscere all’estero nel
contesto della globalizzazione, come illustrano i suoi articoli selezionati
nella sua pagina di Fudan e nel portale dedicato al sapere accademico cinese “Aisixiang”.
I suoi interessi e le sue visioni, perciò, non
solo si allineano con quelli del PCC, ma anzi per certi aspetti li anticipano,
contribuendo a definire, nel loro farsi, i temi ideologici ufficiali prediletti
dall’attuale propaganda.
Per
questo abbiamo deciso di pubblicare alcuni di questi saggi, incentrati sul tema
del potere discorsivo, nell’ottima traduzione italiana di “Laura Federico”, che
ne ha curato anche la selezione.
La
nozione di discorso elaborata da “Su Changhe”, vale la pena di notare, trae
ispirazione almeno in parte da quella di” Michel Foucault”, per il quale come è
noto il sapere è una costruzione discorsiva prodotta socialmente e strutturata
dalle azioni del potere.
Gli
intenti, però, appaiono diametralmente opposti:
se lo
scopo, per il filosofo francese, è quello di decostruire il nesso
sapere/potere, in particolare in relazione agli interventi disciplinari del
potere dello stato, per il politologo cinese (e per il PCC), viceversa, si
tratta piuttosto di saldarlo.
Come
si leggerà chiaramente nei saggi dell’autore, l’esigenza di rafforzare il
potere discorsivo è legata alla volontà di aumentare l’influenza della Cina a
livello internazionale.
A
giustificare tale intento, c’è la visione che il cosiddetto Occidente,
rappresentato in primo luogo dagli Stati Uniti, eserciti sull’ordine
internazionale un’egemonia arbitraria, fondata in modo significativo sul potere
normativo del discorso.
Il
pensiero politico occidentale, considerato da “Su Changhe” come un pensiero
eminentemente locale, si è universalizzato grazie all’espansione del “dominio
dell’Occidente”, che ha costretto le altre culture ad assimilare i propri
schemi concettuali sopprimendone le potenzialità peculiari di sviluppo.
La Cina, perciò, costretta in una “posizione
svantaggiata” da quest’ordine simbolico coercitivo, deve liberarsi dalle
visioni distorte che la ingabbiano, e sfruttare la propria ascesa e il declino
percepito del potere occidentale per cominciare a “parlare con le proprie
parole”, sia nel contesto nazionale che in quello internazionale, confezionando
e diffondendo, in particolare, i “propri” concetti e le “proprie” terminologie
nell’ambito della filosofia politica e delle scienze sociali.
Si tratta perciò di una spinta di “decostruzione
contro egemonica” che sottende delle implicite finalità egemoniche, mirando a
riprodurre per la Cina lo stesso processo di conquista del potere discorsivo
occidentale universalizzando le visioni politiche e sociali cinesi.
A
questo fine, “Su Changhe” delinea diverse azioni da compiere, che prevedono la
partecipazione di più attori. In primo luogo, gli intellettuali e accademici
cinesi, troppo proni a suo avviso a sottomettersi ai “sistemi di giudizio
occidentali” criticando la Cina a partire da questi ultimi.
Questi,
invece, dovrebbero trovare la propria autonomia e consapevolezza culturale,
facendosi “interpreti delle politiche del governo”, concentrandosi
nell’elaborazione di un sistema autoctono di nozioni e definizioni basate sulla
storia e sulla realtà della Cina, al fine di evidenziarne tanto
l’incontestabile diversità dei suoi “valori”, quanto gli elementi di “comunanza
universale” con i valori delle altre “nazioni e civiltà”, così da creare
“convergenze” e “unità di intenti” “pur percorrendo strade diverse”.
Ma si
tratta – finalità affatto secondaria – anche di impegnarsi a trasmettere queste
visioni e questi valori al pubblico straniero, sforzandosi di adottare
strategie creative per renderli comprensibili e attrattivi in un dialogo
“paritario” con quest’ultimo.
Fondamentale,
a questo scopo, è formare un gran numero di studiosi e studenti stranieri,
educandoli non solo alla lingua cinese ma anche alle teorie e ai concetti di
matrice cinese, con la fiducia che, quando questi ultimi avranno assimilato i
linguaggi e le idee in essi contenuti, contribuiranno a loro volta a
diffonderli “cambiando la percezione degli altri” sulla Cina.
Si
tratta, come si può vedere, di argomentazioni in larga parte legittime, e
motivate da intenzioni parzialmente costruttive.
È vero
infatti, come peraltro già sappiamo, che la modernità occidentale ha sottomesso
con gradi diversi di violenza lo sviluppo mondiale alla propria logica e ai
propri fini, ed è altrettanto ovvio, come affermano gli studi postcoloniali non
di rado branditi dal nativismo cinese, che occorre “decolonizzare” la “tarda”
mentalità eurocentrica che muove oggi i suoi ultimi colpi di coda.
Così
come è vero, lo abbiamo più volte osservato, che la visione del sistema
politico cinese, nell’ordine del discorso occidentale, tende a essere molto
spesso fissata secondo schemi stereotipati che la inchiodano come altro
negativo dei propri modelli normativi.
Ed è
perciò scontato, alla luce di ciò, che sarebbe necessario sviluppare sguardi
più aperti sulla Cina per indagare se dalle sue esperienze storiche e
progettualità politiche non possano venire anche dei contributi positivi per
una governance mondiale sempre più in crisi, in cui il tanto impugnato “sistema
basato sulle regole” viene smantellato oggi proprio da chi dovrebbe difenderlo.
Nello
stesso tempo, leggere “Su Changhe” ci aiuta a mettere a fuoco gli aspetti più
visibilmente problematici di queste argomentazioni, viziate come sono dal loro
essere inalveate nella logica della propaganda governativa cinese.
Motivate
principalmente dalla volontà di spiegare i “concetti chiave che definiscono la
via, il sistema e la teoria cinese”, ovvero le visioni ufficiali del PCC
riguardo al percorso di sviluppo “corretto” della Cina, esse hanno, come
finalità primaria, quella di legittimare le scelte del potere politico cinese
in Cina e all’estero.
I “concetti”, le “categorie”, e le
“espressioni” autoctone che in teoria dovrebbero interpretare in modo più
rispondente le esperienze e le soggettività “reali” della Cina, perciò, tendono
a configurarsi nella pratica come elaborazioni ideologiche rispondenti prima di
tutto alle esigenze del partito.
Inoltre,
definite sulla base della loro asserita differenza rispetto alle inclinazioni
culturali occidentali, tali elaborazioni non smontano le opposizioni binarie
della modernità occidentale, ma anzi le ri-fissano, limitandosi a capovolgerle,
erigendo delle contrapposizioni orientalistiche fra un ordine occidentale
essenzializzato, che in virtù della sua natura capitalista sarebbe
indistintamente votato a creare un “mondo per l’interesse privato”, e un ordine
ideale della Cina, che essendo per sua natura portata ad attingere alla
“saggezza orientale”, con la sua propensione per le relazioni armoniose e
simbiotiche, mirerebbe più naturalmente a creare un mondo “per il bene comune”.
Un
modo di immaginare le cose, di conseguenza, che mentre costruisce la
rappresentazione di un Occidente sostanzialmente monolitico – come se non fosse
lo stesso “Occidente” a generare, al proprio interno, tutti i contro- discorsi
e le visioni critiche sullo stesso “Occidente” a cui i nativisti cinesi
attingono nel formulare le loro contestazioni anti-egemoniche – in
contemporanea promuove la narrazione di un’entità cinese idealizzata (la
“comprensione di una Cina vera, progressista, e positiva”, nelle parole
dell’autore), da cui tutte le differenze e divisioni interne, a livello
politico, economico, sociale, culturale, sono tendenzialmente edulcorate o
espunte.
Un
esempio molto significativo di questo modo di elaborare i concetti, su cui ho
già scritto di recente, riguarda la fabbricazione della nozione di una presunta
“democrazia cinese” oggi promossa dal PCC,3) resa possibile dal fatto che, come
spiega Su Changhe, a volte parole diverse in culture diverse designano concetti
dallo stesso significato (tong yi yi ming 同义异名), mentre a volte parole uguali in
culture diverse designano concetti con significati diversi (tong ming yi yi同名异义).
Ciò riguarderebbe appunto proprio la nozione
cinese di “democrazia”, la quale, ispirata nei suoi contenuti da antichi ideali
politici cinesi, e traendo le sue origini moderne “dalla dottrina marxista
dello stato”, e quindi trovando la sua legittimità “nel socialismo e non nel
capitalismo”, avrebbe, a differenza della democrazia liberale di matrice
occidentale, “come fondamento la società e l’uomo, non il capitale e il
denaro”.
Confrontarsi
in modo consapevole con questi concetti “cinesi”, perciò, diventa un lavoro
molto importante, soprattutto per quei “70 milioni di persone (sic!) che
attualmente studiano il cinese” all’estero, a cui, scriveva “Su Changhe” nel
2017, le istituzioni culturali cinesi dovrebbero strategicamente rivolgersi, al
fine di farle “entrare in sintonia” e farle “sentire vicine” ai valori positivi
promossi oggi dal “discorso diplomatico” cinese.
La strategia, nel promuovere questi insegnamenti
attraverso gli scambi, sarebbe quella di “concentrarsi sulla costruzione di
riviste internazionali, pubblicazioni, sistemi di valutazione e accreditamento,
ricerche collaborative, società accademiche, premi onorari e altri meccanismi
che utilizzano il cinese come lingua di espressione accademica”.
Di
fatto, si tratta proprio delle svariate iniziative che abbiamo visto
massicciamente intraprese dalle istituzioni culturali della RPC negli ultimi
anni.
È dunque fondamentale, per chi rientra fra le tante
persone che sono in qualche modo interpellate da questi discorsi, elaborare a
propria volta strategie per decifrarli, comprendendone meccanismi, finalità e
contenuti.
Interpretare in modo critico le parole e le
idee diffuse oggi dalla Cina nel mondo, è uno dei compiti principali di
chiunque voglia occuparsi di lingua e cultura cinese in modo serio.
Sarebbe
tuttavia fuorviante pensare che tutte le elaborazioni degli intellettuali
cinesi contemporanei rispondano, come nel caso di “Su Changhe”, al mero
obiettivo di “costruire l’ideologia della nazione”, come vorrebbe invece
quest’ultimo.
Sebbene l’orizzonte dei dibattiti
intellettuali, dopo una fase di relativa apertura, si sia nel sistema
ideologico di “Xi Jinping” effettivamente ristretto, non tutti gli
intellettuali cinesi “parlano”, a tutt’oggi, ritenendosi dei semplici
interpreti e divulgatori del discorso politico ufficiale.
Molti,
ancora, sono gli intellettuali che conservano una loro agenda intellettuale
autonoma, negoziata all’interno dei perimetri istituzionali e gli obiettivi
ideologici delimitati dallo stato.
È il
caso, per esempio, di “Ge Zhaoguang” (1950), figura di rilievo all’interno del
panorama storiografico e intellettuale cinese, il quale, mettendo in guardia
contro le narrazioni storiche di stampo nazionalista oggi evidentemente molto
diffuse, ha avviato negli anni un fecondo dialogo con la “Global History “nel
tentativo di ricercare “un linguaggio comune [fra diverse aree geografiche e
comunità politico-culturali, nda] per creare una storia che aspiri ad essere
globale presentando una pluralità di punti di vista diversi non antitetici, ma
complementari”.
Presentiamo
pertanto un interessante disamina sul lavoro di questo autore, condotta da “Paolo
De Giovanni”, insieme alla traduzione di un saggio originale di “Ge Zhaoguang”
svolta dallo stesso curatore.
Fake
news, come la Cina sfrutta
i
motori di ricerca per
distorcere
le informazioni.
Cybersecitalia.it - Andrea Speziale – (14
Luglio 2022) -Redazione -Cybernotes – ci dice:
Da un
recente report è emerso come la Cina, attraverso i propri media controllati direttamente
dallo Stato, sia in grado di influenzare i risultati dei motori di ricerca più
utilizzati nel mondo.
“Quando
scoppia la guerra, la prima vittima è la verità.”
(Hiram Johnson - 1917).
SUW
2025.
Propaganda
e manipolazione delle informazioni sono armi note sin dall’antichità come mezzi
per spezzare il morale del nemico e vincere le guerre.
E non esiste luogo più favorevole del dominio
cibernetico per combattere un conflitto basato sulla distorsione dei fatti,
sulla disseminazione di notizie fuorvianti e sulla mistificazione della realtà.
Negli
ultimi anni sono stati pubblicati numerosi report su questo argomento,
diventato ancora più attuale per via della pandemia e, negli ultimi mesi, a
causa della guerra in Ucraina e delle continue campagne di propaganda portate
avanti dagli attori coinvolti.
Ovviamente,
quando si parla di disinformazione e fake news la prima cosa a cui si pensa
sono i social network, ma non ci sono solamente i falsi account Twitter, le
pagine complottiste su Facebook e i disinformatori su Telegram.
Esiste
un ambito a cui prestiamo meno attenzione e a cui sono stati dedicati meno
studi di settore, ma che è altrettanto importante e può influenzare gli utenti
della rete persino più dei social media:
i
motori di ricerca.
Il
COVID è americano e nello Xinjiang va tutto bene.
L’arte
di creare la propria verità.
Alla
fine del mese di maggio del 2022 è stato pubblicato un report scritto da alcuni
autori di due dei più importanti think tank dedicati alla geopolitica:”
Brookings Institution” e” German Marshall Fund Alliance for Securing Democracy”
(ASD).
Il
titolo è sicuramente molto evocativo
“Winning
the web: How Beijing exploits search results to shape views of Xinjiang and
COVID-19” e pone l’accento su una questione fondamentale che spesso però viene
trascurata da chi si occupa di propaganda in rete e guerre cibernetiche:
l’importanza dei motori di ricerca e dei risultati che restituiscono agli
utenti.
Da
questo report è emerso come la Cina, attraverso i propri media controllati
direttamente dallo Stato, sia in grado di influenzare i risultati dei motori di
ricerca più utilizzati nel mondo.
In
particolare, lo studio ha evidenziato come il governo di Pechino abbia
sfruttato i risultati restituiti dai principali motori di ricerca (Google e
Bing), dai siti aggregatori di notizie (Google News e Bing News) e da YouTube
per costruire una narrazione più favorevole alla Cina riguardo alcuni temi
considerati critici:
il
COVID-19 e la regione dello “Xinjiang”.
È un meccanismo
semplice: si producono tantissimi contenuti che riportano le informazioni
desiderate e si sotterrano (in senso digitale) le fonti che vogliamo
nascondere.
Fate
una prova: aprite Google, Bing, Google News, Bing News e YouTube e cercate
alcuni termini neutri come “Xinjiang” (per chi non lo sapesse, si tratta
di una regione cinese in cui il governo di Pechino sta mettendo in atto da
tempo campagne di internamento e sostituzione etnica ai danni della popolazione
autoctona degli Uiguri, al punto che oggi sempre più spesso si sente parlare di
“genocidio”).
Presumibilmente
non vi saranno restituiti risultati particolarmente anomali sui motori di
ricerca web. Al contrario, sugli aggregatori di notizie e su YouTube è alquanto
probabile che vedrete notizie provenienti da fonti governative cinesi o da
media legati a Pechino, che spesso riguardano la crescente economia della
regione.
Secondo
quanto riportato nello studio citato prima, le notizie sullo Xinjiang
provenienti da fonti filogovernative cinesi compaiono tra i primissimi
risultati dei siti aggregatori di notizie nell’88% dei casi, mentre su YouTube
la percentuale arriva addirittura al 98% (soprattutto se la ricerca effettuata
non è particolarmente “neutra”).
Al
contrario, le ricerche web subiscono questa influenza in percentuale nettamente
inferiore.
Nel
caso del COVID-19, al contrario, le ricerche effettuate inserendo termini
neutrali risultano molto “pulite”, probabilmente per via dell’enorme lavoro di
moderazione dei contenuti messo in atto dalle principali piattaforme durante la
pandemia.
Ma
anche in questo caso l’”operazione di contro narrazione cinese “è riuscita a
mostrare tutte le sue capacità.
Infatti,
dall’inizio della pandemia l’attività di disseminazione di notizie false
riguardo l’origine del COVID-19 è stata pressoché incessante e oggi non è raro
imbattersi in notizie che attribuiscono la colpa della pandemia agli Stati
Uniti e in particolare a un laboratorio nel Maryland.
Provate
ad andare su Google News o YouTube o Bing e cercate “Fort Detrick”, poi
verificate l’origine delle fonti dei risultati che avrete ottenuto.
Cina:
come si combatte la guerra del web.
Lo
scopo di tutto questo gigantesco apparato di propaganda è solo uno:
favorire
la narrazione di una buona Cina e mitigarne la percezione nel mondo, rendendo
più sfocata l’immagine del regime autoritario e repressivo che non rispetta i
diritti umani.
Per
raggiungere questo scopo è stato necessario adottare linguaggi e terminologie
adeguati, non solo per le questioni di Xinjiang e COVID-19, ma anche per Hong
Kong e Taiwan.
Un
esempio calzante di quest’uso del lessico per ridisegnare la realtà è dato
dalla strategia utilizzata dai media cinesi per contro narrare il genocidio
degli Uiguri.
Il
primo passo è stato quello di definirlo come “la bugia del secolo” per poi
spostare l’attenzione su un altro argomento, inondando la rete di contenuti con
specifici hashtag che rimandavano a un altro genocidio: quello dei nativi
americani.
Proprio
per questi motivi, nel report in questione vi è un lungo capitolo dedicato alle
possibili contromisure attuabili sia dalle aziende che gestiscono i motori di
ricerca -ad esempio proponendo sistemi per “etichettare” i siti web,
identificando quelli che promuovono contenuti di maggiore qualità e
distinguendoli da quelli che operano per disseminare disinformazione- sia dai
creatori di contenuti, che dovrebbero adottare sistemi per portare in alto nei
motori di ricerca i propri articoli adattandoli alle abitudini di ricerca degli
utenti della rete.
È
difficile prevedere come evolverà nei prossimi anni la guerra delle narrazioni:
se
prevarrà una rete il più possibile “pulita” e senza contenuti pilotati da
attori statali e non (almeno per quanto riguarda le democrazie occidentali) o se i motori di ricerca e gli
aggregatori di notizie finiranno sepolti dagli articoli creati appositamente
dagli apparati di propaganda.
L’unica
certezza, purtroppo, è che finora la grande vittima di questa guerra mondiale
digitale è stata la verità.
Von
der Leyen di fronte a due
mozioni
di sfiducia. La maggioranza
dell’Eurocamera
le fa scudo.
Eunews.it
- Enrico Pascarella – (6 Ottobre 2025) - in Politica – ci dice:
Destra
e sinistra contro la presidente delle Commissione.
Bardella
(Pfe): “E' stata firmata con Trump la resa commerciale dell'Europa”. Per Manon
Aubry (The Left) "la Commissione è complice del genocidio a Gaza a causa
della sua inazione.”
Mozione
di sfiducia.
Dall’inviato
a Strasburgo – Due mozioni, due voti e due discorsi contro la presidente della
Commissione europea, Ursula von der Leyen.
Oggi
(6 ottobre), nella prima giornata dell’Assemblea plenaria di Strasburgo, le due
ali estreme del Parlamento – Patrioti per l’Europa (PfE) e La Sinistra (The
Left) – hanno presentato due proposte distinte per far cadere la Commissione.
“Votare
la sfiducia non significa votare contro l’Europa, ma salvarla” ha affermato “Jordan
Bardella”, presidente del gruppo dei Patrioti.
Per “Manon Aubry”, capogruppo di “The Left”, invece,
la presidente si deve dimettere perché è “complice del genocidio a Gaza a causa
della sua inazione”.
Le
proposte saranno votate giovedì 9 ottobre, sapendo già quasi con certezza di
non riuscire a ottenere l’obiettivo dei due terzi dei voti, visto che nessuno
tra Socialisti & Democratici, Verdi, Renew o i Conservatori si è detto
disponibile a sostenerle.
In ogni caso, le due iniziative hanno alcune
affinità, anche se i due gruppi non le appoggeranno vicendevolmente.
Le
mozioni di censura.
I
Patrioti si sono concentrati sui problemi economici e sugli allargamenti
“insensati” dell’Unione.
Come
affermato da “Bardella”:
“Con l’annessione della Turchia avremo come
confini Stati come Siria e Iraq”, mentre sul tema degli accordi con gli Stati
Uniti “è stata firmata con Trump la resa commerciale dell’Europa”.
Le
critiche più aspre sono rivolte all’accordo commerciale con il “Mercosur” e,
soprattutto, alla proposta sulla “nuova PAC” (Politica agricola comune), “che
ha messo in ginocchio gli agricoltori”.
Molti
di questi punti sono cari anche alla Sinistra.
Aubry ha sottolineato come “la presidente ha chiuso
l’accordo con l’America Latina aggirando i governi nazionali, uccidendo la
nostra agricoltura e uccidendoci con pesticidi pericolosi”.
La Sinistra, a differenza dei Patrioti, ha
dato però grande peso alla crisi a Gaza.
“La
Commissione si è rifiutata di interrompere ogni rapporto commerciale con
Israele, mentre siamo al 19° pacchetto di sanzioni contro la Russia” ha
ricordato la capogruppo di “The Left”.
A “Manon
Aubry”, capogruppo di The Left:
La
risposta di von der Leyen.
La
risposta della presidente è stata senza pathos né paura.
La
consapevolezza che le due mozioni non otterranno il sostegno dell’emiciclo le
ha dato l’occasione per un nuovo discorso di unità, basato sulla gravità delle
minacce esterne.
“Il
nostro mondo si trova nella situazione più precaria e pericolosa degli ultimi
decenni.
E
l’Europa è in stato di massima allerta, a causa delle incursioni spericolate
nel nostro spazio aereo”.
L’accusa
ai suoi critici è quella di vantarsi delle “crepe dell’edificio dell’Europa e
della unità scossa all’interno della nostra Unione”.
Tra i
Popolari, la voce grossa al posto della presidente l’ha fatta il collega
“Manfred Weber”, capogruppo del PPE (Partito Popolare Europeo):
“Avete
usato questa mozione di sfiducia come semplice strumento di propaganda;
spero
che abbiate raccolto abbastanza video per la vostra campagna social”.
I
punti di contatto tra le due iniziative non sono sfuggiti a Weber, che ha
suggerito ai due di fondare “un nuovo partito che si chiama WAAA (We Are
Against, Siamo contrari, ndr)”, aggiungendo che, mentre von der Leyen trattava
con Trump, i principali leader dei Patrioti erano concentrati a fare altro.
“Matteo
Salvini – ha continuato il capogruppo – nuotava tra giocattoli gonfiabili”.
Manfred
Weber, capogruppo del PPE (Partito Popolare Europeo).
La
maggioranza.
Weber
può però esultare poco.
Tra le
fila della maggioranza, non è certo tutto rosa e fiori.
La
presidente di S&D (Socialisti e Democratici),” Iratxe García Pérez”, ha
alzato i toni contro von der Leyen:
“Si è
prostrata davanti a Trump”, ma, nonostante il malcontento, “non voteremo per
sostenere la mozione della Sinistra”.
In un
clima di accuse spudorate, il più moderato (contro ogni pronostico) sembra
essere “Nicola Procaccini”, capogruppo dei Conservatori europei. Riferendosi
all’accordo con Trump, ha strizzato l’occhio alla maggioranza:
“Non si tratta dell’accordo perfetto, ma del
migliore possibile”. L’italiano si è lasciato andare anche a un ammonimento
rivolto alle sinistre europee:
“È interessante notare come non si colga il
nesso di causa-effetto che c’è tra il “Green Deal” e un malessere sociale, ed è
uno dei motivi per cui gli europei stanno votando per la destra e non per la
sinistra”.
Tucker
Carlson e
la resurrezione del “movimento
per la
verità” sull'11 settembre.
Ron
Unz • (6 ottobre 2025) -Tucker Carlson – Redazione - ci dice:
La
scorsa settimana ho pubblicato un articolo sull'uscita della nuova serie di
Tucker Carlson sull'11 settembre, suggerendo che aveva il potenziale per
resuscitare l'ormai dormiente movimento per la verità sull'11 settembre.
Ogni
anno, quegli eventi epocali del 2001 erano stati oggetto di sempre meno
discussioni.
Nel
recente ventiquattresimo anniversario, sono passati quasi totalmente
inosservati, completamente spazzati via dalla massiccia ondata di attenzione
pubblica data all'assassinio del giovane leader conservatore “Charlie Kirk” il
giorno prima, il 10 settembre.
“Carlson”
era stato un caro amico di Kirk, quindi naturalmente ha ritardato l'uscita
della sua nuova serie fino alla fine del mese, ma ho scoperto che valeva la
pena aspettare quando finalmente è apparsa.
I molti, molti milioni di visualizzazioni che
sia gli elementi della serie stessa che la sua copertura mediatica secondaria
avevano ricevuto su YouTube sembravano convalidare il mio verdetto.
Per
circa il primo decennio o giù di lì dopo quei massicci attacchi terroristici,
non avevo mai prestato molta attenzione a loro né messo seriamente in
discussione la versione ufficiale, che avevo supposto fosse in gran parte
corretta.
Anche
se avevo sempre avuto l'impressione che si fosse verificata una sorta di
insabbiamento, avevo pensato che avesse lo scopo di nascondere l'incompetenza e
gli errori piuttosto che qualcosa di più sinistro.
Ma poi
mi sono gradualmente imbattuto in abbastanza elementi anomali da convincermi
che la versione ufficiale era in gran parte falsa e che l'America era stata
attaccata da forze molto più capaci e meglio organizzate diciannove arabi
armati di taglierini, ispirati da un leader malato che abitava in una grotta
dell'Afghanistan.
A
questo punto ho scoperto il vasto mondo sotterraneo dei “Truthers” dell'11
settembre.
Dal
2001 il loro movimento ha dato origine a una vasta gamma di organizzazioni,
sforzi di ricerca e libri, la cui esistenza non avevo mai sospettato.
Digerendo
la loro grande mole di materiale, mi sono subito reso conto che generalmente
rientrava in due diverse categorie, di solito disgiunte l'una dall'altra.
La
maggior parte del “movimento per la verità sull'11 settembre”, comprese le sue
figure di spicco e organizzazioni come “David Ray Griffin”, “Richard Gage” e “Architects
and Engineers for 9/11 Truth” (AE911) hanno tutti concentrato i loro sforzi
sulla dimostrazione dei gravi e paralizzanti difetti della versione ufficiale,
sostenendo che gli attacchi non sarebbero stati compiuti nel modo in cui le
autorità sostenevano.
Ma
pochi, se non nessuno, di questi individui ha tentato di fornire una narrazione
alternativa dettagliata, per non parlare di indirizzare la cifra della colpa
verso qualche altro possibile colpevole.
Tuttavia,
solo quando questa prima fase è stata raggiunta con successo, le persone hanno
potuto ragionevolmente iniziare a prendere in considerazione un'ipotesi
alternativa, compresa la questione cruciale di chi fosse stato effettivamente
responsabile degli attacchi terroristici.
Ho
spesso chiamato questi due segmenti le fasi "Cosa è successo?" e
"Chi l'ha fatto?" dell'indagine.
Avevo
implicitamente applicato questo schema alla mia analisi dell'11 settembre a
partire dal mio primo articolo del 2018 , e l'ho reso esplicito in tutti i miei
successivi, seguendo lo stesso approccio nella mia analisi di altri eventi
storici estremamente controversi come l'”assassinio di JFK” o anche il “recente
assassinio di “Charlie Kirk”.
La
nuova serie di Carlson ovviamente rientra perfettamente in questa prima
categoria, con questo breve trailer che proclama coraggiosamente che
"Tutto ciò che ci è stato detto sull'11 settembre era una bugia" e le
oltre due ore del suo documentario in cinque parti che mantiene questa
affermazione.
Anche
se ha fornito alcuni indizi suggestivi e frammenti di prova riguardanti i veri
colpevoli, non erano altro che questo, e questo ha portato alcuni dei “Truthers”
più aggressivi, non ultimo sul nostro sito web, a condannarlo come un
"guardiano". Ma penso che questa sia una valutazione estremamente
errata, poiché dovrebbe applicarsi anche alla stragrande maggioranza dei
sostenitori della verità sull'11 settembre, comprese le figure e le
organizzazioni di spicco di quel movimento.
Un
"guardiano" è qualcuno che fornisce una quantità molto limitata di
verità e poi attacca ferocemente chiunque cerchi di andare oltre.
In
netto contrasto, un "apriporta" è qualcuno che getta le basi per
coloro che desiderano costruire sul suo lavoro e ampliarlo, e Carlson rientra
chiaramente in questa seconda categoria.
Avevo
brevemente riassunto e rivisto i contenuti dei cinque episodi di Carlson la
scorsa settimana e ho trovato eccellente la sua serie complessiva.
Solo
un paio di settimane dopo l'uscita iniziale, quella serie non solo ha attirato
milioni di visualizzazioni su Internet, ma anche milioni di visualizzazioni per
le sue interviste secondarie e discussioni su spettacoli relativamente
mainstream come quelli di “Piers Morgan”, i” Giovani Turchi” e “Glenn Greenwald”,
raggiungendo un pubblico non cospirazionista che altrimenti non avrebbe mai
incontrato queste idee molto controverse.
La
maggior parte dei conduttori sembrava ammettere che “Carlson” aveva
probabilmente ragione e che la versione ufficiale dell'11 settembre era falsa e
un insabbiamento.
La conoscenza degli attacchi era nota in
anticipo e le torri del WTC probabilmente non furono distrutte dagli aerei
pilotati dai dirottatori arabi.
Questo
ha naturalmente aperto le loro menti e quelle dei loro milioni di spettatori
alla ricerca dell'identità dei veri responsabili degli attacchi e delle loro
vere motivazioni.
Così, Carlson ha spalancato alcune porte e ora
era responsabilità di altri sfruttare appieno quelle opportunità.
Penso
che tale copertura mediatica secondaria sia una metrica cruciale dell'impatto.
Quando
ho consultato “Kevin Barrett”, che era stato un sostenitore della verità
sull'11 settembre fin dall'inizio, era d'accordo sul fatto che un gran numero
di documentari sull'11 settembre erano stati prodotti nella prima dozzina di
anni dopo gli attacchi, ma si erano ridotti quasi a zero nell'ultimo decennio,
e durante quest'ultimo periodo non avevano quasi mai ricevuto alcuna copertura
mediatica secondaria non cospirativa.
I
documentari sulla cospirazione guardati dai credenti della cospirazione
equivalgono essenzialmente a cheerleading ideologici, e sono molto meno
importanti di quelli che penetrano con successo in circoli molto più ampi e più
tradizionali.
Secondo
“Barrett”, il documentario più completo sull'11 settembre è stato “September
11: The New Pearl Harbor”, uscito nel 2013 e della durata di cinque ore.
Abbastanza
sorprendentemente, a quanto pare era stato disponibile su YouTube per tutta la
dozzina di anni dalla sua uscita, diviso in tre lunghi video.
L'ho trovato altrettanto completo ed
eccellente come mi era stato suggerito, coprendo quei punti in modo esaustivo e
dettagliato, e consiglio vivamente di guardarlo a coloro che possono
risparmiare tempo.
Presi
insieme, i tre lunghi video hanno accumulato circa 1,7 milioni di
visualizzazioni, probabilmente la maggior parte di essi si è verificata vicino
al momento dell'uscita.
Sfidare
la storia ufficiale del crollo delle torri del WTC, compreso l'edificio 7,
rappresenta il cuore del caso “Truther” dell'11 settembre, e questo
documentario fa il lavoro più accurato e completo che io abbia mai visto in un
video.
Questa
lunga sezione si chiama "Parte 6: Le Torri Gemelle" e inizia circa a
metà del secondo video , quindi coloro che non sono disposti a guardare tutte
le cinque ore potrebbero voler iniziare da lì.
Un
aspetto cruciale degli attacchi dell'11 settembre è che c'è una quantità di
prove che dimostrano che la versione ufficiale è in gran parte, forse quasi del
tutto falsa, che diversi investigatori possono scegliere di concentrarsi su
sottoinsiemi completamente non sovrapposti di tali prove, prendendo così strade
completamente diverse pur raggiungendo la stessa conclusione finale.
Quindi,
anche se il documentario di una dozzina di anni fa è estremamente dettagliato,
si concentra solo su una frazione dei punti ora sollevati da Carlson, e la mia
analisi nel corso degli anni ha di solito evidenziato anche altri punti.
Per coloro che ora hanno concluso che la
versione ufficiale è falsa e sono passati alla seconda fase delle loro
indagini, compresa l'identità dei veri colpevoli, c'è un numero molto più
limitato di articoli e video da considerare, e consiglieri il mio, in parte
perché ho fatto del mio meglio per fare riferimento a molte di queste altre
risorse.
Negli
ultimi due anni sono state fatte poche nuove scoperte sull'11 settembre, quindi
rimarrei fedele all'analisi che ho fornito nel mio articolo per l'anniversario
del 2023.
Nel
corso degli anni, ricercatori diligenti e giornalisti coraggiosi hanno in gran
parte demolito la narrazione originale di quegli eventi, e hanno sostenuto con
forza, forse anche in modo schiacciante, che il Mossad israeliano insieme ai
suoi collaboratori americani ha svolto un ruolo centrale.
La mia
ricostruzione, basandosi sostanzialmente su queste prove accumulate, è giunta a
tali conclusioni, e quindi la ripubblico di seguito, tratta dai miei precedenti
articoli apparsi tra la fine del 2018 e l'inizio del 2020, con il materiale
successivo che faceva un uso massiccio dell'”autorevole storia del Mossad” di
Ronen Bergman del 2018 , che contava più di 750 pagine...
Gli
attacchi dell'11 settembre – Cosa è successo?
Anche
se in qualche modo correlati, gli omicidi politici e gli attacchi terroristici
sono argomenti distinti, e l'esauriente volume di Bergman si concentra
esplicitamente sui primi, quindi non possiamo biasimarlo per aver fornito solo
una leggera copertura dei secondi.
Ma il
modello storico dell'attività israeliana, specialmente per quanto riguarda gli
attacchi sotto falsa bandiera, è davvero notevole, come ho notato in un
articolo del 2018.
Uno
dei più grandi attacchi terroristici della storia prima dell'11 settembre è
stato l'attentato del 1946 al “King David Hotel di Gerusalemme” da parte di
militanti sionisti vestiti da arabi, che ha ucciso 91 persone e distrutto in
gran parte la struttura.
Nel
famoso affare Lavon del 1954 , gli agenti israeliani lanciarono un'ondata di
attacchi terroristici contro obiettivi occidentali in Egitto, con l'intenzione
di incolparli di gruppi arabi anti-occidentali.
Ci sono forti affermazioni secondo cui nel
1950 agenti del Mossad israeliano iniziarono una serie di attentati
terroristici sotto falsa bandiera contro obiettivi ebraici a Baghdad, usando
con successo quei metodi violenti per aiutare a persuadere la millenaria
comunità ebraica irachena a emigrare nello stato ebraico. Nel 1967, Israele
lanciò un deliberato attacco aereo e marittimo contro la” USS Liberty”, con
l'intenzione di non lasciare sopravvissuti, uccidendo o ferendo oltre 200
militari americani prima che la notizia dell'attacco raggiungesse la Sesta
Flotta e gli israeliani si ritirarono.
L'enorme
portata dell'influenza pro-Israele nei circoli politici e mediatici mondiali ha
fatto sì che nessuno di questi attacchi brutali abbia mai suscitato una seria
rappresaglia, e in quasi tutti i casi, sono stati rapidamente gettati nel buco
della memoria, così che oggi probabilmente non più di un americano su cento ne
è a conoscenza.
Inoltre, la maggior parte di questi incidenti
è venuta alla luce a causa di circostanze casuali, quindi possiamo facilmente
sospettare che molti altri attacchi di natura simile non siano mai entrati
lontano dalla parte della documentazione storica.
Di
questi famosi incidenti, “Bergman” menziona solo l'attentato al “King David
Hotel”.
Ma molto più avanti nel suo racconto, descrive
l'enorme ondata di attacchi terroristici sotto falsa bandiera scatenati nel
1981 dal ministro della Difesa israeliano “Ariel Sharon”, che reclutò un ex
alto funzionario del Mossad per gestire il progetto.
Sotto
la direzione israeliana, grandi autobombe hanno cominciato ad esplodere nei
quartieri palestinesi di Beirut e di altre città libanesi, uccidendo o ferendo
un numero enorme di civili.
Un
singolo attacco in ottobre ha inflitto quasi 400 vittime, e a dicembre c'erano
diciotto bombardamenti al mese, con la loro efficacia notevolmente migliorata
dall'uso della nuova tecnologia innovativa dei droni israeliani.
La responsabilità ufficiale di tutti gli
attacchi è stata rivendicata da un'organizzazione libanese precedentemente
sconosciuta, ma l'intento era quello di provocare l'”OLP” a una rappresaglia
militare contro Israele, giustificando così l'invasione pianificata da “Sharon”
del paese vicino.
Dal
momento che l'OLP si è ostinatamente rifiutata di abboccare, sono stati messi
in moto i piani per l'enorme bombardamento di un intero stadio sportivo di
Beirut con tonnellate di esplosivo durante una cerimonia politica del 1°
gennaio, con la morte e la distruzione che si prevede saranno "di
proporzioni senza precedenti, anche per quanto riguarda il Libano".
Ma i “nemici
politici di Sharon” vennero a conoscenza del complotto e sottolinearono che
molti diplomatici stranieri, tra cui l'ambasciatore sovietico, sarebbero stati
presenti e probabilmente sarebbero stati uccisi, così dopo un aspro dibattito,
il primo ministro Begin ordinò l'interruzione dell'attacco.
Un
futuro capo del Mossad menziona i grossi grattacapi che hanno dovuto affrontare
nel rimuovere la grande quantità di esplosivo che avevano già piazzato
all'interno della struttura.
Si
considera che uno degli argomenti principali addotti contro la teoria secondo
cui le torri del WTC sono state abbattute con una demolizione controllata è
l'obiezione che sarebbe stato impossibile piazzare segretamente una tale
quantità di esplosivo nella struttura.
Eppure
sappiamo che durante i primi anni '80 il Mossad israeliano è riuscito a
piazzare "tonnellate" di tali esplosivi in un enorme stadio sportivo
situato nella capitale di un paese arabo ostile, per poi rimuovere quegli
stessi esplosivi.
Nel frattempo, gli” edifici del WTC erano di
proprietà e controllati da “Larry Silverstein”, un fervente sionista, il che
avrebbe sicuramente reso l'accesso molto più facile.
L'attentato
allo stadio di Beirut da parte del Mossad avrebbe probabilmente ucciso molte,
molte migliaia di persone e costituisce il parallelo storico più vicino all'11
settembre.
Eppure,
a parte il fatto che ho notato e messo in evidenza quell'elemento sepolto nelle
750 pagine del libro di Bergman, è stato praticamente sconosciuto.
Stranamente,
per molti anni dopo l'11 settembre, ho prestato pochissima attenzione ai
dettagli degli attacchi stessi.
Ero
completamente preoccupato di costruire il mio sistema software di archiviazione
dei contenuti, e con il poco tempo che potevo dedicare alle questioni di
politica pubblica, ero totalmente concentrato sul disastro in corso nella
guerra in Iraq, così come sui miei terribili timori che Bush poteva in
qualsiasi momento estendere improvvisamente il conflitto all'Iran.
Nonostante
le menzogne dei neoconservatori riecheggiate spudoratamente dai nostri media
corrotti, né l'Iraq né l'Iran avevano avuto nulla a che fare con gli attacchi
dell'11 settembre, così quegli eventi sono gradualmente svaniti nella mia
coscienza, e sospetto che lo stesso sia stato vero per la maggior parte degli
altri americani.
Al
Qaeda era in gran parte scomparsa e Bin Laden si supponeva si nascondesse in
una grotta da qualche parte.
Nonostante
gli infiniti "allarmi" della “Homeland Security”, non c'era stato più
terrorismo islamico sul suolo americano, e relativamente poco altrove al di
fuori dell'ossario iracheno.
Quindi
i dettagli precisi dei complotti dell'11 settembre erano diventati quasi
irrilevanti per me.
Altri
che conoscevo sembravano pensarla allo stesso modo.
Praticamente
tutti gli scambi che ho avuto con il mio vecchio amico “Bill Odom”, il generale
a tre stelle che aveva diretto la “NSA” per “Ronald Reagan”, avevano riguardato
la guerra in Iraq e il rischio che potesse diffondersi in Iran, così come
l'amara rabbia che provava verso la perversione di Bush della sua amata NSA in
uno strumento extra-costituzionale di spionaggio interno.
Quando
il “New York Times” ha pubblicato la storia della massiccia estensione dello
spionaggio interno della “NSA”, il generale Odom ha dichiarato che il
presidente Bush doveva essere messo sotto accusa e il direttore della NSA “Michael
Hayden” portato alla corte marziale.
Ma in
tutti gli anni precedenti alla sua prematura scomparsa nel 2008 , non ricordo
che gli attacchi dell'11 settembre siano emersi nemmeno una volta come
argomento nelle nostre discussioni.
Certo,
avevo occasionalmente sentito parlare di alcune stranezze considerevoli
riguardo agli attacchi dell'11 settembre qua e là, e queste hanno certamente
sollevato alcuni sospetti.
Quasi
tutti i giorni davo un'occhiata alla prima pagina del “Antiwar.com” , sembrava
che alcuni agenti del Mossad israeliano fossero stati catturati mentre
filmavano gli attacchi aerei a New York, mentre una più grande operazione di
spionaggio del Mossad "studente d'arte" in tutto il paese era stata
smantellata nello stesso periodo.
A
quanto pare, “Fox News” aveva trasmesso una serie in più parti su quest'ultimo
argomento prima che la denuncia fosse affondata e "scomparsa" sotto
la pressione dell'ADL.
Anche
se non ero del tutto sicuro della credibilità di queste affermazioni, sembrava
plausibile che il Mossad fosse a conoscenza degli attacchi in anticipo e avesse
permesso loro enormi di procedere, riconoscendo gli benefici che Israele
avrebbe tratto dalla reazione anti-araba.
Credo
di essere stato vagamente consapevole del fatto che “Justin Raimondo”,
direttore editoriale di “Antiwar.com”, aveva pubblicato “The Terror Enigma” ,
un breve libro su alcuni di questi strani fatti, con il sottotitolo
provocatorio "9/11 and the Israeli Connection", ma non ho mai pensato
di leggerlo.
Nel
2007, la stessa “Counter punch” pubblicò un'affascinante storia sull'arresto di
quel gruppo di agenti del Mossad israeliano a New York, che erano stati
sorpresi a filmare e apparentemente celebrare gli attacchi aerei di quel
fatidico giorno, e l'attività del Mossad sembrava essere molto più grande di
quanto avessi precedentemente realizzato.
Inoltre,
più o meno nello stesso periodo mi ero imbattuto in un dettaglio sorprendente
degli attacchi dell'11 settembre che dimostrava la notevole profondità della
mia ignoranza.
In un articolo di “Counter punch”, avevo
scoperto che subito dopo gli attacchi, la presunta mente terrorista “Osama bin
Laden” aveva negato qualsiasi coinvolgimento , dichiarando persino che nessun
buon musulmano avrebbe commesso tali azioni.
Una
volta che ho controllato un po' in giro e ho confermato pienamente questo
fatto, sono rimasto sbalordito.
L'11 settembre non è stato solo l'attacco
terroristico di maggior successo nella storia del mondo, ma potrebbe essere
stato più grande nella sua grandezza fisica di tutte le operazioni
terroristiche passate messe insieme.
L'intero
scopo del terrorismo è quello di consentire a una piccola organizzazione di
mostrare al mondo che può infliggere gravi perdite a uno stato potente, e non
avevo mai sentito prima di un leader terrorista negare il suo ruolo in
un'operazione di successo, per non parlare della più grande della storia.
C'era qualcosa di estremamente sbagliato nella
narrazione generata dai media che avevo precedentemente accettato.
Cominciai
a chiedermi se fossi stato così illuso come le decine di milioni di americani
nel 2003 e nel 2004 che ingenuamente credevano che “Saddam” fosse la mente
dietro gli attacchi dell'11 settembre.
Viviamo
in un mondo di illusioni generate dai nostri media, e all'improvviso mi è
sembrato di aver notato una lacrima nelle montagne di cartapesta esposte sullo
sfondo di un palcoscenico hollywoodiano.
Se “Osama” non era probabilmente l'autore
dell'11 settembre, quali altre enormi falsità avrei accettato ciecamente?
Un
paio di anni dopo, mi sono imbattuto in un articolo molto interessante di “Eric
Margolis”, un eminente giornalista canadese di politica estera espulso dai
media radiotelevisivi per la sua forte opposizione alla guerra in Iraq.
Aveva
pubblicato a lungo una settimana sul “Toronto Sun” e quando quel mandato
terminò, usò la sua apparizione finale per pubblicare un pezzo a doppia
lunghezza esprimendo i suoi forti dubbi sulla storia ufficiale dell'11
settembre , notando anche che l'ex direttore dell'intelligence pakistana
insisteva sul fatto che “Israele era dietro gli attacchi”.
Alla
fine ho scoperto che nel 2003 l'ex ministro del governo tedesco “Andreas von
Bülow “aveva pubblicato un libro best-seller che suggeriva fortemente che la “CIA”
piuttosto che “Bin Laden” fosse dietro gli attacchi, mentre nel 2007 l'ex
presidente italiano” Francesco Cossiga” aveva sostenuto che la “CIA” e il “Mossad
israeliano” erano stati responsabili, sostenendo che questo fatto era ben noto
tra le agenzie di intelligence occidentali.
Nel
corso degli anni, tutte queste affermazioni discordanti hanno gradualmente
sollevato i miei sospetti sulla storia ufficiale dell'11/9 a livelli piuttosto
forti, ma è stato solo molto recentemente che ho finalmente trovato il tempo di
iniziare a indagare seriamente sull'argomento e leggere otto o dieci dei
principali libri di “Truther” sull'11/9 , per lo più quelli del “Prof. David
Ray Griffin”, leader ampiamente riconosciuto in questo campo.
E i
suoi libri, insieme agli scritti dei suoi numerosi colleghi e alleati, hanno
rivelato ogni sorta di dettagli molto significativi, la maggior parte dei quali
mi erano stati precedentemente sconosciuti.
Sono rimasto anche molto colpito dall'enorme
numero di individui apparentemente rispettabili e senza apparente inclinazione
ideologica che erano diventati aderenti al “movimento per la verità sull'11
settembre “nel corso degli anni.
Quando
per un periodo di molti anni vengono fatte affermazioni assolutamente
sorprendenti di natura estremamente controversa da numerosi accademici e altri
esperti apparentemente rispettabili, e vengono completamente ignorate o
soppresse ma mai efficacemente confutate, le conclusioni ragionevoli sembrano
puntare in una direzione ovvia.
Sulla
base delle mie letture molto recenti su questo argomento, il numero totale di
enormi difetti nella storia ufficiale dell'11 settembre è ora cresciuto
enormemente, probabilmente a molte decine.
La maggior parte di questi singoli elementi
sembrano ragionevolmente probabili e se decidiamo che anche solo due o tre di
essi sono corretti, dobbiamo rifiutare totalmente la narrazione ufficiale a cui
molti di noi hanno creduto per così tanto tempo.
Ora
sono solo un dilettante nel complesso mestiere dell'intelligenza di estrarre
pepite di verità da una montagna di falsità fabbricate.
Anche se le argomentazioni del “Movimento per
la Verità sull'11 settembre” mi sembrano abbastanza convincenti, ovviamente mi
sarei sentito molto più a mio agio se fossero state appoggiate da un
professionista esperto, come un analista della CIA.
Qualche
anno fa, sono rimasto scioccato nello scoprire che era proprio così.
“William
Christison” aveva trascorso 29 anni alla CIA, fino a diventare una delle sue
figure di spicco come “direttore dell'Ufficio di analisi regionale e politica”,
con 200 analisti di ricerca sotto di lui.
Nell'agosto
2006, pubblicò un notevole articolo di 2.700 parole che spiegava perché non
credeva più alla versione ufficiale dell'11 settembre e si sentiva sicuro che
il “rapporto della Commissione sull'11 settembre” costituisse un insabbiamento,
con la verità molto diversa.
L'anno successivo, fornì un forte sostegno a
uno dei libri di “Griffin” , scrivendo che "[C'è] un forte corpo di prova
che dimostra che la storia ufficiale del governo degli Stati Uniti su ciò che è
accaduto l'11 settembre 2001 è quasi certamente una mostruosa serie di
bugie".
E
l'estremo scetticismo di “Christison” sull'11 settembre è stato assecondato da
quello di molti altri ex professionisti dell'intelligence statunitense molto
apprezzati.
Ci si
potrebbe aspettare che se un ex ufficiale dell'intelligence della CIA del “range
di Christison” dovesse denunciare il rapporto ufficiale dell'11 settembre come
una frode e un insabbiamento, una storia del genere costituirebbe una notizia
da prima pagina.
Ma non
è mai stato riportato da nessuna parte nei nostri media mainstream, e mi sono
imbattuto in esso solo un decennio dopo.
Anche
i nostri presunti media "alternativi" sono rimasti quasi altrettanto
silenziosi. Nel corso degli anni 2000, “Christison” e sua moglie “Kathleen”,
anche lei ex analista della CIA, avevano collaborato regolarmente con “Counter punch”
, pubblicando molte dozzine di articoli ed essendo certamente i suoi scrittori
più accreditati su questioni di intelligence e sicurezza nazionale.
Ma
l'editore “Alexander Cockburn” si rifiutò di pubblicare il loro scetticismo
sull'11 settembre, quindi non venne mai alla mia attenzione all'epoca.
In
effetti, quando un paio di anni fa ho menzionato le opinioni di “Christison”
all'attuale direttore di “Counter punch” “Jeffrey St. Clair”, è rimasto
sbalordito nello scoprire che l'amico che aveva tenuto in grande considerazione
era in realtà diventato un "sostenitore della verità sull'11
settembre".
Quando
gli organi dei media fungono da guardiani ideologici, una condizione di
ignoranza diffusa diventa inevitabile.
Con
così tante lacune nella storia ufficiale degli eventi di diciassette anni fa,
ognuno di noi è libero di scegliere di concentrarsi su quelli che personalmente
considerano più persuasivi, e io ne ho diversi miei.
Il
professore di chimica danese “Niels Harrit” è stato uno degli scienziati che ha
analizzato le macerie degli edifici distrutti e ha rilevato la presenza residua
di “nano-termite”, un composto esplosivo di livello militare, e l'ho trovato
abbastanza credibile durante la sua intervista di un'ora su “Red Ice Radio”.
L'idea
che un passaporto di un distruttore non danneggiato sia stata trovata in una
strada di New York dopo la massiccia e infuocata distruzione dei grattacieli è
totalmente assurda, così come lo è stata l'affermazione che il distruttore ha
convenientemente perso il suo patrimonio in uno degli aeroporti e si è scoperto
che conteneva una grande massa di informazioni incriminanti.
Le
testimonianze delle decine di vigili del fuoco che hanno sentito le esplosioni
poco prima del crollo degli edifici sembrano del tutto inspiegabili secondo la
versione ufficiale.
Anche l'improvviso crollo totale dell'edificio
sette, mai colpito da alcun aereo di linea, è estremamente implausibile.
Gli
attacchi dell'11 settembre: chi è stato?
Supponiamo
ora che il peso schiacciante delle prove sia corretto, e concordiamo con ex
analisti di intelligence della CIA di alto rango, illustri accademici e
professionisti esperti che gli attacchi dell'11 settembre non sono stati ciò
che sembravano.
Riconosciamo
l'estrema implausibilità che tre enormi grattacieli di New York siano
improvvisamente crollati a velocità di caduta libera sulle loro impronte dopo
che solo due di essi sono stati colpiti da aerei, e anche che un grande aereo
di linea civile probabilmente non ha colpito il Pentagono lasciando dietro di
sé assolutamente nessun relitto e solo un piccolo buco.
Cosa è
successo in realtà e, soprattutto, chi ne è stato responsabile?
Alla
prima domanda è ovviamente impossibile rispondere senza un'indagine ufficiale,
onesta e approfondita delle prove.
Fino a
quando ciò non accadrà, non concede essere sorpresi che numerose ipotesi, in
qualche modo contrastanti, siano state avanzate e dibattute all'interno dei
confini della “comunità della Verità sull'11 settembre”.
Ma la
seconda domanda è probabilmente la più importante e rilevante, e penso che
abbia sempre rappresentato una fonte di estrema debolezza per i sostenitori
della verità sull'11 settembre.
L'approccio
più tipico, come generalmente seguito nei numerosi libri di Griffin, è quello
di evitare completamente la questione e concentrarsi esclusivamente sui difetti
della narrazione ufficiale.
Questa è una posizione perfettamente
accettabile, ma lascia ogni sorta di seri dubbi.
Quale gruppo organizzato sarebbe stato
sufficientemente potente e audace da portare a termine un attacco di così vasta
portata contro il cuore centrale dell'unica superpotenza mondiale?
E come sono stati in grado di orchestrare un
insabbiamento mediatico e politico così massicciamente efficace, arruolando
anche la partecipazione dello stesso governo degli Stati Uniti?
La
frazione molto più piccola di “Truthers” sull'11 settembre che sceglie di
affrontare questa domanda sul "whodunit" essere concentrata in modo
schiacciante tra gli attivisti di base sembra piuttosto che tra i prestigiosi
esperti, e di solito rispondono "inside job!".
La
loro convinzione diffusa sembra essere che i vertici politici
dell'amministrazione Bush, tra cui probabilmente il vicepresidente “Dick Cheney”
e il segretario alla Difesa “Donald Rumsfeld”, hanno organizzato gli attacchi
terroristici, con o senza la conoscenza del loro “ignorante superiore nominale”,
il presidente George W. Bush.
I
motivi suggeriti includevano la giustificazione di attacchi militari contro
vari paesi, il sostegno agli interessi finanziari della potente industria
petrolifera e del complesso militare-industriale e la distruzione delle
tradizionali libertà civili americane.
Dal
momento che la stragrande maggioranza dei “sostenitori della verità”
politicamente attivi sembra provenire dall'estrema sinistra dello spettro
ideologico, richiedendo queste nozioni logiche e quasi auto-evidenti.
Pur
non approvando esplicitamente quelle cospirazioni di “Truther”, il successo al
botteghino di sinistra del regista “Michael Moore Fahrenheit 9/11” sembrava
sollevare sospetti simili.
Il suo documentario a basso budget ha
guadagnato l'incredibile cifra di 220 milioni di dollari suggerendo che gli
stretti legami d'affari tra la famiglia Bush, Cheney, le compagnie petrolifere
e sauditi sono stati responsabili delle conseguenze della guerra in Iraq a
seguito degli attacchi terroristici, così come la repressione interna delle
libertà civili, che era parte integrante dell'agenda repubblicana di destra.
Purtroppo,
questo quadro apparentemente plausibile sembra non avere quasi alcun fondamento
nella realtà.
Durante
il viaggio verso la guerra in Iraq, ho letto gli articoli del “Times” che
intervistavano numerosi petrolieri di alto livello in Texas che esprimevano
totale perplessità sul perché l'America stessa progettando di attaccare Saddam,
dicendo che potevano solo presumere che il presidente Bush sapesse qualcosa che
loro stessi non sapevano.
I
leader dell'Arabia Saudita erano categoricamente contrari a un attacco
americano all'Iraq, e ha fatto ogni sforzo per prevenirlo.
Prima
di entrare nell'amministrazione Bush, “Cheney” era stato amministratore
delegato della “Halliburton”, un gigante dei servizi petroliferi, e la sua
azienda aveva fatto forti pressioni per la revoca delle sanzioni economiche
statunitensi contro l'Iraq.
“ l
Prof. James Petras”, uno studioso di forti tendenze marxiste, ha pubblicato un
eccellente libro nel 2008 intitolato “Sionismo, Militarismo e il Declino del
Potere degli Stati Uniti”, in cui ha dimostrato in modo conclusivo che gli”
interessi sionisti”, piuttosto che” quelli dell'industria petrolifera”, hanno
dominato l'amministrazione Bush sulla scia degli attacchi dell'11 settembre e
promosso la guerra in Iraq.
Per
quanto riguarda il film di “Michael Moore”, ricordo che all'epoca mi feci una
risata con un mio amico (ebreo), trovando entrambi ridicolo che un governo così
sfacciatamente permeato da fanatici neoconservatori filo-israeliani venisse
dipinto come schiavo dei sauditi.
Non solo la trama del film di” Moore”
dimostrava il “temibile potere della Hollywood ebraica, ma il suo enorme
successo suggeriva che la maggior parte del pubblico americano apparentemente
non aveva mai sentito parlare dei neoconservatori.
I
critici di Bush hanno giustamente ridicolizzato il presidente per la sua
dichiarazione imbarazzata che i terroristi dell'11 settembre avevano attaccato
l'America "per le sue libertà" e i sostenitori della verità hanno
ragionevolmente bollato come non plausibili le affermazioni secondo cui i
massicci attacchi sono stati organizzati da un predicatore islamico che viveva
nelle caverne.
Ma
l'idea che siano stati guidati e organizzati dalle figure di spicco
dell'amministrazione Bush sembra ancora più assurda.
“Cheney”
e “Rumsfeld” avevano entrambi da decenni come sostenitori dell'ala
moderatamente pro-business del Partito Repubblicano, ciascuno in posizioni
governative di alto livello e anche come amministratori delegati di grandi
aziende.
L'idea
che hanno coronato la loro carriera unendosi a una nuova amministrazione
repubblicana all'inizio del 2001 e che quasi immediatamente si siano messi a
organizzare un “gigantesco attacco terroristico sotto falsa bandiera” contro le
torri più orgogliose della nostra più grande città insieme al nostro quartier
generale militare nazionale, con l'intenzione di uccidere molte migliaia di
americani nel processo, è troppo ridicola per far parte di una satira politica
di sinistra.
Facciamo un passo indietro.
In tutta la storia del mondo, non riesco a
pensare a nessun caso documentato in cui la massima leadership politica di un
paese ha lanciato un grande attacco sotto falsa bandiera contro i propri centri
di potere e di finanza e ha cercato di uccidere un gran numero di persone.
L'America del 2001 era un paese pacifico e
prospero, governato da leader politici relativamente blandi concentrati sui
tradizionali obiettivi repubblicani di attuare tagli alle tasse per i ricchi e
ridurre le normative ambientali.
Troppi
attivisti di “Truther” hanno apparentemente tratto la loro comprensione del
mondo dalle caricature dei fumetti di sinistra in cui i repubblicani aziendali
sono tutti diabolici “Dr. Evil”, che cercano di uccidere gli americani per pura
malevolenza, e “Alexander Cockburn” aveva assolutamente ragione a
ridicolizzarli , almeno su questo particolare punto.
Considera
anche i semplici aspetti pratici della situazione.
La
natura gigantesca degli attacchi dell'11 settembre, come postulato dal “movimento
per la verità”, avrebbe chiaramente richiesto un'enorme pianificazione e
probabilmente avrebbe comportato il lavoro di molte dozzine o addirittura
centinaia di agenti qualificati.
Ordinare agli agenti della CIA o alle unità
militari speciali di organizzare attacchi segreti contro obiettivi civili in
Venezuela o nello Yemen è una cosa, ma dirigerli a organizzare attacchi contro
il Pentagono e il cuore di New York City sarebbe irto di rischi stupendi.
Bush
aveva perso il voto popolare nel novembre 2000 ed era arrivato alla Casa Bianca
solo a causa di alcuni problemi in Florida e della controversa decisione di una
Corte Suprema profondamente divisa.
Di conseguenza, la maggior parte dei media
americani considerava la sua nuova amministrazione dotata di enorme ostilità.
Se il
primo atto di una tale squadra presidenziale appena insediata avesse avuto
l'ordine alla CIA o all'esercito di preparare attacchi contro New York City e
il Pentagono, sicuramente quegli ordini sarebbero stati considerati come emessi
da un gruppo di pazzi e sarebbero immediatamente trapelati alla stampa
nazionale ostile.
L'intero
scenario dei principali leader americani come le menti dietro l'11 settembre è
oltre il ridicolo, e quei sostenitori della verità sull'11 settembre che fanno
o implicano tali affermazioni – facendolo senza un solo straccio di prova
solida – hanno purtroppo giocato un ruolo importante nello screditare il loro
intero movimento.
In effetti, il significato comune dello
scenario del "lavoro interno" è così palesemente assurdo e
controproducente che si potrebbe persino sospettare che l'affermazione sia
stata incoraggiata da coloro che “cercano di screditare l'intero movimento per
la verità sull'11 settembre”.
L'attenzione
su “Cheney” e “Rumsfeld” sembra particolarmente mal indirizzata. Anche se non
ho mai incontrato né avuto a che fare con nessuno di questi individui, sono
stato molto attivamente coinvolto nella politica di Washington durante gli anni
'90, e posso dire con una certa certezza che prima dell'11 settembre,” nessuno
dei due era considerato neocon”.
Invece, erano gli esempi archetipici dei
repubblicani tradizionali moderati di tipo imprenditoriale, che risalgono ai
loro anni ai vertici dell'amministrazione Ford durante la metà degli anni '70.
Gli
scettici di questa affermazione potrebbero notare che hanno firmato la
dichiarazione del 1997 emessa dal “Project for the New American Century”
(PNAC), un importante manifesto di politica estera neoconservatore organizzato
da “Bill Kristol”, ma lo considererei una sorta di falsa pista.
Nei
circoli di Washington, gli individui reclutano sempre i loro amici per firmare
varie dichiarazioni, che possono o non possono essere indicativi di qualcosa, e
ricordo che” Kristol” ha cercato di convincermi a firmare anche la
dichiarazione del PNAC.
Dal
momento che le mie opinioni personali su quella questione erano assolutamente
contrarie al 100% alla posizione dei neoconservatori, che consideravo una
follia in politica estera, ho deviato la sua richiesta e l'ho rifiutato molto
educatamente.
Ma
all'epoca ero abbastanza amico di lui, quindi se fossi stato una persona senza
opinioni forti in quel campo, probabilmente sarei stato d'accordo.
Questo
solleva un punto più ampio.
Nel
2000, i neoconservatori avevano ottenuto il controllo quasi totale di tutti i
principali media conservatori/repubblicani e delle ali di politica estera di
quasi tutti i think tank allineati in modo simile a Washington, eliminando con
successo la maggior parte dei loro oppositori tradizionali.
Così,
anche se “Cheney e Rumsfeld” non erano neoconservatori, nuotavano in un mare
neoconservatore, con una frazione molto grande di tutte le informazioni che
ricevevano provenienti da tali fonti e con i loro aiutanti di punta come
"Scooter" Libby, “Paul Wolfowitz” e “Douglas Feith” che erano
neoconservatori.
Rumsfeld era già un po' anziano mentre Cheney
aveva subito diversi attacchi di cuore a partire dall'età di 37 anni, quindi in
quelle circostanze potrebbe essere stato relativamente facile per loro essere
spostati verso certe posizioni politiche.
In
effetti, l'intera demonizzazione di “Cheney e Rumsfeld” nei circoli contrari
alla guerra in Iraq mi è sembrata in qualche modo sospetta.
Mi
sono sempre chiesto se i media liberali, fortemente ebraici, hanno concentrato
la loro ira su quei due individui al fine di deviare la colpa dai
neoconservatori ebrei che erano gli ovvi ideatori di quella politica
disastrosa;
e lo
stesso può essere vero per i “sostenitori della verità sull'11 settembre”, che
probabilmente temevano accuse di antisemitismo.
Riguardo a questo primo problema, nel 2003 un
eminente editorialista israeliano è stato tipicamente schietto sulla questione,
suggerendo fortemente che 25 intellettuali neoconservatori, quasi tutti ebrei,
erano i principali responsabili della guerra.
In
circostanze normali, il presidente stesso sarebbe stato sicuramente ritratto
come la mente malvagia dietro il complotto dell'11 settembre, ma "W"
era troppo noto per la sua ignoranza perché tali accuse fossero credibili.
Sembra
del tutto plausibile che “Cheney, Rumsfeld e altri leader di Bush” possano
essere stati manipolati per intraprendere certe azioni che hanno
inavvertitamente favorito il complotto dell'11 settembre, mentre alcuni
incaricati di Bush di livello inferiore potrebbero essere stati coinvolti più
direttamente, forse anche come veri e propri cospiratori.
Ma non
credo che questo sia il significato usuale dell'accusa di "lavoro
interno".
A che
punto siamo?
Sembra molto probabile che gli attacchi
dell'11 settembre siano stati opera di un'organizzazione molto più potente e
professionalmente qualificata di una banda di diciannove arabi armati di
taglierini, ma anche che è molto improbabile che gli attacchi siano stati opera
dello stesso governo americano.
Quindi,
chi ha attaccato il nostro paese in quel fatidico giorno di diciassette anni
fa, uccidendo migliaia di nostri concittadini?
Le
operazioni di intelligence efficaci sono nascoste in una sala degli specchi,
spesso estremamente difficili da penetrare per gli estranei, e gli attacchi
terroristici sotto falsa bandiera rientrano certamente in questa categoria.
Ma se
applichiamo una metafora diversa, la complessità di tali eventi può essere
vista come un nodo gordiano, quasi impossibile da districare, ma vulnerabile al
colpo di spada di porre la semplice domanda "Chi ne ha beneficiato?"
L'America
e la maggior parte del mondo certamente non lo fecero, e le disastrose eredità
di quel fatidico giorno hanno trasformato la nostra società e distrutto molti
altri paesi.
Le
infinite guerre americane presto scatenate ci sono già costate molti trilioni
di dollari e hanno messo la nostra nazione sulla strada della bancarotta,
uccidendo o sfollando molti milioni di innocenti mediorientali.
Più di recente, l'ondata di profughi disperati
ha iniziato a travolgere l'Europa, e la pace e la prosperità di quell'antico
continente sono ora pesantemente minacciate.
Le
nostre tradizionali libertà civili e le protezioni costituzionali sono state
drasticamente erose, con la nostra società che ha fatto lunghi passi avanti per
diventare un vero e proprio stato di polizia.
I
cittadini americani ora accettano passivamente violazioni inimmaginabili delle
loro libertà personali, tutte originariamente iniziate con il pretesto di
prevenire il terrorismo.
Trovo
difficile pensare a qualsiasi paese al mondo che abbia chiaramente guadagnato a
seguito degli attacchi dell'11 settembre e della reazione militare americana,
con una sola, solitaria eccezione.
Durante
il 2000 e la maggior parte del 2001, l'America era un paese pacifico e
prospero, ma una piccola nazione del Medio Oriente si era trovata in una
situazione sempre più disperata.
Sembrava
allora che Israele stesse lottando per la sua vita contro le massicce ondate di
terrorismo interno che costituivano la “Seconda Intifada palestinese”.
Si
credeva che “Ariel Sharon” avesse deliberatamente provocato quella rivolta nel
settembre 2000 marciando verso il “Monte del Tempio” sostenuto da un migliaio
di poliziotti armati, e la conseguente violenza e polarizzazione della società
israeliana lo avevano insediato con successo come Primo Ministro all'inizio del
2001.
Ma una
volta in carica, le sue misure brutali non sono riuscite a porre fine
all'ondata di attacchi continui, che ha assunto sempre più la forma di
attentati suicidi contro obiettivi civili.
Molti
credevano che la violenza avrebbe presto innescato un enorme deflusso di
cittadini israeliani, forse producendo una spirale mortale per lo Stato
ebraico. “L'Iraq, l'Iran, la Libia” e altre grandi potenze musulmane
sostenevano i palestinesi con denaro, retorica e talvolta armi, e la società
israeliana sembrava vicina al collasso.
Ricordo
di aver sentito da alcuni dei miei amici di Washington che numerosi esperti di
politica israeliana stavano improvvisamente cercando posti nei think tank
neoconservatori in modo da potersi trasferire in America.
“Sharon”
era un leader notoriamente sanguinario e spericolato, con una lunga storia di
scommesse strategiche di sorprendente audacia, a volte scommettendo tutto su un
singolo lancio di dadi.
Aveva
passato decenni a cercare “la carica di Primo Ministro”, ma dopo averla
finalmente ottenuta, ora si trovava con le spalle al muro, senza alcuna fonte
di salvezza evidente.
Gli
attacchi dell'11 settembre hanno cambiato tutto.
Improvvisamente
l'unica superpotenza del mondo si è mobilitata completamente contro i movimenti
terroristici arabi e musulmani, in particolare quelli legati al Medio Oriente.
Gli
stretti alleati politici neoconservatori di Sharon in America hanno usato
l'inaspettata crisi come un'opportunità per prendere il controllo della
politica estera americana e dell'apparato di sicurezza nazionale, con un membro
dello staff della NSA che in seguito ha riferito che i generali israeliani
vagavano liberamente per le vendite del Pentagono senza alcun controllo di
sicurezza.
Nel frattempo, la scusa della prevenzione del
terrorismo interno è stata usata per implementare nuovi controlli centralizzati
della polizia americana che sono stati presto impiegati per molestare o
addirittura chiudere varie organizzazioni politiche antisioniste.
Uno
degli agenti del Mossad israeliano arrestati dalla polizia a New York mentre
lui e i suoi compagni stavano celebrando gli attacchi dell'11 settembre e
producendo un filmato ricordo delle torri in fiamme del World Trade Center ha
detto agli agenti che "Siamo israeliani... I vostri problemi sono i nostri
problemi".
E così sono diventato.
Il
generale “Wesley Clark” riferì che subito dopo gli attacchi dell'11 settembre
fu informato che un piano militare segreto era in qualche modo entrato in atto
in base al quale l'America avrebbe attaccato e distrutto sette importanti paesi
musulmani nei prossimi anni, tra cui “Iraq, Iran, Siria e Libia”, che per
coincidenza erano tutti i più forti avversari regionali di Israele e i
principali sostenitori dei palestinesi.
Quando l'America ha iniziato a spendere enormi
oceani di sangue e di denaro per attaccare tutti i nemici di Israele dopo l'11
settembre, Israele stesso non ha più avuto bisogno di farlo.
In
parte come conseguenza, quasi nessun'altra nazione al mondo ha migliorato così
enormemente la sua situazione strategica ed economica negli ultimi diciassette
anni, anche se una grande frazione della popolazione americana si è
completamente impoverita durante lo stesso periodo e il nostro debito nazionale
è cresciuto a livelli insormontabili.
Un parassita può spesso ingrassare anche se il
suo ospite soffre e declina.
Ho
sottolineato che per molti anni dopo gli attacchi dell'11 settembre ho prestato
poca attenzione ai dettagli e ho avuto solo la vaga idea che esistesse un
movimento organizzato per la “verità sull'11 settembre”.
Ma se
qualcuno mi avesse mai convinto che gli attacchi terroristici erano stati
operazioni sotto falsa bandiera e che il responsabile era stato qualcuno
diverso da Osama, la mia ipotesi immediata sarebbe stata Israele e il suo
Mossad.
Certamente
nessun'altra nazione al mondo può lontanamente eguagliare il record di omicidi
di alto livello e attacchi sotto falsa bandiera di Israele, terroristici e non,
contro altri paesi, compresi gli Stati Uniti e le sue forze armate.
Inoltre,
l'enorme predominio di elementi ebrei e filo-israeliani nei media
dell'establishment americano e sempre più in quello di molti altri grandi paesi
occidentali ha a lungo assicurato che, anche quando sono state scoperte le
prove concrete di tali attacchi, pochissimi americani comuni avrebbero mai
sentito quei fatti.
Una
volta accettato che gli attacchi dell'11 settembre sono stati probabilmente
un'operazione sotto falsa bandiera, un indizio centrale per i probabili autori
è stato il loro straordinario successo nell'assicurare che una storia ricchezza
di prova enormemente sospette sia stata totalmente ignorata praticamente da
tutti i media americani, siano essi liberali o conservatori, di sinistra o di
destra.
Nel
caso particolare in questione, il considerevole numero di neoconservatori
zelantemente filo-israeliani situati appena sotto la superficie pubblica
dell'amministrazione Bush nel 2001 avrebbe potuto facilitare notevolmente sia
il successo dell'organizzazione degli attacchi che il loro efficace
insabbiamento e occultamento, con” Libby, Wolfowitz, Feith e Richard Perle” che
sono solo i nomi più ovvi.
Non è del tutto chiaro se tali individui
fossero cospiratori consapevoli o avessero semplicemente legami personali che
permettevano loro di essere sfruttati per promuovere il complotto.
La
maggior parte di queste informazioni devono essere dichiarate a lungo evidenti
agli osservatori esperti, e ho il forte sospetto che molte persone che avevano
prestato molta più attenzione di me ai dettagli degli attacchi dell'11
settembre possano aver rapidamente formato una conclusione provvisoria lungo
queste stesse linee.
Ma per
tutte le ragioni sociali e politiche, c'è una grande riluttanza a puntare il
dito contro Israele su una questione di così enorme portata.
Quindi, ad eccezione di qualche attivista
marginale qua e là, tali oscuri sospetti sono rimasti privati.
Nel
frattempo, i leader del movimento per la verità sull'11 settembre probabilmente
temevano di essere distrutti dalle accuse dei media di antisemitismo
squilibrato se loro mai espresso anche solo un accenno di tali idee. Questa
strategia politica potrebbe essere stata necessaria, ma non riuscendo a
nominare alcun colpevole plausibile, creato hanno un vuoto che è stato presto
riempito da "utili idioti" che hanno gridato "inside job!"
mentre puntavano il dito accusatore contro “Cheney e Rumsfeld”, e quindi hanno
fatto così tanto per screditare l'intero movimento per la verità sull'11
settembre.
Questa
sfortunata cospirazione del silenzio si è finalmente conclusa nel 2009 quando
il “dottor Alan Sabrosky”, ex direttore degli studi presso l'”US Army War
College”, si è fatto avanti e ha dichiarato che il Mossad israeliano era stato
molto probabilmente responsabile degli attacchi dell'11 settembre, scrivendo
una serie di articoli sull'argomento e presentando infine le sue opinioni in
una serie di interviste ai media, insieme ad ulteriori analisi.
Ovviamente,
tali cariche esplosive non hanno mai raggiunto le pagine del mio “Times”
mattutino, ma hanno ricevuto una copertura considerevole, anche se transitoria,
in alcune parti dei media alternativi, e ricordo di aver visto i link in primo
piano su “Antiwar.com” e ampiamente discussi altrove.
Non
avevo mai sentito parlare di “Sabrosky”, così consultai il mio sistema di
archiviazione e scoprii subito che aveva un record perfettamente rispettabile
di pubblicazioni su questioni militari nei principali periodici di politica
estera e aveva anche ricoperto una serie di incarichi accademici presso
prestigiose istituzioni.
Leggendo
uno o due dei suoi articoli sull'11 settembre, ho avuto l'impressione che
avesse presentato un argomento piuttosto convincente per il coinvolgimento del
Mossad, con alcune delle sue informazioni già note a me ma molte di esse no.
Dal
momento che ero molto impegnato con il mio lavoro di software e non avevo mai
passato del tempo a indagare sull'11/9 o a leggere uno qualsiasi dei libri
sull'argomento, la mia convinzione nelle sue affermazioni di allora era
ovviamente piuttosto incerta.
Ma ora
che ho finalmente esaminato l'argomento in modo molto più dettagliato e ho
fatto una grande quantità di letture, penso che sembri abbastanza probabile che
la sua analisi del 2009 fosse del tutto corretta.
Consiglierei
in particolare la sua lunga intervista del 2011 su “Iran Press TV”, che ho
visto per la prima volta solo un paio di giorni fa. Si è rivelato altamente
credibile e schietto nelle sue affermazioni.
Ha
anche fornito una conclusione combattiva in un'intervista radiofonica molto più
lunga del 2010:
“Sabrosky”
concentrò gran parte della sua attenzione su un particolare segmento di un
documentario olandese sugli attacchi dell'11 settembre prodotto diversi anni
prima.
In
quell'affascinante intervista, un esperto professionista di demolizioni di nome
“Danny Jowenko”, che era in gran parte all'oscuro degli attacchi dell'11
settembre, identificò immediatamente il crollo filmato dell'edificio 7 del WTC
come una demolizione controllata, e la notevole clip fu trasmessa in tutto il
mondo su” Press TV” e ampiamente discussa su “Internet”.
E per
una strana coincidenza, appena tre giorni dopo che l'”intervista video di
Jowenko” aveva ricevuto un'attenzione così intensa, ha avuto la sfortuna di
morire in uno scontro frontale con un albero in Olanda.
Sospetto
che la comunità degli esperti professionisti di demolizione sia piccola, e i
colleghi dell'industria sopravvissuti di “Jowenko” potrebbero aver rapidamente
concluso che una grave sfortuna potrebbe colpire coloro che hanno espresso “opinioni
controverse sul crollo delle tre torri del World Trade Center”.
Nel
frattempo, l'ADL ha presto messo in atto uno sforzo enorme e in gran parte
riuscito per far bandire “Press TV in Occidente” per aver promosso "teorie
del complotto antisemita", convincendo persino YouTube ad eliminare
completamente l'enorme archivio video di quegli spettacoli passati, in
particolare la “lunga intervista di Sabrosky”.
Più di
recente, “Sabrosky “ha tenuto una presentazione di un'ora alla conferenza video
di “Deep Truth” di giugno, durante la quale ha espresso un notevole pessimismo
sulla difficile situazione politica dell'America e ha suggerito che il
controllo sionista sulla nostra politica e sui nostri media è diventato ancora
più forte nell'ultimo decennio.
La sua
discussione fu presto ritrasmessa da “Guns & Butter”, un “importante
programma radiofonico progressista”, che di conseguenza fu presto eliminato
dalla sua stazione di casa dopo diciassette anni di grande popolarità nazionale
e forte sostegno da parte degli ascoltatori.
Anche
il compianto “Alan Hart”, un illustre giornalista televisivo britannico e
corrispondente estero, ha rotto il silenzio nel 2010 e allo stesso modo ha
indicato gli israeliani come i probabili colpevoli degli attacchi dell'11
settembre.
Coloro
che sono interessati potrebbero voler ascoltare la sua lunga intervista.
Il
giornalista “Christopher Bollyn” è stato uno dei primi scrittori ad esplorare i
possibili legami israeliani con gli attacchi dell'11 settembre, e i dettagli
contenuti nella sua lunga serie di articoli di giornale sono spesso citati da
altri ricercatori.
Nel
2012 ha raccolto questo materiale e lo ha pubblicato sotto forma di un libro
intitolato “Solving 9-11”, rendendo così disponibili le sue informazioni sul
possibile ruolo del Mossad israeliano a un pubblico molto più ampio, con una
versione disponibile online.
Purtroppo
il suo volume stampato soffre pesantemente della tipica mancanza di risorse a
disposizione degli scrittori di frangia politica, con una scarsa organizzazione
e frequenti ripetizioni degli stessi punti a causa delle sue origini in un
insieme di singoli articoli, e questo può diminuire la sua credibilità tra
alcuni lettori.
Quindi chi lo acquista dovrebbe essere
avvisato di queste gravi debolezze stilistiche.
Probabilmente
un compendio molto migliore delle prove molto estese che indicano la mano
israeliana dietro gli attacchi dell'11 settembre è stato fornito più di recente
dallo scrittore francese “Laurent Guénon”, sia nel suo libro del 2017
"JFK-9/11: 50 Years of the Deep State" sia nel suo articolo di 8.500
parole "9/11 was an Israeli Job" , pubblicato contemporaneamente a
questo e che fornisce una ricchezza di dettagli molto maggiore di quella qui
contenuta.
Sebbene non condivida necessariamente tutte le
sue affermazioni e argomentazioni, la sua analisi complessiva sembra pienamente
coerente con la mia.
Questi
autori hanno fornito una grande quantità di materiale a sostegno dell'ipotesi
del Mossad israeliano, ma vorrei concentrare l'attenzione su un solo punto
importante.
Normalmente
ci aspetteremmo che gli attacchi terroristici che hanno portato alla completa
distruzione di tre giganteschi edifici per uffici a New York City e un attacco
aereo al Pentagono siano un'operazione di dimensioni e scala, che coinvolge
infrastrutture organizzative e manodopera molto considerevoli.
All'indomani
degli attacchi, il governo degli Stati Uniti intraprese grandi sforzi per
localizzare e arrestare i cospiratori islamici sopravvissuti, ma riuscì a
malapena a trovarne uno.
A
quanto pare, erano tutti morti negli attacchi o comunque erano semplicemente
svaniti nel nulla.
Ma
senza fare molti sforzi, il governo americano riuscì rapidamente a radunare e
arrestare circa 200 agenti del Mossad israeliano, molti dei quali erano stati
stanziati esattamente nelle stesse località geografiche dei presunti 19
dirottatori arabi.
Inoltre,
la polizia di New York ha arrestato alcuni di questi agenti mentre celebravano
pubblicamente gli attacchi dell'11 settembre, e altri sono stati sorpresi alla
guida di furgoni nell'area di New York contenenti esplosivi o le loro tracce
residue.
La
maggior parte di questi agenti del Mossad si sono rifiutati di rispondere a
qualsiasi domanda, e molti di quelli che hanno fatto i test del poligrafo hanno
fallito, ma sotto una massiccia pressione politica sono stati alla fine
rilasciati e deportati in Israele.
C'è
un'altra curiosità affascinante che ho visto molto raramente menzionata. Appena
un mese dopo gli attacchi dell'11 settembre, due israeliani furono sorpresi a
introdurre di nascosto armi ed esplosivi nell'edificio del “Parlamento
Casabella”, una storia che naturalmente produce diversi titoli di testa sui
principali giornali messicani dell'epoca, ma che fu accolta da un silenzio
totale nei media americani. Alla fine, sotto una massiccia pressione politica,
tutte le accuse sono state ritirate e gli agenti israeliani sono stati
deportati a casa.
Questo
notevole incidente è stato riportato solo su un piccolo sito web di attivisti
ispanici e discusso in pochi altri luoghi.
Qualche
anno fa ho trovato facilmente le prime pagine scannerizzate dei giornali
messicani che riportavano su Internet quei drammatici eventi, ma non riesco più
a trovarle facilmente.
I
dettagli sono ovviamente un po' frammentari e forse confusi, ma sicuramente
piuttosto intriganti.
Si
potrebbe ipotizzare che se i presunti terroristi islamici avessero dato seguito
ai loro attacchi dell'11 settembre attaccando e distruggendo il palazzo del
parlamento messicano un mese dopo, il sostegno latinoamericano alle invasioni
militari americane in Medio Oriente sarebbe stato notevolmente amplificato.
Inoltre,
qualsiasi scena di una distruzione così massiccia nella capitale messicana da
parte di terroristi arabi sarebbe stata sicuramente trasmessa ininterrottamente
su” Univision” , la principale rete televisiva americana in lingua spagnola,
consolidando pienamente il sostegno ispanico alle iniziative militari del
presidente Bush.
Sebbene
i miei crescenti sospetti sugli attacchi dell'11 settembre risalgano a un
decennio o più fa, la mia seria indagine sull'argomento è piuttosto recente,
quindi sono certamente un neofita del settore.
A volte, però, un osservatore esterno può
notare dettagli che potrebbero sfuggire a chi ha trascorso così tanti anni
immerso in un determinato argomento.
Dal
mio punto di vista, una parte enorme della” comunità della Verità sull'11
settembre” trascorre troppo tempo immersa nei dettagli degli attacchi,
dibattendo sul metodo preciso con cui le torri gemelle del World Trade Center
di New York furono abbattute o su cosa colpì effettivamente il Pentagono.
Ma
questo tipo di questioni sembrano di scarsa importanza ultima.
Sostengo
che l'unico aspetto importante di tali questioni tecniche sia se le prove
complessive siano sufficientemente solide da dimostrare la falsità della
narrazione ufficiale dell'11 settembre e anche che gli attacchi debbano essere
stati opera di un'organizzazione altamente sofisticata con accesso a tecnologie
militari avanzate, piuttosto che di una banda eterogenea di 19 arabi armati di
taglierini.
A parte questo, nessuno di questi dettagli ha
importanza.
A
questo proposito, credo che la mole di materiale effettivamente raccolto dai
ricercatori determinati nel corso degli ultimi diciassette anni abbia
facilmente soddisfatto tale requisito, forse anche dieci o venti volte.
Ad esempio, anche concordare su un singolo
elemento particolare come la chiara presenza di nano-termite, un composto
esplosivo di livello militare, soddisferebbe immediatamente questi due criteri.
Quindi
vedo poco senso negli infiniti dibattiti sul fatto che sia stata usata la
nano-termite, o la nano-termite più qualcos'altro, o solo qualcos'altro.
E tali complessi dibattiti tecnici possono
servire a oscurare il quadro più ampio, confondendo e intimidendo qualsiasi
spettatore casualmente interessato, risultando così piuttosto controproducenti
per gli2 obiettivi generali del movimento per la verità sull'11 settembre2.
Una
volta concluso che i colpevoli facevano parte di un'organizzazione altamente
sofisticata, possiamo quindi concentrarci sul Chi e sul Perché, che sicuramente
sarebbero di maggiore importanza rispetto ai dettagli particolari del Come.
Eppure, attualmente tutto l'infinito dibattito sul come tende a spiazzare il chi
e il perché, e mi chiedo se questa sfortunata situazione possa essere
intenzionale.
Forse
una ragione è che una volta che i sinceri sostenitori della verità sull'11
settembre si concentrano su quelle questioni più importanti, l'enorme peso
delle prove punta chiaramente in un'unica direzione, coinvolgendo Israele e il
suo servizio di intelligence Mossad, con il caso che è estremamente forte nelle
motivazioni, nei mezzi e nelle opportunità.
E
accusare Israele e i suoi collaboratori interni per il più grande attacco mai
lanciato contro l'America sul nostro suolo comporta enormi rischi sociali e
politici.
Più o
meno nello stesso periodo in cui pubblicai quell'articolo di recensione, ero
stato intervistato su vari argomenti controversi dalla televisione iraniana,
raggiungendo un pubblico potenziale di dieci milioni di persone.
In due di quei segmenti di mezz'ora, ho
presentato la mia ricostruzione degli attacchi dell'11 settembre, e sono
disponibili sulla “nostra piattaforma video Rumble”, così chi fosse interessato
ad ascoltare le mie stesse opinioni espresse in video può facilmente guardarli.
Ho
notato anche un paio di altri documentari video degni di nota incentrati sul
probabile ruolo israeliano negli attacchi dell'11 settembre, uno di “Laurent
Gudeno” e un altro di “Ryan Dawson”.
Quest'ultimo
è un po' meno ben organizzato e promuove anche alcune posizioni eccentriche
diverse da quelle di quasi tutti gli altri sostenitori della verità sull'11
settembre, ma bilancia queste carenze fornendo numerose storie dei media
mainstream che riportano l'arresto da parte della polizia l'11 settembre di
agenti del Mossad israeliano alla guida di furgoni carichi di esplosivo che
erano stati apparentemente destinati ad ulteriori attacchi terroristici
nell'area di New York City.
È
estremamente difficile fornire una spiegazione non sinistra del perché gli
agenti del Mossad avrebbero guidato furgoni pieni di tali contenuti in giro per
New York l'11 settembre, o perché così tanti diversi media avrebbero riportato
quelle storie se non fossero state vere.
Ho
estratto quelle clip per una visione più comoda.
Gli
attacchi dell'11 settembre sono avvenuti più di ventiquattro anni fa, e pochi
fatti nuovi sono venuti alla luce di recente.
Quindi
una lunga analisi delle circostanze pubblicata anni fa è probabilmente
altrettanto valida di una nuova analisi prodotta oggi.
Ma
questo ovviamente non è il caso degli sviluppi epocali del caso dell'assassinio
di “Charlie Kirk2.
Avevo
sostenuto molto rapidamente che la sua morte era probabilmente profondamente
legata agli attacchi dell'11 settembre, ben oltre la coincidenza temporale del
10 e dell'11 settembre.
“Larry
Johnson” è un ex agente della CIA con una grande esperienza nel campo delle
armi da fuoco, e venerdì ha parlato a nome dei membri di quest'ultima comunità,
dichiarando categoricamente che era fisicamente impossibile che “Kirk” fosse
stato ucciso dal gioco 30-06 che le autorità hanno sostenuto.
Pertanto, secondo lui, “Tyler Robinson “sarà
sicuramente dichiarato innocente se verrà processato.
Quindi,
se “Robinson” era semplicemente un innocente capro espiatorio che non ha ucciso
Kirk, allora chi lo ha fatto e perché?
Come
ho spiegato nel mio primo articolo dopo l'assassinio, poche ore dopo aver
appreso della morte di Kirk, ho deciso di sollevare la questione con molta
cautela con qualcuno ben inserito nei circoli conservatori che conosceva
personalmente Kirk, e sono rimasto scioccato dalla sua risposta.
Anche se non avevo mai menzionato Israele per
nome, mi ha detto inequivocabilmente che tutti nella cerchia di Kirk, compresi
anche importanti funzionari dell'amministrazione Trump, sospettavano che
Israele avesse probabilmente ucciso il giovane leader conservatore.
Nel
mio articolo della scorsa settimana ho descritto come quella prima scioccante
proposta, privata e incerta, presto a causa di una marea di dichiarazioni
pubbliche a sostegno di quella stessa conclusione:
…
durante i due mesi precedenti la morte di Kirk, il giovane leader conservatore
era stato oggetto di aspri attacchi personali da parte di elementi
filo-israeliani che erano infuriati per quello che consideravano il suo
sostegno vacillante allo Stato sionista.
Questi
fatti non erano stati ampiamente noti a coloro che al di fuori della cerchia
personale di Kirk, ma subito dopo la sua morte alcuni eccezionali rapporti
investigativi di “Max Blumenthal” e dei suoi colleghi di” Garzone” hanno
rivelato la pressione molto pesante esercitata contro il giovane leader
conservatore, comprese le offerte di nuovi enormi finanziamenti da parte di
Netanyahu che Kirk aveva categoricamente rifiutato.
Secondo il racconto di “Blumenthal”, Kirk si
era "spaventato" di queste forze filo-israeliane improvvisamente
schierate contro di lui e aveva persino detto ad alcuni dei suoi amici che
temeva per la sua vita.
In una
clip di un'intervista di inizio agosto con “Megyn Kelly”, Kirk ha descritto
come Israele e i suoi sostenitori americani siano entrati in uno "stato
iper-paranoico", considerando lui e chiunque altro deviasse dalla loro
linea incrollabilmente filo-israeliana come i loro "nemici".
A
causa di questa storia recente, l'improvviso assassinio di Kirk ha portato
molti a sospettare che Israele e il suo Mossad fossero coinvolti, e a causa dichiarazioni
pubbliche di Netanyahu che dichiaravano di non aver ordinato l'assassinio di
Kirk hanno semplicemente alimentato piuttosto che smorzato tali speculazioni
diffuse. Secondo” Proverbi 28:1”, "Gli empi fuggono quando nessuno li
insegue".
Il
sospetto che Israele avesse ucciso Kirk si estendeva ben oltre i soliti circoli
cospiratori.
Tali teorie furono presto espresse
pubblicamente da figure di tutto rispetto come gli ex analisti della CIA “Ray
McGovern” e “Larry Johnson” , l'ex membro del Consiglio di Sicurezza Nazionale,
il “Tenente Colonnello Karen Kwiatkowski”, e l'ex agente della CIA “Philip
Giraldi”.
Il “Prof.
John Mearsheimer” sembrò prendere questa possibilità molto seriamente, così
come l'editorialista” Patrick Lawrence”, che aveva trascorso decenni come
giornalista per importanti quotidiani.
Solo
un paio di giorni fa, un attivista anti-israeliano ha twittato un video in cui
Kirk assumeva posizioni estremamente sgradite alla lobby israeliana poco prima
della sua morte.
Negli
ultimi anni, molti americani hanno concluso che Israele e il suo Mossad abbiano
probabilmente ucciso JFK, e che uno dei motivi principali per cui il nostro
presidente è stato assassinato sia stato probabilmente il suo determinato
tentativo di spezzare il crescente potere della stessa lobby israeliana,
suggerendo una forte analogia tra l'omicidio di Kennedy e quello di Kirk.
Tuttavia,
se il “Mossad” ha ucciso Kirk, il complotto e l'insabbiamento che hanno messo
insieme sono stati estremamente deboli, con così tanti esperti di spicco che
hanno notato che il calibro della competizione era ovviamente sbagliato e che “Robinson”
era chiaramente un capro espiatorio poche settimane dopo il suo arresto. Tutto
questo porta i segni di un lavoro estremamente frettoloso.
Il mio
suggerimento è che la ragione di quella fretta fosse quella di eliminazione
Kirk prima che potesse iniziare ad appoggiare e promuovere “la serie di Carlson”
sull'11 settembre ai suoi milioni di seguaci entusiasti, portando così quella
visione altamente cospirativa dell'11 settembre nel mainstream di una nuova
generazione di giovani conservatori americani.
Carlson era un caro amico di Kirk, e se
quest'ultimo non fosse stato ucciso quattro settimane fa, a quest'ora il
pubblico della serie – e le implicazioni della sua storia – avrebbero già raggiunto un pubblico molto più vasto
di quello che ha raggiunto.
Quindi,
se la mia analisi è corretta, la serie di Carlson sull'11 settembre
probabilmente è costata la vita a uno dei più importanti leader conservatori
d'America, e coloro che la guardano dovrebbero darle il giusto peso.
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