E lo scandalo continua contro i popoli.
Lo
scandalo della Torre
e il
senso di Giustizia.
infoaut.org
– (21 novembre 2023) -Riscatto – Informazioni di parte – ci dice:
Venerdì
17 novembre, a Pisa, un partecipato corteo composto da un migliaio di studenti
e lavoratori in sciopero ha attraversato determinato e rabbioso le strade della
città, è arrivato in Piazza dei Miracoli e ha occupato per un’ora uno dei
monumenti più famosi del mondo, la Torre di Pisa, calando dalla sua cima una
gigantesca bandiera della Palestina.
(Riscatto).
Migliaia
di persone presenti nella piazza, provenienti da ogni parte del mondo, hanno
girato foto, video, espresso solidarietà e consenso rispetto all’azione
simbolica di portare all’attenzione mediatica l’urgenza di una presa di
posizione collettiva e di massa rispetto al genocidio che lo stato di Israele
sta conducendo contro il popolo palestinese.
L’immagine della bandiera che sventola dalla
Torre pendente ha fatto il giro del pianeta, dai media mediorientali come “Al
Jazeera” agli “influencer statunitensi”, con le parole d’ordine che in questo
momento stanno infuocando e attivando centinaia di milioni di persone in tutto
il mondo:
libertà
per la Palestina, cessate il fuoco ora!
In
tutta Italia, e in proporzione ancora più significativa in molti altri Paesi,
dal Canada all’Indonesia, si sta sviluppando un’esigenza inedita e larga di
azione e mobilitazione per richiedere il cessate il fuoco ai propri governi,
che racchiude le contraddizioni e le necessità di lotta e trasformazione
imposte dal mostruoso contesto di Terza Guerra Mondiale che stiamo
attraversando.
Ciò che sta accadendo in Palestina e la
complicità internazionale che sostiene Israele, capeggiata dagli USA, condensa
insieme l’oppressione più brutale che la civiltà capitalista riesce a riversare
sulla società e sui popoli colonizzati e la filiera effettiva che la consente:
traffici
di armi, sostegno politico dei governi, parzialità della conoscenza accademica
e scientifica posta al servizio di fini militari e coloniali, supporto
commerciale delle grandi aziende, interessi economici di multinazionali come
ENI, manipolazione mediatica su scala globale, inettitudine degli organismi
sovranazionali come l’ONU (corrotta!)
Allo
stesso tempo, l’esempio storico di vita e resistenza del popolo palestinese,
sta suscitando un’esigenza di giustizia e di riscatto di massa, diffusi in ogni
ambito della società, che stanno mobilitando e spingendo le persone a opporsi
in ogni forma a ognuna di queste filiere, nella ricerca di incisività e di una
risposta politica e di lotta al crimine che Israele sta compiendo.
In Italia si susseguono le piazze da decine di
migliaia di persone, le università e le scuole vengono occupate, i porti
bloccati, i monumenti risignificati per messaggi di giustizia e solidarietà e
non come merci, le ambasciate, i consolati, i negozi complici vengono
sanzionati.
Di
fronte all’enormità del massacro in corso a Gaza, è evidente la sproporzione
tra la narrazione mediatica che viene fatta di questo processo di ribellione
nella società e il genocidio in atto:
il giornalismo locale ha raccontato
l’iniziativa di venerdì a Pisa come un gesto di un gruppetto di persone, presto
individuate e indagate, fortunatamente concluso senza danni, senza violenza,
senza troppi problemi per i turisti se non un po’ di apprensione.
Si
parla di dettagli, di come è possibile che degli studenti siano riusciti a
salire sulla torre eludendo i controlli, del loro numero e dell’impatto
sull’apertura o meno della Torre al pubblico, con toni scandalistici.
Su molto altro che sta accadendo in Italia,
dalla stampa nazionale cala il silenzio o la solita narrazione ideologica dell’estremismo
pro Hamas.
Si
parla, invece, di cosa fa il governo italiano?
Di ciò che accade in Palestina ogni minuto in
questi giorni, ogni giorno negli ultimi 75 anni?
Si parla dei milioni di persone che protestano
nel mondo, di ospedali bombardati, bambini morti nelle incubatrici, di gente
assassinata e rapita dai coloni israeliani?
È la
sproporzione, tra la realtà e la sua comunicazione, è il cortocircuito di una
stampa conservatrice, se non reazionaria, che cerca di governare, gestire,
soffocare un senso di giustizia che non appartiene a pochi, ma che è domanda di
molti e spinta a uscire di casa e manifestare.
Ma è
anche la cifra che ciò che è necessario e che è richiesto effettivamente da
milioni di persone può e deve essere molto di più, che non ci si può
accontentare, ma ricercare la concretezza di questo “senso di giustizia” e
superare lo smarrimento di fronte a un sistema che propone sfacciatamente il
bene come il male e il male come il bene.
Nel
frattempo, l’immagine della Torre di Pisa gira nei” tiktok” e “instagram” di
tutto il mondo, perché migliaia di turisti in vacanza hanno colto il senso e
l’urgenza della manifestazione degli studenti, perché il senso di giustizia è
più vero della stampa e dei grandi discorsi, perché le immagini hanno un peso
quando un problema è sentito con questa forza e urgenza.
Cosa
fa la classe politica di fronte a questa situazione? Cosa fanno i giornalisti?
Cosa fanno intellettuali, accademici, scienziati, medici, università?
Queste
sono le domande che vanno poste, le responsabilità reali di chi non parla, se
non in minoranza, del crimine storico di Israele, di chi non agisce se non per
sostenerlo o farsi in disparte per non cadere nei rischi del prendere una
parte.
Con
confusione, sono anche altre le domande che molti si fanno in diversi modi e a
diverse latitudini:
cosa
si può fare per tendere a un mondo diverso, più giusto?
In
cosa potrà consistere la vendetta per quello che sta accadendo a Gaza e in
Cisgiordania e che mai potrà essere cancellato?
Chi ha interesse a lottare per la Palestina e
perché?
Quanto
ancora si può fare nei quartieri, nelle scuole, nelle università, nei posti di
lavoro, nei luoghi di comunicazione, nelle fabbriche, nei Carrefour e McDonald,
ovunque passa la vasta catena che conduce alla macchina di morte israeliana?
È la ricerca di queste possibilità, non come
occasioni ottusamente strumentali, ma come effettivi luoghi in cui può
concretizzarsi una domanda di cambiamento, il baricentro e la direzione a cui
tendere.
Quello
che si sta facendo è ancora pochissimo:
cos’è una bandiera calata da un monumento,
mentre le moschee vengono bombardate?
Ma è già qualcosa che fa paura a un sistema di
comunicazione e potere decadente e in crisi, perché raccoglie un sentimento di
maggioranza, di centinaia di studenti che a Pisa hanno scioperato, di altre
migliaia che lo potrebbero fare la prossima volta e che i media non possono
nominare ma neanche possono negare completamente.
Perché
esprime l’energia e la ricerca di un senso profondo della propria azione nel
mondo che non sia chiusa nella impoverente e opprimente quotidianità di ognuno,
ma aperta all’esperienza di una connessione con i problemi più urgenti e
orribili del nostro tempo e a un’esigenza di dover fare la propria parte per
trasformare le cose.
Sciopero per la Palestina, sciopero contro la
cultura della guerra, sciopero contro la riforma Valditara, tutto si mescola perché
unico è il senso di cambiamento che sempre più persone ricercano e perché non
c’è più aderenza, neanche minima, tra le parole e i fatti del Potere e la Vita
delle persone.
E la Palestina ne è l’esempio.
Addio
al petrolio?
L'Opec
mette il veto.
msn.com – il giornale – (Sofia Fraschini) –
(11-12-2023) – ci dice:
«Rifiutate
qualsiasi testo o formula (nel documento definitivo della Cop 28 di Dubai, ndr) che miri all'energia, cioè ai
combustibili fossili, piuttosto che alle emissioni».
È
questo, in sintesi, il messaggio di una lettera inviata dall'Opec ai suoi 13
membri (i principali esportatori di petrolio) scatenando una vera e propria
bufera internazionale.
La
lettera parte dall'assunto che «la pressione contro i combustibili fossili potrebbe
raggiungere un punto critico con conseguenze irreversibili».
E fa il paio con le recenti esternazioni,
sempre alla Cop28, di “Sultan Al Jaber”, presidente della Cop28 di Dubai, ma
anche della società emiratina petrolifera, secondo cui «senza petrolio torniamo
alle caverne».
Ma se il ministro francese dell'Energia,
“Agnes Pannier-Runacher”, si è detta «sbalordita» e «arrabbiata», la spagnola
Teresa Ribera non ha esitato a dirsi «disgustata».
Per il
ministro dell'Ambiente e della Sicurezza energetica italiano, “Gilberto
Pichetto Fratin”, c'è poco da meravigliarsi:
«La Cop28 ha la rappresentanza dei Paesi ma
anche la rappresentanza di tanti blocchi di interesse, sarebbe da stupirsi se
l'Opec, che rappresenta i Paesi produttori e venditori di petrolio, non
tutelasse i propri interessi».
È poi
pur vero che «la Cop deve dare un percorso che è la decarbonizzazione e che
quella dell'Opec è una mossa di puro interesse di parte».
Da
tempo si parla della necessità di rendere sostenibile la transizione energetica
e non si tratta di negare il cambiamento climatico.
La lettera dell'Opec dunque indigna, ma apre a
un dibattito inevitabile:
chi
non vede ciò ha fette di prosciutto sugli occhi, perché i 13 hanno molto da
perdere.
Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Iran,
Iraq, Kuwait, Libia, Algeria, Nigeria, Angola, Congo, Gabon, Guinea Equatoriale
e Venezuela possiedono l'80% delle riserve petrolifere globali e hanno prodotto
circa il 40% del petrolio mondiale negli ultimi dieci anni.
Da questa fonte dipende gran parte della loro economia
e il recente prezzo del petrolio in calo (il Brent è a quota 75 dollari) li
preoccupa, tanto da voler impedire che nella decisione finale della Cop28 si
preveda l'eliminazione graduale dei combustibili fossili:
scelta che nasce dalla necessità di tenere
entro il limite di 1,5 gradi l'innalzamento di riscaldamento globale al 2050.
In
particolare c'è molta attenzione ai prezzi nel breve termine e l'Opec è sotto
pressione perché, nonostante i tagli già decisi, i prezzi restano bassi.
Questo
anche a causa degli Usa:
dagli
ultimi dati dell'”Energy Information Administration americana”, a settembre la
produzione di greggio degli Stati Uniti (13 milioni di barili/giorno) ha
stabilito un nuovo record assoluto.
Fatto
che rivela come tra Washington e Riad, sia sfida all'ultimo barile.
A pesare sul futuro greggio sono anche
l'economia globale debole e le difficoltà della Cina.
Gli analisti, infatti, vedono il greggio “Wti”
dirigersi verso i 40 dollari al barile. Quanto basta ai Paesi interessati per
alzare le barricate.
Lo
scandalo eterno della guerra.
Volerelaluna.it - (28-02-2022) - Gianni
Tognoni – ci dice:
L’unica
cosa “vera”, cioè fattuale, attesa, pianificata, documentabile, marginale nelle
cronache e nelle considerazioni politiche su quanto sta succedendo in queste
ore che diventano giorni, senza una fine prevedibile, in Ucraina, sono le
vittime, militari e civili, dirette e indirette.
Sapendo
bene, come si dice per tutte le guerre, che la prima vittima certa è la verità,
da tutte le parti in causa.
Ma è
una guerra – quella “scoppiata”, ma sorvegliata e accompagnata negli infiniti
dettagli, come un parto ad alto rischio in un luogo (enclave, regione, Stato
nuovo, indipendente, neo-coloniale) – di cui si può dire solo che coincide, da
tanti anni, con intervalli di altri “scoppi”, sanguinosissimi, ma interni, e
non qualificabili come guerre.
Ed è guerra di chi, contro chi, e per che
cosa?
È
chiaro l’aggressore materiale: e l’aggredito (oltre alle vittime sul campo)? Il
diritto internazionale? La comunità degli Stati? La “civiltà” occidentale?
Quale
posto occupa questa guerra-in-cerca-di-un-nome tra i tanti scoppi, acuti e
cronici, con equivalenti o molte più, o meno, vittime di cui è così ricca e
variata la mappa del mondo, spesso con attori molto simili, o coincidenti, con
quelli che occupano il primo piano, e soprattutto le prime pagine, delle news
in questi giorni?
Dagli
scenari, tanti, permanenti, a singhiozzo dell’area Kurda, della Siria, della
Libia, del Sahara Occidentale, dello stillicidio palestinese… solo per rimanere
“dalle nostre parti”?
Ma
senza dimenticare il Myanmar, il Kashmir, il Mali…
E se
tutto quanto avviene-avverrà in Ucraina fosse solo (con costi intollerabili in
termini di vite e di diritti umani: ma molto più calcolati e decisivi a livello
economico-finanziario e di macro investimenti militari) una delle mosse –
azzardate? arroganti? spiazzianti? –
di una
partita a scacchi permanente, giocata sui tavoli riservati di diplomazie che
giornalmente “digeriscono” senza batter ciglio le guerre ai migranti da ogni
guerra, i bombardamenti sul futuro dell’ambiente e delle generazioni presenti e
future degli affamati-scartati, gli algoritmi neutrali che decidono ciò che è
legale-permesso, e cancellano le vite concrete dei popoli, che sono disturbanti
perché introducono la variante dei diritti umani di ognuno?
Nulla
di nuovo, dunque, in Ucraina.
Le
domande si sono fatte più esplicite, perché geograficamente ed emotivamente
vicine.
Come
era stata un tempo la ex-Jugoslavia e i suoi genocidi accompagnati da guerre
umanitarie, che ci aveva aggiornato sulla “prossimità” di quanto era accaduto
in Rwanda, e nella guerra del Golfo.
Ma
avevamo dimenticato presto:
Iraq,
Isis, Sri Lanka, il genocidio lungo 70 anni della Colombia che continua nel
silenzio perfetto di tutti gli attori, anche noi, dell’Ucraina.
Il
punto di vista del “Tribunale Permanente dei Popoli” —piccolo, senza potere né
mediatico né ancor meno politico – ha come unica funzione irrinunciabile quella
di essere un promemoria della sola inviolabilità su cui misurare la “civiltà”
dei tanti diritti ufficiali, nazionali e internazionali.
La inaccettabilità della
guerra-in-cerca-di-un-nome che occupa l’orizzonte globale documenta ancora una
volta l’incapacità programmata di non trasparenza e di “dire la verità ai
potenti” (è il tema ricorrente nella letteratura anche scientifica nel tempo
della “guerra dei vaccini”: con quante vittime? e certi, pochi, potentissimi,
umanitari vincitori) delle democrazie:
anche
quelle che si sprecano in qualificazioni accusatorie per “gli altri”, o “il
nemico”.
Biden
è reduce dall’Afghanistan, e le conseguenze di quella guerra pesano oggi, non
sulla coscienza, ma certo sulla responsabilità di tutti “noi” alleati, in
termini di “morti per fame”:
più silenziosi e noiosi di quelli per bombe o
missili o droni.
E le
risposte sono sempre (quando e se gli interessi, delle banche o delle strategie
energetiche lo permettono) “sanzioni devastanti” (per chi, a che scopo, con
quale attenzione ai popoli soggetti di storia, trasformati in mosse di partite
a scacchi?).
Questo
testo non voleva essere scritto, perché l’unica cosa da dire è «no a tutto ciò
che rimanda, coincide, rende di fatto protagonista la guerra, in tutte le sue
forme e sotto qualsiasi nome. Senza se e senza ma».
Nel
ricordo di tutti i popoli che, nella sua storia “permanente”, hanno chiesto al “Tribunale permanente dei popoli” di dare loro una voce più forte e
indipendente di quella di tutti gli aggressori, il “no” ha provato ad
articolarsi, traducendosi in domande che sono allo stesso tempo ovvie e
imprescindibili. Permanenti.
Finché la “civiltà” delle nostre società non
avrà la lucidità (sempre più rara…) di prendere sul serio la proibizione della
guerra, così
chiaramente presente nella Dichiarazione universale dei diritti umani e nella
nostra Costituzione e così ovviamente violata in nome di non importa quale
menzogna o scusa dettata dal potere.
È
l’augurio del “Tribunale permanente dei popoli”, anzitutto perché tutte le
vittime inutili di questa guerra, unite a quelle dei tanti altri conflitti di
cui è fatta la guerra mondiale per frammenti (di cui parla Papa Francesco) si
trasformino in un grido permanente di “basta”.
Se,
ancora una volta, il “piacere” di giocare a scacchi sarà la regola del diritto
internazionale, per le nuove generazioni sarà ancor più vera la tragica verità
della Ninna nanna della guerra di Trilussa, così come recitata (parola per
parola, sguardo per sguardo…) da un indimenticabile, disincantato, dolcissimo
Gigi Proietti.
Emiri,
nucleare e Istituto Luce.
Volerelaluna.it
- (11-12-2023) - Angelo Tartaglia – ci dice:
Un osservatore
situato in una galassia lontana, ma in grado di assistere in tempo reale alle
vicende terrene troverebbe la situazione irresistibilmente comica.
Riassumiamo:
la
comunità scientifica del nostro pianeta segnala in maniera inequivocabile (nel
senso scientifico del termine, con misurazioni effettuate in molti modi diversi
da gruppi diversi in luoghi diversi, con raffinatissimi sistemi di calcolo, con
stime delle incertezze e così via) che il clima è ormai prossimo a un tracollo,
ovvero a un brusco riassestarsi della circolazione atmosferica e marina, nonché
del regime e della violenza delle precipitazioni;
i prodromi di questo collasso sono peraltro
già visibili attraverso il manifestarsi a ritmo accelerato dei cosiddetti
“eventi estremi”;
danni
e sofferenze connessi con questi eventi estremi sono molto ingenti e si
scaricano più drammaticamente sulle popolazioni più fragili (la stragrande
maggioranza dell’umanità).
Tutto
questo è direttamente connesso col fatto che l’umanità sta modificando le
proprietà fisiche dell’atmosfera con l’immissione a ritmo accelerato dei
cosiddetti gas climalteranti, in particolare la CO2, che provengono, in
grandissima misura, dall’uso dei combustibili fossili come carbone, petrolio e
gas naturale:
oggi
come oggi essi coprono l’81% del fabbisogno energetico dell’umanità.
Dopo decenni da che i primi razionalissimi
allarmi sono stati lanciati, i governi – e, più in generale, coloro che hanno
potestà di assumere decisioni relative alle politiche energetiche e
all’economia della terra intera – hanno cominciato a prendere atto e a riunirsi
per concordare il percorso da seguire per riprendere il controllo della
situazione e porre fine in primo luogo all’uso di combustibili fossili e poi,
comunque, alle devastazioni ambientali che comportano pesanti ricadute
sull’umanità come tale e su tutta la biosfera.
Sono
così nate le “Conferenze delle Parti” (COP) che anno dopo anno hanno portato
alla redazione di importanti dichiarazioni e liste di buoni propositi, cui non
sono seguite per lo più azioni concrete, tanto è vero che la quantità di CO2 in
atmosfera ha continuato a crescere in maniera accelerata e altrettanto ha fatto
il riscaldamento globale.
Bene.
Siamo
così arrivati alla COP28, ospitata negli Emirati Arabi Uniti, a Dubai, uno fra
i paesi col più alto consumo di energia pro capite che deve l’oceano di denaro
in cui nuota proprio ai combustibili fossili.
A presiedere la conferenza viene chiamato un signore (Sultan Ahmed Al Jaber) che è anche a capo della compagnia
petrolifera nazionale di Abu Dabi e che in un’intervista dichiara che non ci
sono evidenze scientifiche che il mutamento climatico in atto si fermerebbe
abbandonando i combustibili fossili e che facendo a meno del petrolio
torneremmo all’epoca delle caverne.
Per
altro la città di Dubai (come altre tra Arabia Saudita ed Emirati) è uno
splendido esempio dell’opposto di quel che bisognerebbe fare per gestire in
modo concreto ed equo la situazione:
l’esaltazione
dello spreco, del lusso e delle differenze è in ogni angolo.
Chissà
se l’importanza di questa conferenza è confermata dalla straordinaria
partecipazione da tutto il mondo.
Qualche
decina di migliaia di persone (!):
tutti competenti ed esperti di questioni
climatiche e di economia, naturalmente. Qualche migliaio sono i tipici lobbisti
retribuiti dalle grandi imprese dei fossili: chissà cosa saranno lì a
difendere?
Naturalmente
nessuno ha fatto il bilancio del carbonio di questa gigantesca scampagnata
planetaria.
Già
così il nostro remoto osservatore della galassia menzionata all’inizio avrebbe
abbondantemente di che sollazzarsi, ma, per noi che ci siamo dentro, la
situazione ha decisamente molto più del tragico che del comico.
Tuttavia
bisogna riconoscere che già dal secondo giorno la COP28 un risultato lo ha
ottenuto:
22
paesi si sono impegnati a triplicare la produzione di energia nucleare entro il
2050, perché questo sarebbe il modo più veloce per liberarsi dalla dipendenza
dai combustibili fossili.
Il nostro osservatore galattico sgrana gli occhi:
per
realizzare una nuova centrale a partire da oggi ci vogliono, dicono le
statistiche ed esempi recenti, una quindicina di anni e un sacco di soldi (da
10 a 15 miliardi di euro o, se preferite, dollari a centrale);
moltiplicando
per tre la produzione mondiale di energia nucleare si arriverebbe a un 12%
dell’attuale consumo dell’umanità.
Insomma l’energia nucleare in sé non sarebbe
risolutiva;
non
solo, ma gli ingentissimi investimenti (tutti pubblici) richiesti sarebbero in
competizione con lo sviluppo delle cosiddette rinnovabili, che, tra l’altro, se
consideriamo il sole, hanno una potenzialità pari ad alcune migliaia di volte
il fabbisogno umano.
Consideriamo anche che le tecnologie richieste dalle
rinnovabili (sole, vento e idroelettricità in primis) sono ben note e in
generale l’installazione di impianti di produzione è estremamente più rapida
della costruzione delle centrali nucleari; anche il problema dell’accumulo
dell’energia per trasferirla dalle fasi di sovrapproduzione a quelle di penuria
o assenza di produzione ha svariate soluzioni concrete ed è un tema in rapida e
positiva evoluzione tecnologica.
Ovviamente
i 22 dell’accordo di Dubai sono tutti paesi che hanno già in casa delle
centrali nucleari.
Per lo
più (sicuramente nel caso della Francia, degli Stati Uniti e del Regno Unito)
una buona parte delle loro centrali sono “vecchie” ossia prossime alla data
della dismissione (la vita utile di una centrale a fissione è dell’ordine dei
40 anni anche se in qualche caso la si prolunga di un’altra decina d’anni a
scapito della sicurezza), con la prospettiva di costi elevatissimi legati allo
smantellamento o decommissioning che dir si voglia.
Ecco che qui, come accade a un
tossicodipendente, questi governanti si danno da fare per illudersi di superare
le difficoltà lanciando una nuova dose che gli permetta, secondo loro, di
gestire economicamente i costi indotti della vecchia.
È ormai risaputo che, dal punto di vista
dell’economia tradizionale, il nucleare non è competitivo e nemmeno
conveniente:
lo si
può mantenere in vita solo con grandissime iniezioni di denaro pubblico erogato
a debito delle generazioni future (sempre che le future generazioni non vengano
prima travolte dall’imminente collasso climatico).
Sul
nucleare in sé non starò qui a ripetere cose già scritte in questa o in altra
sede (cfr. A. Tartaglia, Spaccare l’atomo in quattro. Contro la favola del
nucleare, Edizioni Gruppo Abele, 2022) e su cui c’è ormai una vasta
letteratura.
Mi limito a ricordare che la fissione nucleare
lascia necessariamente in eredità le scorie che comprendono i prodotti della
fissione, sono radioattive e costituiscono un problema per migliaia di anni.
Nella
propaganda lanciata alla grande in tutte le sedi questo aspetto come tutti
quelli connessi con la sicurezza, la connessione con le applicazioni militari e
le diseconomie viene minimizzato o liquidato con favole prive di consistenza
scientifica prospettando meravigliose soluzioni che “è vero che non ci sono
ancora ma che di certo arriveranno”.
L’offensiva mediatica dei nuclearisti
internazionali è realmente a tutto campo con articoli di giornale, interviste,
dichiarazioni, “consigli” discretamente forniti a coloro che contano, e chi più
ne ha più ne metta.
Sono
arrivati anche ad arruolare un noto regista come” Oliver Stone” con il suo “Nuclear
now”, lungo documentario propagandistico che sarebbe interessante comparare a
quelli prodotti ai tempi di Stalin per esaltare le conquiste del socialismo
reale.
“
Nuclear now,” presentato al “Turin Film Festival” e già rilanciato da circuiti
televisivi come” La7”, illustra le magnifiche sorti e progressive del nucleare,
vera energia pulita e l’unico antidoto agli incombenti mutamenti climatici;
naturalmente
non viene riportata nessuna analisi, tecnicamente fondata, sui problemi e sulla
insostenibilità a breve e lungo termine dell’energia da fissione e si
riproducono solo roboanti elogi da Istituto Luce:
quanto ai problemi, be’ la radioattività non è
poi così pericolosa (?!); le scorie sono poche e sono ben custodite (?!); a
Chernobyl non è poi che ci siano stati così tanti morti (sic!), certo di meno
di quelli dovuti ai combustibili fossili;
in
futuro prolifereranno i piccoli reattori da condominio (proprio così!). In complesso poi si adombra
elegantemente l’idea che dietro l’opposizione popolare alle centrali ci siano i
grandi operatori del fossile.
In
realtà è facile verificare che le lobby internazionali del nucleare includono
proprio i potentati del fossile:
tra i
22 paesi dell’accordo intercorso alla COP28 ci sono anche gli Emirati Arabi
Uniti (quelli del già citato Sultan Ahmed Al Jaber);
tra i
fautori a spada tratta del nucleare, qui da noi, c’è ENI, che intanto trivella
mezzo mondo per ricavare sempre più petrolio e gas da vendere (e da bruciare).
La
logica è abbastanza semplice:
l’economia
globale non si tocca, la crescita materiale è ineludibile e sacrosanta, per
l’intanto si va avanti a bruciare più fossili possibile facendo affari alla
grande; siccome però si sa che le fonti fossili, continuando al ritmo di
sfruttamento attuale, avranno i giorni contati (la durata delle riserve
economicamente sfruttabili è stimata essere di qualche decennio) ci si muove
per promuovere a larga scala una fonte che possa permettere di continuare in
primis a fare affari con l’energia e le opere correlate (sia pure a carico
delle finanze degli Stati) e poi di alimentare uno stile di vita fisicamente
insostenibile che però assicura condizioni di assoluto privilegio a chi
controlla flussi e investimenti.
Ciò
che dà estremamente fastidio, per lo meno a me, è utilizzare come ostaggi per
le argomentazioni pro nucleare i poveri di questo mondo:
“non
vorremo mica impedir loro di diventare come noi”.
Eppure
le statistiche (e la fisica) dicono che l’economia della crescita competitiva,
del consumismo irrazionale, dell’usa e getta fanno dovunque crescere le
disuguaglianze.
Se si
vuole recuperare l’equilibrio occorre porre mano al paradigma economico
dominante:
questo
però in primo luogo mette in discussione la posizione di coloro che hanno i
massimi vantaggi diretti e immediati e questi, che dispongono di enormi risorse
monetarie, investono alla grande nella disinformazione di massa e nelle azioni
di lobbying nei confronti dei decisori istituzionali a vario titolo piuttosto
sensibili anch’essi al qui e ora (domani si vedrà…).
La società ideale prospettata da “Mr. Stone” è quella americana (senza far caso
al fatto che tocca rilevanti record di iniquità interna e di sistematico spreco
di risorse) intesa come modello universale per altro ineludibile e necessario.
Fra
l’altro il nucleare (pulito, s’intende) che dovrebbe alimentare quel modello,
ahimè, avrebbe a sua volta una durata misurabile in decenni, più o meno come il
petrolio, ma, decennio dopo decennio, con un po’ di gas-petrolio-carbone e di
pulitissimo nucleare un po’ avanti si va.
Finito
questo tempo senza cambiar nulla, be’, qualcos’altro si troverà (la “scienza”
magica farà qualche miracolo) e si potrà continuare imperterriti sulla strada
del “sempre di più soprattutto per me”.
Insomma:
cambiare tutto perché nulla cambi.
C’è da
dire che questa offensiva generalizzata, a tutto campo, per la promozione e il
rilancio del nucleare ha anche un po’ una connotazione vagamente isterica.
Sembra che chi è ai vertici del vero potere, quello del denaro, cominci a
sentirsi un po’ inquieto di fronte alle minacce di tracollo climatico e a una
sia pur lenta e a volte non del tutto razionale presa di coscienza della natura
del problema dell’insostenibilità del nostro paradigma sociale ed economico
globalizzato.
Nell’aria
si annusa l’odore di cambiamenti necessari che, fuori dagli aspetti
tecnologici, rischiano di risultare ineludibili.
Se la
transizione di cui tanto si parla viene gestita con saggezza l’intera umanità
ne trae vantaggio, ma se la logica del “qui e ora” e del “prima io” prevale,
allora ci si può aspettare che, in parallelo e ancor prima del tracollo
climatico, si arrivi a forme di collasso politico sociale oltreché materiale
(tradotto: conflitti e guerre più o meno devastanti) che possono trasformare
l’evoluzione in una catastrofe.
Ormai
la COP28 è divenuta un’enorme tragedia buffa che funge o vorrebbe fungere da
oppio dei popoli ed è del tutto in mano a chi, avendo moltissimo, non intende
rinunciare a nulla e anzi vorrebbe avere sempre di più.
E poi,
come diceva Luigi XV di Francia: “après moi le déluge” o meglio “dopo di me il
collasso climatico”.
Una progressiva presa di coscienza potrà aiutarci ad
evitare i guai peggiori e a mitigare l’impatto di quelli che sono ormai
ineludibili o già in corso.
Il
corpo e la politica:
repressione
del dissenso,
patriarcato
e guerra.
volerelaluna.it - (08-12-2023) - Monica
Quirico – ci dice:
La
presenza ex-ante e le cariche ex-post della polizia al Campus Einaudi
dell’Università di Torino suggeriscono un’analisi su più livelli:
politico e insieme intellettuale, locale e al
contempo globale.
Il
primo è quello della repressione del dissenso (volerelaluna.it/in-primo-piano/2023/12/07/antifascismo-e-repressione-il-barometro-non-segna-bel-tempo/), il cui inasprirsi sotto un governo
post-fascista è stato preparato – bisogna ricordarlo, per evitare distorsioni
ottiche – da una gestione del conflitto sociale come mero problema di ordine
pubblico lungo tutta la storia repubblicana.
Del
resto, se non si fanno i conti con il proprio passato (fascista), non ci si può
aspettare un esito diverso.
All’interno
di questo quadro, esiste – come più volte rammentato su questo sito – una
specificità torinese, che, a partire dagli anni Novanta (ossia quando l’onda
lunga della radicalizzazione è finita da un pezzo), nel susseguirsi di giunte
di centrosinistra, si esplicita nell’ostinazione a zittire tutto ciò che si
muove a sinistra del Pd (prima Pds e Ds) e dei suoi alleati:
che
sia il “movimento No Tav”, quello studentesco (perfino quando a manifestare
sono studentesse e studenti delle superiori) e, più recentemente, l’attivismo
ambientale e climatico.
Se la
riuscita del corteo del 1° maggio – dove per riuscita va inteso che, per la
prima volta dopo molti lustri, lo spezzone sociale non è stato caricato per
impedirgli di raggiungere piazza San Carlo – aveva suscitato qualche illusione,
bene, torniamo con i piedi per terra.
E
facciamoci qualche domanda sulla pervicacia di questa criminalizzazione della
protesta sociale nella città dell’Autunno caldo:
è
stata Torino di nuovo un laboratorio, ma stavolta della gestione del dissenso
in un’epoca in cui, sconfitti il movimento operaio e i gruppi rivoluzionari, la
borghesia “illuminata” ha deciso che la partecipazione politica, il conflitto –
in una parola: la democrazia – andavano trattati semplicemente come un costo,
da abbattere il più possibile?
D’altronde, la città è stata, soprattutto con
le giunte Chiamparino (due comunali e una regionale), la palestra del radicale
cambio di rotta del partito succeduto al Pci nella scelta dei suoi referenti
sociali: dal lavoro dipendente all’impresa.
Ben
venga che oggi alcuni suoi parlamentari chiedano conto al ministro dell’Interno
di quanto accaduto al Campus, ma il loro partito negli ultimi trent’anni non
abitava su Marte.
Qualche
riflessione va fatta anche sulla polizia:
non solo per capire a quali criteri risponda
la loro condotta in piazza e dentro le Università, ma perché nulla sappiamo di
come venga formata;
su
quali testi e metodi e visioni della società.
Alessandra
Agostino, la docente manganellata dagli agenti insieme con la collega Alice
Cauduro, ha fatto notare, in un’intervista a il manifesto del 7 dicembre (ilmanifesto.it/picchiata-dalla-polizia-insieme-ai-miei-studenti), il divario fra la lentezza con cui
le forze dell’ordine rispondono alle denunce delle donne e la sollecitudine con
cui la polizia ha fatto da angelo custode agli studenti del FUAN (rompendo
anche un braccio a una studentessa).
Divario
amplificato dalla manciata di ore intercorse fra i funerali di “Giulia
Cicchetti “e le cariche al “Campus Einaudi”.
Ma
questa concomitanza assume un valore simbolico ancora più tetro: perché dopo
giorni in cui media e politica hanno pronunciato, con un unanimismo alquanto
sospetto (volerelaluna.it/in-primo-piano/2023/11/22/femminicidi-qualche-riflessione-scomoda-ma-necessaria/), parole altisonanti contro la
violenza di genere, i tutori dell’ordine hanno colpito – per giunta a tensioni
archiviate – due donne, che si erano interposte con i loro corpi fra agenti e
studenti/studentesse.
Poteva
forse capitare anche a docenti uomini (a proposito: i colleghi dove erano?), ma
resta il fatto che lì c’erano Alessandra e Alice.
L’ennesima
conferma che, quando si parla del corpo delle donne, il confine tra la sua
disponibilità (l’asservimento alla società patriarcale) e la sua dispensabilità
(la condanna all’irrilevanza, qualora si sottragga alle regole del gioco) può
essere molto sottile.
E
opporsi, con il proprio corpo, alla violenza delle istituzioni è in sé e per sé
un atto politico:
l’esserci; per affermare un diritto, esprimere
solidarietà.
La
reazione dell’Università di Torino è stata cerchiobottista: una condanna di
tutte le forme di violenza che però non nomina quella poliziesca.
Convocare
un’assemblea straordinaria del personale, o – incredibile a dirsi – indire uno
sciopero di solidarietà almeno con le colleghe restituirebbe un po’ di quel
prestigio che non si misura solo sulla base di “parametri” decisivi per
l’assegnazione di fondi.
Va
detto che da molto tempo le Università europee, con le dovute eccezioni, sono
silenti al cospetto delle catastrofi della nostra epoca (migrazioni, clima,
guerre): spendono più tempo a inseguire finanziamenti privati (compresi quelli
dell’industria bellica) che non a contribuire al dibattito pubblico, e quando
lo fanno non di rado introiettano la polarizzazione del lessico mediatico.
Tuttavia
la complessità della conoscenza e il suo pluralismo si affievoliscono anche per
l’attacco globale a filoni di studi come quelli postcoloniali e di genere (da
noi arrivati con vent’anni di ritardo) nonché al pensiero critico in generale.
La destra – negli USA come in Ungheria, in
Svezia come in Francia – sta tentando di estirparli dalle Università,
stigmatizzandoli come discriminatori o addirittura criminalizzandoli come
fucina di terrorismo.
Nel Regno Unito pochi mesi fa è stata
approvata la “Legge per la libertà di espressione nelle Università” per
consentire a individui e gruppi politicamente scorretti di partecipare al
confronto pubblico.
Il
moderatissimo Labour Party ammoniva, nel dibattito precedente l’approvazione
dell’atto, che i gruppi antisemiti ne avrebbero approfittato.
Oggi a essere zittiti sono docenti e studenti
e studentesse che chiedono l’immediato cessate il fuoco a Gaza.
Già,
perché da anni e anni la crescita dell’antisemitismo va di pari passo con
l’aumento dell’islamofobia: due facce della stessa cultura discriminatoria e
dunque antidemocratica.
Le comunità ebraiche che, traumatizzate dal 7
ottobre, ricevono esponenti istituzionali dell’estrema destra dimenticano una
regola preziosa: il nemico del nostro nemico non è necessariamente nostro
amico.
Soprattutto
se è figlio o nipote, politicamente parlando, di chi, in Italia o altrove, ha
consegnato le famiglie ebraiche ai nazisti.
Oltre
alla concomitanza fra i funerali di Giulia Cecchetti e le manganellate alle due
docenti, mi colpisce un’altra analogia.
Prima
del 7 ottobre – leggo sull’ottimo sito “Jewish Currents” – attivisti israelianɜ
e internazionali ricorrevano a quella che viene definita “presenza protettiva”:
sfruttavano la loro nazionalità, che li rendeva non facilmente perseguibili,
per fare da scudo con i loro corpi alle famiglie palestinesi in Cisgiordania,
contando sull’effetto deterrente che il loro esserci avrebbe avuto sulla
violenza dei coloni e dell’esercito israeliano.
Immagino
che anche Agostino e Cauduro abbiano pensato, qualificandosi come docenti, di
poter spendere la loro posizione di relativo privilegio per garantire i diritti
di soggetti in quel momento vulnerabili (studenti e studentesse).
Sappiamo come è andata a finire.
Mutatis
mutandis, la dinamica è la stessa che le e i militanti non violenti israeliani
hanno sperimentato.
Il 12
ottobre Ta’ayush, una delle tante associazioni miste israelo-palestinesi che si
oppongono fisicamente, e pacificamente, all’occupazione israeliana, ha avuto
un’amara sorpresa:
non solo la presenza di cinque suoi militanti
non ha affatto dissuaso i coloni dall’attaccare il villaggio di Wadi a-Seek, ma
gli israeliani sono stati a loro volta sequestrati, al pari dei tre palestinesi
che cercavano di proteggere.
Questi
ultimi sono stati torturati, mentre le persone di nazionalità israeliana, in
virtù del loro relativo privilegio, sono state “solo” legate, strattonate e
chiuse in una stanza.
L’accaduto
ha reso più pericolosa e meno efficace una forma di solidarietà che,
soprattutto negli ultimi anni, quando la violenza coloniale si è intensificata,
ha determinato il rinvio o addirittura l’annullamento della prevista
distruzione di alcuni villaggi.
Repressione
del dissenso, patriarcato, guerra:
sono
tre dimensioni dell’oscurità che stiamo attraversando;
il
regime di guerra impregna episodi locali così come tragedie internazionali.
Mentre scrivo, la polizia, alla stazione Porta Nuova di Torino, ha caricato le
e i manifestanti diretti alla marcia No Tav a Bussoleno. Ma solo perché – a
detta della polizia – non avevano il biglietto…
(In
homepage Giorgio de Chirico, Le Muse inquietanti, 1917, olio su tela, Milano,
Collezione Mattioli)
Un
esempio di ritorno al terrore staliniano.
Lettera
aperta di “Novaja Gazeta”:
"Libertà
per Kara Marza."
Huffingston.it
- Memorial Italia – (11.4.2023) – Redazione - ci dice:
Un
esempio di ritorno al terrore staliniano.
Lettera
aperta di Novaja Gazeta: Libertà per Kara Marza
"Chiediamo
con decisione che le autorità russe, le forze dell'ordine e i giudici ritrovino
la strada della giustizia. Che perseguano assassini e criminali, e non quei
cittadini onesti e responsabili che osano pensare e dire la verità. E che
fermino questa nuova deriva della Russia verso lo stalinismo e il
totalitarismo"
Giornalisti
e attivisti russi per i diritti umani chiedono l'immediata cessazione della
politica di terrore contro i cittadini e il rilascio di “Vladimir Kara-Marza”.
Il
pubblico ministero ha chiesto 25 anni di detenzione per Vladimir Kara-Marza,
politico attualmente in carcere per una lunga serie di accuse infondate.
Vladimir
Kara-Marza è un patriota nel senso vero del termine, e fin dai primi giorni di
guerra si è espresso più volte contro l'aggressione russa che ha causato
tragedie senza fine al popolo ucraino, fagocitando anche le vite dei soldati
russi e dei nostri concittadini mobilitati.
In Russia, però, ora come ora dichiarare di
volere la pace e la fine della guerra è un reato penale.
In
aggiunta all'accusa suddetta - antigiuridica e vergognosa - Kara-Marza ne ha
anche una seconda per alto tradimento.
Avrebbe
tradito il suo paese, insiste il procuratore, intervenendo nei forum
internazionali con parole di condanna per la guerra e parlando delle
persecuzioni di cui sono vittime gli oppositori nella Russia di Putin.
Parole
e opinioni che il procuratore ha paragonato, per gravità, a un omicidio con
fior di aggravanti.
Per
quanto ha detto contro la guerra, Kara-Marza è in carcere e in attesa di una
condanna verosimilmente mostruosa quanto a ferocia – l'ergastolo, di fatto.
Nel
frattempo è sopravvissuto a due attentati alla sua vita: hanno provato ad
avvelenarlo due volte.
Fortunatamente falliti, i due avvelenamenti
hanno comunque inferto un duro colpo alla sua salute.
Ciò non di meno, malgrado i medici del carcere
– persino loro! -abbiano messo nero su bianco una diagnosi grave e progressiva
(polineuropatia con minaccia di paralisi agli arti inferiori) e nonostante la
diagnosi in questione sia nell'elenco delle malattie che dovrebbero esentarlo
da una pena detentiva, il giudice continua a non revocare la sua detenzione
nella struttura attuale, in cui Kara-Marza non ha modo di ottenere cure
adeguate.
È
nostra precisa convinzione che tutte le accuse mosse a Vladimir Kara-Marza
abbiano un fondamento politico, e che quella di alto tradimento sia di un
cinismo inaudito, essendo stato proprio lui, Vladimir Kara-Marza, a dimostrare
ai politici dei Paesi occidentali che la colpa delle azioni repressive dello
Stato russo e della sua politica di aggressione non è dell'"intero
Paese", ma di singoli individui.
Le
accuse - completamente infondate - e la condanna richiesta sono un esempio
lampante di come la Russia di oggi sia tornata alle pratiche del terrore
staliniano.
Nel
secolo scorso le misure repressive contro gli oppositori e il proprio popolo
sono costate alla Russia diverse centinaia di migliaia di vite.
Anche
allora, il terrore staliniano era iniziato con i processi-farsa contro gli
oppositori politici e i dissidenti, finendo poi con le fucilazioni di massa e
le incarcerazioni di cittadini comuni, ivi compresi coloro che avevano accolto
con entusiasmo i primi processi-farsa e avevano collaborato a istituirli.
Chiediamo
con decisione che le autorità russe, le forze dell'ordine e i giudici ritrovino
la strada della giustizia.
Che perseguano assassini e criminali, e non
quei cittadini onesti e responsabili che osano pensare e dire la verità.
E che
fermino questa nuova deriva della Russia verso lo stalinismo e il totalitarismo.
(Libertà
per Vladimir Kara-Marza!)
Il
Fatto di domani. Dopo lo scandalo
consulenze
Sgarbi traballano. Caso Giambruno,
guerra
aperta tra Meloni e Mediaset (nonostante Marina).
E
altri articoli.
Ilfattoquotidiano.it
– FQ extra –
(25 ottobre
2023) – Redazione con altri articoli – ci dice:
BUFERA
SU SGARBI, IL GOVERNO VERSO LA REVOCA DELLE DELEGHE DA SOTTOSEGRETARIO.
Sono “consulenze saltuarie”, quelle che Vittorio Sgarbi avrebbe
fatto da febbraio a oggi mentre era regolarmente in carica come
sottosegretario, come dice il suo avvocato?
Sul
Fatto di oggi abbiamo pubblicato la lista di servizi e compensi relativi.
A “Thomas
Mackinson” risulta che “in funzione della posizione e delle deleghe Sgarbi sia
oggetto di continue sollecitazioni di soggetti pubblici e privati che chiedono
il suo diretto intervento per iniziative d’ogni tipo”.
E a
quanto risulta dall’intervista al “ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano”,
il governo e “Giorgia Meloni” sono al corrente della vicenda.
“Valeria
Pacelli” ha raccontato invece che “Sgarbi” risulta indagato dalla Procura di
Roma per l’acquisto di un’opera d’arte:
deve
715 mila euro al fisco.
Dopo
la diffida a mezzo stampa inviata ieri dal suo avvocato, oggi il diretto
interessato ha smentito, e addirittura ha dichiarato che l’intervista a
Sangiuliano è falsa (ovviamente non è così).
Da Palazzo Chigi però tira un’aria di tempesta: il governo ha fatto sapere che sul
caso sono in corso “approfondimenti” e come ha scritto “Giacomo Salvini” sul “Fatto.it”
è molto vicina la revoca delle deleghe a Sgarbi.
Revoca
che in Parlamento ha già chiesto il Movimento 5 Stelle, con una mozione
depositata alla Camera.
Sgarbi
ha smentito che si dimetterà, ma come vedremo sul Fatto di domani il caso è tutt’altro
che chiuso.
CASO
GIAMBRUNO:
MARINA
B. PROVA A STEMPERARE, MA È GUERRA APERTA TRA MELONI E MEDIASET.
“In questi giorni ho letto e sentito di tutto:
retroscena inventati di sana pianta, ricostruzioni totalmente prive di senso
logico e spesso anche contraddittorie.
La verità è una sola: stimo molto Giorgia
Meloni.
La trovo capace, coerente, concreta.
La
apprezzo sul piano politico e come donna, ancor più in questi giorni”:
con
queste parole Marina Berlusconi ha provato oggi a placare il vento gelido che
si respira nel governo dopo i fuori onda dell’ex compagno della premier, “Andrea
Giambruno”, mandati in onda da “Striscia la Notizia”.
Non è
un’uscita a caso: Meloni è convinta che dietro l’operazione di “Antonio Ricci “ci
sia una sorta di “complotto” di “Mediaset” e di “Forza Italia” contro la sua
leadership.
Le parole di Marina, però, potrebbero non rivelarsi
abbastanza efficaci:
domani
sarà in edicola un nuovo numero del settimanale “Chi” che, in copertina,
riporta una foto della ex coppia presidenziale con il titolo “Perché ha detto
addio a Giambruno”.
Già in
passato Alfonso Signorini, che dirige la rivista, aveva avuto modo di scherzare
sul “blu estoril” del giornalista.
Il quale ieri ha accettato di lasciare la
conduzione del programma “Diario del giorno” su” Rete4” (quello da cui sono
stati presi i fuori onda) e oggi s’è fatto ritrarre dal barbiere che gli aveva
appena tagliato il ciuffo della discordia.
Sul giornale di domani vedremo come sta
proseguendo la lotta intestina nella maggioranza:
a differenza di quanto affermato dalla premier
ieri in Parlamento (“Fatevene una ragione, la maggioranza è compatta”), il clima è talmente teso che la
stessa Meloni, infuriata, avrebbe impedito ai suoi ministri di andare ospiti
nelle trasmissioni del Biscione.
AUMENTANO
GLI ITALIANI POVERI (E IL GOVERNO HA TAGLIATO IL REDDITO). ISTAT, IL PEGGIORAMENTO DOVUTO A GUERRA E
INFLAZIONE.
Gli
effetti di un anno sulle montagne russe in conseguenza (principalmente) della
guerra in Ucraina si vedono nell’ultimo rapporto Istat.
Nel
2022 i poveri assoluti in Italia sono aumentati vertiginosamente rispetto
all’anno prima, dove pure c’era stato il Covid (ma anche i sussidi per
proteggere gli individui).
L’anno
scorso erano in povertà assoluta 2,18 milioni di famiglie, l’8,3% del totale,
in deciso aumento rispetto al 7,7% del 2021.
Nella stessa condizione si trovano oltre 5,6
milioni di individui, in crescita di 357 mila unità, passando così dal 9,1% del
2021 al 9,7%.
Come
sempre, le famiglie in povertà assoluta sono di più nel Mezzogiorno. Secondo l’Istat il peggioramento “è
imputabile in larga misura alla forte accelerazione dell’inflazione”.
E va
considerato che fino all’anno scorso era ancora disponibile “il Reddito di
cittadinanza”.
Visto
che la fiammata dei prezzi non si è ancora placata, e che nel frattempo il
governo ha tagliato il “Rdc” e introdotto misure spot come il “carrello
tricolore”, c’è da chiedersi se il 2023 non sarà ancora peggio.
Sul
Fatto di domani ne parleremo con la sociologa esperta di povertà “Chiara
Saraceno”, e leggerete una nostra analisi dei numeri dell’istituto nazionale di
statistica.
ISRAELE-GAZA,
IL PRESIDENTE TURCO ERDOGAN:
“MILIZIANI DI HAMAS LIBERATORI, NON
TERRORISTI”.
GUTERRES
(ONU): “NON HO GIUSTIFICATO LE VIOLENZE”.
LAPID,
LEADER CENTRISTA: “QUANTI EBREI DEVONO MORIRE ANCORA?”.
Al 19°
giorno di guerra, dopo il raid di “Hamas del 7 ottobre”, che ha provocato 1.400
morti nello Stato ebraico, si alzano i toni del confronto politico.
Il
presidente turco Erdogan, sostenitore dell’islamismo, ha definito i militanti
di Hamas “liberatori” e “non terroristi”. Lo Stato ebraico replica:
“Sono
parole crudeli, “Hamas” è come l’”Isis”.
Yair
Lapid, leader dell’opposizione israeliana, sul social X-Twitter rivolge tre
domande “all’estrema sinistra globale”, accusata di antisemitismo:
“Quanti
ebrei devono morire prima che la smettiate di darci la colpa per tutto quello
che succede?”.
Prosegue
la polemica tra Israele e i vertici dell’Onu;
il
segretario delle Nazioni Unite, Guterres, è tornato sul caso provocato dalle
sue dichiarazioni:
“Sono
scioccato da come le mie affermazioni di ieri sono state interpretate da
alcuni, come se io stessi giustificando il terrore di Hamas. Questo è falso.
Era l’opposto”.
Sul “fatto.it”
abbiamo pubblicato il suo discorso integrale.
Sul
campo si continua a morire: il ministero della Sanità palestinese aggiorna le
cifre, 6.546 morti e oltre 17.439 feriti.
Israele
colpisce anche in Cisgiordania, a Jenin, mentre in Libano si ritrovano i capi
di “Hamas”, di “Hezbollah” e della Jihad islamica per una comune strategia
contro lo Stato ebraico.
Di
tregua non si parla e anche l’Unione europea ritiene che un ‘cessate il fuoco’
non sia proficuo dato che gli estremisti islamici continuano a bersagliare
Israele con i razzi.
Resta
poco chiara la tattica che vuol usare l’esercito di Tel Aviv;
aveva
annunciato l’offensiva di terra ma entrare a Gaza non è la migliore opzione per
l’alleato americano.
La” Cnn” riporta che i vertici militari degli Stati
Uniti vogliono evitare che si ripetano i loro errori commessi in Iraq, con
scontri in aree urbane all’ultimo sangue.
Inoltre, l’invasione metterebbe a rischio gli
ostaggi in mano ad “Hamas”, provocherebbe altre morti tra i civili palestinesi
e potrebbe essere sfruttata dall’”Iran” e da “Hezbollah” in Libano per aprire
un nuovo fronte.
A questo, si aggiunge il disaccordo tra il
premier Netanyahu da un lato, e dall’altro diversi suoi ministri e i vertici
militari.
Sul “Fatto
di domani” leggeremo altri particolari sulla giornata, la storia delle tensioni
tra Onu e Israele, e i diari da Tel Aviv e Gaza.
LE
ALTRE NOTIZIE CHE TROVERETE SU FQ EXTRA.
Ascolti
ai minimi e monologo pro-Meloni, il caso De Girolamo.
Non si assesta la caduta televisiva di Nunzia
De Girolamo:
il suo
“Avanti popolo” su Rai3 ha raccolto solo 432.000 spettatori con il 2.6% di
share.
L’ex
parlamentare è stata doppiata da “E’ sempre CartaBianca” (5%) e “Belve” (5,8%),
triplicata da “Le Iene” (8,8%) e “DiMartedì” (8,1%).
Battuta anche da Tv8, Iris e canale 20. E va
segnalato il suo monologo d’apertura, di tre minuti, a favore della premier che
“avrebbe potuto stare zitta, e invece ci ha messo la faccia con coraggio”.
Scossa
di terremoto nel rodigino, nessun danno.
Una
scossa di magnitudo 4.3 si è verificata nei pressi di Calto (Rovigo), a una
profondità di 20 chilometri alle 15.45.
Il sisma, registrato dal Centro di Ricerche
Sismologiche di Trieste, è stato avvertito anche a Bologna e Modena.
Non
sono stati segnalati danni in Veneto o in Emilia Romagna.
Report
Rai 3, la destra vota per portare Ranucci in vigilanza per la puntata su
Berlusconi.
Dopo
le polemiche sulle ultime puntate di Report, la maggioranza fa mettere ai voti
e ottiene la convocazione in commissione di Vigilanza del direttore Approfondimento della
Rai, Paolo Corsini e del conduttore della trasmissione di inchiesta in onda
domenica sera Sigfrido Ranucci.
Si è
opposta la presidente Barbara Floridia.
La
data dell’audizione dev’essere stabilita.
OGGI
LA NEWSLETTER A PAROLE NOSTRE.
“Judith
Butler”:
“La
destra crea fantasmi per fame di potere. La democrazia non può che essere
femminista e antirazzista”
di
Maria Cristina Fraddosio.
“Non
ha senso considerare l’identità di genere come un’assegnazione naturale e
necessaria per tutti.
Accettare
la complessità umana ci renderebbe più umani”.
Lo afferma la filosofa americana Judith
Butler, fondatrice degli studi di genere e docente dell’Università di Berkeley,
insignita per la prima volta nel nostro Paese del “dottorato honoris causa” in
“Gender studies” dall’”Università di Bari Aldo Moro”.
"Non
confondere i terroristi
con il
popolo palestinese".
I
distinguo di Conte e Schlein.
Ilfoglio.it
- REDAZIONE – (13 OTT. 2023) – ci dice:
Le
opposizioni chiedono che “Hamas” venga fermato attraverso "il diritto
internazionale" in quanto la pace "è valore irrinunciabile".
E il
leader grillino annuncia querele contro il presidente della comunità ebraica di
Milano” Walker Meghnagi” che aveva accusato i 5 stelle di antisemitismo.
Sullo
stesso argomento:
Lo
scontro fra Fazzolari e Tajani sulla risoluzione pro Israele.
L'invito
di Meloni: toni moderati.
"Capisco
il Pd, ma su Israele non ci può essere ambiguità". Intervista a
Giovanbattista Fazzolari.
L'”onlus filo Hamas”: “Rapporti con M5s e FdI”.
A
poche ore dalla richiesta di evacuazione di Gaza da parte di Israele per
consentire l'attacco sul territorio, M5s e Pd intervengono per precisare la
loro posizione.
In due
lunghi messaggi il presidente Giuseppe Conte e la segretaria Elly Schlein
chiedono che non si confonda il popolo palestinese e l'organizzazione
terroristica “Hamas” e si arrivi a sconfiggere quest'ultima proteggendo i
civili palestinesi.
Già i
distinguo nelle risoluzioni approvate in Parlamento per il sostegno a Israele
hanno svelato che la posizione nei “confronti del conflitto Israele
palestinese” è tutt'altro che priva di sfumature:
a
differenza di quanto accaduto per l'Ucraina, quando la risoluzione era unica,
in questo caso ne sono state approvate quattro.
E
allora ecco che mentre la crisi umanitaria a Gaza si fa più delicata Schlein
precisa:
"Ci
siamo tutti schierati dalla parte di Israele senza ambiguità ma ora è il tempo
della politica e di fare ogni tentativo per evitare un’escalation del conflitto".
Per
farlo, secondo la segretaria, bisogna che “Hamas” venga fermato attraverso
"il diritto internazionale e proteggendo civili palestinesi, le cui vite
non valgono di meno".
"Hamas non è il popolo palestinese", continua la segretaria,
spiegando come l'ultimatum di 24 ore per l'evacuazione dei civili nella parte
settentrionale di Gaza "rischi di provocare ulteriori morti di innocenti e
violazioni di diritti umani" oltre che "accrescere una spirale di
odio e violenza, che potrebbe estendersi all’intera regione".
Giuseppe
Conte – in una lunga lettera aperta su Facebook – ribadisce la condanna
"senza esitazione agli efferati atti terroristici di Hamas".
E continua:
"Abbiamo ribadito che le azioni di
terroristi ed estremisti, che condanniamo con la massima fermezza, non vanno
confuse con i diritti e le legittime aspirazioni della popolazione palestinese.
Abbiamo
invocato corridoi umanitari e riteniamo che qualsiasi reazione non valga a
sospendere il diritto internazionale umanitario".
"Da
giorni – continua Conte – per la stampa italiana, siamo 'filopalestinesi' solo
per aver sostenuto che la risposta non sono le armi, ma la politica e i
negoziati. Continueremo a dirlo perché la pace è il nostro valore
irrinunciabile".
La
denuncia contro Meghnagi.
La
lettera del presidente del Movimento 5 Stelle tuttavia non finisce qui, anzi.
Il suo
lungo messaggio arriva come risposta per chi "infama il M5S" e nello
specifico al
presidente della Comunità ebraica di Milano Walker Meghnagi.
Ieri
12 ottobre a Milano si è svolta una manifestazione in supporto a Israele
(sostenuta anche dal “Il Foglio”) nella quale Meghnagi ha accusato gli
esponenti del Movimento 5 Stelle di essere "antisemiti" e che Conte
debba "leggere e studiare".
Il
motivo dell'affermazione è stato che – come per quella organizzata dal “Il
Foglio” a Roma – anche a Milano il partito non ha partecipato al sostegno
collettivo.
Nella
risposta pubblicata su Facebook Conte ha spiegato come quanto detto dal
presidente della comunità ebraica milanese sia "un insulto gratuito,
denigratorio, intollerabile. Una grave offesa alla dignità etica, morale e
politica della nostra comunità".
Conte
scrive che hanno "atteso e sperato in una resipiscenza, ma non c’è stata
nessuna smentita", per cui procederanno per vie legali attraverso una
denuncia per diffamazione "che getta fango sui valori, sulle idee e sulla
storia dei rappresentanti, degli attivisti, dei cittadini che sostengono la
nostra comunità politica".
Quella
di Meghnagi non è l'unica accusa rivolta a Conte in questi giorni. Anche il
deputato di Fratelli d'Italia Giovanni Donzelli alla Camera ha accusato il
Movimento di antisemitismo.
Sulle
pagine del Il Foglio – a cui Conte ha risposto – si sono trovate prove di
convergenza di una “Onlus filo Hamas” e di alcuni esponenti pentastellati
(oltre che di Fratelli d'Italia).
Oggi
in Italia è diventato uno "scandalo parlare di pace", dice dunque
Conte.
"Chi
parla di pace ieri era filo-putiniano e, da oggi, diventa anche antisemita.
Abbiamo chiesto – continua la lettera – un impegno affinché la risposta non sia
una spirale di violenza e di morte contro i civili palestinesi".
Il
messaggio si chiude con un ultimo invito per Meghnagi:
"Consiglio
a lui qualche lettura, come quando nel 2019 in sinagoga ricordai a tutti che
'l’antisemitismo è il suicidio dell’uomo europeo'".
Impegnando
il tempo in questa lettura forse può sottrarre qualche minuto a certe
infamie", conclude.
GUERRA
RADICALE.
La
guerra è cambiata: così “AI”
e
“social” trasformano i conflitti.
Agendadigitale.eu
– (29 novembre 2023) – Mario Dal Co – ci dice:
(Mario
Dal Co - Economista e manager, già direttore dell'Agenzia per l'innovazione)
Il
“digitale” e l'”IA” hanno ridefinito gli scenari bellici, consentendo
l'attuazione di strategie complesse che vanno oltre il semplice uso delle armi.
Cyberattacchi,
propaganda e distruzione di infrastrutture informatiche sono solo alcune delle
tecniche utilizzate nell'arena digitale.
Questa
rivoluzione sta mettendo alla prova i confini etici e legali della guerra.
Guerra
di notizie false.
L'avvento
del digitale ha radicalmente trasformato il modo in cui vengono condotti i
conflitti, dando vita ad una nuova forma di guerra dove l'informazione e le
diventano strumenti strategici tanto quanto le armi tradizionali.
Al
contemporaneo, “social media” e “nuove tecnologie” hanno introdotto un elemento
di ambivalenza sul campo di battaglia:
se da un lato hanno permesso una comunicazione
più rapida ed efficiente
, dall'altro hanno aperto la via a nuove forme
di manipolazione dell'opinione pubblica.
L'”intelligenza
artificiale”, con la sua continua evoluzione, sta inoltre ridefinendo il
concetto stesso di arma, introducendo strumenti con potenziali impatti
devastanti. Questo scenario pone interrogativi cruciali sul rischio di un
predominio della tecnologia sulla politica nei contesti bellici, una domanda
che richiede un attento esame nel complesso panorama delle dinamiche della
guerra nel periodo digitale.
Indice
degli argomenti:
Le
nuove dinamiche della guerra nel contesto digitale.
Il
ruolo delle immagini e dei sociali nei conflitti moderni.
La
tecnologia nella relazione tra governo, esercito e popolo.
L'ambivalenza
delle nuove tecnologie sul campo di battaglia.
Risale
la minaccia nucleare.
L'evoluzione
delle armi nell'era dell'intelligenza artificiale.
Il
rischio del predominio della tecnologia sulla politica nei contesti bellici
Le
nuove dinamiche della guerra nel contesto digitale.
Dopo
il 201 , considerato dall'opinione pubblica occidentale e soprattutto
statunitense il punto di svolta nella guerra globale al terrore (Global War on
Terrorism), nel mondo ci sono state, fino al 2020, oltre 100 guerre.
Internet
le rende più accessibili: secondo l'Unione Internazionale delle
Telecomunicazioni, Agenzia delle Nazioni Unite, nel 2019 il 54% della
popolazione mondiale usava internet, ma la percentuale di popolazione dotata di
accesso attraverso un cellulare era del 97% nel 2021.
Questi
dati illustrano la facilità di accesso alle informazioni che caratterizzano il
nostro tempo:
sappiamo
che la guerra viene commentata e documentata prima sui “social” che sulla
stampa.
Da
questo punto di vista si è compiutamente realizzata la profezia di coloro che
prevedevano una democratizzazione della funzione del giornalista, una sua
estensione verso forme di raccolta e pubblicazione delle informazioni diverse
da quelle tradizionali.
L'informazione viene prodotta e diffusa 24 ore
al giorno tutti i giorni, senza sosta. L'informazione passa dalla rete al
cellulare e al nostro cervello, ma non si sedimenta se non con
l'approfondimento e non si fissa se non con la ripetizione: due possibilità che
la rete ci offre, ma che la pressione stessa dei social media ci impedisce di
esercitare.
La
guerra radicale, nella visione degli autori citati, è quella guerra che ormai
viene legittimata, combattuta, pianificata attraverso i “social media” e “la
rete.”
Il
ruolo delle immagini e dei sociali nei conflitti moderni.
Durante
le guerre mondiali la documentazione diretta sulla guerra era scarsa:
la
censura militare impediva le comunicazioni scritte, quelle telefoniche erano
rare, la stampa era posta sotto il controllo della censura:
la
comunicazione ha sempre svolto un ruolo centrale nella gestione della guerra,
usando gli strumenti tecnologicamente disponibili in ciascun momento storico,
ma con il doppio obiettivo di moralizzare il nemico e galvanizzare il proprio
esercito e il proprio paese.
Oggi,
con internet, le cose sono molto cambiate:
gli
obiettivi della propaganda e contropropaganda rimangono gli stessi, ma la
relazione tra guerra e opinione pubblica è molto cambiata.
Ci
sono molte più informazioni dirette sul suo andamento.
Questo
non vuol dire che esse siano verificate, tutt'altro.
Tuttavia
è pressoché impossibile controllare e censurare la rete in modo tale da non far
filtrare brandelli o anche significativi spezzoni della narrazione del nemico o
della documentazione fornita dalla stampa e delle istituzioni culturali e
umanitarie indipendenti.
La
rete, inoltre, porta con sé un abbattimento delle barriere culturali e
nazionali, pur potendo essere anche uno strumento di esasperazione del
contrasto e del risentimento.
Il
successo del richiamo nazionalistico o razzista, tipico delle guerre fino alle
due mondiali, è destinato a funzionare sempre di meno, mentre aumenta
l'efficacia del richiamo alle ragioni dell'indipendenza e della auto determinazione:
le due
parole d'ordine principali delle ideologie irredentiste e delle correlate
azioni terroristiche ed eversive.
La
tecnologia nella relazione tra governo, esercito e popolo.
I
governi aggressivi e determinati a “farsi valere” agli occhi delle proprie
opinioni pubbliche si trovano di fronte ad un problema non nuovo, ma di
dimensioni nuove.
Se
anticamente (comprendendo nell'antichità anche le due guerre mondiali) bastava
additare e punire disfattisti, disertori e traditori per cercare di mantenere
l'ordine nella società e la lotta a combattere nell'esercito, già sul finire
della seconda guerra mondiale, con l 'apparizione della bomba atomica, le cose
sono cambiate.
Non
solo perché si è approfondito e complicato, forte come non mai, il dibattito
sulla neutralità della scienza e quindi sulla responsabilità morale dello
scienziato, ma soprattutto perché la tecnologia ha oscurato completamente la
relazione tra governo, esercito e popolo.
Da
quel momento, come insegna la famosa scena di “Harrison Ford” che spara con
calma al musulmano che lo minaccia con complicate e aggressive coreografie di
scimitarra, i governi hanno pensato che la chiave della guerra fosse
tecnologica: eserciti professionali, armi di attacco e difesa sofisticate,
grande preparazione tecnica e logistica per occupare il campo e vincere,
coltivando sotto l'antico sogno della “blitz krieg”.
Ma le
nuove tecnologie, in particolare quella di oggi basata sulla digitalizzazione
dei sistemi d'arma, sulla guerra cibernetica, sull'acquisizione di informazioni
sulle mosse del nemico e sulla sua condizione sul campo, portano un regalo avvelenato.
Per
questo molti sostengono che sia Putin con l'aggressione all'Ucraina, sia
Israele, con la risposta spropositata ad “Hamas”, hanno già perso uno dei
risultati più importanti della guerra, quello del consenso internazionale,
ossia quello della sicurezza dello stato e del governo un lungo termine.
L'ambivalenza
delle nuove tecnologie sul campo di battaglia.
Già
l'esperienza esiziale del Vietnam, poi confermata in Afghanistan e Iraq ed oggi
sotto gli occhi di tutti con la guerra in Ucraina e in Medio Oriente,
dimostrava che la superiorità tecnologica era insufficiente se la risposta era
in grado di eluderne la potenza.
Questa
risulta sempre più concentrata, man mano che l'importanza tecnologica ed
economica dei sistemi d'arma aumenta.
Ma
risulta anche più costosa e difficile da controllare sia in termini di capacità
operativa di chi la deve guidare, sia di flessibilità nel suo utilizzo.
Risale
la minaccia nucleare.
È per
questo che è ripresa la corsa al nucleare, con paesi medi o piccoli come “Israele”
e la “Corea del Nord”, che vogliono dotarsi del deterrente in grado di
proteggere i governi dal rischio di essere abbattuti da una minaccia
proveniente dall'esterno.
“Israele
ha introdotto la deterrenza atomica” contro gli attacchi da altri stati
musulmani.
La
tiene rigorosamente segreta e quindi per questo la rende più che mai efficace,
ma pur sempre irrilevante rispetto alle minacce provenienti da forze
parzialmente irregolari non riconducibili, neppure dal punto di vista
finanziario, ad uno Stato e ad un governo.
Ma
Israele ha anche fatto affidamento, secondo la scuola dominante nel secondo
dopoguerra, sul fatto che la tecnologia fosse la risposta a questo rischio.
Ha sviluppato capacità straordinariamente
avanzate nel contrasto alla “cyberwar”, nello “spionaggio elettronico”, nello
sviluppo di armi difensive molto efficienti:
Iron Dome, il suo formidabile scudo
missilistico intercetta 9 attacchi su dieci.
Ma “la katiuscia palestinese vale circa 300
dollari, l'intercettore Tamir fino a 50 mila.
L'incubo
degli strateghi israeliani era e resta la crescita esponenziale in numero,
potenza, precisione e frequenza di lancio dei missili nemici…dieci giorni con
lancio di diecimila razzi e centomila vittime.
Nemmeno
“Iron Dome” sarebbe in grado di assorbire tanto volume di fuoco”.
L'evoluzione
delle armi nell'era dell'intelligenza artificiale.
Sul
fronte della “guerra dei chip” , l'amministrazione americana ha appena
provveduto a stringere le maglie lasciate aperte dai provvedimenti restrittivi
dell'anno scorso.
L'esportazione
verso la Cina dei processori più veloci e potenti di “Nvidia”, quelli per
l'addestramento H1000 e A100 era stato bloccato, con vivaci proteste della
compagnia che realizza in quel mercato almeno un terzo del suo fatturato.
“Nvidia”
ha prontamente sviluppato due prodotti alternativi, H800 e A800, più lenti,
ossia capacità di elaborare 400 gigabyte al secondo invece di 600, aggirando il
blocco e piazzando rilevanti forniture presso i giganti cinesi che lavorano
nell'intelligenza artificiale:
“Bytedance”
(TikTok), “Baidu”, “Alibaba” e “Tencent” hanno acquistato il processore H800
per un ammontare di 5 miliardi di dollari .
“Baidu”,
gigante della ricerca online, ha annunciato una versione del modello di
linguaggio,” Ernie 4” , con capacità simili a “ChatGPT” utilizzando decine di
migliaia di processori per addestrarlo, confermando che si trattava di “chip
Nvidia”.
Ora,
con le nuove restrizioni, i processori H800 e A800 saranno sottoposti ad
embargo.
Un
ostacolo più sulla strada dell'allentamento delle tensioni tra Usa e Cina.
L'intelligenza
artificiale avanza sul terreno della frontiera tecnologica, ma questo avanzamento si porta
appresso la banalizzazione delle tecnologie più semplici e mature:
la loro applicazione al settore degli
armamenti rende molto più efficaci e meno costose le armi tradizionali, e molto
più efficace il loro impiego.
Le
nuove armi, come i droni e i missili guidati da intelligenza artificiale, sono
sviluppate non solo negli Stati Uniti, in Cina e in Russia:
le
tecnologie sono disponibili anche per paesi di medie dimensioni.
Le
tecnologie divengono accessibili per aziende e gruppi che intendono venderle o
usarle al di fuori delle giurisdizioni oggetto delle politiche di controllo e
delle sanzioni.
Questa
facilità di applicazione e di accesso produce un potenziale sviluppo di sistemi
d'arma in cui, a fianco di mezzi costosissimi operati da soldati in carne ed
ossa vi sono miriadi di armi dotate di qualche sistema di intelligenza
artificiale più o meno avanzato, che affiancano i combattenti sul campo.
“Si
può immaginare uno scenario in cui i droni oltrepassano il numero dei
combattenti in modo considerevole.
Sarebbe
un fattore di moltiplicazione delle forze, poiché oggi uno dei maggiori
problemi della guerra moderna è il reclutamento”.
Il
progetto segreto della difesa americana, “Next Generation Air Dominance” , si
basa sulla collaborazione tra droni collaterali che affiancano i piloti in un
rapporto 5/1.
Naturalmente
vi è un elevato rischio di confusione ed errore, ma il rischio maggiore che
l'intelligenza artificiale comporta è quello dei tempi di reazione:
essa
può convincere il decisore che è possibile rispondere e agire in pochi secondi,
rinunciando a quelle ore in cui, fino ad oggi è stato possibile con
l'intervento umano evitare di precipitare nella catastrofe nucleare.
L'aiuto
americano ad Israele, recentemente proposto al Congresso dall'amministrazione
Biden, comprende 1,2 miliardi di dollari per sviluppare “l'Iron Beam” , un
sistema di difesa basato su laser ad alta energia in grado di proteggere più
efficace dei sistemi affidati ai razzi intelligenti di intercettazione.
Mentre
il sistema americano è orientato ad intercettare missili a largo raggio,
l'intenzione di Israele è di sviluppare il sistema in senso più distribuito,
per essere in grado di difendersi dagli attacchi multipli e contemporanei di
razzi e colpi di mortaio:
“Il sistema israeliano ha un approccio
tecnologico diverso, potrebbe essere una interessante integrazione” ha
osservato “Doug Bush”, Sottosegretario alla Difesa per gli approvvigionamenti.
In realtà è l'ennesimo tentativo di liberarsi
dell'incubo dei 10.000 razzi che attaccano in modo coordinato, magari via
semplici SMS.
Un
altro tentativo che confida nell'effetto taumaturgico della tecnologia.
Il
rischio del predominio della tecnologia sulla politica nei contesti bellici.
Ma il
problema delle guerre moderne, ed in particolare di quelle che dal Vietnam in
avanti sono state condotte da una superpotenza tecnologica e militare, con
grande dispiegamento di mezzi, tecnologie e disponibilità logistica, è un
problema diverso dalla semplice affermazione della superiorità tecnologica.
Contro
il grande dispiegamento di mezzi e capacità, si leva una forza distribuita,
quella di comunità o popoli che si mobilitano, accedendo a sistemi di
comunicazione che riescono a non essere intercettati o che comunque hanno
sistemi di comando decentrati e aggregati in modo tale da non essere facilmente
prevedibili nelle loro scelte.
La rete di diffusione dei terminali
intelligenti è la chiave moderna di questa risposta.
Per
avversari di questo tipo non si pone il problema del reclutamento e l'accesso
ad armi comunque potenti e massicce è facile e poco costoso:
sostenibile anche da chi ha relativamente
pochi mezzi, comunque largamente inferiori all'avversario.
L'illusione
che la tecnologia possa risolvere i problemi politici sposta solo avanti le
modalità del conflitto, ma non risolve il suo esito.
Anzi, più ci si affida alla tecnologia e meno si
sviluppano le attività diplomatiche, culturali, le iniziative religiose e
umanitarie, i programmi economici e finanziari che servono ad alleviare le
tensioni e, nel lungo tempo a risolverle.
Se
Israele si sente pericolosamente e intollerabilmente accerchiata dalla cintura
di fuoco di “Hezbollah” a nord e di “Hamas” a sud, la rincorsa agli armamenti
sempre più sofisticati e tecnologicamente avanzati può risultare inutile e
forse dannosa.
“La
religione della tecnologia consente forse di censire la capacità del nemico,
non di conoscerne le intenzioni…La superiorità tecnologica trasmette sicurezza
mentre prepara rovina”.
L'intelligenza
artificiale sta
cambiando
il modo
di
fare la guerra.
Wired.it
– (4-3-2023) – Andrea Indiano – ci dice:
Lo
dimostra il conflitto in Ucraina, che vede il coinvolgimento di un colosso come
“Palantir”, che sfrutta algoritmi di analisi dei dati per dire all'esercito di
Kyiv cosa, dove e quando colpire.
L'interesse
recente dell'opinione pubblica verso l'intelligenza artificiale si è
concentrato soprattutto sugli aspetti ricreativi, ma la nuova tecnologia ha
un'applicazione molto più seria e preoccupante che riguarda le guerre.
L'Ai
viene già utilizzata in Ucraina:
il conflitto ha di fatto anticipato l'uso
dell'intelligenza artificiale in guerra, portando sul campo di battaglia
strumenti e programmi ancora da perfezionare.
Ora
l'innovazione è nell'agenda dei leader militari e politici di tutto il mondo;
per questo si è svolto il primo vertice internazionale sull'uso militare
responsabile dell'Ai che ha stimolato una discussione etica e le principali
preoccupazioni riguardanti l'arrivo dell'Ai nei conflitti.
Il
summit Reami in Olanda.
Ha
avuto luogo a L'Aia, in Olanda, il Reami Summit, manifestazione organizzata dal
governo olandese per posizionare il tema dell'Ai nel mondo militare più in alto
nell'agenda politica internazionale.
All'evento
hanno partecipato delegati di 50 Paesi, fra cui Stati Uniti e Cina, ma i Paesi
Bassi e la Corea del Sud co-organizzatrice non hanno invitato la Russia.
Erano
presenti anche aziende private:
l'amministratore delegato di “Palantir”,
compagnia statunitense specializzata nelle nuove tecnologie e nell'analisi di
big data, non ha nascosto il coinvolgimento della propria azienda nel conflitto
in Ucraina.
“Siamo responsabili della maggior parte degli
attacchi” ha detto “Alex Karp” di Palantir.
La sua
impresa sfrutta l'intelligenza artificiale per colpire obiettivi russi ed è
quindi a supporto della nazione di Kiev.
Fra i servizi di “Palantir” la possibilità di
analizzare i movimenti satellitari e i feed dei social media per aiutare a
visualizzare la posizione di un nemico, consentendo all'esercito ucraino di
prendere di mira carri armati e artiglieria nemica.
L'Ai
riesce ad analizzare una grande quantità di dati in poco tempo, velocizzando
gli attacchi e favorendo un approccio ostile in minor tempo.
"Siamo
agli albori dell'intelligenza artificiale, ma una delle cose principali che
dobbiamo fare in Occidente è renderci conto che questa novità è stata
completamente compresa anche da Cina e Russia" ha affermato “Karp”.
Sul
fatto che l'Ai in guerra sia una realtà non ci sono dubbi:
i governi devono esaminare quale parte dei
loro budget per la difesa sarà destinata ai progressi della tecnologia,
soprattutto perché la conversazione è cambiata negli ultimi sei mesi.
Ai e
guerre.
L'intelligenza
artificiale offre un importante vantaggio strategico nei contesti di guerra, in
quanto favorisce la possibilità di automatizzare compiti ripetitivi e consente
una maggiore accuratezza e precisione nelle operazioni di combattimento.
Pertanto,
non sorprende che sia una delle innovazioni più ricercate utilizzate oggi nelle
guerre.
I
sistemi di imaging basati sull'intelligenza artificiale possono fornire
un'immagine precisa di ciò che sta accadendo in una situazione di
combattimento, consentendo colpi più precisi e meno danni collaterali.
Inoltre,
i sistemi di posizionamento basati sull'intelligenza artificiale consentono una
maggiore precisione nel puntamento di munizioni esplosive e nella navigazione
di aerei da combattimento e altre unità di combattimento.
Il
software e gli algoritmi basati sull'intelligenza artificiale offrono la
possibilità di elaborare grandi quantità di dati in modo rapido e accurato per
ottenere informazioni preziose.
L'invisibile
cyber guerra della Russia per piegare l'Ucraina.
Circa
4.500 attacchi informatici nel 2022, più del triplo rispetto all'anno prima.
Bombardamenti coordinati con “infezioni malware” e “ddos” per aumentare i danni
dell'offensiva.
Le
infrastrutture energetiche nel mirino.
I dati di un anno di conflitto informatico
scatenato da Mosca contro Kyiv.
Già
nelle innovazioni di tendenza di recente come “ChatGPT” e programmi simili,
l'intelligenza artificiale ha dimostrato di assorbire i nostri” bia”s, i
pregiudizi attraverso cui elaboriamo la realtà che ci circonda.
Lo
stesso problema non può che essere aggravato in situazioni dove c'è di mezzo la
vita di singoli individui.
Durante
una tavola rotonda di Reami fra il capo della difesa olandese e un dirigente
della azienda produttrice di armi” Lockheed Martin”, il segretario generale di “Amnesty
International” “Agnès Callamard” ha respinto l'idea che sia possibile rimuovere
i pregiudizi dall'Ai se utilizzata in un contesto militare.
E ha
affermato che può portare alcuni gruppi a essere presi di mira più di altri.
“Non possiamo semplicemente pensare che in questa stanza ci siano solo brave
persone che useranno questa intelligenza per la difesa”, ha detto “Callamard”.
La
maggior parte delle delegazioni presenti al summit olandese dovrebbe approvare
una dichiarazione di principi nelle prossime settimane o mesi, anche se le
regole internazionali o un trattato per limitare l'uso dell'Ai in guerra sono
indicate come ancora lontane.
Intanto,
gli effetti dell'uso bellico dell'intelligenza artificiale sono già evidenti
nel territorio ucraino.
Comprendere
il contesto
di
Israele-Palestina: qual è la
"soluzione
finale" di Israele?
Unz.com - BARRY KISSIN – (2 NOVEMBRE 2023) –
ci dice:
Soluzione
finale: "Tutti i palestinesi espulsi o uccisi."
Stiamo
assistendo, a tutti i resoconti, un massiccio massacro di civili palestinesi
che negli ultimi 16 anni sono stati imprigionati nella Striscia di Gaza,
bloccati e controllati da Israele.
Questo
massacro viene compiuto come se fosse ordinato nell'Antico Testamento. Ciò
deriva dalla convinzione da parte della parte fondamentalista e molto influente
della coalizione di governo di Benjamin Netanyahu di avere il diritto divino di
occupare e controllare il "Grande Israele", che include tutta la
Palestina.
Netanyahu
è stato recentemente registrato mentre citava “1 Samuele 15:3” in una clip che
è diventata virale.
"Ora
va' e colpisci “Amalek”, e distruggi tutto ciò che possiede, e non
risparmiarli; ma uccidete l'uomo e la donna, il bambino e il lattante il bue e
la pecora, il cammello e l'asino".
La
fase successiva è descritta nel libro di “Jimmy Carter”:
"Senza tirare pugni, Carter prescrive
i passi che devono essere presi affinché i due Stati condividano la Terra Santa
senza un sistema di apartheid o la costante paura del terrorismo.
"I
parametri generali di un accordo a lungo termine tra due Stati sono ben noti,
scrive il presidente.
Non ci
sarà una pace sostanziale e permanente per nessun popolo in questa regione
travagliata fino a quando Israele violerà le risoluzioni chiave delle Nazioni
Unite, la politica ufficiale americana e la "road map" internazionale
per la pace occupando terre arabe e opprimendo i palestinesi.
Fatta
eccezione per le modifiche negoziate reciprocamente accettabili, i confini
ufficiali di Israele precedenti al 1967 devono essere rispettati".
Ci
sono state più di 80 risoluzioni approvate dal Consiglio di Sicurezza delle
Nazioni Unite o dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite contro la politica
israeliana, la maggior parte delle quali quasi unanimi, molte delle quali
condannano il mancato rispetto da parte di Israele dei “confini pre -1967” da
parte delle invasioni di Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme Est.
Ad
esempio, il 14 dicembre 2022, l'Assemblea Generale ha approvato con 159 voti
favorevoli e 8 contrari una risoluzione diretta contro "la diffusa
distruzione causata da Israele, la potenza occupante, a infrastrutture vitali,
comprese condutture idriche, reti fognarie ed elettriche, nei territori
occupati".
Territori
palestinesi, in particolare nella Striscia di Gaza..." e invita Israele
"a cessare la demolizione e la confisca delle case palestinesi, dei
terreni agricoli e dei pozzi d'acqua... in particolare delle attività di
insediamento israeliano...".
L'attuale
movimento di coloni con il sostegno del governo israeliano continua espellere
con la forza i palestinesi dalle loro case in Cisgiordania (vivono lì da
generazioni) nonostante l'obiezione anche del presidente Biden.
L'attuale
alternativa di Israele alla soluzione dei due Stati equivale a una Soluzione
Finale:
tutti
i palestinesi saranno espulsi o assassinati.
Deploro
il terrorismo.
Non conosco la portata del terrorismo
perpetrato da “Hamas” il 7 ottobre. Praticamente la prima cosa che abbiamo
sentito è stata la bufala secondo cui Hamas aveva decapitato 40 bambini.
Ciò è
stato affermato dal governo israeliano e rapidamente adottato dal presidente
Biden che ha mentito quando ha detto di aver visto una foto autenticata di
questo.
Ora
sui media israeliani sono emersi resoconti di sopravvissuti israeliani agli
attacchi del 7 ottobre in cui testimoniano di essere stati trattati
"umanamente" da “Hamas” e che molte delle vittime israeliane sono
state uccise nel fuoco incrociato israeliano.
Una
sopravvissuta israeliana di nome “Yasmin Porat”, riferendosi alle forze
speciali israeliane: "Hanno eliminato tutti, compresi gli ostaggi".
“Tuval
Escapa”, membro della squadra di sicurezza del “Kibbutz Be'eri”, ha dichiarato
al quotidiano israeliano “Haaretz”:
"I
comandanti sul campo hanno preso decisioni difficili, tra cui bombardare le
case dei loro occupanti per eliminare i terroristi insieme agli ostaggi".
Un
rapporto separato pubblicato su “Haaretzha” osservato che l'esercito israeliano
il 7 ottobre è stato
"costretto
a richiedere un attacco aereo" contro la sua stessa struttura piena di
ufficiali e soldati dell'Amministrazione Civile israeliana all'interno del
valico di Erez a Gaza "al fine di respingere i terroristi".
Il
governo israeliano afferma che 1400 israeliani sono morti il 7 ottobre, cifra
ripetuta dall'”Associated Press” su base giornaliera. Questo numero deve ancora
essere confermato. Non importa quanto sia accurato questo numero, e non importa
quante di queste morti siano state causate da “Hamas” o dal fuoco incrociato
israeliano, questo non può in alcun modo giustificare o scusare il genocidio.
Il
quotidiano dell'”Associated Press” definisce l'attacco del 7 ottobre
"brutale", ma non descrive mai l'incessante bombardamento di Gaza.
Sganciare
bombe da una tonnellata su una popolazione civile letteralmente intrappolata
nella Striscia di Gaza, metà dei quali bambini, su ospedali, moschee, scuole,
rifugi per rifugiati delle Nazioni Unite, blocchi residenziali – è anche questo
terrorismo?
"Terrorista"
è un insulto che il grande esercito usa per descrivere il piccolo esercito.
Ancora
sul terrorismo:
i
padri fondatori di Israele, i suoi eroi nazionali, molti dei quali in seguito
eletti alla carica di Primo Ministro, erano terroristi.
Shimon
Peres.
Shimon
Peres si unì all'”Haganah” nel 1947, la milizia principalmente responsabile
della pulizia etnica dei villaggi palestinesi nel 1947-49, durante la “Nakba”.
Dal “Time Magazine” su Peres:
"Tutta
la sua storia è stata dedicata alla creazione e allo sviluppo di uno stato
fondato sull'espropriazione e sulla pulizia etnica [dei palestinesi]".
Peres è stato eletto Primo Ministro dal 1984
al 1986 e dal 1995 al 1996, nonché Presidente dal 2007 al 2014.
Menachem
comincia.
Menachem
Begin era il leader dell'”Irgun”, una forza paramilitare che effettuò l'attacco
terroristico del 1946 al “King David Hotel” in cui furono uccise 91 persone,
nonché il massacro di “Deir Yassin del 1948 “che spazzò via una città popolata
da arabi, uccidendo oltre 100 persone tra cui donne e bambini.
Gli
inglesi inseriscono Begin in cima alla lista dei terroristi più ricercati.
Begin
fu eletto Primo Ministro dal 1977 al 1983.
Yitzhak
Shamir.
Ariel
Sharon.
È
stata la profanazione israeliana del 2023 di questa stessa “moschea di al-Aqsa”
che ha fatto precipitare l'attacco di “Hamas” del 7 ottobre chiamato “Operazione
Al-Aqsa Storm”.
Ehud
Barak.
Nel
1998, “Ehud Barak”, ex commando delle forze speciali israeliane, capo di stato
maggiore delle forze di difesa israeliane e ministro degli affari esteri,
dichiarò:
"Se
fossi un palestinese dell'età giusta, prima o poi mi unirei a uno dei
terroristi". Barak è stato eletto Primo Ministro dal 1999 al 2001.
Nelle
votazioni sopra menzionate sulle risoluzioni delle Nazioni Unite che condannano
la politica israeliana, gli Stati Uniti sono generalmente uno dei pochissimi
paesi che votano con Israele. (Allo stesso modo, nei voti che condannano il blocco
statunitense a Cuba, Israele si unisce agli Stati Uniti nell'opposizione.
Ad
esempio, il 2 novembre 2023, quando l'ONU approvò per la trentunesima volta una
risoluzione di condanna di questo embargo, 187 paesi votarono a favore, con la
sola opposizione di Stati Uniti e Israele e l'astensione dell'Ucraina).
Il 27
ottobre 2023,120 paesi hanno approvato una risoluzione delle Nazioni Unite che
chiede "una tregua umanitaria immediata, duratura e prolungata che porti
alla cessazione delle ostilità "e la richiesta della "la fornitura
immediata, continua, sufficiente e senza ostacoli di beni e servizi essenziali
ai civili in tutta la Striscia di Gaza, compresi ma non limitati ad acqua,
cibo, forniture mediche, carburante ed elettricità", e "sottolinea la
necessità di istituire urgentemente un meccanismo per garantire la protezione
della popolazione civile palestinese" e "ribadisce che un giusto e
una soluzione duratura al conflitto israelo-palestinese può essere raggiunta
solo... sulla base della soluzione dei due Stati".
Tra i
paesi favorevoli c'erano i membri della NATO Francia, Turchia, Portogallo,
Spagna, Belgio, Slovenia e Norvegia – solo 14 paesi contrari.
Nel
frattempo, gli Stati Uniti, con un massiccio dispiegamento di forze militari
nel Mediterraneo, stanno ora servendo a proteggere Israele da qualsiasi
interferenza nella sua perpetrazione del genocidio in corso, sfidando chiunque
a intervenire.
Il 2
novembre 2023, la Camera ha approvato un pacchetto di aiuti militari da quasi
14,5 miliardi di dollari per Israele, questo per il quinto esercito meglio
equipaggiato al mondo, mentre perpetra un genocidio.
Un
sondaggio di Data for Progress condotto tra il 18 e il 19 ottobre ha rilevato
che il 66% degli americani sostiene un appello degli Stati Uniti per un cessate
il fuoco, cosa che gli Stati Uniti si rifiutano di fare.
Non un
solo senatore sostiene l'idea e solo 18 membri della Camera hanno firmato una
risoluzione che chiede di cessare il fuoco. Per quanto riguarda la guerra e la
pace, per quanto riguarda il sostegno militare all'impero americano, la
democrazia è del tutto illusoria.
“Abbastanza
da Far Piangere una Pietra”.
Il Viaggio Straziante di una
Famiglia Espulsa da Gaza.
Conoscenzealconfine.it
– (11 Dicembre 2023) – Massimo Mazzucco per luogo comune.net – ci dice:
La
seguente testimonianza è stata resa da “Zakaria Baker “l’11 novembre 2023.
La testimonianza è stata raccolta da “Amplify
Gaza Stories”, un’organizzazione che lavora sul campo per raccogliere e
tradurre testimonianze degli abitanti di Gaza, per fare in modo che le loro
storie di lotta, resistenza e sopravvivenza vengano conosciute al mondo.
“Mi
chiamo “Zakaria Baker”, sono una delle persone sfollate dalle proprie case
quattro giorni fa, intorno al 7 novembre 2023.
L’inizio
dello sfollamento avviene così:
un
ufficiale dell’intelligence israeliana ha chiamato uno dei miei cugini.
Eravamo
circa una ventina, seduti sulle sedie.
Il
bombardamento del “campo profughi di Al-Shati” non si è fermato un solo
secondo.
I missili lanciati contro il campo, non
potevamo né vederli né sentirli.
Erano
bombe a botte [barrel bombs].
Quando
furono sganciate su un blocco residenziale di sei o sette case, le distrussero
completamente.
La
cosa più spaventosa e dolorosa è che questi missili vengono lanciati contro
case piene di persone.
I
corpi nel “campo di Al-Shifa” sono ancora sotto le macerie. Potevamo sentire
l’odore dei cadaveri.
L’ufficiale
dell’intelligence israeliana ha chiamato uno dei miei cugini che era seduto con
noi e ha detto:
“Bakers”, perché non ve ne siete andati?
I vostri vicini sono stati evacuati.
Avete
30 minuti per andarvene, per la vostra sicurezza.
Se non
ve ne andate, vi rovesceremo la morte addosso”.
Ok,
mezz’ora… Cosa facciamo?
Siamo
famiglie con bambini, e dobbiamo prepararci a partire? Dopo meno di mezz’ora,
circa 20 minuti, forse meno, il bombardamento è iniziato a pochi metri da noi.
Stavano
prendendo di mira edifici che erano a sole due o tre case di distanza da noi.
Non potevamo portare nulla con noi, solo
alcuni farmaci, perché avevo appena subito un intervento a cuore aperto.
Così
ci siamo incamminati – donne, bambini e anziani – e mentre camminavamo i
bombardamenti si avvicinavano alle nostre case.
Ogni
volta che passavamo davanti a una casa, dietro a noi veniva distrutta.
Il
bombardamento è continuato fino alla “moschea Rono”, vicino all’ospedale
Al-Shifa.
Quando
eravamo sotto la moschea, una bomba ha colpito il minareto.
C’erano
in strada migliaia di persone. Alcuni di loro provenivano anche dall’ospedale.
Con
noi c’erano molti anziani.
C’erano
160 persone della nostra famiglia in strada, e della nostra famiglia allargata
erano circa 4 o 5mila.
Abbiamo
iniziato tutti a camminare.
Quando abbiamo raggiunto “Al-Shifa” c’erano
migliaia di persone.
La
maggior parte di loro erano residenti dai dintorni dell’”ospedale Al-Shifa”, o
persone che cercavano rifugio all’interno dell’ospedale e sono fuggite perché
l’ospedale è stato colpito.
Raggiungemmo
lo “svincolo di Dola”, avevamo già percorso circa cinque o sei chilometri.
Abbiamo
visto un autobus dall’aspetto trasandato, ma funzionava, e abbiamo chiesto
all’autista di portarci allo svincolo di Dola.
Ha
chiesto 80 shekel, eravamo circa 40 persone. Ci siamo accordati per 80 shekel
per portarci alla rotonda di Dola, vicino a Salah al-Din.
Una
volta raggiunto lo “svincolo di Dola”, siamo scesi dall’autobus, e abbiamo
camminato per circa un chilometro dopo” la rotatoria Kuwait”, e abbiamo visto
enormi folle, non dico centinaia o migliaia o decine di migliaia, ma centinaia
di migliaia di persone e scene orribili:
donne
di 80 e 90 anni, uomini anziani di 70 e 80 anni, alcuni di loro feriti, altri
con bambini in braccio.
Abbiamo
continuato a camminare finché non abbiamo incontrato un asino e un carro.
Il
proprietario ci ha chiesto 20 shekel, e abbiamo caricato tutto su questo carro:
donne, bambini, tutti i nostri bagagli, tutto ciò che potevamo mettere sul
carro.
A metà
salita l’asino faticava, quindi il padrone ci ha chiesto di spingere.
Lo abbiamo spinto, per il bene degli anziani e
dei bambini.
Abbiamo
spinto finché non siamo stati a 100 metri di distanza dall’IDF israeliano.
Siamo scesi, e ci hanno chiesto di mostrare i nostri documenti d’identità.
Ho
preso in braccio mio nipote e ho giocato con lui, per rassicurarlo.
Abbiamo
camminato fino a 10 metri dai soldati, poi ci hanno detto: “Stop”.
Ci
siamo fermati. Abbiamo visto tre carri armati passare davanti a noi.
Una
volta passati, ci è stato detto di proseguire.
Avevamo
solo una valigia a testa.
C’erano corpi ovunque. Alcuni in
decomposizione, altri erano carbonizzati. Abbiamo visto un’auto con una persona
morta dentro.
La sua
metà inferiore era intatta, la metà superiore era decomposta.
Scene
orribili, abbastanza da far piangere una pietra. Abbastanza da far piangere una
pietra.
Abbiamo
lasciato l’area con i carri armati e ci siamo spostati al “ponte Wadi Gaza”, e
lì ci hanno detto che eravamo in una zona sicura.
Dalla
zona dei carri armati fino a Wadi Gaza mio nipotino ha pianto, aveva fame.
C’era un muretto e abbiamo lasciato che sua madre lo usasse per nascondersi
dietro, così da poterlo allattare e farlo smettere di piangere per qualche
minuto, circa cinque minuti.
In
generale, ci siamo sentiti più tranquilli dopo che mio nipote aveva mangiato.
Abbiamo continuato a camminare in un enorme flusso di umani incolonnati.
Sul
ponte non ci era permesso fermarci.
Era
vietato fermarsi.
Una delle donne più anziane che erano con noi
aveva 86 anni, e si chiamava “Kefah Bakr”, è crollata per la stanchezza ed è
morta, non è riuscita a sopravvivere al viaggio, alla camminata.
È
stata anche fortunata, perché è morta 10 metri dopo aver attraversato l’area
controllata dall’IDF israeliano, e così è stata portata via, all’ospedale.
Tornando
alla zona dei carri armati, non ci era permesso di guardare a sinistra o a
destra. Dovevamo continuare a guardare dritto.
–
Domanda di “Mohammed Ghalayini”, un volontario di “Amplify Gaza Stories”: le
istruzioni dei soldati venivano date dagli altoparlanti?”
Risposta:
No, le
istruzioni venivano passate da una persona all’altra. Le persone davanti
ricevevano gli ordini, e li passavano a quelli dietro. In questo modo gli
ordini arrivavano a tutti gli altri.
Molti
anziani cadevano e venivano abbandonati sul posto.
La gente passava oltre.
Una
persona ha lasciato cadere la valigia, si chiamava “Alaa Abu-Stata”. Si è
chinato per prendere la valigia e lo hanno ammazzato con un colpo di pistola.
Molte
delle donne anziane non riuscivano a reggere la fatica e cadevano a terra.
Nessuno osava fermarsi per aiutarle, perché avrebbero sparato a chiunque le
avesse aiutate.
E così
abbiamo dovuto sacrificare una persona anziana per salvare altre 10 o 20
persone dalla fucilazione o dall’umiliazione.
Una
persona è stata chiamata per nome dagli altoparlanti.
Lo hanno spogliato nudo, lo hanno arrestato e
nessuno sa dove lo abbiano portato.
Nessuno
sa più niente di lui.
Questo
è quello che ho visto da una distanza di 100 metri, altri hanno visto casi
simili di arresti.
Abbiamo
continuato a camminare fino a “Burej”.
Immaginatevi! Da Al-Shati’ al ponte sono
qualcosa come 15 chilometri.
A Burej non c’erano automobili, solo camion.
È
arrivato un camionista e gli ho detto che volevamo andare a “Khan Younis” o
nella zona di “Hamad”.
Ci ha chiesto 300 shekel. Ho detto va bene,
portaci via da qui.
Abbiamo
raggiunto “Hamad” dopo un viaggio molto tormentato.
–
Domanda: hai trovato alloggio a “Hamad”?
No,
non siamo riusciti a trovare nessuna stanza.
Abbiamo trascorso tre notti dormendo sul
pavimento, senza copertura, a cielo aperto: notti fredde.
La terza notte, solo la terza notte, abbiamo
acceso le lucine per allontanare insetti e mosche dai bambini di otto e nove
mesi.
Il 4°
giorno siamo riusciti a raddrizzare la situazione.
Abbiamo
rotto un tramezzo che appartiene al comune, circa 4 metri quadrati, e ci
abbiamo messo 40 persone.
È stata una mia idea. Ne ho ricavato una tenda
improvvisata con teli di plastica usati, e lì hanno potuto ripararsi sei
famiglie.
Dalle
12 di ieri non siamo più riusciti a trovare un pezzo di pane.
Facciamo
un pasto al giorno, per due motivi: per evitare di andare al bagno, e perché
non riusciamo a trovare cibo.
È una guerra della fame.
Non
c’è cibo in scatola. Abbiamo girato tutti i supermercati ma non abbiamo trovato
niente.
Le donne dormono con gli stessi vestiti con
cui erano uscite di casa.
Quest’acqua
mi è stata data da “Abu Mohammed”.
Siamo stati sottoposti al dolore, alla
sofferenza, alla rabbia, all’umiliazione. Non ce la faccio più a parlare di
questo“.
Da
quando questa testimonianza è stata raccolta, “Baker”, la sua famiglia e
migliaia di altre persone in cerca di rifugio sono stati nuovamente costretti a
lasciare il loro riparo nella città di “Hamad” a “Khan Younis”, il 2 dicembre,
dopo aver ricevuto un nuovo ordine di evacuazione dall’esercito israeliano.
(mondoweiss.net/2023/12/there-were-bodies-everywhere-horrific-scenes-enough-to-make-a-stone-cry-one-familys-harrowing-journey-out-of-gaza-city/)
(Massimo
Mazzucco per luogocomune.net)
(luogocomune.net/29-palestina/6389-%E2%80%9Cabbastanza-da-far-piangere-una-pietra%E2%80%9D-il-viaggio-straziante-di-una-famiglia-espulsa-da-gaza).
“Alex
Jones” strappa la maschera
del
"collasso globale progettato" dal
Nuovo
Ordine Mondiale
nello
show di “Tucker Carlson”.
Lifesitenews.com
– (8 dicembre 2023) – Stephen Kokx – ci dice:
Le
élite internazionali "sperano che alziamo le mani e scappiamo nelle
campagne" in modo da poter avere il pieno controllo delle città e poi
"marciare sulle campagne... e tirarci fuori", ha detto il fondatore
di “Info Wars”.
(
LifeSiteNews ) – Due uomini che i principali media americani hanno incessantemente
attaccato per anni si sono seduti questa settimana per una conversazione
avvincente per discutere del Nuovo Ordine Mondiale.
Giovedì,
Tucker Carlson ha dato il benvenuto per la prima volta al fondatore di Info
Wars, Alex Jones, al suo spettacolo “X”.
“Questa
è una rottura della nostra volontà, una demoralizzazione… questo ha progettato
il collasso globale”, ha detto Jones ad un estasiato Carlson.
Le élite internazionali “sperano che alziamo
le mani e scappiamo nelle campagne” così da poter avere il pieno controllo
delle città e poi “marciare sulle campagne… e tirarci fuori”.
La
franca conversazione di Jones e Carlson ha esplorato i piani che secondo loro
vengono implementati dall'élite governativa mondiale.
Gli
argomenti discussi includevano lo spopolamento, l'immigrazione, la guerra
informatica, la censura, il razzismo, il cibo finto e la possibilità che Donald
Trump e Joe Biden possano essere assassinati.
“Lo
Stato Profondo uccide le persone. E questa è la loro unica mossa successiva”,
predisse minacciosamente Jones.
Jones
ha anche avvertito che una possibile interruzione di corrente a livello
nazionale o un “massiccio attacco jihadista in America” potrebbe essere “il
modo per introdurre la legge marziale” e annullare le elezioni presidenziali
del 2024. “Il cielo è il limite”, ha esclamato.
Jones
è stato bandito da “X” dal 2018.
La
piattaforma, allora sotto la guida di “Jack Dorsey” e fortemente controllata
dall'FBI, lo ha rimosso dopo aver affrontato il reporter di sinistra della “CNN
Oliver Darcy “a Capitol Hill per i “suoi rapporti parziali su “Info War”s.
L'attuale
CEO di “X”, “Elon Musk”, ha dichiarato di essere disponibile a reintegrare
Jones.
Su X questa settimana, “Musk” ha detto che
guarderà l'intervista con Carlson per "ascoltarlo".
Durante
la conversazione, “Carlson” ha ripetutamente espresso stupore per il fatto di
essere ampiamente d'accordo con “Jones”, soprattutto alla luce delle
osservazioni fatte in passato sull'11 settembre.
Jones
ha detto a Carlson che semplicemente legge i documenti e guarda le conferenze
che le istituzioni globaliste producono per fare le sue numerose affermazioni.
“Quando
il primo mondo crolla, il terzo mondo muore.
E ciò
che resta di loro ci inonda.
E
così, proprio adesso la Terra sta entrando in un conto alla rovescia per il
collasso”, ha detto Jones.
“Stanno
conducendo una guerra contro la civiltà e la società per renderci poveri, per
metterci sotto assedio e per tagliare le nostre energie – rendendo impossibile
il costo della vita – per rompere il nostro vecchio sistema e introdurre
qualcosa di ancora peggio”.
Jones
ha inoltre sostenuto che “l’ultimo gruppo che non controllano è quello delle
popolazioni rurali”.
Quindi
la classe globale “dovrà demolire le culture e le società che esistevano prima
e introdurre nella fase successiva, una società high-tech, senza contanti, un
incubo controllato da robot droni”.
“Carlson”
ha chiesto a “Jones” se lavorare nel mondo dell'informazione sia difficile,
dato il prezzo che può avere su una persona.
Jones
ha detto a Carlson che essere così coinvolto è stato difficile e che voleva
semplicemente scrivere libri e trasferirsi in campagna con la sua famiglia, ma
che spesso prega e riflette sulla morte, cosa che lo mantiene umile e in grado
di fare ciò che fa.
“I
globalisti sono così spaventati dalla morte, hanno tutto questo denaro, tutto
questo potere, tutto questo controllo, sono ossessionati dall'idea di trovare
la vita nella tecnologia, fondendosi con le macchine.
Questa è la loro nuova religione.
Questo
è transumanesimo”, ha detto. Sono “così persi” eppure “proiettano su di noi il
loro odio verso sé stessi”.
"La
morte è il grande equalizzatore", ha detto anche “Jone”s.
"Invecchierai...
non importa quanto sei potente, non hai il controllo, e questo ti sintonizza
con Dio."
“Carlson”
ha risposto affermando di essere completamente d'accordo con la valutazione di “Jones”.
Carlson
ha aggiunto che ogni volta che vedi "persone ubriache del proprio potere,
che esagerano il loro controllo sulle cose, convincendosi di essere Dio",
finiscono per "essere distrutte... è una legge [dell'umanità]".
Carlson
e Jones hanno anche discusso della censura dei media e dell'influenza che l'”Anti-Defamation
League” e il “Southern Poverty Law Center” hanno sugli inserzionisti per
frenare la libertà di parola.
La
coppia ha anche discusso di “Israele”, “Hamas” e di altri affari mediorientali,
con “Jones” che alla fine sostiene che gli immigrati vengono inondati negli
Stati Uniti per distruggere la cultura cristiana bianca.
“Questo
“Grande Reset globalista”, la “presa del controllo del Nuovo Ordine Mondiale”,
il mondo postindustriale – hanno tagliato le risorse, spopolamento forzato al
90%, distruggendo la civiltà secondo la progettazione, guerre di massa,
carestia.
Nell’ultimo
anno in tutto il mondo hanno già tagliato un terzo dei fertilizzanti”.
“Vogliono ridurre la popolazione mondiale a
500 milioni”.
“IA”:
LA GUERRA CHE STA PER
SCATENARSI
NON SARÀ
COME
CI ASPETTIAMO...
Innovando.it - Edoardo Volpi Kellermann – (Novembre
21- 2023) – ci dice:
Il
prossimo conflitto mondiale non sarà combattuto dagli uomini, né dai droni: in
arrivo uno scontro verità-falsità, gestito da Intelligenze Artificiali.
L'immagine
di una guerra futura, scontro fra verità e falsità, creata con l'intelligenza
artificiale “Canva”.
L’immaginario
in qualche modo imposto dalla maggioranza della narrativa fantascientifica ci
prospetta un mondo dove l’umanità, prima o poi, dovrà fare i conti con
l’Intelligenza Artificiale.
Lo scontro esploderà non appena l’IA prenderà
coscienza di se stessa e deciderà di sterminarci, o di trovare un modo di
controllarci.
Se
questa prospettiva è realistica (e ci sarebbe da discutere parecchio
sull’argomento), la guerra che ci aspetta risulta piuttosto lontana nel tempo,
vista l’assoluta mancanza di qualsivoglia consapevolezza nei sistemi generativi
attuali. Possiamo quindi dormire sonni tranquilli, per adesso.
Oppure
no?
“È
urgente una regolamentazione sull’AI per fini militari”
Guerra
russo-ucraina: è l’intelligenza artificiale a fare la differenza?
Complottismo,
fake news e xenofobia: pericoloso mix digitale.
Le
rappresentazioni artistiche dell’Intelligenza Artificiale tendono spesso a
paragonarla al cervello umano, ma tale confronto può risultare fuorviante e non
esaustivo.
I
pericoli reali delle attuali Intelligenze Artificiali.
Vige
ancora molta confusione sull’argomento Intelligenza Artificiale.
Confusione
che, duole dirlo, è in buona arte alimentata da colleghi giornalisti entusiasti
nello scriverne, ma spesso non altrettanto preparati nel comprenderne la reale
natura, le potenzialità e i rischi.
Tale
confusione è incoraggiata anche dalla nostra tendenza naturale a proiettare noi
stessi su ogni ente esterno, sia esso un’altra persona, un animale o, come in
questo caso, un oggetto software.
Da qui
la nostra difficoltà a comprendere come un comportamento apparentemente
intelligente non presupponga affatto un’autentica consapevolezza.
Così,
incoraggiati dai fin troppi titoli “acchiappa click” dei giornali generalisti,
ci arrovelliamo su problemi che ancora sono lontani nel tempo, ma non vediamo o
sottovalutiamo quelli che già oggi ci riguardano direttamente.
Come
sempre la tecnologia può essere applicata in modo da aiutare l’essere umano, ma
anche in modo da danneggiarlo.
A
livello sociale, ad esempio, l’Intelligenza Artificiale può essere utilizzata
per ottimizzare processi e servizi, come il traffico nelle città, o i servizi
burocratici e sanitari.
Oppure
essa può aiutare i docenti a preparare lezioni o verifiche personalizzate sulle
caratteristiche e peculiarità di ogni alunno.
A
livello personale, può aiutare ognuno di noi a organizzare meglio il nostro
lavoro e il nostro tempo, gestendo per noi le parti più noiose o ripetitive.
Oppure
può aiutarci a esprimere meglio la nostra creatività, generando immagini,
musica o filmati seguendo le nostre indicazioni.
L’Intelligenza
Artificiale ben adoperata dovrebbe integrare, non sostituire, le nostre
attività.
Ma
poiché gli attuali sistemi generativi, capaci di produrre testo, immagini e
video, si basano su enormi basi dati pescati soprattutto da Internet, spesso
rispecchiano i nostri “bias” e, soprattutto, lavorano su delle medie
statistiche.
Man
mano che sempre più contenuti vengono generati dalle Intelligenze Artificiali
stesse, il rischio è che si creino medie di medie di medie, con un livellamento
verso il basso sempre più tangibile.
Questi
sono tuttavia problemi che si possono affrontare e risolvere:
il rischio più grande, di cui ancora non ho
parlato, è il fattore umano.
(Innovazione
e giornalismo: una convivenza spesso difficile
L’Intelligenza
Artificiale è (anche) una rivoluzione del fotoritocco.)
La
potenza dell’AI e il confronto bellico che verrà.
Finora
ho trattato problemi già noti e, dopotutto, affrontabili senza troppe angosce.
Il
bello (o il brutto) viene adesso.
Immaginiamo
un’Intelligenza Artificiale ben addestrata, capace di riprodurre con realismo
la voce di chiunque.
Esistono
già sistemi del genere.
Uniamola
a un’altra Intelligenza Artificiale capace di creare video credibili con
protagonisti persone reali.
Anche
questi sistemi esistono e, in alcuni casi, sono già stati adoperati.
Ecco
che possiamo creare “deep fake” (video totalmente falsi ma del tutto credibili) con estrema semplicità, a danno di
avversari politici, Paesi nemici o più semplicemente persone che ci stanno
antipatiche.
Quindi
creiamo migliaia (no, decine di migliaia) di “Chat Bot” che si fingono persone
vere, si iscrivono ai social più diffusi e iniziano a condividere i video
creati per calunniare, rovinare la carriera degli avversari o per creare più
caos possibile nel Paese nemico, magari durante un periodo elettorale.
Così
nasce la guerra della verità, e rischiamo fin d’ora di perderla tutti.
E
dimenticatevi delle ultime elezioni americane, secondo alcuni analisti falsate
da propaganda “inoculata” dall’esterno (leggi: Federazione Russa).
Rispetto
alle potenzialità dei sistemi attuali e a quelle ottenibili nel medio futuro,
gli eventuali tentativi di distorsione delle notizie del novembre 2020 erano
giochi da bambini.
Così
rullano i tamburi della Prima Guerra Mondiale dell’”AI”.
Dai
pizzini ai social network: ecco come la mafia prolifera sulla Rete.
La “Battaglia
di Morat” sarà il più grande oggetto digitale al mondo.
I
deepfake tools alla portata di tutti.
Oggi i
programmi per creare “deep fake”, ovvero immagini, audio e filmati realistici
che rappresentino situazioni e fatti inventati, sono alla portata di chiunque
dotato di un computer di potenza medio-alta.
Le
allucinazioni usate come armi non convenzionali.
Le “Intelligenze
Artificiali generative” hanno un difetto intrinseco nei loro principi di
funzionamento: soffrono di allucinazioni.
Le
ultime versioni, come ad esempio “ChatGPT-4”, stanno cercando di limitare e
correggere questa tendenza, con più o meno successo.
Questa
“potenzialità allucinatoria” potrebbe essere altresì sfruttata a proprio
vantaggio da utilizzatori non ben intenzionati, per diffondere notizie
apparentemente veritiere che cavalchino le convinzioni più o meno esplicite di
determinati gruppi politici, rinforzandone i “bias”.
Il
tutto con una “potenza di fuoco” immensamente superiore a quella disponibile
fino a pochi anni fa.
Un
gruppo ben organizzato (magari aiutato sottobanco da un governo compiacente) sfrutterebbe le vulnerabilità già
note di una buona maggiorana dei computer in Rete per attacchi ottimizzati e
prendere il controllo di milioni di apparecchi.
Lo
farebbe utilizzandoli a loro volta come server per la creazione di falsi
account social non facilmente distinguibili da quelli autentici.
I
falsi account quindi diffonderebbero tesi e notizie pianificate per rinforzare
le convinzioni dei gruppi di cui sopra.
E
l’unico modo di combattere attacchi del genere è… utilizzare l’Intelligenza
Artificiale.
(L’intelligenza
artificiale e i conflitti in una raccolta di saggi inediti
Attori
in sciopero: difesa dell’autenticità e della creatività contro l’AI
Video,
è digitalizzato e conservato lo scontro svizzeri-borgognoni”
“Philip
Kindred Dick”, visionario autore di fantascienza, ha anticipato molte delle
problematiche legate all’Intelligenza Artificiale che oggi stiamo iniziando a
vivere sulla nostra pelle.
La
crisi e le opportunità di una simile evoluzione.
Chi
vincerà la guerra futura?
Le
Intelligenze Artificiali al servizio dei sabotatori sociali, o quelle demandate
a difenderci?
Nessuno
può dirlo, al momento.
Di una
cosa possiamo essere certi:
soltanto un Paese (o, ancora meglio, una
federazione di Paesi) ben preparato, dalla popolazione dotata di capacità di
pensiero critico e di conoscenza dei mezzi digitali, potrà affrontare queste
sfide.
Serve
che esso non viva l’Intelligenza Artificiale come un miracolo o una minaccia, ma impari a conoscerne meriti,
potenzialità e problematiche, con una classe dirigenziale lungimirante e un’attenzione
reale verso l’innovazione etica e la tecnologia.
Occorre,
al più presto, partire da qui…
Geopolitica
-Intelligenza Artificiale.
La
“guerra fredda” dell’”AI.”
Guerradirete.it - Antonio Dini – (14 Ottobre
2023) – ci dice:
Chi
sta vincendo la guerra delle AI?
E poi,
c’è veramente una guerra delle AI?
L’intelligenza
artificiale come fattore di potenza e di ricchezza delle nazioni è difficile da
decodificare a causa della complessità, segretezza e, paradossalmente, anche
della eccessiva esposizione mediatica di questo settore.
Da un
lato, infatti, c’è la ricerca pura, che è nata negli anni Cinquanta ed è
arrivata a maturazione attorno al 2010 con la dimostrazione dell’efficacia
delle reti neurali profonde.
Un ambito che attrae una buona parte
dell’attenzione e del discorso pubblico anche se è considerato già maturo:
le
principali innovazioni sono già state fatte, adesso siamo in una fase di
evoluzione e messa a terra della tecnologia.
Dall’altro,
c’è appunto, la corsa alla commercializzazione, iniziata con il lancio pubblico
di “ChatGPT” da parte di “OpenAI” lo scorso novembre.
È il
piano che genera il maggior rumore mediatico e che viene alimentato dagli
investimenti e dalla nascita di moltissime startup e da piccole e grandi
iniziative di settore, senza contare i risvolti politici e regolamentari.
Nel
mezzo, esiste un terzo piano di lettura delle AI che riguarda le politiche
internazionali degli Stati e delle grandi corporation.
È quella che nel 2018 la rivista americana “Wired”
ha definito “la guerra fredda delle AI” e che “Henry Paulson”, ex segretario al
Tesoro dell’amministrazione George W. Bush, poco dopo ha chiamato “Economic
Iron Curtain”, la “Cortina di ferro economica”.
Ed è
quella in realtà meno conosciuta e soggetta al maggior numero di
fraintendimenti, distorsioni e pregiudizi, secondo le ricerche come quella
condotta da “Joanna J. Bryson”, ed “Helena Malikova” per “Global Perspectives
della “University of California Press”.
La percezione
del pubblico, tra la novità commerciale e la fantascienza.
Il
piano geopolitico, secondo diversi studi, è poco percepito dall’opinione
pubblica occidentale, perché la narrazione mainstream è basata invece su una
“hype” generata dalla meraviglia dei primi prodotti presentati, soprattutto “ChatGPT”,
e dalla conseguente corsa alla realizzazione di prodotti e funzioni commerciali
ricollegabili all’intelligenza artificiale.
In questo campo gli investimenti delle aziende
stanno “drogando” il settore dell’informazione, che a sua volta ha maggiore
interesse a rincorrere le storie più sensazionalistiche per attrarre “click” ed
“engagement” da parte del pubblico, soprattutto in una fase di crisi acuta per
i media internazionali.
Secondo
una ricerca condotta da “Columbia Journalism Review”, infatti, la copertura
mediatica della” AI” ha già superato quella della maggior parte delle
tecnologie e fenomeni tech presentati negli ultimi anni (realtà virtuale,
metaverso, deep fake) raggiungendo sostanzialmente le vette della” copertura
mediatica dei Bitcoin” e “della promessa delle criptovalute di cambiare il
sistema bancario e commerciale così come lo conosciamo”.
In
particolare, scrive il rapporto,
“a
soli sei mesi dal lancio, “ChatGPT” sta già ricevendo un’attenzione simile a
quella riservata alle “criptovalute nel 2021”, quando i prezzi del Bitcoin
raggiunsero il picco, oltre un decennio dopo la sua diffusione al pubblico nel
2009”.
La
qualità della copertura mediatica è però fuorviante perché in generale
sottolinea gli aspetti più “fantascientifici” (come, tra le tante, l’ultima in
ordine di tempo: l’intervista a “Geoffrey Hinton”, pioniere della “AI”, che ha
dichiarato che “la AI può sterminare l’umanità e potrebbero essere impossibile
fermarla”)
e apre al
rischio di non informare o sottovalutare l’impatto delle “AI” da un punto di
vista etico, del futuro del mondo del lavoro e del rischio militare e
geopolitico.
L’interesse
degli Stati per l’AI.
La
principale ragione per la quale l’intelligenza artificiale viene ritenuta uno
strumento strategico dai Governi e dai colossi della tecnologia del pianeta è
legata sostanzialmente a due ragioni:
da un
lato il vantaggio industriale (e la conseguente ricchezza economica) che può
generare e dall’altro la possibilità di essere utilizzata per scopi militari o
di controllo interno.
L’interesse
da parte dei Governi per lo sviluppo e l’utilizzo delle tecnologie di
intelligenza artificiale è legato innanzitutto all’impatto che gli sviluppi
futuri delle “AI” possono avere sulla ricchezza delle nazioni, ovvero il grande
gioco competitivo su scala globale.
Secondo
“Idc”, il valore complessivo del mercato delle AI crescerà del 19% all’anno e
nei prossimi tre anni arriverà a sfiorare il valore di mille miliardi di
dollari.
Per la società di consulenza “Accenture” la
ricchezza verrà generata dall’incremento del 40% della produttività del lavoro
fatto usando la “AI”, che a sua volta porterà vantaggi a cascata in tutte le
filiere produttive.
La
società di servizi professionali e consulenza “PricewaterhouseCoopers” (PwC) in
una ricerca ha quantificato questo effetto, sostenendo che la ricchezza
generata utilizzando le” AI” supererà i 15mila miliardi di dollari.
Per
questo grandi banche americane come “Bank of America” e “Goldman Sachs”
ritengono che gli investimenti nel settore cresceranno in maniera rapidissima,
superando i quasi 100 miliardi investiti nel 2021 (prima cioè dell’annuncio di
ChatGPT), che a loro volta erano già cresciuti di cinque volte rispetto al
quinquennio precedente.
Queste
valutazioni derivano dal fatto che, a partire dal 2010, con i primi risultati
positivi offerti dagli algoritmi di machine learning, le “AI” sono diventate un
mercato in costante crescita, che produce valore aggiunto in vari settori:
dalla
sanità al settore finanziario e assicurativo alla ricerca biotech.
Quest’ultimo
è il comparto economico con il maggior valore aggiunto dell’economia
occidentale, assieme al settore delle tecnologie digitali e al settore della
produzione, gestione e distribuzione dell’energia.
Che, non a caso, utilizzano anch’essi da tempo
algoritmi di intelligenza artificiale per aumentare la redditività delle loro
attività.
Uno
scontro economico prima di tutto.
Con
questa premessa, basandosi cioè sulla ricchezza che viene generata, lo scontro
economico tra nazioni per il controllo e la gestione dell’intelligenza
artificiale è già spiegabile e, dal loro punto di vista, pienamente
giustificato anche da fattori geopolitici.
Sempre
secondo “PwC”, ad esempio, la ricchezza generata dalle “AI” verrà distribuita
in maniera piuttosto diseguale nel mondo:
gli Usa e la Cina intercetteranno poco meno di
due terzi degli oltre 15mila miliardi di dollari previsti nel 2030, mentre al
resto del pianeta arriverà circa un terzo del totale.
Anche qui, con una ulteriore divisione tra
Europa e le altre economie sviluppate da un lato e i Paesi in via di sviluppo
dall’altro, ai quali arriveranno sostanzialmente le briciole.
Rivalità
Usa-Cina.
Questo
scontro economico è alla base della narrativa che fa riferimento alla “Guerra
fredda delle AI” tra Usa e Cina e si inserisce in un più ampio scontro legato
all’accesso delle tecnologie digitali da parte della Cina (che, secondo alcuni
studi, ha una limitata capacità di ricerca, sviluppo e produzione, anche se sta
rapidamente colmando il gap).
Gli Stati Uniti hanno bloccato l’esportazione
di una serie di tecnologie e vietato la collaborazione alle aziende americane o
straniere che vogliano portare avanti attività commerciali negli e con gli
Stati Uniti nel settore delle tecnologie informatiche e per le
telecomunicazioni a partire dall’amministrazione Obama.
Il “ban”
alle tecnologie cinesi si è esteso durante l’amministrazione Trump (arrivando a
comprendere ad esempio anche “Asml”, azienda olandese principale produttore al
mondo di impianti litografici per la produzione dei “negativi” da cui vengono
realizzati gli strati di microscopici transistor dei microchip) ed è stato
sostanzialmente mantenuto dall’attuale presidente americano Biden.
Giustificato
con ragioni di sicurezza nazionale, il divieto di esportazione ha avuto non
solo l’obiettivo di bloccare i rischi di spionaggio, presunto o reale, da parte
dei fornitori di tecnologia come “Huawei” (legati a Pechino) negli apparati e
infrastrutture telematiche occidentali, ma anche di isolare la ricerca e
sviluppo di nuove tecnologie da parte delle aziende cinesi.
Questo
perché, secondo “Eric Schmidt”, ex numero uno di Google e oggi lobbista e
consulente dell’amministrazione americana sui temi di intelligenza artificiale,
e “Graham T. Allison”, professore di scienza politica di Harvard, oggi la Cina
avrebbe una “capacità delle “AI” superiore a quella degli Usa” in molte aree
critiche.
E gli Usa non sarebbero in grado di
“difendersi dalla Cina” sui mercati della tecnologia:
“La
maggior parte degli americani – scrivono Schmidt e Allison – ritiene che il
vantaggio del proprio Paese nelle tecnologie avanzate sia inattaccabile.
E molti nella comunità della sicurezza
nazionale statunitense insistono sul fatto che la Cina non potrà mai essere più
di un “concorrente quasi alla pari” nell’IA.
In
realtà, la Cina è già un concorrente alla pari a tutti gli effetti, sia in
termini di applicazioni commerciali che di sicurezza nazionale dell’IA.
La
Cina non sta solo cercando di padroneggiare l’IA, ma la sta padroneggiando”.
Il
ruolo di “Eric Schmidt”.
La
prima valutazione di Schmidt, che ha presieduto anche la “National Security Commission
americana sull’Intelligenza artificiale”, risale al 2019 con un primo rapporto
nel quale vengono indicati gli estremi del problema e la necessità di
coinvolgere ricercatori universitari e i centri di ricerca aziendali per
mappare lo stato dell’arte dello sviluppo dell’AI.
Un
settore, nell’economia americana, in cui il peso della componente privata è il
triplo per investimenti e numero di addetti rispetto a quello della ricerca
universitaria (che venti anni fa invece dominava il settore).
Per
questo, la commissione presieduta da Schmidt ha proposto di raddoppiare
l’investimento americano nel settore privato entro il 2026, portandolo a 32
miliardi di dollari.
Schmidt
è una figura chiave di questo particolare snodo:
ha fatto da consigliere a due presidenti
americani (Obama e Biden) oltre ad aver aiutato Hillary Clinton a creare la sua
piattaforma politica per la tecnologia. Soprattutto, Schmidt è stato tra i
primi sostenitori dell’utilizzo delle “AI” da parte del Governo militare
americano per costruire un vantaggio in termini di armamento.
L’ex
numero uno di “Sun Microsystems” e di “Google”, infatti, dopo aver lasciato la
guida dell’azienda di Mountain View nel 2017 (dove aveva supervisionato i
progetti legati all’intelligenza artificiale, alle auto a guida autonoma e ai
computer quantistici), era stato invitato dall’allora segretario alla difesa di
Barack Obama, “Ashton Carter” a presiedere un’altra commissione: il “Defense
Innovation Board”.
A
partire da questo momento Schmidt è stato il principale artefice dell’idea di
trasferimento tecnologico dalla “Silicon Valley” verso “la Difesa americana”.
Il manager, che ha recentemente scritto un
libro con “Henry Kissinger” e lo scienziato informatico “Daniel Huttenlocher”
intitolato “The Age of AI: And Our Human Future”, ritiene che le “AI” non solo
cambieranno la nostra relazione con la conoscenza, la forma della società e
quella della politica, ma anche le armi e gli eserciti del pianeta.
Nodo
Taiwan e microchip
Per
sviluppare le AI c’è bisogno di tre cose:
algoritmi innovativi, una grande massa di dati
per addestrare i modelli (punto sul quale la normativa Usa è estremamente
permissiva) e una potenza di calcolo enorme per elaborarli.
Quindi:
servono chip moderni e potenti, in grande quantità.
Qui si
inserisce un rischio di tipo militare e geopolitico, perché il centro di
produzione dei microchip nel mondo, attualmente, è a Taiwan.
Schmidt
torna molto spesso sul “nodo di Taiwan”, cioè il problema della produzione dei
microchip più avanzati.
Schmidt
ha detto più volte che “la microelettronica è alla base di tutta l’intelligenza
artificiale e gli Stati Uniti non producono più i chip più sofisticati del
mondo.
Dato
che la stragrande maggioranza dei chip all’avanguardia viene prodotta in un
unico stabilimento separato da appena 110 miglia d’acqua dal nostro principale
concorrente strategico, dobbiamo rivalutare il significato di resilienza e
sicurezza della catena di approvvigionamento.”
Il
concorrente è, ovviamente, la Cina, mentre lo stabilimento che si trova a sole
110 miglia dal territorio “nemico” è quello di un’azienda chiamata “TSMC”, “Taiwan
Semiconductor Manufacturing Company,” che si trova nell’isola che la Repubblica
popolare cinese considera una estensione del proprio territorio.
Se, da
un lato, gli Usa hanno avviato durante la presidenza Trump una netta strategia
di “re-internalizzazione”, per riportare in patria la produzione ad alto valore
aggiunto di semiconduttori e altre componenti chiave nella produzione di
computer (la stessa TSMC ha avviato la discussa ristrutturazione di un suo
impianto per la produzione di microchip in Arizona dal costo di 40 miliardi di
dollari), dall’altro la strategia nel settore delle “AI” della Cina e del
blocco europeo (e dei pochi altri attori rilevanti al mondo, come Corea del
Sud, Giappone, Iran e Vietnam) è più difficile da decodificare.
La
Cina per mancanza di informazioni, il resto del mondo per difficoltà a
elaborare una strategia coerente che riesca a competere con quella degli Usa.
L’Europa
ha più volte tentato, nel corso degli ultimi venti anni, di avviare progetti di
ricerca e sviluppo nel settore dell’intelligenza artificiale, ma senza
raggiungere i risultati e la scala degli Stati Uniti.
Questo,
anche a causa della mancanza di uno dei tre fattori necessari all’addestramento
e allo sviluppo di sistemi ad alte prestazioni:
microchip
sufficientemente potenti.
I più
grandi produttori al mondo sono americani od operano in sinergia con gli
americani:
oltre
a “Tsmc” e a “Intel”, ha un ruolo chiave la statunitense “Nvidia”, produttrice
di schede video che si è trovata in una posizione di naturale vantaggio nello
sviluppo sia di processori nel settore della produzione di criptovalute che in
quello dell’addestramento di modelli di “AI”.
Tuttavia,
i principali produttori di tecnologia legate alle AI negli Usa sfruttano
processori creati ad hoc.
L’innovazione
nella “AI” dalla Silicon Valley all’Europa.
“Google”
ha realizzato le “Tensor processing unit” (TPU), dei processori progettati su
misura per il suo “cloud” che consentono di ottimizzare l’addestramento delle
AI.
La
stessa cosa ha fatto Amazon per i suoi “data center di AWS” (il servizio cloud
dell’azienda).
Più di recente anche Facebook, per tenere il
passo nella corsa alle AI con Google e Amazon, ha iniziato a progettare dei “chip
su misura” (e messo in open source gli algoritmi dei suoi sistemi di
intelligenza artificiale).
Dal
2019 Microsoft ha sviluppato internamente il “chip Athena” mentre “OpenAi” si
appoggia a processori di altri.
La
stessa Apple, che ha un ruolo significativo nella realizzazione di apparecchi
smart, ha realizzato dei” SoC” (System on a Chip) su misura, “Apple Silicon”,
con una componente specializzata per l’esecuzione degli algoritmi di
intelligenza artificiale chiamata “Neural Engine” che copre circa il 50% della
superficie del chip stesso.
In
Europa la strategia per le “AI” procede invece lungo due direttrici parallele:
l’Unione europea ha effettuato una serie di stanziamenti per la ricerca
software soprattutto nel settore accademico, da un lato, e sta spingendo sulle
normative sia per la raccolta, il trattamento e l’elaborazione delle
informazioni personali dall’altro.
Inoltre,
la Ue sta avanzando anche una serie di normative miranti a disciplinare
direttamente l’operatività del settore delle intelligenze artificiali, che sono
legate però alla strategia di sviluppo degli scambi commerciali e al
trasferimento tecnologico con gli Usa.
Dal
punto di vista della ricerca, come ha spiegato
– durante un incontro a Milano cui abbiamo assistito – il presidente dell’associazione
italiana dell’intelligenza artificiale, Gianluigi Greco, in Europa non possiamo competere con
la potenza di calcolo degli Usa:
“Attualmente i migliori sistemi hanno 17mila Gpu
[unità di calcolo per accelerare le computazioni grafiche e delle AI, NdR], il
più performante ne ha 43mila.
Non
abbiamo questa potenza di calcolo o le risorse per costruirla.
Dobbiamo affrontare i problemi nei settori in
cui possiamo fare la differenza, cioè gli algoritmi, e trovare soluzioni più
creative e innovative in questo ambito”.
I
finanziamenti erogati dall’Europa nel settore sono relativamente consistenti.
Come ha spiegato ancora in occasione del già citato evento “Vittorio Calaprice,”
analista della rappresentanza italiana per la Commissione europea, gli
investimenti vengono erogati tramite differenti piani, da “Horizon Europe”, “Next
Generation EU”, fino al “Pnrr”.
La Ue investe un miliardo all’anno e attrae
altri 20 miliardi di euro di investimenti privati.
Gli
Usa hanno un investimento di circa 55 miliardi di dollari.
La
Cina si stima che investa circa 20 miliardi di dollari.
In Europa, il Paese che investe di più è il
Regno Unito (ma è fuori dalla Ue). Immediatamente dietro ci sono Germania e
Francia, che però seguono un approccio integrato con i progetti europei.
L’investimento
in Italia si aggira attorno ai 500 milioni.
Per
l’Europa, oltre all’aumento della produttività, secondo le politiche
dell’Unione europea l’AI dovrebbe essere in sinergia con lo sviluppo
sostenibile e contribuire soprattutto alla trasformazione digitale per
renderla, nelle parole della Commissione, una “Twin Transition”, una doppia
transizione in cui oltre a una dimensione di diritti e regolamentazioni per gli
individui ci devono essere anche indirizzi per quanto riguarda la
sostenibilità.
Una AI “non solo antropocentrica ma anche planeto centrica”,
nelle parole dei dirigenti della Commissione.
La
Commissione europea spinge anche per l’adozione di regolamentazioni specifiche
che sono simmetriche alla richiesta di una “moratoria” sulle “AI” proposta dai
big del tech negli Usa, che servirebbe però sostanzialmente a congelare lo
status quo, cioè il vantaggio della coppia “OpenAI-Microsoft” rispetto a
Google, Facebook e Amazon ma soprattutto a scapito della concorrenza delle
startup e di altri potenziali “disruptor” del mercato, che ha visto per un
decennio investimenti enormi da parte dei big che adesso devono monetizzarli
con i primi prodotti e servizi.
Il
modello asiatico.
Fuori dall’Europa,
i Paesi asiatici investono sistematicamente nelle AI e nello sviluppo delle
soluzioni di tipo differente.
In Corea del Sud il gruppo “Naver”, che
gestisce il primo motore di ricerca del Paese con una quota di mercato del 61%
rispetto al 29% di Google, si è alleato con “Samsung” (una delle poche aziende
al mondo dotate di impianti avanzati per la produzione di microchip) e il “Governo
coreano” per la realizzazione di un modello di AI sofisticato (chiamato Hyper Clova
AI) e un ecosistema di aziende e startup collegate.
“Naver”
sta sviluppando delle AI localizzate per i Paesi del mondo arabo, nonché per i
grandi Paesi non anglofoni, come Spagna e Messico, dove i Governi desiderano
avere i propri sistemi di AI personalizzati in base ai loro contesti politici e
culturali e “al sicuro” anche da possibili interferenze o atti di spionaggio da
parte di aziende legate al governo americano.
“Sarà
un business enorme, – ha detto al “Financial Times” “Sung Nako”, un dirigente
di “Naver” responsabile dello sviluppo dell’AI – poiché la tecnologia AI
sovrana sta diventando sempre più importante per la protezione dei dati”.
Un
ruolo più defilato ma non meno importante in Asia è quello del Giappone, che
nella “AI” vede uno strumento di aumento della redditività del lavoro e della
produzione, ma anche un modo per automatizzare il già esteso parco di robot
industriali (e in futuro per le cure domestiche).
La
prima strategia è basata sul piano “Society 5.0” che mira a portare un impatto
positivo delle tecnologie di AI assieme a d altre, nel tessuto sociale del
paese.
Il
convitato di pietra della corsa alle “AI” però è un altro: la Cina.
Il
Paese viene percepito come un rischio in occidente soprattutto da quando, nel
luglio del 2017, ha annunciato di voler raggiungere la leadership planetaria
nel settore delle “AI” entro il 2030.
La leadership di “Xi Jimping”, che sta
perseguendo con determinazione una serie di primati scientifici e tecnologici,
tra cui la messa in orbita del primo astronauta “civile” con un vettore cinese
o la commercializzazione di un aereo di linea capace di fare la concorrenza nei
trasporti a corto e medio raggio a Boeing e Airbus.
La
Cina è anche da tempo il primo produttore e acquirente al mondo di auto
elettriche e il piano “Made in China 2025” punta alla capacità di spingere
ancora di più l’evoluzione industriale del Paese.
Per
quanto riguarda l’intelligenza artificiale, il ruolo maggiormente conosciuto è
quello del settore privato, guidato da pochi, grandi produttori:
“Tencent”,
“Baidu” e il gruppo “Alibaba”.
Ma,
come osserva lo “International Institute for Strategic Studies”, “Dopo la
Silicon Valley il secondo centro al mondo di intelligenza artificiale è
l’Accademia delle scienze cinese”.
Non
sono noti gli usi interni sui sistemi d’arma autonomi sviluppati dall’esercito
popolare cinese, ma sono più conosciuti quelli nell’ambito del controllo delle
popolazioni.
Dai
pionieristici sistemi di visione e riconoscimento dei volti per individuare
nella folla delle persone di etnia uiguri e poi dissidenti politici e altre
persone schedate, ai sistemi automatici di contenimento di milioni di persone
durante la pandemia di Covid-19:
nella
provincia di Hubei, abitata da 60 milioni di individui (leggermente superiore
alla popolazione italiana), la Cina ha mantenuto un enorme cordone sanitario
completamente impermeabile al passaggio delle persone grazie a una serie di
algoritmi di intelligenza artificiale “per tracciare gli spostamenti dei
residenti e aumentare le capacità di analisi mentre venivano costruite nuove
strutture sanitarie”.
Chi
sono i Paesi cyber-maturi.
Al di
là della propaganda di Pechino e della narrativa della “Guerra fredda della AI”
occidentale, non ci sono informazioni indipendenti e autonome che indichino
quali sono i risultati raggiunti dalla ricerca militare e governativa cinese e
quali sono le applicazioni concrete.
Esistono
poche ricerche che forniscano un quadro completo sui sistemi d’arma descritti o
pubblicizzati come “autonomi” o “intelligentizzati” che si basano sulla ricerca
scientifica e militare e nello sviluppo di sistemi senza pilota e di tipo
missilistico, ma anche di superficie (come i cani-robot autonomi da
combattimento, ad esempio).
La
guerra in Ucraina e la corsa agli armamenti “AI”.
Anche
indirettamente, sia per quanto riguarda la capacità innovativa in questo
settore della Cina o del’Iran e della Corea del Nord, oltre che della Russia
stessa, non ci sono indicazioni concrete.
Il
conflitto militare in corso tra Ucraina e Russia è stato sino a questo momento
uno scontro a bassa intensità per quanto riguarda l’uso delle “AI”.
Al di
là dell’utilizzo dei droni e di pochi sistemi simili, non sono state impiegate
armi avanzate di tipo autonomo sia in volo che soprattutto sul terreno, come
robot da attacco e altri sistemi d’arma autonoma che permetterebbero a ciascuna
delle parti di ridurre le perdite e contrastare più efficacemente le forze
avversarie.
Tuttavia,
la narrativa sulla “Cortina di ferro” e il costante pericolo di un utilizzo
militare dell’intelligenza artificiale da parte dei “paesi nemici”, cioè Russia
e in generale Cina, è costantemente presente nel discorso pubblico.
In
generale, negli ambienti conservatori americani si parla da tempo di “corsa
agli armamenti delle AI” e il tema viene visto quantomeno come la chiave di
volta per le future relazioni diplomatiche degli Usa con la Cina.
Anche
nel conflitto militare in corso tra Ucraina e Russia sarebbe sempre possibile
una escalation delle AI.
Un timore che viene alimentato da varie
testate internazionali, anche sulla base del fatto che già in passato le AI
sarebbero state utilizzate durante dei conflitti, come segnalato da un rapporto
del Consiglio di Sicurezza dell’Onu riguardo alla seconda guerra civile in
Libia.
Si trattava, in quel caso, di sistemi d’arma
letali e completamente autonomi del tipo” STM Kargu-2”, capaci di individuare e
attaccare sino a distruggere bersagli di natura non predefinita, operando senza
alcun tipo di connessione con gli operatori remoti.
Ancora
lontani dall’utilizzo di robot con licenza di uccidere (o interi sciami di
robot autonomi d’assalto dotati di forza letale sia via terra che in volo), il
cui effetto sorpresa sarebbe riservato probabilmente a conflitti più vicini al
cuore degli interessi geopolitici americani ed europei.
In
conclusione, l’intelligenza artificiale come fattore di potenza militare oltre
che come fattore di ricchezza economica è al centro degli obiettivi delle
principali potenze planetarie.
I
tentativi di comprensione e regolamentazione del fenomeno sono però ancora
frammentati e divisi in ambiti diversi:
da
quello militare a quello economico oppure alle regolamentazioni commerciali e
per la privacy.
(ANTONIO
DINI)
Israele
distrugge Gaza per controllare
la
rotta marittima più importante del mondo?
Il
Canale del Ben Gurion che collega
il
Mediterraneo orientale al Golfo di Aqaba
Globalresearch.ca
– (02 dicembre 2023) - Richard Medhurst e Prof. Michel Chossudovsky – ci
dicono:
Introduzione
alla ricerca globale.
Incisiva
e accuratamente documentata l'analisi geopolitica di “Richard Medhurst”
relativa alla costruzione del “Canale Ben Gurion” che collega il Mediterraneo
orientale al Golfo di Aqaba.
Il “Ben
Gurion Canal Project” era inizialmente un progetto "segreto"
(classificato) degli Stati Uniti formulato nel 1963 dal “Lawrence Livermore
National Laboratory “LLNG”, un think tank strategico (focalizzato sulle
radiazioni nucleari) sotto contratto con il “Dipartimento dell'Energia degli
Stati Uniti”.
Il
progetto” LLNG” è stato formulato in risposta alla nazionalizzazione del Canale
di Suez nel luglio 1956 da parte del presidente “Gamal Abdel Nasser”
(1956-1970). Il suo intento era quello di aggirare il Canale di Suez.
Secondo
il documento "classificato" redatto dal LLNG (1963) citato da “Business
Insider “, luglio 2023, era previsto un piano strategico:
"far
esplodere un Canale di Suez alternativo attraverso Israele usando 520 bombe
nucleari".
Il
piano consisteva nell'utilizzare 520 esplosioni nucleari sepolte "per
aiutare nel processo di scavo attraverso le colline nel deserto del Negev. Il
documento è stato declassificato nel 1993". Non ho potuto consultare il
documento "declassificato" sul GNL.
Il
documento declassificato è citato da Richard Medhurst.
Questo
piano degli Stati Uniti, negoziato per la prima volta con Israele negli anni
'1960, è della massima rilevanza per lo svolgersi degli eventi in Palestina.
Il suo
obiettivo è quello di ottenere il dominio marittimo USA-Israele contro i popoli
del Medio Oriente.
Nel contesto di una più ampia guerra in Medio
Oriente guidata dagli Stati Uniti, il progetto del Canale Ben Gurion fa parte
dell'agenda militare egemonica degli Stati Uniti.
È coerente con il "Piano per cancellare la
Palestina dalla carta geografica" di Netanyahu:
Il
Canale Ben Gurion darà a Israele in particolare e ad altre nazioni amiche la
libertà dal ricatto derivante dall'accesso al Canale di Suez.
Gli
stati arabi sfruttano il Mar Rosso per fare pressione su Israele e, in
risposta, Israele ha deciso di ottenere un maggiore controllo del Mar Rosso.
Questi paesi africani hanno affinità culturali
ed economiche con gli stati arabi. Uno dei principali vantaggi militari per
Israele è che offre a Israele le opzioni strategiche, in quanto il “Canale Ben
Gurion” toglierà totalmente l'importanza di Suez per l'esercito americano, se
necessario negli aiuti a Israele.
Israele
mira a spingere ulteriormente l'Egitto in un angolo eliminando Suez nel
corridoio commerciale ed energetico globale e diventando un centro logistico
globale per il commercio e l'energia.
Gli
esperti ritengono che questa situazione scuoterà l'equilibrio
strategico-energetico dell'iniziativa cinese “Belt and Road Project nel
Mediterraneo”, insieme allo “Stretto di Hormuz”, che è il punto di
trasferimento del 30% dell'energia mondiale.
Il
Canale Ben Gurion avrebbe il solido sostegno dell'Occidente. (Eurasia Review, 7
novembre 2023)
Il
presidente Biden sostiene ampiamente il genocidio guidato da Israele.
Evidentemente ciò che è in gioco è un progetto
egemonico degli Stati Uniti che mira all'espulsione dei palestinesi dalla loro
patria e all'appropriazione di tutte le terre palestinesi.
Secondo
“Yvonne Ridley”:
"L'unica
cosa che impedisce al progetto recentemente rivisto [del Canale Ben Gurion] di
essere ripreso e approvato è la presenza dei palestinesi a Gaza.
Per
quanto riguarda Netanyahu, stanno ostacolando il progetto " ( Yvonne Ridley, 10 novembre
2023).
Mentre
il progetto è contemplato da Stati Uniti e Israele, come delineato da Richard
Medhurst, la validità del piano” LLNG” del 1963 è a dir poco dubbia.
Ciò
che viene rivelato da Medhurst è la strategia dell'intelligence militare degli
Stati Uniti di utilizzare Israele come "hub" in Medio Oriente al fine
di assicurarsi il controllo egemonico sulle vie d'acqua internazionali
strategiche.
In
solidarietà con il popolo palestinese.
(Michel
Chossudovsky, Richard Medhurst).
È
contemplato un attacco pianificato
da
Stati Uniti e Israele contro l'Iran.
Globalresearch.ca
– Prof. Michel Chossudovsky – (2 -12-2023) – ci dice:
La
guerra condotta dagli Stati Uniti contro il popolo della Palestina e del Medio
Oriente è un'impresa criminale (Del Prezzo)
Introduzione.
Siamo solidali
con la Palestina. Ma dobbiamo riconoscere che l'apparato militare e di
intelligence degli Stati Uniti è fermamente dietro il genocidio di Israele
diretto contro il popolo palestinese.
E
questo deve far parte della campagna di solidarietà, vale a dire rivelare la
verità sul ruolo insidioso di Washington, che fa parte di un'agenda militare
attentamente pianificata diretta contro, vale a dire verso il Medio Oriente
allargato.
Netanyahu
è un procuratore, con precedenti penali.
Ha
l'inflessibile sostegno della "Classe politica" dell'Europa
occidentale.
Tutt'altro. Prende di mira coloro che si oppongono alla
guerra, che chiedono un cessate il fuoco.
Esercita
un'influenza a favore della condotta dell'agenda militare degli Stati Uniti a sostegno
di Israele.
L'establishment dell'intelligence militare
degli Stati Uniti, in coordinamento con potenti interessi finanziari, sta
dettando legge per quanto riguarda l'intento genocida di Israele di
"cancellare la Palestina dalla carta geografica".
La
dottrina militare americana: prendere di mira e uccidere i civili.
L'attacco
ai civili e l'uccisione di bambini a Gaza su l'attacco ai civili e l'uccisione
di bambini a Gaza è modellato su (1945-2023), tra cui (Più di 30 milioni di
morti, principalmente civili, nelle guerre guidate dagli Stati Uniti in quello
che è (1945-2023) inclusa eufemisticamente chiamata "era del dopoguerra").
"
Gli americani hanno invaso, agghiacciante: "casa per casa, stanza per
stanza", facendo piovere morte e distruzione sull'orgogliosa e antica
"Città delle Moschee".
I
marines uccisero così tanti civili che lo stadio di calcio municipale dovette
essere trasformato in un cimitero...
Un
corrispondente ha scritto: "Non c'è stato nulla di simile all'attacco a
Falluja dopo l'invasione e l'occupazione nazista di gran parte del continente
europeo: il bombardamento e il bombardamento di Varsavia nel settembre 1939,
l'attentato terroristico" di Rotterdam nel maggio 1940".
Falluja,
2004.
Gli
Stati Uniti sostengono il genocidio israeliano diretto contro il popolo
palestinese.
Il primo ministro Netanyahu è un criminale. È il procuratore di Washington,
approvato e sostenuto senza riserve dall'amministrazione Biden e dal Congresso
degli Stati Uniti.
Il
sionismo costituisce il fondamento ideologico dell'imperialismo statunitense
contemporaneo e della sua guerra senza fine contro i popoli del Medio Oriente.
Il
dogma sionista del "Grande Israele" – come in tutte le guerre di
religione fin dagli albori dell'umanità – è lì per fuorviare le persone di
tutto il mondo.
Il
sionismo è diventato uno strumento utile che è incorporato nella dottrina
militare degli Stati Uniti.
La "Terra Promessa" coincide
ampiamente con l'agenda egemonica dell'America in Medio Oriente, vale a dire
ciò che l'esercito americano ha designato come il "Nuovo Medio
Oriente".
Cui
Bono: "A chi giova"
Ci
sono obiettivi strategici, geopolitici ed economici dietro il genocidio di
Israele diretto contro il popolo palestinese. "
I
crimini sono spesso commessi a vantaggio dei loro autori":
Chi
sono i colpevoli?
La
guerra di Israele contro il popolo palestinese serve gli interessi del grande
capitale, del complesso militare industriale, dei politici corrotti... Il
genocidio è attuato da Netanyahu per conto degli Stati Uniti.
L'apparato
militare e di intelligence degli Stati Uniti sono dietro i bombardamenti
criminali e l'invasione di Gaza da parte di Israele.
La guerra in corso in Medio Oriente è in gran
parte diretta contro l'Iran.
Michel
Chossudovsky e Caroline Mailloux.
MICHEL
CHOSSUDOVSKY - GUERRA IN MEDIO ORIENTE IN ESPANSIONE: CHI C'È DIETRO NETANYAHU?
Antecedenti
storici. Usare Israele come mezzo per attaccare l'Iran.
Nel
2003, il progetto di guerra contro l'Iran (Operazione Theatre Iran Near Term,
TIRANNT)) era già Déjà Vu.
Era
stato sul tavolo da disegno del Pentagono per più di 15 anni.
"Faranno
i bombardamenti per noi" [parafrasando], senza il coinvolgimento militare
degli Stati Uniti e senza che noi facciamo pressione su di loro "per
farlo". Per ulteriori dettagli vedere il mio articolo qui sotto pubblicato
per la prima volta da Global Research nel maggio 2005, così come l'intervista
della PBS a Z. Brzezinski.
Questa
opzione in stile “Dick Cheney” è attualmente (novembre 2023) ancora una volta
sul tavolo di progettazione del Pentagono, vale a dire la possibilità che
Israele, che sta già bombardando Libano e Siria, venga incitato a sferrare un
attacco contro l'Iran (agendo per conto di gli Stati Uniti).
Risoluzione
del Congresso degli Stati Uniti (H. RES. 559) Accusa l'Iran di possedere armi
nucleari.
Tempistica
Attenta: nel giugno 2023, la Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti ha
adottato la risoluzione (H. RES. 559)
che fornisce un "via libera" per dichiarare guerra all'Iran.
Risolto,
che la Camera dei Rappresentanti dichiara che questa è la politica degli Stati
Uniti...
(1) -
che una Repubblica islamica dell'Iran dotata di armi nucleari non è
accettabile;
(2) -
che l'Iran non deve essere in grado di ottenere un'arma nucleare in nessuna
circostanza o condizione;
(3) - utilizzare
tutti i mezzi necessari per impedire all'Iran di ottenere un'arma nucleare;
(4) - riconoscere
e sostenere la libertà d'azione dei partner e degli alleati, compreso Israele,
per impedire all'Iran di ottenere un'arma nucleare.
L'arsenale
di armi nucleari non dichiarate di Israele.
Mentre
l'Iran è etichettato (senza prove) come potenza nucleare dalla Camera dei
Rappresentanti degli Stati Uniti, Washington non riesce a riconoscere che
Israele è una potenza nucleare non dichiarata.
In
recenti sviluppi, il Ministro israeliano per il Patrimonio Culturale Amichai
Eliyahu,ha ammesso al mondo che Israele ha armi nucleari pronte per essere
usate contro i palestinesi".
Il “Times
of Israel” ha riferito che:
"Amichai Eliyahu” ha detto domenica [5
novembre 2023] che una delle opzioni di Israele nella guerra contro “Hamas era
quella di sganciare una bomba nucleare sulla Striscia di Gaza""
La
guerra all'energia.
Obiettivo non dichiarato di una guerra
USA-NATO-Israele contro l'Iran: il gas naturale.
Riserve
di gas naturale: l'Iran è al secondo posto dopo la Russia.
Russia,
Iran e Qatar possiedono il 54,1% delle riserve mondiali di gas naturale.
-Russia
24,3%,
-Iran
17,3%,
-Qatar,
12,5 % (in partenariato con l'Iran)
contro
-5,3%
per gli Stati Uniti.
Il
presidente Joe Biden ha ordinato di "far saltare in aria" (settembre
2022) l'oleodotto Nord stream , il che costituisce un atto di guerra degli
Stati Uniti contro l'Unione Europea.
Nelle
parole di Joe Biden:
"Non
ci sarà più un Nord Stream 2". Dichiarazione alla conferenza stampa della
Casa Bianca (7 febbraio 2022)
L'obiettivo
strategico dell'America è, nonostante le sue scarse riserve di gas naturale:
Obbligare
l'Unione Europea ad acquistare GNL "Made in America".
Ciò
implica che l'agenda militare americana contro Russia e Iran costituisce un mezzo
per aumentare i prezzi dell'energia nell'UE, che è un atto di guerra economica
contro i popoli europei.
Il partenariato Iran-Qatar per il gas naturale.
Le
riserve marittime di gas del Golfo Persico sono sotto una partnership (di
proprietà congiunta) tra il Qatar e l'Iran .
L'amministrazione
Biden è intenzionata a destabilizzare la partnership Iran-Qatar
Questa
partnership è di sostegno al popolo palestinese.
Nel
marzo 2022, "il presidente Joe Biden, in seguito a un incontro con l'emiro
del “QatarSheik Tamim”,ha designato il Qatar come uno dei principali alleati
non NATO degli Stati Uniti , mantenendo la promessa che aveva fatto al Qatar
all'inizio di questo anno [2022], ha dichiarato la Casa Bianca" ( Reuters,
10 marzo 2022 )
"La
designazione è concessa dagli Stati Uniti agli alleati stretti e non NATO che
hanno relazioni di lavoro strategiche con le forze armate statunitensi”.
Biden
ha promesso all'emiro del Qatar “Sheikh Tamim bin Hamad al-Thani”, nel gennaio
[2022] durante un incontro alla Casa Bianca che avrebbe concesso al Qatar lo
status speciale".
Ciò
che è in gioco sono coalizioni trasversali.
Il Qatar è un "partner" dell'Iran in
relazione alle riserve strategiche di gas marittimo nel Golfo Persico. Non
esiste alcuna cooperazione militare formale tra i due paesi.
L'agenda
inespressa di Washington è quella di rompere e/o destabilizzare la partnership
del Qatar con l'Iran, integrando il Qatar nell'orbita militare USA-NATO.
"L'emiro
del Qatar ha dichiarato oggi che è stata posata la prima pietra per il progetto
di espansione del “Northern Dome”, in linea con la strategia del Qatar per
rafforzare la sua posizione di produttore globale di GNL.”
Al
momento in cui scriviamo, le implicazioni del progetto di espansione dello
sceicco “Tamin” dell'ottobre 2023 al momento in cui scriviamo, le implicazioni
del progetto di espansione dell'ottobre 2023 di “Sheik Tamin in” (che si trova
nelle acque territoriali iraniane) e dell'alleanza militare "a status
speciale" del Qatar con gli Stati Uniti rimangono poco chiare.
La
base militare americana di “Al-Udeid”.
Lo
status e le funzioni di “Al Udeid” sono cambiati dalla firma dell'accordo del
marzo 2022 che designa il Qatar come "Principale alleato non NATO degli
Stati Uniti"?
Il
Qatar è una "polveriera"?
L'obiettivo
della politica estera degli Stati Uniti è quello di distruggere e minare in
definitiva quella "amicizia" con l'Iran che è molto apprezzata e
sostenuta dai cittadini del Qatar.
L'esportazione
del gas da “South Pars North Dome “transita attraverso Iran, Turchia e Russia.
Qatar,
Russia e Iran (i 3 maggiori detentori mondiali di
riserve di gas naturale) hanno raggiunto un accordo nel 2009 per creare una 'Gas
Troika', un'entità di cooperazione trilaterale sul gas che prevede lo sviluppo
di progetti comuni.
Un
gran numero di paesi tra cui Corea del Sud, India, Giappone, Cina stanno
importando GNL dal Qatar.
L'anno
scorso (novembre 2022), "Qatar Energy” ha firmato un accordo di 27 anni
per fornire gas naturale liquefatto alla cinese “Sinopec".
Il
Qatar ha anche un'alleanza strategica con la Cina.
L'obiettivo
di Washington, sotto le mentite spoglie della "Grande Alleanza
Non-NATO" dell'America con il Qatar, è quello di:
Rompere
la partnership Qatar-Iran.
Escludere
l'Iran dal giacimento congiunto di gas marittimo.
Esercitare
il controllo degli Stati Uniti sul giacimento di gas marittimo nel Golfo
Persico.
Indebolire
e disabilitare la "troika del gas" (Russia, Iran, Qatar)
creare
il caos nel mercato globale dell'energia,
minare
il commercio di gas naturale liquefatto (GNL) verso numerosi paesi.
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