Il destino degli uomini coraggiosi.
Il
destino degli uomini coraggiosi.
I
ricchi sono sempre più ricchi e
a noi
va bene così: il grande
inganno
del gigacapitalismo.
Agendadigitale.eu
– (9 settembre 2022) – Lelio Demichelis – ci dice:
(Lelio
Demichelis -Docente di Sociologia economica
Dipartimento
di Economia- Università degli Studi dell’Insubria).
Cultura
E Società Digitali.
Basterebbe
una piccola quota dei profitti delle multinazionali e della ricchezza dei
miliardari e redistribuirla per ottenere investimenti in istruzione e salute
dieci volte superiori agli attuali aiuti internazionali. Eppure, si torna a
parlare di flat tax.
Le
riflessioni del libro “Gigacapitalisti” di “Riccardo Staglianò”
capitalismo2.
Avete
presente Re Mida, il mitico re della Frigia, celebre per la sua capacità di
trasformare in oro qualsiasi cosa toccasse?
O
avete presente zio Paperone che nuota felice nell’oro del suo mega-forziere
mentre Paperino e Qui, Quo, Qua lo guardano?
Oggi
siamo oltre Re Mida e oltre zio Paperone.
Ora
abbiamo i gigacapitalisti e noi li guardiamo affascinati e insieme
arricchendoli sempre di più, noi invece impoverendoci sempre di più e senza
reagire (ovvero,
i ricchi sono sempre più ricchi per una sorta di lotta di classe a rovescio –
ne hanno scritto ad esempio Luciano Gallino e Marco Revelli – che dura da
quarant’anni).
“Gigacapitalisti”
è anche il titolo dell’ultimo libro (Einaudi) di “Riccardo Staglianò”,
giornalista del Venerdì di Repubblica, sempre molto attento a tutto ciò che è
web o deriva dal web e dalle nuove tecnologie/piattaforme – e ricordiamo, tra
gli altri, i suoi volumi “Al posto tuo. Così web e robot ci stanno rubando il
lavoro”, del 2016; “Lavoretti. Così la sharing economy ci rende tutti più
poveri”, del 2018.
Chi
sono i gigacapitalisti.
Gigacapitalisti
al posto dei vecchi e più poveri mega capitalisti, dunque. Diventati
ricchissimi dopo quarant’anni di neoliberalismo e di tecno-capitalismo e
diventati ancora più ricchi grazie alla pandemia, con “Jeff Bezos” – che lotta
con “Elon Musk” per essere il più ricco del mondo – che proprio grazie alla
pandemia ha aggiunto altri 80 miliardi di dollari al suo giga-patrimonio.
E già
questo dovrebbe porci qualche problema in termini di ciò che un tempo – ma ne
abbiamo perso il significato dopo appunto quarant’anni di egemonia del pensiero
neoliberale egoista e anti-sociale – si chiamava giustizia sociale,
redistribuzione della ricchezza, etica e moralità, responsabilità sociale;
e
invece, nulla accade, neppure una reazione di indignazione e a fatica i
lavoratori cercano di strappare all’”autocratica Amazon” condizioni di lavoro
almeno non di sfacciato sfruttamento, mentre troppi paesi e governi stendono
tappeti rossi quando, ad esempio sempre “Amazon”, vuole aprire un nuovo centro di
smistamento in qualche paese, considerandolo come il nuovo che avanza e che non
si deve e non si può fermare, cioè confondendo “Amazon” con il progresso e
dimenticando che sono sempre le vecchie vendite per corrispondenza anche se
integrate/gestite con un algoritmo.
Ricchi
sempre più ricchi – giga, appunto – mentre in Italia qualcuno rilancia per
l’ennesima volta l’idea di una flat-tax, modello di imposizione fiscale
neoliberale e profondamente ingiusto e sempre fallimentare (oltre che
incostituzionale), finalizzato appunto all’arricchimento di pochi e
all’impoverimento dei molti, ma venduto propagandisticamente come una forma di
vera giustizia fiscale, ma sempre secondo il metodo appunto neoliberale di
rovesciare il senso e il significato delle parole.
I
ricchi sono sempre più ricchi, e a noi va bene così.
I
ricchi sono sempre esistiti, lo sappiamo.
Ma non
erano mai arrivati ad essere giga-ricchi.
Eppure
era inevitabile che si producesse questo effetto, perché il neoliberalismo premia deliberatamente i
ricchi e la produzione di ingiustizia sociale è una sua scelta politica
deliberatamente perseguita, secondo l’economista “Joseph Stiglitz”;
e
sempre racconta, nonostante le smentite, la favola del gocciolamento della
ricchezza (cioè: più i capitalisti sono ricchi, più la loro ricchezza
gocciolerà per legge di gravità verso il basso) favorendo l’arricchimento di
tutti e alzando la marea del benessere;
quindi non più per scelta politica verso una società
più giusta – era questo il senso delle politiche keynesiane di redistribuzione
della ricchezza negli anni 1945-fine anni ‘70 – ma per il libero e magico gioco
del mercato.
Che è un’altra favola
neoliberale/capitalistica, perché il mercato non è mai libero;
mai è
la domanda a generare l’offerta ma è sempre l’offerta a generare (si chiamano
marketing e pubblicità e oggi algoritmi predittivi) la domanda;
l’oligarchia della ricchezza è nel Dna del
capitalismo;
il profitto si basa sempre sullo sfruttamento
del lavoro altrui – ancora Amazon come caso paradigmatico – e quindi il
capitalismo non si fonda mai sulla benevolenza dei ricchi che fanno cadere un
po’ di gocce di ricchezza verso i meno ricchi e i poveri.
Ma i
gigacapitalisti non solo sono diventati sempre più ricchi – grazie alla nostra
benevolenza nei loro confronti, noi felici di comprare su “Amazon”, di navigare
con “Google”, sognando di viaggiare nello spazio grazie a” Elon Musk” – ma mai
hanno avuto un potere così grande, ce lo ricorda appunto “Staglianò”.
E a
noi va bene così, noi continuando a comprare su “Amazon” fremendo in attesa del
prossimo “Black Friday”;
noi
continuando a socializzare via social senza vedere che sono imprese private
votate a massimizzare il proprio profitto privato espropriandoci dei nostri
dati, cioè della essenza (e anche questo era la privacy) della nostra vita; a
continuando a cercare informazioni su “Google”.
E
tutto questo mentre i grandi media sono sempre più “house organ” della “Silicon
Valley”, cioè dei “gigacapitalisti”, media ormai incapaci di qualsiasi pensiero
critico/riflessivo, di reazione e di indignazione e tutti (politici,
economisti, imprenditori, mass/social media) parlano e scrivono di
alfabetizzazione digitale e di dover essere sempre connessi, come se non ci
fosse vita anche prima, oltre o senza il digitale.
Tranne
poche eccezioni – e “Riccardo Staglianò” è una di queste voci capaci di
pensiero critico, di indignazione, ma anche di proposta.
Social
non è sociale: il grande inganno in cui tutti siamo caduti.
Scriveva
“Mark Zuckerberg” a un amico agli inizi di Facebook, come troviamo nel libro di
“Staglianò”.
“Ho oltre 4000 email, foto, indirizzi, screen shot”.
E l’amico: “Ecchec…?! E come sei riuscito ad
averli?”.
E Zuckerberg:
“La
gente me li ha dati spontaneamente. Non so perché. Perché si fidano. Coglioni
che non sono altro”.
Se è
vera, questa frase esprime perfettamente il vero core business di “Mark
Zuckerberg” – uno dei gigacapitalisti – e qual è la nostra condizione
esistenziale di dipendenza nei suoi confronti.
E Zuckerberg ha studiato anche psicologia, sa quali
sono i punti deboli della nostra psiche e li sfrutta per il proprio profitto.
Scrive
Staglianò:
“Ed è
proprio grazie alla conoscenza approfonditissima di quel che ci passa nella
capoccia che Zuckerberg diverrà il più corteggiato dall’industria pubblicitaria”, trasformando quello che veniva
offerto (ma era marketing) come un luogo di socializzazione ideale per fare
comunità in nome di quel bisogno umanissimo che si chiama amicizia, nella più
grande agenzia di spionaggio (questo è il vero nome di profilazione) e nella
più grande agenzia di pubblicità della storia, secondo l’opinione dell’inglese”
John Lanchester” – per tacere di “Cambridge Analytica” e dei comportamenti solo
apparentemente infantili di “Zuckerberg” davanti ad ogni scandalo che lo
concerne (non lo faccio più!, per poi continuare a farlo in altro modo),
ovunque cercando compulsivamente una fonte di profitto e di potere per sé.
Analogamente “Jeff Bezos”, per il quale “più
che vendere cose (merci) è importante comprare persone (clienti) e una volta
conquistate, rifilargli di tutto”.
Scrive
ancora “Staglianò”:
“I
patrimoni dei “Bill Gates”, “Jeff Bezos”,” Elon Musk”, “Mark Zuckerberg” del
mondo hanno raggiunto dimensioni incompatibili con un buon funzionamento della
democrazia.
Nel
senso che quelle spaventose quantità di denaro si traducono inevitabilmente in
altrettanto potere.
Compreso
quello di interferire con le leggi che decidono ad esempio quante tasse far
pagare e a chi – e vale la pena rammentare come questi signori hanno tutti
almeno due mestieri:
il proprio e quello di elusore fiscale.
Studiandone
le biografie, il “topos” più ricorrente e storicamente inedito è che si tratta
di privati cittadini in grado di fare cose prima appannaggio solo degli Stati”.
Ad esempio:
“Bezos”
“si candida a diventare l’emporio unico dell’umanità.
Prima
di “Musk” nello spazio c’erano andati solo Russia, Stati Uniti e Cina. E infine
c’è Zuckerberg, di cui sempre più commentatori (e investitori) chiedono la
testa per offrirla in pasto alla pubblica opinione scandalizzata dalla serie
crescente di rivelazioni su un cinismo aziendale innalzato a forma d’arte.
E
parliamo di uno che, se la sua creatura fosse appunto una nazione, con quasi
tre miliardi di cittadini, sarebbe a capo di un Paese più popoloso della Cina.
Con un
livello di sorveglianza, sia detto per inciso, che Pechino si sogna”.
Ovvero,
abbiamo a che fare con imprese della manipolazione attraverso l’economia
dell’attenzione e il “fracking dei nostri cervelli”, perché più tempo passiamo
sui social (e non solo), maggiori sono i profitti per queste imprese e per i
loro gigacapitalisti (cioè: “i peggiori contenuti dal punto di vista sociale,
sono i migliori contenuti dal punto di vista del traffico generato” ricorda
Staglianò;
ovvero l’odio produce profitti e quindi l’odio
va sostenuto e sempre attivato, generando quello che potremmo definire come il
capitalismo dell’odio: sempre nella logica del conformismo, chiamato oggi “network
effect” (perché più persone ci sono, più persone vogliono esserci, che è
appunto il vecchio conformismo, le vecchie anime collettive delle folle secondo
“Gustave Le Bon”, oggi anch’esse digitalizzate…) – perché se stiamo online più
a lungo, vediamo più pubblicità, e “Zuckerberg” diventa più ricco…
Conclusioni.
E
tuttavia, “i gigacapitalisti sembrano più amati che disprezzati”, commenta “Staglianò”.
Colpa
anche “dell’eterno elemento afrodisiaco del potere, di politici spesso non
all’altezza della situazione e di tanti giornalisti – oh quanti, che si bevono
la” retorica silicon vallica” di rendere il mondo un posto migliore o che di
ogni nuovo smartphone non trovano di meglio da dire che è il migliore di sempre
– giornalisti che preferiscono vestire i panni dei “cheerleaders” che quelli
dei “guastafeste”.
Ma
allora: cosa fare e come “contro una manciata di plutocrati che non ambiscono a
influenzare solo che cosa compriamo, ma anche che cosa pensiamo?”
E che appaiono davvero oligarchi too big to
fail?
Certo, non è facile, eppure “bisogna
provarci”, scrive Staglianò.
Con “tasse giuste, leggi migliori, più diritti
ai lavoratori sfruttati e una nuova consapevolezza collettiva”, capace di
smontare la “narrazione silicon vallica e neoliberale” – magari ricordando che
negli Usa (ma il resto del mondo non è molto diverso), “negli anni Settanta i
ricchi versavano al fisco oltre metà del proprio reddito, cioè il doppio dei
lavoratori, mentre nel 2018, dopo l’ultima riforma fiscale” di Trump, di tasse
“i miliardari ne hanno pagate il 23 per cento, meno di metalmeccanici,
insegnanti e pensionati”.
E
quindi?
“Basterebbe
prendere una piccola quota dei profitti delle multinazionali e della ricchezza
dei miliardari e redistribuirla in maniera proporzionale alla popolazione per
ottenere investimenti in istruzione e salute dieci volte superiori agli attuali
aiuti internazionali”.
Eppure,
nessuno osa proporre una simile strada, anzi si torna a parlare appunto di flat
tax.
Conclude “Staglianò”:
“C’era
una vecchia battuta sugli enarchi, gli allievi della scuola di eccellenza della
pubblica amministrazione francese, del genialmente perfido “François Mitterand”:
Sanno tutto.
Peccato
che sappiano solo quello.
Lo stesso vale per i nostri gigacapitalisti.
Hanno
undici decimi di secondo per scovare ogni possibile connessione di un mercato
con un altro.
In una sinossi del business che ha del
preternaturale, ma poi sono ciechi come gattini di fronte alla più macroscopica
delle ovvietà:
chi
più ha, più deve dare.
Punto”.
Viandanti
delle Nebbie.
Viandantidellenebbie.org
– Giuseppe Rinaldi – (18 ottobre 2023) -Il “legno storto” di Paolo Repetto –
(18 ottobre 2023) – ci dicono:
Ai viandanti, ai viaturi e ai viandati :
“Il
legno storto” di Paolo Repetto.
Una
dieta ricostituente. Ho chiesto a Beppe Rinaldi l’autorizzazione a riportare
sul sito dei “Viandanti delle Nebbie “due suoi recenti saggi, già postati nel
blog “Finestre rotte”.
Il
link che rimanda a “Finestre rotte” compare da tempo nella” home page dei
Viandanti”, e a quello avrei potuto semplicemente indirizzare: ma ho ritenuto
opportuna in questo caso anche la pubblicazione diretta, per più di una
ragione.
In
primo luogo perché ritengo che questi scritti abbiano una rilevanza intrinseca
assoluta:
ultimamente
ho letto ben poche cose di questo livello (forse nessuna) e mi pare dunque
doveroso pubblicizzarli e renderli disponibili il più possibile.
La nostra non sarà una gran tribuna, ma è comunque una
“finestra” in più.
In
secondo luogo perché ho egoisticamente “calcolato” (eccola la “ragione
calcolante” tanto aborrita dai post-moderni) che la loro pubblicazione avrebbe
alzato decisamente il tiro e il tono del nostro sito, negli ultimi tempi
piuttosto moscio.
Infine
perché questi scritti costituiscono una sfida, alla nostra intelligenza e alla
nostra capacità di concentrazione:
stiamo rammollendo i nostri cervelli,
nutrendoli di pappine omogeneizzate e precotte che non richiedono alcuno sforzo
nell’assunzione e nella digestione, ma atrofizzano le nostre papille gustative
e il vello intestinale.
I risultati purtroppo si vedono, non solo in
tivù o nell’informazione cartacea, ma nella impossibilità di un qualsivoglia
confronto serio nel dibattito “domestico”, conviviale, socratico, chiamatelo un
po’ come volete.
Questi
saggi vanno in una direzione diametralmente opposta:
esigono impegno nella lettura e coerenza nella
riflessione.
Li ho letti una prima volta, mi hanno colpito
e li ho riletti, non perché temessi di non aver capito – si capisce tutto
benissimo, ogni argomento è spiegato e sviscerato come meglio non si potrebbe –
ma per assicurarmi di non aver saltato alcun passaggio.
Ora li
ripropongo agli amici, appunto come una sfida, come stimolo a rompere un po’ la
linea sulla quale si va appiattendo il pensiero.
Gli
scritti di Beppe (Giuseppe) mi sembrano costituire il miglior campo base per ogni
eventuale tentativo di risalita.
Le sue argomentazioni e le idee ad esse
sottese possono essere condivise in toto, com’è nel mio caso, oppure discusse e
contestate: ma se si vuole chiudere la ricreazione e tornare allo studio serio
non si può prescinderne.
Spero
dunque sia evidente che non propongo questi saggi come testi sacri, novelli”
Atti dei Viandanti”, o come “manifesti programmatici del sodalizio”: li
promuovo a titolo personale, me ne assumo ogni responsabilità, e li concepisco
come strumenti per tornare a far lavorare un po’ i nostri cervelli.
Sono
strumenti che vanno dalla pinzetta da orafo al martello pneumatico, per cui ci
sarà da divertirsi (e da nutrirsi) per tutti.
Il
piano di pubblicazione prevede per i due saggi (che sono piuttosto impegnativi
rispetto allo standard dei documenti digitali) momenti separati, un intervallo
di qualche settimana l’uno dall’altro, per dare modo ai Viandanti “volenterosi”
di digerire e assimilare con calma il loro enorme apporto proteico.
Nel
frattempo io rimango in attesa, curioso di vedere se la nuova dieta avrà
qualche effetto.
Il
tema che “Beppe” tratta in questo primo saggio è quello della pace.
Tema
scivoloso e controverso, rispetto al quale siamo abituati a prendere posizioni
decisamente rozze (cfr. ad esempio il mio Contare a fino a dieci, del 2003) o
ambigue e superficiali, oppure assolutamente ipocrite (vedi le manifestazioni
pacifiste che finiscono a sassate e manganellate):
sempre
comunque dettate da una profonda ignoranza rispetto all’argomento.
Qui ci
è offerta l’occasione, una volta per tutte, di avere almeno chiaro di cosa
parliamo quando parliamo di “pace”.
Dopodiché,
non ci saranno più alibi all’uso improprio o distorto o strumentale del
termine.
(Paolo
Repetto, 18 ottobre 2023)
Una
dieta ricostituente.
“Il
legno storto.
Note
di filosofia della pace e della guerra
di
Giuseppe Rinaldi, pubblicato su Finestre rotte il 24 novembre 2022”
1.) -
Solo quando scoppiano le guerre, come quella attuale in Ucraina, tendiamo a
porci una serie d’interrogativi sulla pace come fossimo nati ieri.
E gli
interrogativi tendono a moltiplicarsi, quanto più le prospettive della pace si
fanno oscure e incerte e quanto più siamo coinvolti dalla guerra, anche nella
nostra vita quotidiana.
La
riflessione sulla pace e sulla guerra sembra dunque procedere a sbalzi, al
ritmo delle guerre che ci colpiscono da vicino.
Le due
Guerre del Golfo (1990-91 e 2003-11) erano state, in ordine di tempo, l’ultima
ormai scordata occasione di riflessione pubblica sull’argomento.
Quasi
contemporaneamente, analoghi dibattiti si erano tenuti in occasione delle
Guerre jugoslave (1991-2001) e in occasione dell’11 settembre 2001.
Nessun
dibattito ovviamente intorno alle innumerevoli guerre lontane o guerre
dimenticate, quelle guerre che, abitualmente, appena possiamo, ci scrolliamo di
dosso.
La
guerra russo ucraina combattuta alle porte dell’Europa ci ha dunque trovati
piuttosto impreparati e così abbiamo finito per rispolverare e riportare in
auge vecchi luoghi comuni.
Si sono avute molte grida ma decisamente poche
riflessioni approfondite e argomentate.
E si è preferito trascurare l’ampio patrimonio di riflessione
sulle questioni della pace e della guerra che si è ormai accumulato nel campo
degli studi politologici e filosofici, nonché nel campo storiografico.
In questo scritto cercherò di compiere
un’esposizione sintetica intorno alle principali questioni teoriche che si
pongono da sempre a proposito della pace e della guerra.
Niente di particolarmente nuovo dunque, ma una sintesi
intorno alle questioni fondamentali.
Insomma,
quello che a me pare il minimo indispensabile da cui partire.
2.) -Pace
e definizioni.
Per
mettere un po’ di ordine nelle diverse questioni, è preferibile, come sempre,
cominciare dalle definizioni.
Cominceremo
proprio dalla pace.
Si
tratta anzitutto, in via preliminare, di mettere da parte certi usi generici
della parola “pace”.
La
pace che ci interessa e sulla quale ci concentreremo è quella connessa
all’ambito stretto delle comunità politiche, sia nei loro rapporti esterni,
internazionali, sia al proprio interno, come nel caso della guerra civile.
Il termine “pace” sta a indicare
genericamente, in quest’ambito, un’assenza di conflitto violento, quel tipo di
conflitto cioè che generalmente è identificato con il termine guerra.
Parlare di pace significa necessariamente
tirare in ballo il suo rovescio, cioè appunto il conflitto violento e la
guerra.
Si
tratta dunque di una definizione in termini negativi.
La pace, a quanto pare, non ha un suo
significato autonomo e non può che essere definita in stretta antitesi con la
guerra.
Pace e
guerra sono due diversi alternativi stati possibili. Una familiare dicotomia
suggerisce che ci si trovi in pace, oppure ci si trovi in guerra.
Le
cose tuttavia non sono così semplici.
Se
appena facciamo un qualche sforzo di riflessione, ci renderemo conto
immediatamente che, all’occorrenza, possiamo individuare diversi stati
intermedi compresi tra la pace e la guerra.
In
certi casi può anche risultare non del tutto chiaro se una certa situazione sia
di pace o di guerra.
Nel
linguaggio comune si esprime qualcosa di simile dicendo:
“Siamo sull’orlo di una guerra”, oppure: “Ci
sono segnali di pace all’orizzonte”.
In taluni casi, un chiarimento definitivo può
derivare solo da un’esplicita dichiarazione di guerra o dalla sottoscrizione di
una tregua, oppure di un trattato di pace.
Ci sono poi delle situazioni che possono
essere considerate come guerre anomale o guerre non convenzionali.
Una
simile incertezza terminologica e concettuale la stiamo sperimentando proprio
in questi mesi.
Notoriamente,
per i Russi l’aggressione all’Ucraina non è una guerra.
È
stata denominata operazione militare speciale.
I cittadini russi che la chiamassero “guerra”
potrebbero essere perseguiti penalmente.
Del
resto nessuna esplicita dichiarazione di guerra è stata pronunciata da entrambe
le parti.
Secondo Putin, chi fornisce armi all’Ucraina è
già “in guerra” con la Russia.
Secondo
alcuni pacifisti, gli USA, la UK, l’Europa sarebbero già in guerra con la
Russia.
Secondo
il papa, questa sarebbe la Terza guerra mondiale “a pezzi”. Secondo alcuni
altri, poi, la NATO aggressiva era già in guerra con la Russia fin dagli anni
Novanta.
Come
si vede, la definizione dei confini tra pace e guerra è tutt’altro che
semplice.
I dati di fatto e la propaganda sembrano ormai
intrecciarsi in maniera indissolubile.
Ancora
più complessa è la situazione nel caso della guerra interna, o guerra civile.
È
difficile che le guerre civili siano dichiarate (anche se talvolta accade). Ci sono guerre civili de facto che
non sono mai state combattute come tali e che sono state riconosciute come tali
solo successivamente.
È il
caso, ad esempio, del riconoscimento, da parte dello storico “Claudio Pavone”,
della Resistenza italiana al nazifascismo come guerra civile.
È
probabile che nel Donbass, dal 2014 in poi, si sia combattuta una guerra
civile, con ogni probabilità fomentata dalla Russia con l’introduzione
clandestina di uomini e mezzi.
O
forse una guerra di secessione.
3.) -
Almeno due tipi di pace.
Nella
letteratura filosofica e politologica è stato spesso fatto notare come si
possano annoverare due tipi di pace, quella negativa, quella più ovvia cui
abbiamo già accennato, e quella positiva.
La
distinzione risale a “Johan Galtung” 1969.
“Galtung”
tratta non tanto della guerra quanto della violenza.
La
pace negativa è costituita dalla assenza di violenza personale, mentre la pace positiva è costituita dall’assenza della
violenza strutturale.
Per “Galtung”
la “pace positiva” coincide dunque con la “giustizia sociale”.
La
distinzione tra pace negativa e positiva è stata poi usata ampiamente da “Bobbio”
specificatamente in relazione alla guerra.
Si
parla comunemente di pace negativa quando il significato che si conferisce al concetto è
soprattutto quello di negazione della guerra, cioè negazione del conflitto
violento interno o internazionale.
Si
parla invece di pace positiva quando, oltre alla mera negazione della guerra, si vuol
riempire il concetto della pace di una serie di connotazioni positive, che
appartengano solo e soltanto alle situazioni di pace.
Queste connotazioni dunque si aggiungono alla pace
negativa, cioè all’assenza di guerra.
Si può
parlare, in tal caso, di cessazione della violenza strutturale, ma anche di
tranquillità, felicità, di fioritura umana, di prosperità, di progresso e
simili.
Oppure
anche di armonia, integrazione, aiuto reciproco, cooperazione e scambio.
Come ben si vede da questi esempi, se la “nozione di pace negativa come
assenza di guerra è relativamente precisa”, pur con tutti i problemi del caso,
la nozione
di pace positiva è ancor più vaga, tanto che questa può essere ricondotta al capitolo
generico dei benefici della pace – quali che questi possano essere.
Oppure
anche delle conseguenze positive della pace.
Si
noti tuttavia che la condizione di pace positiva non si presta a definire un
modello preciso di società, come, per esempio, la società cristiana, la società
aperta, oppure la democrazia o il socialismo.
Cioè,
la pace difficilmente si lascia tradurre in un preciso modello di società che
sia alternativo ad altri modelli.
Sono i
diversi modelli di società che possono sperimentare, talvolta, la condizione
della pace positiva (o della guerra).
4.) -
La guerra.
Se
vogliamo sapere cosa è la pace, almeno nella sua forma elementare, dobbiamo
dunque come minimo sapere bene cosa sia la guerra.
La guerra necessita dunque, a sua volta, di
una definizione, che può risultare anch’essa piuttosto difficoltosa.
Di solito non basta però definire la guerra
come non pace.
La guerra ha invece una sua definizione in
positivo, cioè dotata di suoi specifici e autonomi contenuti.
Vagamente,
il termine guerra può significare un conflitto di qualsiasi tipo, ma abbiamo
già detto che ci sono conflitti che non sono guerre.
Allora
abbiamo dovuto introdurre fin da subito la specificazione di “conflitto violento”.
La
guerra è un conflitto la cui caratteristica precipua è l’uso sistematico della
violenza.
Secondo
una definizione esaustiva proposta da “Bobbio”, la guerra in senso stretto
sarebbe caratterizzata dal conflitto violento entro o tra comunità politiche
e/o Stati.
Osserva
“Bobbio”: «Va da sé che, una volta definita la pace come non guerra, la
definizione di pace dipende dalla definizione di guerra […]. Le più frequenti
connotazioni di “guerra” sono queste tre:
la guerra è,
a) un
conflitto,
b) tra
gruppi politici rispettivamente indipendenti o considerati tali,
c) la
cui soluzione viene affidata alla violenza organizzata».
Si
noti che, secondo Bobbio, la guerra rientra nel novero della politica e che la
violenza impiegata non ha da essere sporadica o casuale, bensì organizzata.
5.) -
La questione della violenza.
La
definizione della guerra non poteva che evocare anche la questione della
violenza.
La
violenza è uno dei principali contenuti della guerra.
La
nozione di violenza, ovviamente, è assai più ampia della nozione della guerra.
Non
ogni violenza è guerra.
Possiamo
pensare alla violenza dei fenomeni naturali, a parole violente, alla violenza
nei confronti degli animali, oppure alla violenza psicologica.
Nel caso della guerra, siamo interessati a un particolare uso della violenza
allo scopo di risolvere un conflitto di tipo politico, tra comunità politiche o
entro di esse.
Che
tipo di violenza è quella della guerra?
Secondo” Hobbes” la guerra era lo stato prepolitico
per eccellenza che comportava svariate forme di violenza, la cui massima espressione poteva
giungere fino all’estremo dell’uccisione del nemico.
La
soglia minima che ci interessa in questo caso sembra sia proprio
l’ammissibilità dell’uccisione del nemico.
Altrimenti
anche un incontro di boxe potrebbe essere considerato come una guerra.
Per “Hobbes”,
la
costituzione dello stato politico attraverso il contratto determinava la fine della guerra di
tutti contro tutti e del conseguente rischio di essere ammazzati.
La
pace negativa (la negazione della guerra) si oppone dunque al conflitto
violento entro le comunità politiche e tra gli Stati e, dunque, a quelle forme di violenza
che, oltre alla distruzione delle cose, ammettono l’uccisione del nemico.
Fatta
questa distinzione fondamentale, tuttavia, fin dai tempi di “Hobbes” le forme
della violenza connesse alla guerra si sono moltiplicate a dismisura, in un
museo degli orrori senza fine.
Dalla generica “uccisione del nemico” si è
giunti al genocidio, ossia al tentativo di distruggere, in tutto o in parte, un
gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso.
Oppure alla minaccia atomica, la quale
implicherebbe “la possibile distruzione dell’intera umanità”.
Occorre
riconoscere che si è fatto uno sforzo per codificare l’uso della violenza in
guerra, giungendo alla proibizione di determinate condotte e alla definizione
dei crimini di guerra e di tribunali internazionali.
Alla messa al bando di determinati tipi di
armi.
Va
tuttavia riconosciuto che lo ius in bello, cioè il diritto bellico, nazionale e
internazionale, nonostante i lodevoli sforzi, ha ottenuto scarsi successi nel
governo della violenza in guerra.
L’attuale
guerra russo ucraina fornisce in merito una documentazione impressionante di
barbarie.
D’altro canto questa guerra mostra anche come
non tutti i contendenti sono uguali nell’osservanza del diritto bellico e nel
contenimento della barbarie della guerra.
Qui mi
riferisco precisamente alla guerra contro i civili messa in atto
sistematicamente dai Russi in Ucraina.
Ciò va
detto chiaramente, contro le troppo facili generalizzazioni che corrono.
E contro le troppo comode equidistanze.
In
generale, abbiamo dunque la possibilità minimale di cercare di controllare
l’uso della violenza in guerra, oppure la possibilità di far cessare ogni
violenza bellica attraverso la pace.
Abbiamo
tuttavia anche la possibilità di rifiutare altri tipi di violenza che sono di
fatto possibili.
Fino
al rifiuto di tutti i tipi possibili di violenza – ammesso che ne sia possibile
un inventario.
In
questo caso non possiamo parlare semplicemente di diritto bellico o di pace
negativa,
ma dovremo parlare proprio di un’altra cosa e cioè della non violenza.
Questa va oltre la guerra in senso stretto e
diventa così un atteggiamento, una predisposizione a comportarsi, da applicare
sempre, in tutte le situazioni, in tutti i casi della vita, non solo in
contrapposizione alla guerra.
L’insieme
della nonviolenza è dunque assai più ampio dell’insieme della pace negativa.
Anche
se “la
pace negativa” non può che essere uno degli aspetti compresi nella nonviolenza.
6.) -
La nonviolenza.
Trascrivo
qui una definizione generale e generica:
“La nonviolenza è una pratica personale che
consiste nel non causare offesa ad altri in qualsiasi caso.
Essa
può derivare dalla credenza che offendere persone, animali e/o l’ambiente non
sia necessario per ottenere qualsiasi tipo di scopo.
Può avere come riferimento una filosofia
complessiva che implichi l’astensione da ogni violenza.
Può
essere basata su principi morali, religiosi o spirituali, oppure le ragioni per
promuoverla possono anche essere di tipo strategico o pragmatico”.
La
nonviolenza è dunque anzitutto una pratica personale, più che uno strumento di
lotta politica, anche se questa è stata talvolta impiegata proprio in questo
senso.
Si noti che la nonviolenza, secondo “Aldo
Capitini”, non andrebbe intesa semplicemente come” negazione della violenza”,
bensì dovrebbe essere intesa come un valore autonomo, dotato di un proprio
contenuto positivo.
Per
comprendere la posizione della nonviolenza, che riguarda indubbiamente il
nostro discorso e a cui faremo spesso riferimento, può essere utile riandare a “Lev
Tolstoj” (1828-1910).
Preferisco
rifarmi a “Tolstoj”, piuttosto che al ben più noto “Gandhi”, perché la sua
posizione mi pare più chiara ed esemplare.
Per una considerazione critica di Gandhi, si
veda” Losurdo 2010”.
Tra la
fine degli anni Settanta e degli anni Ottanta dell’Ottocento, anche in seguito
all’ esperienza personale della guerra, Tolstoj visse una profonda crisi e
sperimentò un’intensa trasformazione interiore che lo spinse alla fede in Dio,
alla semplicità volontaria, al rifiuto di tutte le forme di violenza, alla “dieta
vegetariana” e all’animalismo.
In questo ambito elaborò i principi fondamentali della
nonviolenza, in un contesto fondamentalmente di tipo religioso.
I
riferimenti principali da cui aveva attinto sono costituiti dai Vangeli, dal
cristianesimo minoritario (ad esempio i Quaccheri), da alcuni testi orientali e
da alcune filosofie, tra cui quella di “Schopenhauer”.
Nell’ambito
della nonviolenza, la dottrina centrale di “Tolstoj” – che si rifà soprattutto
al “Discorso della montagna evangelico “– è quella della non-resistenza al male
con il male.
“Tolstoj”
ritiene che la non resistenza al male, quando sia perseguita rigorosamente,
possa condurre – oltre che alla liberazione interiore – a un’autentica
trasformazione sociale e possa provocare il dissolvimento degli ordinamenti
sociali oppressivi e disumani.
Tutto
ciò senza ricorrere ad alcuna forma di violenza.
Per questo occorre tuttavia un radicale
impegno personale individuale, fino a giungere a praticare la disobbedienza
civile, rifiutare il servizio militare e rifiutare il pagamento delle tasse,
poiché queste sono usate dagli Stati per finanziare le guerre.
In ciò seguendo “David Henry Thoreau”
(1817-1862) come precursore.
Il
fondamento ultimo della nonviolenza è posto da “Tolstoj” nel comando divino
contenuto nel Vangelo.
E in
ultima analisi nella fede.
Notoriamente
fu Tolstoj a influenzare Gandhi, con tutto quel che ne seguirà, circa la dottrina della nonviolenza, dottrina che in Gandhi prende il nome
di “ahimsa.”
Come
si può notare, si tratta di un pensiero senz’altro estremamente profondo.
È
stato tuttavia sempre fatto notare come sia anche piuttosto difficile da
praticare, poiché implica, negli eventuali praticanti, un cambiamento radicale
di vita e, di fatto, uno scontro radicale con l’esistente, in pressoché tutte
le sue manifestazioni.
Si
noti che la strada proposta dalla nonviolenza implica uno scoglio di gran
rilievo in materia di etica, su cui avremo modo di discutere ampiamente, e cioè
la possibilità che il male sia lasciato libero di agire senza ostacoli.
Questo
poiché gli eventuali ostacoli posti al male implicherebbero a loro volta il
ricorso alla violenza.
E
dunque alla riproposizione della violenza stessa.
Questa
posizione – come vedremo oltre – implica un’irrisolvibile incongruenza dei
valori.
Una
dieta ricostituente.
7.) -
Bellicisti, pacifisti e nonviolenti.
Siamo
così giunti a circoscrivere, in termini di prima approssimazione, oggetti
concettuali come pace negativa e positiva, guerra, violenza e nonviolenza.
Siamo ora in grado di meglio comprendere le
dottrine o le elaborazioni teoriche corrispondenti a questi concetti e,
conseguentemente, anche una serie di movimenti pratici che vi si ispirano.
Avremo
dunque le
teorie pacifiste (nel senso della pace negativa ed eventualmente della pace positiva), le teorie belliciste (ed eventualmente violentiste, cioè le filosofie della violenza, anche se queste sono state
raramente esplicitate e professate) e le teorie della nonviolenza sul
modello tolstojano e poi gandhiano.
Avremo
dunque, di conseguenza, come prima sistemazione, su un continuum, orientamenti e movimenti bellicisti,
pacifisti e nonviolenti.
Si
potrebbero produrre ulteriori distinzioni, ma la cosa andrebbe troppo oltre i
nostri scopi.
8.) -
Esistono davvero i bellicisti?
Dei tre punti di vista, il bellicismo è oggi l’orientamento
meno caratterizzato, meno teorizzato, meno organizzato.
Si tratta di un “–ismo”, il che comporterebbe, in
senso proprio, una sorta di esaltazione della guerra, una sua promozione fino
alla sua massima realizzazione, che corrisponderebbe al perseguimento di una
sorta di guerra perfetta o di guerra perpetua.
Sicuramente, guardando al passato, possiamo
trovare in merito numerosi casi storici.
Molte
società del passato si sono costituite avendo la guerra come fulcro.
O, per
lo meno, avendo al proprio interno gruppi sociali interamente devoti alla
pratica della guerra.
I quali spesso, proprio per questa loro attività
connessa all’esercizio della forza, finivano per ricoprire una posizione
sociale centrale e dominante.
Oggi,
in generale, nelle più diverse società, la centralità della guerra sembra in
via di superamento.
Anche molti di coloro che oggi sono impegnati
settore della guerra, nel settore militare, ritengono auspicabile non doversi
mai ricorrere effettivamente alla guerra.
Il termine “bellicismo” oggi – almeno in Occidente –
viene applicato in forma residuale soprattutto per designare coloro che
ritengono possibile l’uso della guerra in determinate situazioni, oppure che,
pur non esaltando la guerra, la accettano come necessaria, oppure ancora coloro
che, una volta scoppiata una guerra, non vi si oppongano con la dovuta
risolutezza.
Talvolta
si tratta di un termine che ha abbandonato la connotazione descrittiva e ha
assunto connotazione retorica e dispregiativa, come il ben più noto termine
guerrafondaio.
La
domanda che ci dobbiamo porre allora è se oggi esistano realmente i bellicisti
in senso proprio, o se questi non siano soltanto dei pacifisti deboli.
Oppure
pacifisti minimali, pacifisti moderati, o anche pacifisti imperfetti. In talune situazioni retoriche coloro
che, pur non desiderandola, accettano la guerra come una necessità sono stati
considerati come dei bellicisti.
Si ponga mente al dibattito occorso in Italia
alla vigilia della Grande guerra.
Bellicisti
autentici erano sicuramente gli interventisti, ma oggi sarebbero considerati
bellicisti anche coloro che avevano come motto “Né aderire, né sabotare”,
oppure i cattolici che, pur disapprovando la “inutile strage”, la ritenevano
comunque doverosa in termini di obbedienza alle leggi vigenti dello Stato.
Ancora diversa la posizione di taluni
interventisti democratici, che volevano unicamente quella guerra per porre fine a tutte
le guerre.
Come
si vede, anche in questo caso, la distinzione tra bellicismo e pacifismo sembra
piuttosto evocare un continuum, piuttosto che una secca dicotomia, come sembra
invece emergere invece dal dibattito superficiale dei giorni nostri.
Può essere anche comprensibile il fatto che
nello scontro politico si sia indotti a dicotomizzare, ma è sufficiente un minimo di
riflessione per concludere che la dicotomia tra pacifismo e bellicismo costituisce una ben povera
rappresentazione della realtà.
Soprattutto una rappresentazione di fatto
priva di utilità.
Tratteremo
più in là della “teoria della guerra giusta”, che è un caso esemplare di situazione di continuità
tra i due opposti.
9.) -
Militaristi.
Abbiamo
visto che la
guerra è una forma di violenza organizzata.
Nelle
società a elevata divisione del lavoro, i militari sono i professionisti della
guerra.
La questione degli armamenti, degli eserciti e
più in generale della tecnica militare, è una conseguenza delle distinzioni
precedenti.
Armi,
eserciti e tecniche militari sono impiegati per produrre i conflitti violenti e
organizzati tra le comunità politiche ed entro gli Stati, cioè le guerre.
La posizione attribuita all’organizzazione
militare nell’ambito della società diventa dunque fondamentale.
Quando
la sfera strumentale della guerra tende a prevalere e a sopravanzare le altre
sfere della società, si parla di militarismo e di società e/o Stati militaristi.
Possiamo
parlare più correttamente, in generale, di società a trazione militare.
Si tratta di società la cui attività
fondamentale ruota attorno alla guerra e dove i militari giocano un ruolo
centrale nelle principali decisioni.
E dove consumano nella loro attività le
principali risorse economiche e finanziarie accumulate dalla società stessa.
Nel corso dei secoli, in Occidente siamo stati
testimoni del passaggio progressivo da società a trazione militare verso
società a trazione commerciale, o a trazione industriale, tecnologica e
finanziaria.
Queste ultime tendono ad attribuire al settore
militare un ruolo sempre più strumentale e marginale.
Questa tendenza si è accentuata dopo la fine
della Seconda guerra mondiale.
Il
caso degli USA è esemplare: pur essendo una potenza militare, la sua trazione
fondamentale è di tipo tecnologico, industriale e finanziario.
Oggi è
di moda trascurare questo punto, a causa dell’anti americanismo pregiudiziale
assai diffuso nel nostro Paese.
Sul
piano del militarismo, gli USA e la Russia non sono proprio la stessa cosa.
La
Russia di Putin, insieme a pochi altri esempi, è invece effettivamente una
potenza a trazione militare (o si illude di esserlo, viste le scarse
prestazioni sul campo).
Dunque,
armamenti, eserciti e tecnica militare costituiscono dei mezzi che rendono
possibile l’esercizio della guerra.
Secondo un certo senso comune diffuso, il
semplice possesso di armamenti ed eserciti sarebbe un indice certo di
militarismo.
Si trascura tuttavia il fatto che oggi, nella
maggioranza dei casi, il possesso di armamenti ed eserciti ha la funzione di
provvedere alla difesa.
Questo per garantire un bene pubblico indubbio
che si chiama sicurezza.
Si è
discusso a lungo su come ottenere la sicurezza senza disporre tuttavia di
apparati di difesa ma una soluzione efficace non pare sia stata ancora trovata.
Se comunque nel mondo tutti gli eserciti
servissero solo per la difesa, non ci sarebbero più guerre.
Forse
è vero che in determinate circostanze i mezzi militari rendono anche più
probabile l’esercizio della guerra.
Ma è
anche del tutto possibile pensare ad armi, eserciti e tecniche militari che
siano perfettamente approntate, ma mai adoperate.
L’idea
che se hai un’arma prima o poi la usi è un’idea stupida e superficiale.
Anche gli svizzeri tengono lo schioppo sotto
il letto, ma è difficile pensarli come pericolosi aggressori e guerrafondai.
Secondo
la teoria della deterrenza, le atomiche sarebbero armi prodotte proprio per non
essere mai usate.
Una
dieta ricostituente.
C’è
ancora indubbiamente, da qualche parte nel mondo, un militarismo aggressivo.
Ci
sono ancora imperialismi a trazione militare, com’è proprio il caso della
Russia.
Ma oggi nel mondo c’è anche un realistico
impiego di eserciti e armamenti per la mera difesa.
O
anche per gli interventi umanitari nelle situazioni di crisi.
L’esigenza di finanziare con risorse pubbliche
una forza di difesa non può che dipendere dalla valutazione razionale di quanto
pericoloso sia l’ambiente internazionale in cui ci si trova.
I
recenti avvenimenti dell’aggressione della Russia all’Ucraina hanno
indubbiamente reso più pericoloso l’ambiente internazionale, determinando così
– a parere di molti – l’esigenza di maggiori investimenti nella sicurezza.
Dunque,
anche nell’ambito del militarismo, sarebbe il caso di introdurre delle
distinzioni.
Anche
il povero “Enrico Letta” è stato rappresentato con l’elmetto.
Non tutti i militarismi sono uguali.
Dovrebbe
essere evidente che il militarismo della NATO non è esattamente uguale al
militarismo della Russia di Putin.
Le
semplificazioni eccessive precludono la comprensione della realtà e impediscono
un’azione efficace nel mondo.
Può
ben essere che il superamento e infine l’abolizione dell’apparato militare
possa essere in futuro una conseguenza desiderabilissima dell’affermazione
universale di una situazione di pace positiva.
Magari
connessa anche all’accettazione universale della prospettiva filosofica e
religiosa della nonviolenza.
Al
giorno d’oggi però un simile obiettivo non sembra essere alla nostra portata.
Può al
più costituire al più una idea regolativa, nel senso kantiano del termine.
10.) -
La pace si dice in molti modi.
Gli
elementi definitori che abbiamo fin qui introdotto hanno mostrato la
complessità delle questioni affrontate, tale da afflosciare la sicumera di
molti protagonisti dell’odierno dibattito pubblico.
La
prima acquisizione inevitabile, per chi frequenti ancorché saltuariamente
questo campo, è proprio quella per cui la pace “si dice in molti modi”.
Questo vuol dire che, a dispetto del senso
comune, non c’è un concetto unico di pace.
Si
tratta piuttosto – come dicono i filosofi – di una “somiglianza di famiglia”,
cioè di una rete di concetti interconnessi e di relativi usi linguistici.
Dunque
chi dice di essere per la pace non ha ancora detto niente: dovrebbe sforzarsi
di esplicitare chiaramente cosa intende per pace.
Altrimenti,
bisognerebbe concludere inevitabilmente che tutti vogliono la pace.
Ma una
volta affermato il punto, tutti si scontrerebbero immediatamente intorno alle
questioni che hanno appena evitato di chiarire.
Nella
letteratura filosofica e politologica si fa riferimento ad almeno quattro tipi
di pace.
Molto diversi tra loro.
Abbiamo
dunque:
a) la
pace come resa incondizionata;
b) la
pace come tregua;
c) la
pace come trattato;
d) la
pace positiva. Potremmo aggiungere un quinto tipo:
e) la
pace come conseguenza della nonviolenza, che sarebbe poi un tipo particolare
di pace positiva, alla quale abbiamo tuttavia già accennato.
11.) -
La pace come resa incondizionata.
È questo un tipo di pace che sopravviene quando uno
dei contendenti (o più di uno) è talmente coartato che non può neanche decidere
di scendere in guerra.
Di solito si cita in proposito un famoso
esempio da Rousseau. Il filosofo, all’inizio del suo “Contratto sociale”,
scrive “contro Hobbes”:
“Si
vive tranquilli anche nelle carceri: basta questo per trovarcisi bene?
I Greci rinchiusi nell’”antro del Ciclope” ci vivevano
tranquilli, aspettando che venisse il loro turno di essere divorati”.
Si
trovavano dunque certo in pace i marinai di Ulisse, chiusi nella prigione del
ciclope, in attesa di essere divorati.
È
questa una condizione di pace (senz’altro assenza di guerra e di violenza
nell’immediato!) che deriva dalla totale passività, dalla totale costrizione,
cioè dalla resa incondizionata al nemico.
La
storia è piena di casi in cui una comunità politica avrebbe sicuramente scelto
di combattere, solo se appena avesse potuto farlo.
Possiamo
pensare a situazioni nelle quali l’oppressione è così forte che i soggetti non
hanno neppure la possibilità di scegliere eventualmente la via delle armi.
L’attuale
Afghanistan gode senz’altro di una situazione di pace in seguito alla resa
incondizionata ai talebani.
L’attuale
Iran, che
godeva senz’altro della pace interna, sta mostrando che quella pace si fondava
sostanzialmente sull’oppressione (in particolare delle donne) e sta precipitando verso una situazione
di guerra civile.
Spesso ci si dimentica che per decidere di scendere in guerra
occorre perlomeno disporre di un minimo di libertà d’azione.
Rispetto a una situazione di totale dominazione,
checché ne pensasse Tolstoj, la possibilità di combattere una guerra può anche
essere considerata, in taluni casi, come una sorta di miglioramento della
propria posizione, un auspicabile avanzamento.
Solo la determinazione assoluta di non
opporsi al male può sconsigliare di ricorrere alla guerra nelle situazioni più estreme di
oppressione.
Una
dieta ricostituente.
12.) -
La pace come non libertà.
Coloro
che sono nella situazione descritta da “Rousseau” hanno sicuramente la pace
(ammesso che così si possa chiamare), ma non hanno alcuna libertà.
Non si
tratta di un caso tanto raro.
Assomiglia
questa alla “situazione hobbesiana post contrattuale”, dopo che i cittadini hanno ceduto
tutti i loro poteri al Leviatano (lo stato assolutistico) e sono così diventati
sudditi.
Hanno
la pace ma sono sottomessi in tutto e per tutto al potere assoluto.
Per di
più l’hanno fatto per propria scelta e volontà.
Si
ricorderà che quella situazione, secondo “Hobbes”, in un solo caso si sarebbe
potuta risolvere in una guerra civile:
qualora
il “Leviatano” avesse attentato alla vita dei cittadini.
I sudditi sottomessi nel “patto hobbesiano”
sarebbero dunque appena più fortunati dei marinai di Ulisse nella prigione del
ciclope.
Questo tipo paradossale di pace, intesa come
resa incondizionata e totale sottomissione all’arbitrio, è stata ampiamente
teorizzata e praticata.
Ad
esempio, nel caso di certi martiri cristiani.
O nel caso della nonviolenza tolstojana già
citata.
È tuttavia davvero singolare – dovrebbe indurre a
qualche riflessione coloro che in questa materia mostrano grandi certezze – che
il tipo
più infimo di pace, la pace come resa incondizionata, finisca con il coincidere
con quella che taluni presumono essere il tipo più nobile di pace e cioè quello derivante dalla
applicazione integrale della nonviolenza.
13.) -
Una digressione nell’attualità: forse la pace non è tutto.
Più
recentemente, e assai più ignobilmente, nel dibattito nostrano seguente alla
guerra in Ucraina, il noto opinionista” prof. Orsini” ha teorizzato
l’opportunità della resa incondizionata di fronte all’aggressore russo, pur di
avere salva la vita.
Così,
secondo il professore, avrebbero dovuto fare gli Ucraini di fronte
all’invasione russa.
In uno
dei tanti talk-show, il “prof. Orsini” ci ha ricordato anche che: “Anche sotto il fascismo i bambini
potevano vivere felici”.
Poiché
Putin non avrebbe probabilmente divorato gli Ucraini come il ciclope – anche se
avrebbe potuto far ammazzare il loro presidente – dunque gli Ucraini, se si
fossero subito arresi, avrebbero certo perso totalmente la libertà ma avrebbero
guadagnato comunque la pace.
Almeno
per la popolazione civile e per i bambini.
Dunque, ne conseguirebbe che i morti che la resistenza
degli Ucraini ha indirettamente provocato (militari, civili e i bambini)
sarebbero tutti da mettere sulla coscienza di Zelensky, del suo bellicoso
governo, con tutti i suoi alleati, che non si sono prontamente arresi.
E
sulla coscienza di tutti quelli che hanno dato ragione a Zelensky e lo hanno
aiutato.
Si
tratta ovviamente, questa di “Orsini”, non della conseguenza di una professione
di fede nonviolenta, ma di una davvero singolare applicazione dell’etica della
responsabilità (vedi oltre).
Al
professor Orsini non viene neppure in mente il punto problematico fondamentale
e cioè il fatto che forse la pace non è tutto.
14.) -
Scoglio: la pace e l’incongruenza dei valori.
La situazione della pace come resa
incondizionata ci fornisce l’occasione per affrontare uno scoglio teorico di
notevole interesse.
Ci
costringe a domandarci se la pace (la pace prima di tutto, a qualunque costo)
possa essere davvero considerata come il bene supremo.
Se
possa cioè essere considerata indipendentemente dalla situazione nella quale
essa si realizza.
Se
possa cioè essere valutata in piena autonomia da ogni altra considerazione, se
sia davvero un valore in sé, incomparabile rispetto ad altri valori.
Appena
la pace viene tolta dal suo carattere assoluto e viene considerata in termini
situazionali, viene cioè confrontata con altri valori, o altri beni, nascono
molte questioni inaspettate.
Per
avere in cambio la pace, possiamo rinunciare completamente alla nostra libertà?
Cos’è
una pace senza libertà?
Anche la giustizia può essere tirata in causa.
Una
pace ingiusta è una vera pace?
Molti
autorevoli intellettuali nostrani, soprattutto di sinistra, negli infiniti
talk-show che si sono susseguiti dopo il 24 febbraio, seguendo più o meno
consapevolmente il “prof. Orsini”, consigliavano senz’altro agli Ucraini di non
resistere.
Che deponessero le armi.
Qualcuno si affannava addirittura a negare con
argomentazioni fantasiose che quella messa in atto dagli Ucraini fosse una
resistenza.
Addirittura,
si sentivano di decidere che non si dovessero mandare armi agli Ucraini, perché
questi si arrendessero prima, dunque con meno danni per loro.
Qualcuno,
beato lui, s’inventò anche le “armi non offensive”.
Possiamo
qui parlare di altruismo?
Se gli
Ucraini avessero subito obbedito a questi desiderata, oggi sarebbero senz’altro
in pace, sarebbero cioè sotto la pace di Putin (dove senz’altro anche i bambini
potrebbero vivere felici!).
Qualcuno
ha pensato di mettere a confronto il bene di una simile pace con i beni della
libertà e della giustizia?
Qualcuno
di questi “altruisti” ha pensato almeno di chiedere il parere degli Ucraini?
Cioè
dei diretti interessati.
Purtroppo
nell’epoca del pensiero incontinente nessuno si ferma ad approfondire le
questioni.
Credo
abbia colto nel segno il “filosofo Alexandr Dugin” (un filosofo russo euro-asiatista
e nazi-bolscevico, per chi non lo conoscesse) quando dice che gli Occidentali
si sono rammolliti, sono in piena decadenza, perché non sono neanche più in
grado di pensare di poter morire per la propria causa.
Del
resto “Heidegger” era dello stesso parere.
Fa
davvero pena, oggi, vedere coloro che hanno imbracciato le armi per difendere
il proprio Paese, o chi per essi, negare ad altri di fare la stessa cosa, in
nome della pace.
Queste
considerazioni (e questi esempi) ci pongono di fronte a un problema ben noto
nell’ambito dell’etica.
Normalmente si pensa che i valori e/o i beni
siano semplicemente di carattere additivo, che possano cioè essere sempre
assommati tra loro a piacere.
Per
questo tutti i valori e/o i beni dovrebbero sempre essere tra loro compatibili.
In
realtà è noto fin dalla filosofia antica che i valori o i beni possono non
essere compatibili tra loro.
Perseguire
determinati valori può implicare necessariamente la rinuncia ad altri.
I due
tipi aristotelici di giustizia, la giustizia distributiva e la giustizia
commutativa, ad esempio, non sono affatto compatibili.
Per
avere l’uno si deve necessariamente sacrificare l’altro.
In
generale, è poi noto come sia molto difficile essere giusti e buoni
contemporaneamente.
In
campo teologico, se Dio è giusto, non può essere buono, e viceversa.
Nel
caso del “contratto hobbesiano”, accade che per avere la pace si debba
sacrificare la libertà.
Questa
spiacevole situazione è nota come incongruenza dei valori. Dunque – spiace per taluni pacifisti
puri – la pace deve scendere dal piedistallo del bene assoluto o per lo meno
deve accettare di essere messa a confronto con altri possibili valori o beni.
Come
minimo con
la libertà e la giustizia.
Ma
anche con beni assai più prosaici.
Come
ad esempio la sopravvivenza materiale, cioè la vita.
Per “Orsini”,
la vita dei bambini vale la capitolazione e dunque la pace come resa
incondizionata.
Per
altri tuttavia la guerra può significare una possibilità di vita.
I
poveri buriati (una delle etnie asiatiche prevalenti nell’esercito Russo attuale che
combatte in Ucraina – la Repubblica di Buriazia è una repubblica della Federazione
Russa) sono spinti ad arruolarsi e a
combattere perché è pressoché l’unico lavoro che è messo loro a disposizione.
Non
possono permettersi di fare i pacifisti più di tanto.
Poiché
l’incongruenza dei valori è una questione fondamentale, ce ne occuperemo oltre.
15. -
La pace come tregua o “situazione di pace”.
È questa la pace che corrisponde
all’interruzione temporanea delle ostilità. Se vogliamo, corrisponde alla
nozione della tregua.
I
contendenti sono ostili tra loro.
Sono
liberi di decidere se continuare o meno a combattersi.
Decidono
tuttavia di sospendere le ostilità.
Siamo
cioè in una situazione di ostilità non belligerata.
È
questa una situazione ben nota, poiché l’abbiamo sperimentata nel corso della
lunga Guerra fredda.
Anche
se la Guerra fredda è stata in realtà belligerata indirettamente, attraverso
una serie notevole di “proxy war”, le guerre indirette o guerre per procura.
È
questa anche la situazione descritta dalla locuzione della pace armata. È anche
la situazione descritta dall’equilibrio del terrore, o dall’equilibrio della
deterrenza.
Non si
combatte più, cioè ci si è messi in una situazione di tregua, per il fatto che
la prosecuzione dei combattimenti produrrebbe esiti non desiderati o temuti da
entrambe le parti.
Dunque,
ci si mette in uno stato di tregua per la paura degli effetti di una
continuazione dello stato di guerra belligerata.
Si
accetta di smettere di combattere perché si è sottoposti a una minaccia (o a
uno svantaggio) più grande (sia da parte dell’altro contendente, sia da parte di un
Terzo che sia intervenuto).
Tuttavia
perdura l’inimicizia e la minaccia reciproca, e resta alta la probabilità di
riprendere il conflitto.
Una
dieta ricostituente
16.) -
Scoglio: si può imporre la pace?
Un caso filosofico interessante, un vero e
proprio “scoglio etico”, è quello dell’”imposizione della pace” (nel senso
della tregua o del trattato).
Affinché
si dia il caso, occorrono minimamente due contendenti e un Terzo, il mediatore,
il pacificatore, che costringa i due a deporre le armi.
Usando magari la persuasione, l’influenza,
distribuendo garanzie e vantaggi di qualche tipo.
Ma è
possibile anche pensare che il Terzo possa provvedere all’imposizione della
pace attraverso l’uso della forza.
Non
sarà sfuggito al lettore che, in un certo senso, la possibilità di imporre la
pace, cosa spesso effettivamente successa nella storia, ha in sé qualcosa di
contradditorio.
In una
visione completamente irenica, la pace dovrebbe in un certo senso imporsi da
sé.
Tuttavia
purtroppo la guerra, una volta iniziata, tende ad auto alimentarsi, tende
addirittura a intensificarsi.
Il
Terzo allora è posto di fronte al dilemma di lasciare che la guerra continui
oppure di imporre la pace.
Se
tuttavia sceglie di imporre la pace, si troverà a usare una guerra per imporre
la pace.
I
pacifisti si scandalizzeranno, ma questo è un altro problema legato
all’incongruenza dei valori.
Per
avere la pace si finisce per accettare che si apra una nuova guerra tra il
Terzo pacificatore e i due contendenti. Non affrontiamo qui quali possano
essere gli eventuali interessi del Terzo nello scendere in guerra per imporre
la pace.
In
generale, dall’intervento del Terzo non si ha alcuna garanzia preventiva;
potrebbe certo scaturire anche una pace senza libertà e/o senza giustizia.
L’idea
di un Terzo pacificatore attraverso l’uso della forza non dovrebbe tuttavia
risultare così peregrina.
Si tenga conto che l’ONU dovrebbe, in teoria, proprio
agire come un Terzo virtuoso, capace di sedare i conflitti internazionali
eventualmente anche con la forza, come sta scritto nella sua Carta.
Si
noti tuttavia di sfuggita che, se appena si accetta la prospettiva che il Terzo
possa (o sia tenuto a) intervenire con la forza per riportare la pace, allora
si dovrà come minimo ammettere che non tutte le guerre sono uguali.
Alcune
sarebbero guerre comuni destinate a continuare o a finire con la sopraffazione
dell’uno da parte dell’altro.
Altre sarebbero invece guerre determinate
dall’intervento del Terzo che avrebbe tuttavia come scopo il ristabilimento
della tregua o della pace.
Dovrebbe
suscitare un certo stupore il fatto che – in concomitanza con la attuale guerra
russo ucraina – a livello mondiale non si sia aperto per lo meno un acceso
dibattito circa la riforma dell’ONU, organizzazione oggi pesantemente
screditata dal fatto che “lo Stato palesemente aggressore, la Russia, siede nel
Consiglio di Sicurezza dell’ONU”, con il diritto di veto.
Questo
significa che la Russia, con la sua aggressione, ha di fatto privato il mondo
intero di quel minimo di organizzazione internazionale abilitata a fungere da
Terzo virtuoso nelle controversie.
È come pretendere da ora in avanti che – ove sia
violata – la pace si ristabilisca da sola.
Perché
questa reticenza ad affrontare la questione della riforma dell’ONU?
Evidentemente l’idea di una forza militare
internazionale capace di fare interventi di pacificazione anche con le armi non
è così popolare, in parte per una forma di pacifismo estremista ma in parte
anche per malcelato bellicismo:
qualora
ci si trovasse nella situazione di fare la guerra è preferibile avere le mani
libere.
Così
avviene che si stia togliendo di mezzo proprio il Terzo virtuoso che sarebbe in
grado di intervenire con la forza e di “rendere il male con il male”
all’aggressore.
Ciò
paradossalmente potrebbe anche essere in linea con i migliori auspici dei
nonviolenti.
Quel
che seguirà tuttavia a questa nuova situazione non sarà il regno della pace
positiva ma il regno dell’anarchia internazionale, dove ognuno farà quello che
vuole, o quello che si potrà permettere, grazie magari alle sue bombe atomiche.
Così
gli Stati deboli cercheranno la protezione degli Stati forti, di coloro che
sono in grado di vendere protezione nel più puro stile mafioso.
17.) -
La pace come ordine privo di ostilità.
È la condizione che si configura quando cessano tutte
le ostilità. Solitamente questa è la condizione che si consegue sul piano del
diritto attraverso la stipulazione di un trattato di pace e, in termini
fattuali, attraverso la cessazione delle violenze, il ritiro delle forze e il
disarmo.
È quella che “Bobbio”, sulle orme di “Aron”,
chiamava la pace di soddisfazione.
Perché
è così difficile la pace di soddisfazione?
La
difficoltà è dovuta al fatto che la condizione di pacificazione, una volta
raggiunta, non garantisce il mantenimento della pace stessa.
Detto
in altri termini, la pace non si auto rigenera, la pace non è in grado di
garantire il mantenimento della pace stessa.
Poiché i trattati di pace possono sempre
essere violati, la condizione pacifica guadagnata è sempre reversibile.
La
pace non ha alcuna autonomia, è comunque instabile e può tendere a precipitare
verso la guerra.
Si
tratterebbe allora di comprendere quali siano le condizioni, che non dipendono
dalla pace stessa, che possono favorire (o addirittura garantire) il
mantenimento della pace.
Ad
esempio, secondo un famoso assunto del politologo “Michael W. Doyle”, gli Stati
democratici di solito non si fanno la guerra tra loro.
Dunque
la democratizzazione globale degli Stati costituirebbe una delle precondizioni
per il mantenimento di una pace priva di ostilità.
Anche
un ONU riformato e funzionante (non quello attuale) potrebbe dare un contributo.
È
chiaro che le condizioni che potrebbero mantenere la pace potrebbero essere le
più varie.
Non
posso entrare nel merito. C’è un’intera disciplina dedicata a questo tipo di
questioni e cioè i “peace studies”, o anche “peace and conflict studies”.
In
generale, possiamo però dire con relativa certezza che una delle cause
principali della fine della pace è il sopravvenire dell’ingiustizia, sia
all’interno delle nazioni sia tra di loro.
Il mantenimento di un ordine privo di
ostilità, il mantenimento di una pace di soddisfazione conseguita, implica
evidentemente la giustizia.
La
pace senza giustizia percorre poca strada.
Chi
voglia mantenere una pace ordinata senza ostilità dovrebbe dunque
contemporaneamente procurare la giustizia.
È chiaro che una condizione di ingiustizia può
spingere al ricorso alla violenza, determinando una catena causale che può
portare alla guerra, interna o esterna.
Sappiamo
bene tuttavia che la pace di per sé non è senz’altro in grado di procurare la
giustizia.
D’altro
canto, lo scopo di procurare la giustizia può implicare anche la rottura della
pace.
Per questo la pace è sempre a rischio.
Ovviamente,
la giustizia sussistente in una data situazione viene sempre giudicata dal
punto di vista dei soggetti coinvolti, i quali potrebbero non essere affatto
concordi sulla natura giusta o ingiusta della pace in questione.
Anche
in questo caso si presenta l’opportunità di ricorrere all’intervento di un
Terzo, capace di intervenire nel merito delle ingiustizie rivendicate. Ma il
Terzo come si è visto non è sempre un ospite gradito.
Queste
semplici considerazioni stanno a significare che gli sforzi per realizzare e
mantenere la pace non possono avere mai fine.
Una
volta stipulato il trattato di pace c’è sempre il rischio che l’ingiustizia,
sopravvenuta o latente, rovini la pace.
Allora
al pacifista consapevole non resterebbe altro che reinterpretarsi come politico
impegnato indefinitamente per l’implementazione della giustizia.
Impegnarsi
solo per la pace è indice davvero di corte prospettive sulla natura della pace
stessa.
18.)-
Pace positiva.
I filosofi hanno spesso anche trattato della
pace positiva, della quale abbiamo già accennato in apertura, per circoscrivere
la pace negativa. Questa non è soltanto un effetto del diritto, attraverso un
trattato di pace, che come abbiamo visto può però sempre essere violato.
È piuttosto la condizione che la società
nazionale e la comunità internazionale assumono dopo che si sia instaurata una
pace giusta e sia stata instaurata la giustizia.
Un
caso tipico è costituito dalla “teoria di Galtung”, cui abbiamo già accennato.
Spesso
questo concetto è stato tacciato di essere un concetto assai vago e di fatto
utopico.
Esso implica l’esistenza di società pacifiche e giuste
e la contestuale trasformazione spirituale degli individui in modo da diventare
essi stessi pacifici e giusti.
Quando si pensa alla pace positiva non si può
fare a meno di evocare la kantiana pace perpetua.
La
quale tuttavia – Kant era un pessimista cronico – assomigliava più a una pace
trattata che non a una pace positiva universale.
Sul
piano filosofico si può disquisire se una pace positiva fondata sulla giustizia
sia possibile, sia effettivamente alla portata della natura umana o se non sia
piuttosto incompatibile con questa.
Per
qualificare la inemendabilità della natura umana Kant ha usato la nota metafora
del legno storto:
“Dal
legno storto dell’umanità non si potrà mai cavare alcuna cosa dritta”.
Non
posso addentrami in questa problematica del rapporto tra la guerra e la natura
umana ma la segnalo al lettore come stimolo per la riflessione.
Tutto
ciò ha comunque una conseguenza importante, cui ho già accennato ma che vale la
pena di ribadire in forma più estesa.
La realizzazione della pace positiva non può
essere conseguita restando all’interno dell’esclusivo dominio della pace stessa
(e dei relativi pacifismi).
La pace da sola non è sufficiente.
Non
pare bastevole alla sua compiuta realizzazione positiva.
Questo
significa che l’impegno per la pace non può essere disgiunto dall’impegno
politico per la realizzazione di una società giusta.
L’impegno per la pace non può dunque essere “single
issue”. Raramente
tuttavia i movimenti pacifisti mostrano esser consapevoli dell’esigenza, per la
costruzione e il mantenimento della pace, di connettere strettamente la difesa
della pace con la realizzazione della giustizia.
Questa
miopia dei pacifisti si spiega col fatto che ammettere di doversi impegnare per
la giustizia finirebbe per sporcare le mani alla purezza apparente dell’impegno
per la pace.
Queste
considerazioni mostrano anche i limiti della nonviolenza.
La
quale azzarda a ritenere che sia sufficiente la diffusione della nonviolenza
per la realizzazione della giustizia.
Una
società con una maggioranza di nonviolenti praticanti sarebbe presumibilmente
comunque sempre ostaggio di una minoranza di violenti praticanti.
Anche
a Paperopoli c’era la “Banda Bassotti”.
19.) -
Un’altra classificazione.
I diversi tipi di pace di cui abbiamo discusso
rappresentano solo una delle tante classificazioni delle situazioni di pace.
Un’altra classificazione della pace, che
riprende alcuni aspetti della precedente, è stata fornita da “Raymond Aron”.
Egli
distingue tre tipi di pace.
A)- Anzitutto la pace di potenza. È la pace che si ottiene grazie al
sopravvenire di un potere forte che impone l’ordine e, dunque, la pace. Può essere
di tre tipi, di equilibrio, di egemonia o di imperio.
B)- Abbiamo poi la pace di impotenza, che era quella fondata – all’epoca
di Aron – sull’equilibrio del terrore tra le potenze atomiche. Queste erano
costrette a non farsi la guerra poiché la guerra avrebbe implicato la mutua
distruzione assicurata.
C)- In ultimo, abbiamo la pace di
soddisfazione.
È la
pace che sopravviene quando ciascuno è in sé soddisfatto della propria
situazione, per cui non cerca in nessun modo l’aggressione. Spiega “Bobbio”
che: “La pace di soddisfazione ha luogo quando in un gruppo di stati nessuno ha
pretese territoriali o d’altro genere verso gli altri, e i loro rapporti sono
fondati sulla fiducia reciproca (che è proprio l’opposto del timore reciproco);
pace di soddisfazione è quella che vige dopo
la seconda guerra mondiale fra gli stati dell’Europa occidentale”.
La
classificazione di “Aron” ha il merito di mettere in luce la dimensione di
potere (e di disuguaglianza) che comunque è spesso connessa anche alle
situazioni di pace (come nel caso estremo dell’antro del ciclope) e che
contribuisce drammaticamente a privare la pace di quel manto idealistico che
spesso i pacifisti le attribuiscono.
La pace non elimina il potere e questo può
sempre riprodurre l’ingiustizia.
20) -
Dai tipi di pace ai tipi di pacifismo.
Visti
i diversi tipi di pace, si possono anche dare per definiti i principali
obiettivi possibili dei diversi movimenti pacifisti, cui – come dicevamo –
possiamo aggiungere anche i movimenti nonviolenti. Per la chiarezza del
discorso pubblico, e per l’efficacia del dibattito, questi movimenti dovrebbero
però dichiarare esplicitamente quale tipo di pace vorrebbero raggiungere, nelle
diverse specifiche situazioni.
E dovrebbero evitare di contrabbandare un tipo
di pace per un altro, come invece amano fare abitualmente, quasi senza
accorgersene.
Una
dieta ricostituente.
21).
Intermezzo.
Nell’intento
di capitalizzare i dubbi del lettore volenteroso che sia giunto fino a questo
punto, propongo un esercizio di riflessione su un caso concreto.
Vediamo
con qualche dettaglio la narrazione di quel che accadde a Srebrenica tra il 6 e
il 25 luglio 1995.
Siamo in Bosnia-Erzegovina, pochi mesi prima della
firma dell’accordo di “Dayton” sulla spartizione interna del Paese tra la
Repubblica serba (RepublikaSrpska) e quella croato bosniaca.
Srebrenica
era una delle tre enclave bosniache in territorio serbo (Srebrenica, Žepa e
Goražde).
Di qui la forte pressione dell’esercito serbo
nei confronti delle poche enclave rimaste.
L’intento era quello di effettuare una pulizia
etnica dell’enclave che sarebbe in prospettiva divenuta territorio serbo.
Srebrenica
era presidiata da un contingente di alcune centinaia di caschi blu olandesi
dell’UNPROFOR, cioè dell’ONU.
Avrebbero dovuto difendere gli abitanti locali
da eventuali aggressioni dei serbi.
Tra il
6 e il 25 luglio le forze soverchianti dei serbi, comandati dal generale”
Mladich,” circondarono l’enclave, la conquistarono senza difficoltà e, sotto la
minaccia delle armi, ridussero all’impotenza il contingente dei caschi blu
olandesi.
Nei
giorni successivi perpetrarono sistematicamente il massacro di più di 8000
civili bosniaci.
La
Corte internazionale di giustizia ha successivamente definito il massacro come
genocidio.
Nonostante
vari processi e inchieste, la posizione del battaglione olandese dell’UNPROFOR
non è stata ancora del tutto chiarita.
Gli olandesi avevano solo armi leggere ed erano
sicuramente inferiori di forze rispetto ai serbi.
Per cui non furono in grado di intervenire e
di assolvere al loro compito di proteggere la popolazione.
In un
quadro di disorganizzazione della catena di comando, non ci fu alcun
significativo aiuto o intervento aereo dall’esterno in difesa dall’enclave,
nonostante fosse stato più volte richiesto dal comandante del contingente,
questo perché a quanto si disse non sarebbe stato conforme alle regole di
ingaggio della missione.
Ai
caschi blu non restò che riparare nella loro base e cercare di intavolare
qualche timida trattativa con “Mladich”.
Una
moltitudine di bosniaci sfollati si radunò nei pressi della base ma gli
olandesi non furono in grado né di ospitarli né di difenderli.
Gli uomini di “Mladich” li prelevarono con il
pretesto della identificazione, separarono gli uomini, li caricarono su mezzi e
li portarono via e procedettero al massacro che infuriò nei giorni successivi.
Quando
si resero conto di quel che stava accadendo, gli olandesi non furono comunque
in grado di intervenire.
Le inchieste e i processi che ci furono, a
vari livelli, non hanno portato a nulla di definitivo.
Circolano
diverse versioni interpretative, da chi dice che, praticamente abbandonati dal
Comando centrale della missione, i caschi blu non abbiano potuto fare altro che
stare a guardare.
Qualcuno
li accusa addirittura di avere anche, per certi aspetti, collaborato con i
Serbi, avendo consentito il prelevamento di coloro che si erano rifugiati nei
pressi o addirittura dentro alla base.
È
stato accertato che, in alcuni specifici casi, i caschi blu non abbiano dato
rifugio ad alcuni bosniaci che lo richiedevano espressamente e che poi sono
stati massacrati.
Per
alcune specifiche omissioni processualmente accertate alcuni ufficiali sono
stati condannati.
Comunque,
nonostante la situazione imbarazzante della loro posizione, forse per una sorta
di riparazione, i soldati del contingente hanno anche ricevuto un’onorificenza
dal governo olandese.
Il
caso dei caschi blu olandesi nella sua complessità resta insoluto.
A
parte la responsabilità penale, gli olandesi del contingente UNPROFOR restano a
tutt’oggi nel limbo indistinto di una non accertata responsabilità morale.
In una
posizione che può essere definita come “al di là del bene e del male”.
Ecco allora qualche motivo di riflessione
circa la filosofia della pace e della guerra.
Qualcuno può sostenere che l’ONU, come
pacificatore armato, non dovesse neppure trovarsi nella ex Jugoslavia,
lasciando così che i diversi contendenti di quella guerra si pacificassero da
soli.
Qualche
sincero umanitario può sostenere che, pur essendo inferiori in termini di
forze, i caschi blu dovevano comunque intervenire per tentare di proteggere la
popolazione;
avrebbero
cioè dovuto fare il loro dovere morale comunque, eventualmente anche
sacrificando la propria vita.
Oppure
si può sostenere che l’ONU abbia peccato di omissione:
doveva
intervenire con regole di ingaggio più dure, con maggiori forze e più
efficacemente, costringendo i Serbi a stare al loro posto.
Anche con la minaccia o l’uso delle armi.
Ma c’è
anche un altro interessante punto di vista: i caschi blu olandesi non hanno
fatto altro che tenere un comportamento del tutto consono con le prescrizioni
nonviolente tolstojane di non rispondere al male con il male.
Meglio
dunque sarebbe stato in questo caso che non si fossero neanche presentati in
Jugoslavia.
22).
Un po’ di metaetica.
Dopo
il nostro intermezzo, passiamo ora a proseguire il nostro ragionamento.
Finora ci siamo accontentati di individuare
diversi tipi di pace, mostrando svariati problemi ad essi connessi.
Ci
siamo cioè occupati principalmente dei diversi obiettivi che possiamo avere in
mente quando dichiariamo di essere per la pace.
Dovrebbe essere emerso come minimo che la pace
è un obiettivo di per sé assai problematico.
Ma la
pace non è solo problematica in quanto obiettivo.
È
anche decisamente problematica se consideriamo il modo con cui la vogliamo.
Ebbene
sì, la pace non solo si dice ma anche si vuole in diversi modi. Prenderemo in
considerazione due modi principali.
Ce ne sarebbero anche altri, ma questi due
sono i più importanti.
In
termini di metaetica, la pace può essere considerata in due modi diametralmente
opposti:
dal
punto di vista deontologico oppure da quello consequenzialista.
Si
tratta di una distinzione del tutto analoga a quella forse più nota di “Max
Weber” tra l’etica dell’intenzione (o convinzione) e l’etica della
responsabilità.
Il
primo punto di vista tende a considerare la pace come principio in sé. Il
secondo punto di vista tende a considerare la pace in base alle sue
conseguenze.
Detto in sintesi, se assumiamo la pace come un
principio universalmente valido, e dunque moralmente doveroso, saremo portati a
disinteressarci delle sue conseguenze, le quali però, come s’è visto, possono
anche non essere sempre buone.
Se
consideriamo invece primieramente le conseguenze della pace, non saremo più in
grado di trattare la pace come un principio universale, valido sempre e
comunque.
Potremmo
anche mettere in conto, in certi casi, di dover rinunciare alla pace, per
evitare certe sue conseguenze negative e/o per conseguire altri beni che siano
ritenuti preferibili o prioritari.
23).
Deontologi.
Vediamo meglio.
Chi
adotta la prospettiva deontologica ritiene in generale che ci siano dei
principi, proprio come la pace, che sono buoni o cattivi in sé.
Questi
principi sarebbero dunque dotati di un loro valore intrinseco. Questa
convinzione si traduce in un dovere, in un comandamento morale al quale si deve
soltanto obbedire.
Chi
non obbedisce si rende colpevole e si colloca ipso facto dalla parte del male.
Il
principio della pace è dunque considerato una cosa buona di per sé e dovrebbe
sempre essere realizzato senza discutere, a tutti i costi: “etsipereat mundus”.
Resta
allora solo il problema di definire come si giunga a stabilire un principio
come quello della pace, quale ne sia il fondamento o la giustificazione.
I fondamenti che possono essere individuati
sono molteplici e curiosamente possono anche essere in contrasto tra loro.
Tuttavia
mirano tutti a conferire alla pace il suo valore intrinseco.
Qui
può essere utile, a scopo meramente illustrativo della problematica, rammentare
la “vecchia
classificazione kantiana delle etiche eteronome”, formulata a seconda del carattere
interno o esterno rispetto all’individuo del principio che le guida.
In
termini esterni, il dovere della pace può derivare da un comando divino, oppure
da un’abitudine sociale trasmessa (la tradizione e l’educazione) oppure ancora
da una legge degli uomini.
In termini interni può derivare invece da un
impulso socievole, fornitoci dalla natura, oppure da un sentimento morale,
oppure ancora dalla spinta verso la perfezione derivante dalla nostra coscienza
razionale.
Se si
vuol essere kantiani fino in fondo, si può poi invocare anche l’imperativo
categorico, come caso di etica dell’autonomia.
Quale
che sia il fondamento posto alla sua base, è opportuno notare che, in ambito
deontologico, il principio della pace viene in tal modo assolutizzato.
Ciò
indubbiamente lo mette al riparo da qualsiasi dubbio e da qualsiasi eccezione.
Questa
strategia può tuttavia essere controproducente.
Già
Kant aveva avvertito come l’assolutizzazione di un principio possa costituire
l’anticamera del perfezionismo morale, del ritualismo e financo del fanatismo morale.
In fin
dei conti le cose dai tempi di Kant non sono cambiate molto. L’impressione è che coloro che si
auto proclamano pacifisti in senso deontologico non siano gran che consapevoli
di questi rischi.
Se il
principio così individuato è considerato come un assoluto allora non può mai
essere confrontato e messo in concorrenza con altri valori.
Gli eventuali insuccessi pratici derivanti
dall’applicazione del principio (la prova dei fatti) non scalfiscono
minimamente il valore che è stato assunto.
Il
tutto in linea con la convinzione che le conseguenze non interessino più di
tanto:
“Il mio dovere l’ho fatto, accada ciò che
vuole”.
24).
Qualche esempio particolare.
Discutiamo
più concretamente qualche caso.
Almeno i casi principali.
Chi è
religioso è facile che, per fondare la pace, invochi la legge divina.
Spesso
in ambito cristiano si cita il Vangelo come legge suprema. Tuttavia ciò non
sempre sembra bastare.
Il caso di “Tolstoj” mostra come ci si possa
trovare in disaccordo anche a partire dal Vangelo.
“Tolstoj”
riteneva che il vangelo predicasse una forma radicale di nonviolenza e ciò lo
portò allo scontro con la sua Chiesa.
Il moscovita “patriarca Kirill “oggi benedice la
guerra di Putin.
Il
Catechismo della Chiesa cattolica sostiene invece la teoria della “guerra
giusta” discostandosi dalla prospettiva deontologica (vedi oltre).
Non ci
potrebbero essere interpretazioni più divergenti dello stesso principio.
Secondariamente,
tra i deontologisti c’è chi preferisce fondare il principio della pace sulla
legge umana, sulle prescrizioni del diritto.
In
Italia, ad esempio, c’è chi sostiene che la nostra Costituzione proibirebbe la
guerra in tutte le sue forme.
Secondo
i pacifisti che fondano la pace sulla Costituzione, poiché la Costituzione
proibisce la guerra, il nostro Paese non dovrebbe neppure partecipare alle
missioni internazionali di pacificazione, non dovrebbe produrre e vendere armi.
Non
dovrebbe stare nella NATO.
In
teoria non dovrebbe neppure possedere un esercito e (forse) non dovrebbe
neppure difendersi in caso di aggressione.
È
evidente che una simile interpretazione della Costituzione istituirebbe la Pace
non solo come obbligo morale o politico individuale ma anche come obbligo
legale per tutti i cittadini italiani e le loro istituzioni.
In realtà sappiamo che la questione è
piuttosto controversa.
Secondo
autorevoli giuristi, sembra che la Costituzione proibisca certamente le guerre
di aggressione.
Tuttavia
non è certo che proibisca le guerre di difesa e/o di resistenza. Altrimenti non
sarebbe stato neanche previsto un “Ministero della Difesa”.
In
terzo luogo è stata spesso indicata come fondamento della pace una convinzione
della coscienza, intima e individuale, che imporrebbe all’ individuo di non
indossare divise, di non portare armi, di non fare il servizio militare, di
rifiutare dunque la guerra, o anche tutte le forme di violenza.
Si
tratta della cosiddetta obiezione di coscienza.
Si
tratta questo di un principio che non è fatto valere per tutte le coscienze o
per le istituzioni ma limitato alla coscienza individuale.
L’obiettore,
insomma, ammette che gli altri eventualmente facciano la guerra, tuttavia
rivendica per sé la prerogativa di seguire la propria coscienza e di rifiutarsi
di farla.
Il principio dell’obiezione di coscienza è
stato accolto – com’è noto – dalla legge italiana dopo molte controversie (è
appena il caso di ricordare in merito la figura di Don Milani e la sua polemica
con i cappellani militari).
Naturalmente
anche in questo caso la convinzione intima può derivare da una pluralità di
fonti, dall’adesione a qualche religione, dall’adozione di un qualche
imperativo morale, o simili, da un sentimento di amore verso tutti gli umani o
addirittura verso tutti gli esseri viventi.
Molte
delle argomentazioni individuali addotte per l’obiezione di coscienza possono
essere legate non solo al rifiuto della guerra ma anche al rifiuto di ogni
violenza.
25).
Consequenzialisti.
Vediamo
ora l’altra posizione metaetica.
Secondo la prospettiva consequenzialista, o dell’etica della responsabilità, non accade mai che un’azione sia
buona o cattiva in sé, ma va sempre valutata in base ai suoi effetti o
conseguenze.
Una
scelta è buona solo se produce conseguenze buone, anche e soprattutto nel caso
specifico.
Unico criterio normativo che deve stare alla
base della scelta sono dunque le conseguenze.
Questo
orientamento si richiama alla responsabilità di colui che sceglie la linea di
condotta.
L’eventuale
ossequio a principi a-priori implicherebbe invece la deresponsabilizzazione individuale
e una universalizzazione irrealistica.
Per
comprendere questa posizione ci si può rifare dibattito intorno alla questione
dell’obbedienza assoluta alle leggi.
Se n’è
discusso alquanto a proposito del caso “Eichmann”.
Se obbedire alla Legge o allo Stato è sempre
un atto dovuto, allora non si sarà mai responsabili delle eventuali conseguenze
dannose.
Deontologicamente,
in senso stretto, “Eichmann” avrebbe avuto perfettamente ragione.
La sentenza di condanna contro Eichmann – piaccia o no – è stata pronunciata in
un quadro consequenzialista.
Mentre
sul piano deontologico, il principio della pace è considerato come universale,
sul piano del consequenzialismo invece non può mai essere considerato come
universale, deve sempre essere messo in relazione alle specifiche situazioni.
Dipende, in altri termini, dalle circostanze.
Questo
significa che il principio della pace, come ogni altro principio, viene
considerato come contingente.
Poiché
le conseguenze di una scelta possono essere diverse da caso a caso, nella
prospettiva consequenzialista è ammesso dare valutazioni diverse a seconda dei
casi.
In
certi casi si può decidere per la pace, in altri per la guerra.
Dato
quest’approccio per così dire minimalista, i consequenzialisti tendono a non
assolutizzare le loro scelte e così rischiano assai meno di incorrere nel
perfezionismo morale o nel fanatismo.
26).
Obiezioni.
Un’obiezione
al consequenzialismo è che non possiamo conoscere tutte le conseguenze delle
nostre scelte, per cui il processo decisionale per essere corretto dovrebbe
essere infinito.
Inoltre tutti i principi sarebbero
relativizzati alle singole situazioni esaminate.
Ogni
decisione sarebbe unica e diversa da ogni altra.
In
questo modo il mondo dei valori diverrebbe altamente instabile, sottoposto
all’arbitrio valutativo di ciascun singolo e di ciascuna situazione.
Un’altra obiezione è che possiamo non trovarci
d’accordo sull’analisi delle conseguenze, poiché, in quanto umani, ragioniamo
sempre in condizioni di incertezza o di relativa ignoranza.
Oppure siamo sempre sottoposti ai
condizionamenti più diversi.
Il consequenzialista dunque non avrebbe alcuna
garanzia di essere nel giusto, non potrebbe mai rifarsi ad alcun fondamento
consolidato.
I consequenzialisti risponderebbero che è
proprio così, che queste sono le autentiche condizioni di ogni scelta morale.
27.)- Qualche implicazione.
Vediamo
qualche concreta implicazione.
Nello
specifico della guerra russo-ucraina, i pacifisti deontologici anche più
soggettivamente sinceri si stupiscono di essere considerati spesso come “amici
di Putin”.
In
realtà essi, adottando deontologicamente il principio della pace, facendo
dunque il loro “dovere”, non si faranno mai carico delle specifiche conseguenze
delle loro azioni, anche quando siano abbastanza prevedibili.
Ad
esempio, è fattualmente abbastanza chiaro che se si togliessero gli aiuti
militari all’Ucraina, questa sarebbe facilmente sopraffatta.
I deontologisti tuttavia non si sentono
minimamente imbarazzati da simili conseguenze, perché le conseguenze non li
riguardano affatto.
Se tutti ragionassero come loro, Putin avrebbe
già vinto.
Ma
questo, appunto, non li riguarda proprio.
E così si stupiscono di essere considerati
“alleati oggettivi” di Putin.
Anche
gli interventisti consequenzialisti (si noti che i consequenzialisti
possono anche essere non interventisti) hanno un dilemma da risolvere.
Accettando
la guerra, anche dopo articolata riflessione, non possono che accettarne anche
le gravose conseguenze, le quali si manifesteranno però solo dopo la scelta.
Essi,
al momento della scelta avevano ritenuto che le conseguenze sarebbero state
tutto sommato accettabili se messe a confronto con un male peggiore che sarebbe
derivato se avessero deciso altrimenti.
Tuttavia
costoro si espongono alla confutazione da parte della realtà.
La
posizione dei deontologi resta invece inconfutabile.
Il consequenzialista interventista può essere
comunque accusato di avere scelto il male minore della guerra, perché è
comunque un male.
Ma
potrebbe anche essere ancor più accusato qualora il male minore si riveli
essere in realtà un male peggiore.
Il consequenzialista non può mai avere la
coscienza del tutto tranquilla, finisce sempre per avere in qualche modo le
mani sporche.
E
questo può sempre essergli rimproverato dal deontologo (il quale può sempre comodamente dire
“Non in mio nome!”).
In altri termini, i consequenzialisti sono
indotti, in ogni situazione, a cercare di calcolare e prevedere i risultati (di cui saranno comunque
responsabili, nel bene e nel male) e a scegliere di conseguenza.
Ai
deontologi invece non importa dei risultati specifici, dei quali non si sentono
responsabili.
Per
loro conta solo l’aderenza al principio assoluto.
Una
dieta ricostituente.
28.) -
Dell’incompatibilità delle due posizioni.
Possiamo
domandarci a questo punto se sia possibile conciliare queste due prospettive.
Ebbene,
no, non è possibile.
Si può solo stare da una parte o dall’altra.
Si
può, volendo, argomentare a favore dell’uno o dell’altro punto di vista, in
maniera più o meno convincente, ma mai in termini risolutivi. Per questi due mondi, “fare la cosa
giusta” può significare cose completamente diverse.
Che
fare allora?
Di fronte a questi due orientamenti incompatibili si
finisce spesso per scegliere una modalità o l’altra a seconda dei casi.
Diciamo pure a seconda della convenienza del
momento.
Si finisce per formulare delle argomentazioni
miste che possono essere anche abbastanza ridicole.
Ci
sono tuttavia dei soggetti che sono invece più costanti e tendono più o meno a
essere sempre deontologi oppure sempre consequenzialisti, in base a un atteggiamento personale spesso poco
consapevole.
Una specie di predisposizione.
Mi
permetto qui di suggerire una scappatoia.
Di porre all’attenzione la possibilità di adottare un
criterio di tipo decisamente pragmatico, un criterio piuttosto “a spanne”,
anche se si tratta di un criterio piuttosto vicino al modo di pensare
consequenzialista.
Si
tratta di far ricorso alla casistica empirica nota, all’esperienza passata.
Nella
storia passata hanno avuto migliori risultati (cioè, hanno fatto meno disastri) coloro che hanno applicato ciecamente
i loro valori o principi, oppure coloro che hanno esaminato attentamente e
prudentemente le possibili conseguenze delle loro scelte?
Cosa
convien fare in generale, sulla base del senno di poi?
È
chiaro che ciascuno formulerà la propria risposta.
Dal
mio punto di vista, da un esame spassionato, emerge come i consequenzialisti siano meglio adattati alla democrazia.
Le ragioni dovrebbero essere facilmente
ricavabili da chiunque conosca appena un po’ le regole elementari della
democrazia.
Propongo
al lettore questo compito come esercizio.
Sono
disposto a correggere gli elaborati.
29.) -
La teoria della guerra giusta.
Il
caso più celebre di consequenzialismo è senz’altro quello della teoria della
guerra giusta alla quale val la pena di riservare uno spazio particolare.
È una
teoria che risale addirittura ad Agostino e a Tommaso d’Aquino.
Prima ancora si trova, ad esempio, in
Cicerone.
È
stata ripresa nell’ambito del giusnaturalismo moderno e, per suo tramite, è
giunta fino a noi.
A tutt’oggi è una teoria che ha molti
sostenitori ed è ancora ampiamente dibattuta.
C’è
una letteratura immensa sull’argomento.
In campo filosofico, tra i sostenitori
contemporanei della teoria della guerra giusta possiamo annoverare i filosofi “Michael
Walzer” e “Norberto Bobbio”.
La
premessa minimale della teoria è che le guerre non sono tutte uguali.
Ci
sono guerre inique e guerre giuste.
Le
guerre giuste si distinguono per essere tali sia nelle motivazioni che le hanno
scatenate (jus ad bellum) sia nella condotta sul campo (jus in bello).
Per quel che concerne lo “jus ad bellum”, la sola
guerra giusta tendenzialmente è quella che è messa in atto per difendersi da
una aggressione.
La
guerra di offesa non è mai giusta.
Nel
corso della complessa storia di questa teoria sono state dettate precise
condizioni affinché si possa parlare di guerra giusta.
Abbiamo,
nell’ordine:
1) La
giusta causa.
2) La retta intenzione.
3) L’autorità appropriata (legale) e la
dichiarazione pubblica.
4) La guerra come ultima risorsa.
5) La probabilità di successo.
6) La
proporzionalità.
Entrare
nel merito dei punti precedenti esula dalle finalità di questo scritto.
Il lettore che fosse interessato non farà
fatica a trovare un’adeguata documentazione.
Va
segnalato che l’epiteto di “guerra giusta” non ha in questo caso alcun
significato morale, bensì ha un significato giuridico.
È definita giusta la guerra che abbia
determinati requisiti accertabili in base alla tecnica giuridica.
La teoria permette dunque di esprimere un
giudizio di tipo giuridico sulla guerra.
Il giudizio ovviamente, come tutti i giudizi,
potrebbe anche essere errato.
Potrebbe
anche essere riconsiderato nel caso del sopravvenire di nuovi dati.
Non
manca chi ha fatto notare come la teoria della guerra giusta sia del tutto
corretta ma che nessuna delle guerre passate sarebbe in grado di passare la
prova, se questa fosse condotta in maniera rigorosa.
Questa teoria si presta soprattutto a essere impiegata
quando in sede internazionale un consesso di nazioni (ad esempio in sede ONU) deve decidere se operare o meno un
intervento.
Come
accade facilmente nelle faccende umane, la teoria è tuttavia stata anche usata
strumentalmente dai bellicisti.
L’aggressione
americana all’Iraq nel 2003, ad esempio, è stata giustificata anche col
pretesto che fosse una guerra giusta.
In
quell’occasione fu anche elaborata una assai discutibile dottrina della guerra
preventiva.
Occorre dunque tener conto di un possibile uso
ideologico e propagandistico della teoria della guerra giusta.
Le strumentalizzazioni non bastano tuttavia a
invalidarla e, come si diceva, è ancora ampiamente dibattuta.
Taluni
hanno sostenuto – lo riporto per imparzialità affinché siano chiare tutte le
posizioni – che la teoria della guerra giusta poteva valere per le guerre
convenzionali.
Non
varrebbe più ora che c’è la possibilità della guerra atomica.
“Norberto
Bobbio” ha discusso ampiamente su questo punto.
Il
problema è che la possibilità della guerra atomica non ha messo fuori mercato
le altre guerre convenzionali.
E su
queste, che sono di fatto le uniche a essere praticate, è comunque il caso di
pronunciarsi.
In
effetti l’arma atomica ha una funzione di deterrenza ed è poco probabile che
venga mai più usata (dopo il caso del Giappone) poiché con la tecnologia
odierna l’uso dell’arma atomica implicherebbe la mutua distruzione assicurata.
Le
guerre convenzionali hanno invece molta più probabilità di essere utilizzate e
di fatto lo sono.
Abbiamo
dunque bisogno anche di ragionare circa il da farsi relativamente alle guerre
non atomiche.
Ma
avremmo anche bisogno di ragionare rispetto alle armi atomiche.
Negli
ultimi decenni l’arsenale atomico mondiale è rimasto congelato dal TNP
(Trattato di non proliferazione nucleare) e l’opinione pubblica non pare si sia
mai preoccupata più di tanto circa la questione dello smantellamento.
Solo nel 2017 è stato proposto da un ristretto gruppo
di Paesi il TPNW (Trattato per la proibizione delle armi nucleari) cui però non
hanno aderito gli Stati possessori delle bombe o aspiranti tali.
Certi pacifisti si rifiutano di mandare
qualche cartuccia e qualche obice agli Ucraini che stanno facendo la loro
resistenza, un caso cioè che sarebbe generalmente riconosciuto come guerra
giusta, ma
non dedicano neanche un tweet alla causa della messa al bando delle armi
nucleari.
Meno
male che ci ha pensato Putin a riproporre la questione.
30.) -
L’ambiguo caso della Chiesa cattolica.
Come
ho spiegato ampiamente in un mio saggio precedente, da sempre la Chiesa cattolica
sostiene esplicitamente la dottrina della guerra giusta, fin da Agostino e
Tommaso d’Aquino.
Nel
mio saggio ho mostrato dettagliatamente come il Catechismo della Chiesa
cattolica sia totalmente incentrato intorno alla teoria della Guerra giusta.
Ciò
significa l’adesione piena a una prospettiva consequenzialista.
Ciononostante, il Papa nel suo attuale pubblico
insegnamento mostra di condividere una prospettiva deontologica talvolta assai
estrema, fino quasi alla nonviolenza tolstojana, cioè alla proibizione di
rendere il male con il male.
Questo soprattutto quando sono in questione
gli aiuti militari e le spese per la difesa.
Ma poi
il Papa non trae tutte le conseguenze dalla sua adesione alla nonviolenza.
Il
messaggio è dunque piuttosto ambiguo.
Nel
Catechismo si teorizza il diritto alla difesa e alla resistenza da parte di chi
è aggredito e invece nelle piazze la Chiesa tuona contro l’invio delle armi in
Ucraina e contro gli investimenti nella sicurezza.
Si tratta di una palese contraddizione che,
nel mio saggio, ho sintetizzato nella formula del “peace populism”.
Intendendo
con ciò che questa contraddizione sia dovuta principalmente allo scopo più o
meno consapevole della Chiesa di ottenere una qualche popolarità a buon
mercato.
Un pacifismo deontologico e fondamentalista è
senz’altro più popolare di un consequenzialismo responsabile.
Va
notato che la
teoria consequenzialista della guerra giusta della Chiesa cattolica (almeno quella
contenuta nel Catechismo) si espone alle critiche deontologistiche di coloro che professano
rigorosamente la teoria della nonviolenza.
Per
rendersene conto, basta mettere a confronto il Catechismo della Chiesa
cattolica con Tolstoj.
Agli
occhi di Tolstoj, il Catechismo cattolico sarebbe da considerarsi come una mera
manifestazione di eresia, un vero e proprio tradimento dell’insegnamento di
Cristo.
Se stiamo alla lettera, è probabile che
Tolstoj abbia ragione.
Solo
la plateale ignoranza dilagante presso il grande pubblico permette oggi alla
Chiesa cattolica di sostenere e insegnare la guerra giusta nel Catechismo e,
contemporaneamente, di presentarsi come sostenitrice di un pacifismo deontologico
nonviolento,
senza che nessuno ne ravvisi le incongruenze.
31.) -
Di che pacifismo sei?
Da
quanto detto, dovrebbe risultare chiaro fin qui che i problemi che questa
materia comporta sono davvero complessi e che ciascuno dovrebbe essere
attentamente impegnato nel costruire la propria posizione personale.
Una posizione comunque che, per la natura stessa della
cosa, non sarà alla fine esente da lati oscuri, incongruenze, conseguenze non
desiderate.
Sarà
dunque una posizione che avrà punti forti, ma anche punti di debolezza.
Sarà
una simile posizione che sarà poi utilizzata per formulare gli opportuni cauti
giudizi sui casi concreti.
Dovrebbe
dunque risultare chiaro che non ci si può accontentare di superficialità e
banalità.
Se il
ragionamento fin qui sviluppato sarà sembrato eccessivo, ebbene pensi il nostro
coraggioso lettore che quel che qui è stato fornito è solo un approccio del
tutto elementare.
La complessità delle questioni è ben maggiore.
In altri termini, non c’è via di scampo,
bisogna studiare!
Vediamo
allora in sintesi, ad usumdelphini, quali sono le principali posizioni
possibili.
32.) -
Nonviolenti.
Abbiamo
anzitutto i nonviolenti.
Pare
questo il caso relativamente più chiaro, sebbene sia il più difficile da
mettere in pratica.
Riteniamo di doverli collocare in una loro categoria a
parte per il fatto che essi hanno, come obiettivo, non tanto la eliminazione
della guerra bensì l’eliminazione della violenza in generale.
Se poi intendono – come fa “Galtung” – per violenza
anche la violenza sociale (cioè le disuguaglianze, lo sfruttamento,
l’impedimento allo sviluppo delle potenzialità umane di ciascuno, la
discriminazione e simili) essi sarebbero impegnati nella impresa di costruire,
senza fare uso della violenza, una società completamente nuova, in una vera e
propria rivoluzione, sia sul piano istituzionale sia sul piano degli individui.
Dal
punto di vista “metaetico”, l’approccio dei nonviolenti è generalmente di tipo
deontologico, con tutti i suoi pregi ma anche con i difetti che abbiamo
ampiamente discusso in precedenza.
I nonviolenti, posti di fronte alla guerra, si
troveranno comunque a dover affrontare e risolvere la molteplicità dei dilemmi
circa la pace e la guerra che abbiamo segnalato.
In
particolare, potranno facilmente trovarsi di fronte alla incongruenza dei
valori e ai paradossi derivanti dal “non opporsi al male con il male”.
E al
rischio del fanatismo.
Un
problema particolare poi è quello della efficacia effettiva in termini pratici
della “metodologia nonviolenta”.
33.) -
Pacifisti assoluti.
Abbiamo
poi i pacifisti deontologici.
Sono
coloro che – per i principi più diversi – scelgono sempre la pace, “senza se e
senza ma”.
Costoro
potrebbero essere definiti come pacifisti assoluti. Diciamo pure che costoro, per
quanto ampiamente variegati al loro interno, costituiscono un blocco
relativamente monolitico.
Questa
posizione deve comunque risolvere il problema (che non hanno i nonviolenti) di
identificare cosa si debba intendere per guerra, cioè di identificare l’oggetto
della loro opposizione.
Abbiamo visto che l’oggetto guerra è piuttosto “fuzzy”
e, a seconda di quel che si intende, può produrre comunque già delle
differenziazioni interne assai marcate nello schieramento.
Ci
possono essere posizioni assai radicali ove si vietino la produzione e il
commercio di armi, ove si chieda lo smantellamento degli eserciti, ma anche ove
si vietino i cosiddetti interventi umanitari, le varie forme di interposizione,
oppure gli interventi dell’ONU.
Ove si
condannino nel passato e nel futuro tutte le forme di resistenza armata e ove
si condanni anche la guerra passata al nazifascismo.
C’è
poi anche chi intende la pace solo come obiezione di coscienza individuale (la
riserva solo per sé e non la impone agli altri) e chi la intende invece come
norma legale da imporre a tutti attraverso una Costituzione.
Anche
i pacifisti deontologici possono facilmente trovarsi di fronte alla
incongruenza dei valori e al paradosso di “non opporsi al male con il male”.
E al
rischio del fanatismo.
Il
pacifismo assoluto sembrerebbe dunque la posizione più facile ma al proprio
interno, osservando un minimo di rigore, può riservare molti problemi piuttosto
difficili da risolvere.
34.) -
Pacifisti relativi.
Ma
l’elenco non è finito.
L’approccio
metaetico consequenzialista pone più di un problema, per quel che riguarda il da farsi
rispetto alla pace (e alla guerra).
Se i pacifisti deontologici sceglieranno pressoché
sempre la pace, senza badare alle conseguenze, i consequenzialisti invece
potranno essere indotti a scegliere, in casi specifici diversi, sia la pace sia
la guerra.
Ma
allora, i consequenzialisti sono da considerare come pacifisti o non piuttosto
come bellicisti?
Oppure vanno considerati di volta in volta, solo sulla
base della loro scelta del momento?
Risultando
così come dei ballerini morali che transitano troppo facilmente da una
posizione all’altra?
Una
dieta ricostituente.
Facciamo
un esempio per capirci.
“Bertrand
Russell” (1872-1970) è ritenuto generalmente un’importante figura di filosofo e
attivista pacifista.
È
famoso per essersi impegnato per la messa al bando delle armi atomiche.
Si è
opposto alla partecipazione della Gran Bretagna alla Prima guerra mondiale.
Per
questo fu privato della cattedra e fu perfino incarcerato.
Eppure
Russell, dopo un notevole impegno per prevenire il conflitto, giunse ad
approvare la guerra contro la Germania nazista.
Come
dovremmo considerare la sua posizione?
Siamo
in presenza di un pacifista eroico, oppure di un bellicista guerrafondaio?
Oppure
di un voltagabbana?
“Russell”
ha chiarito la sua posizione in un famoso articolo del 1943 nel quale egli si
considera non un pacifista assoluto ma “pacifista politico relativo”.
Ben al
di là di essere un altalenante, egli si considera dunque un pacifista
perfettamente coerente.
Ma
come tale, e proprio in quanto tale, ammette che talune guerre vadano
appoggiate.
Va da
sé che i nonviolenti e i pacifisti assoluti difficilmente accetterebbero “Russell”
in loro compagnia.
Se non
vogliamo trattare anche Russell come un guerrafondaio allora non possiamo fare
altro che accettare la sua argomentazione e ampliare la nostra classificazione
dei pacifisti.
Avremo
allora, da un lato, i pacifisti assoluti che deontologicamente scelgono sempre
la pace e poi avremo, d’altro canto, anche i pacifisti non assoluti, pacifisti
“relativi”, che non scelgono sempre la pace e si riservano di giudicare caso
per caso.
Dovrebbe
essere abbastanza chiaro, almeno a partire dall’esempio di “Russell”, che i
pacifisti relativi non possono essere assimilati tout court ai bellicisti (i
quali sceglierebbero pressoché sempre la guerra).
Assumiamo
dunque che non basta dare un appoggio circostanziato a una certa guerra, per
essere considerati tout court bellicisti o guerrafondai.
Si può
combattere Hitler anche in nome della causa della pace.
Anche
qui, le distinzioni sono importanti, non si tratta della stessa cosa! Nella
recente letteratura anglosassone sulla pace e sulla guerra si parla
tranquillamente di “relative pacifism”, di contingent pacifism, oppure di conditional pacifism.
Se non
si accetta questa soluzione si corre il rischio di screditare una categoria di
pacifisti sicuramente numerosa e ben impegnata.
Facendo un cattivo servizio alla causa della
pace.
Si
tratterebbe dunque di ammettere una buona volta che i pacifisti relativi siano
comunque dei pacifisti a pieno titolo e che un pacifista in certi casi possa
anche stare dalla parte della guerra.
Pazza idea!
Ancora
una volta, questa non è una questione che può essere affrontata in maniera
schematica.
Il
pericolo del fanatismo è sempre alle porte.
35.) -
Pacifisti relativi insufficienti.
I
pacifisti relativi (che non possono che essere consequenzialisti) costituiscono
tuttavia un gruppo davvero composito, spesso diviso al proprio interno in base
alle diverse analisi condotte circa l’opportunità o i costi e i benefici delle
diverse scelte di pace o di guerra.
È il
caso di ricordare che molti pacifisti relativi (forse la maggioranza!) sembra
che, nel caso del conflitto russo – ucraino, abbiano optato proprio per la pace
(cioè, di fatto, per la resa incondizionata dell’Ucraina).
Sembra
tuttavia che i pacifisti relativi facciano notizia solo quando scelgono di
appoggiare la guerra.
Nel
caso della guerra russo – ucraina, diversi di loro hanno appoggiato la
resistenza ucraina, fino ad approvare le sanzioni, l’invio di armi,
guadagnandosi così l’appellativo dispregiativo di “pacifisti con l’elmetto”.
Ugualmente
hanno approvato l’aumento delle spese militari per la sicurezza, beccandosi
l’accusa di essere dei guerrafondai e di voler togliere risorse alla sanità,
all’istruzione e a una miriade di altre buone cause.
Il
livello decisamente poco elevato dell’attuale dibattito italiano sulla guerra
in Ucraina suggerisce, ahimè, una pessimistica considerazione circa i molti
pacifisti relativi che sono in circolazione.
Tra i
quali può essere anche collocato il già citato “prof. Orsini”. Nonostante il
parere autorevole di “Ockham”, per tutti costoro mi verrebbe di suggerire una
nuova categoria, quella dei pacifisti relativi insufficienti.
Se non
piace questo termine, si potrebbe anche parlare di pacifisti relativi deboli.
Come
diceva “Viano”: “di quelli che non ce la fanno”.
O, ancora, di pacifisti relativi opportunisti.
Che
abbiano optato per la pace o per la guerra, costoro, come consequenzialisti,
mostrano abbastanza palesemente di avere operato la loro scelta in base ad
analisi assai discutibili delle conseguenze.
Purtroppo,
l’analisi delle conseguenze non sempre è caratterizzata da onestà e
imparzialità, da considerazioni approfondite e di ampio respiro.
Talvolta
può essere caratterizzata da basse e ciniche convenienze, da abietti e futili
motivi.
Non
tutti si chiamano Bertrand Russell.
Non
tutti si chiamano Albert Einstein (il quale sulla guerra a Hitler ha sostenuto
posizioni analoghe a quelle di Russell).
L’analisi delle conseguenze poi può non sempre essere
caratterizzata dall’impiego di dati fondati e deduzioni logicamente corrette.
Dunque,
bisogna purtroppo riconoscerlo, il consequenzialismo è in fin dei conti fin
troppo democratico.
Ce n’è
davvero per tutti i gusti, e anche gli imbecilli sono comunque sempre
autorizzati a fare la loro brava analisi delle conseguenze.
Del
resto in una democrazia è senz’altro giusto che sia così.
La
democrazia dovrebbe essere così robusta da scoraggiare gli imbecilli e invece
li subisce continuamente.
E
forse li alimenta.
36.) -
Utilitarismo e verità.
I
pacifisti relativi insufficienti, che sono una legione, non sono purtroppo una
sorpresa poiché
abbiamo già sottolineato la possibile parentela del consequenzialismo con le
etiche utilitaristiche.
L’utilitarismo
tradotto in pratica purtroppo spesso dimentica il principio cardine che lo
dovrebbe improntare, il principio della “maggior felicità per il maggior numero”, e tende a scadere in mero
opportunismo individualistico.
Questo
è il motivo per cui, in ambito consequenzialistico occorre sempre esercitare
una grande vigilanza affinché l’analisi delle conseguenze non sia viziata dagli
innumerevoli “bias” in cui ci si può imbattere.
Mentre
in campo deontologico il dibattito non può che vertere intorno ai valori
universali (i quali però per lo più si assumono a torto o a ragione senza gran
ché dibattere), in campo consequenzialista invece il dibattito è essenziale.
Dovrebbe
sempre essere approfondito, ampio, documentato, e soprattutto pubblico, per
permettere la formazione di un’opinione pubblica matura e consapevole.
In
altri termini, per fare bene i consequenzialisti bisogna studiare.
Mi
permetto in proposito di richiamare una considerazione recentemente espressa da
“Emanuele Parsi”, e cioè che le democrazie non possono proprio funzionare al di
sotto di una certa soglia di circolazione della verità.
A
maggior ragione, ciò dovrebbe valere di fronte a questioni gravi come quelle
della pace e della guerra.
Occorrerebbe
dunque un forte commitment per la verità.
È invece un dato fatto che il pubblico medio
attuale non si occupa di politica e men che mai di politica internazionale.
E le
informazioni che circolano sono quelle che corrono sui social media e sui media
nazionali.
E,
soprattutto, i nostri pacifisti relativi insufficienti tendono a decidere piuttosto
irresponsabilmente con un tweet o con un Like, magari in base a un bel corredo
di fake.
37.) -
Per concludere.
Lo scopo di questo saggio, divenuto ormai fin
troppo lungo, era quello di fornire alcuni strumenti elementari di analisi a
chi volesse condurre una riflessione indipendente e non banale sulle questioni
della guerra e della pace.
Lo
scopo era anche di esercitare un’opera minima di chiarificazione del linguaggio
che, su questo tema, è oggi davvero molto inquinato.
Spero
di avere mostrato ancora una volta come la filosofia possa disseminare dubbi
piuttosto che propinare certezze e come possa rappresentare tuttavia uno
strumento critico nei confronti per lo meno delle forme più crasse di
superficialità.
Ho
cercato di essere il più obiettivo possibile, non rinunciando ovviamente di
volta in volta a esprimere le mie opinioni.
Per
rispetto nei confronti del lettore, mi sono tuttavia sforzato di rendere sempre
ben distinguibili le mie analisi argomentate dalle mie opinioni e valutazioni.
Ringrazio
i pochi lettori che siano giunti fin qui, sperando di avere fatto loro un
qualche buon servizio.
Disponibilissimo
a ricevere critiche e osservazioni. E a ricevere, qualora fosse il caso, anche
qualche ringraziamento.
In
ossequio al motivo kantiano del “legno storto”, non mi faccio comunque nessuna
illusione che tutto ciò possa servire a migliorare anche di un solo millimetro
la nostra etica pubblica.
Douglas
Rushkoff: “Solo
i più ricchi.”
Lucadebiase.nova100.lsole24ore.com
– Luca De Biase – (29 -3 -2023) – ci dice:
(blog
Cross Rad di Luca De Biase).
(Douglas
Rushkoff, “Solo
i più ricchi. Come i tecno miliardari scamperanno alla catastrofe lasciandoci
qui”, “Luiss
University Press” 2023).
La
distanza tra i più ricchi del mondo e il resto di noi è ormai tanto grande da
avere creato condizioni non comparabili.
L’ascensore
sociale non arriva fino lassù.
Anzi
si è davvero bloccato, secondo alcuni dati “Ocse” sulle difficoltà del ceto
medio.
E comunque lo raccontava molto efficacemente
una famosa copertina dell’Economist che mostrava degli istogrammi sui quali le
persone potevano salire come su una scala che si interrompevano di fronte
all’ultimo, insensatamente più lontano e alto degli altri.
Questi duemila super ricchi, che possiedono almeno un
miliardo di dollari, che hanno aumentato la loro ricchezza complessivamente di
5mila miliardi nel corso della pandemia, stanno accettando questa loro
condizione speciale, stanno elaborando una visione del mondo, stanno maturando
una mentalità tutta loro.
E a questa mentalità è dedicato il nuovo libro di “Douglas
Rushkoff: “Solo i più ricchi”.
Questa
mentalità per Rushkoff si chiama il “Mindset”.
Rushkoff
è un prolifico autore che sta indagando da tempo sul confine su ciò che gli
umani possono fare per salvarsi.
In
“Team Human” (Norton 2019), Rushkoff ricostruisce le ragioni della
trasformazione delle forze un tempo progressive della tecnologia e del mercato
in strutture che sostengono un sistema di potere che reprime la maggior parte
della gente che vive nel pianeta.
E suggerisce che per ripensare la società gli umani
dovranno ritrovare la forza della loro caratteristica originale più importante:
saper fare “gioco di squadra”.
È un punto di vista che riemerge alla fine di
“Solo i più ricchi”.
Ma
solo dopo avere accompagnato il lettore nel mondo che vive al contrario.
La
storia di questo saggio filosofico-antropologico che si legge come un romanzo a
puntate comincia con la strana convocazione per un breve consulto che l’autore
riceve da parte di un ristretto numero di persone molto ricche che, per il
disturbo, gli offrono un pagamento pari a un terzo del suo stipendio annuale di
insegnante.
“Rushkoff
“si è fatto un nome come persona che riesce a raccontare prospettive sul futuro
interessanti, informate e credibili.
E
questi super ricchi lo interrogano su quello che prevede, ma senza troppa
convinzione.
Poi
all’improvviso scoprono le carte.
E “Rushkoff”
si trova di fronte alla reale domanda che quella gente gli pone.
Come possiamo salvarci dalla catastrofe che travolgerà
il mondo?
Chi ci potrà aiutare?
Come
potremo fare in modo che le persone che lavoreranno per noi non si rivolteranno
contro di noi?
Domande
che rivelano un “Mindset”.
La
mentalità di quei super ricchi emerge dal racconto come una articolata, fredda,
visione della realtà:
i ricchi hanno i mezzi per creare le
condizioni della loro sopravvivenza, ma devono ancora risolvere alcuni problemi
tecnici per rendere efficaci le soluzioni che stanno elaborando.
E cercano di capire come risolvere quei
problemi.
Con
molta concretezza.
Senza
un filo di senso di colpa verso i miliardi di persone che non riusciranno a
salvarsi con loro.
E con
qualche timore verso quelle persone, non come loro, che comunque si salveranno
per servirli.
I
super ricchi di cui parla “Rushkoff” non hanno scrupoli perché sono convinti di
fare il bene dell’umanità.
Perché
nella loro mentalità c’è una convinzione:
in un
mercato nel quale vince il migliore, i super ricchi hanno vinto, dunque sono i
migliori.
Quindi
salvando sé stessi salvano i migliori degli umani, quelli che ripopoleranno la
Terra, o qualche altro pianeta, nel mondo evolutivamente migliore possibile.
Si
abbeverano alle stesse fonti dalle quali ha tratto origine la loro ricchezza.
La scienza e la tecnologia sono il loro mondo
e da lì provengono le loro soluzioni.
Non
c’è null’altro di meglio che una buona mentalità quantitativa, razionalista,
freddamente utilitarista, per progettare una salvezza per i migliori e per
dimenticare che i peggiori moriranno nel corso del processo.
È una
mentalità alla quale dedica un libro anche “Fabio Chiusi” che indaga sulle
vicende dell’imprenditore “Elon Musk”, rappresentativo di questo genere di
idea:
“L’uomo
che vuole risolvere il futuro. Critica ideologica di Elon Musk” (Bollati
Boringhieri 2023).
Se non
si possono salvare tutti gli individui che esistono nel mondo presente, almeno
si deve salvare la specie umana nel lungo termine.
Anzi,
la priorità è proprio quella di salvare i molti miliardi di persone che
nasceranno nei prossimi milioni di anni.
Ed è
proprio la mentalità che porta tutto alla rovina secondo “Rushkoff”.
Quella
di creare una scialuppa di salvataggio per la specie umana, per il mondo che ci
sarà dopo la catastrofe – che sia una guerra, un’emergenza climatica, una
pandemia – è una bufala.
“Rushkoff”
dice che non possiamo agire nel dopo.
«Quel che non facciamo ora, non lo faremo mai
più».
MINDSET.
Le 17
differenze di Mindset
fra
Ricchi e Poveri.
Maxvalle.it
– Max Valle – (20-11-2023) – ci dice:
Differenze
di mindset.
Più
passano gli anni e più mi convinco che, PRIMA di fare corsi/percorsi di studi
che possano trasmettere nozioni prettamente tecniche, per tutti i liberi
professionisti che vogliono lavorare online (ma anche offline) sarebbe
necessario un corso/percorso sulla giusta mentalità (o, come si usa dire oggi, il giusto mindset).
In un
paese come l’Italia, fortemente condizionato dal pensiero catto-comunista, cova
un profondo odio nei confronti dei ricchi (un po’ meno verso la ricchezza e i
soldi, che invece tutti desiderano).
E
viene curiosamente esaltato un certo tipo di “povertà virtuosa” (ultimamente unito al concetto di “decrescita felice”).
Credo
invece sia utile provare a capire come pensa e ragiona il ricco (rispetto al povero), perché al pensiero segue l’azione, e
all’azione i risultati.
E non parlo solo di ricchezza economica, ma anche
della “forma mentis” che va ad influenzare, in positivo, la qualità complessiva
della vita.
Ho
quindi preso spunto da un bel post di “Matthew Kent” sulle 17 “Surprising Mindset
Differences Between People who are Rich and People Who Are Broke”, che oggi ti ripropongo qui sotto
(tradotto e arricchito di mie piccole modifiche/pensieri).
I
ricchi pensano “io creo la mia vita”.
I poveri pensano “la vita mi capita”.
Credi
di poter decidere quale direzione dare alla tua vita? Probabilmente risponderai
di sì, ma le tue azioni lo confermano?
Se
vuoi controllare la direzione della tua vita, agirai di conseguenza.
Se non lo fai, sarai una vittima delle
circostanze.
Molti
credono che la vita sia un gioco del destino.
“Non è
colpa mia se sono povero, sfortunato in amore o sovrappeso”.
In verità, come dice il proverbio, non è importante
quello che ti capita, ma come reagisci a quello che ti capita.
Il
primo passo verso un percorso di miglioramento è ammettere a te stesso che puoi
migliorare le cose, e che sei il solo responsabile del tuo destino.
Corso
registra il tuo marchio.
I
ricchi investono soldi per vincere.
I
poveri investono sperando di non perdere.
Se
metti soldi in borsa (o in bitcoin e criptovalute), in immobili o in una nuova
attività potresti perderli, non c’è alcun dubbio.
Eppure
il mercato azionario, immobiliare e imprenditoriale sono tutti ottimi modi per
accumulare ricchezza.
Sono
modi per far lavorare i soldi per te, anziché lavorare come un mulo per
ottenerli.
Se
invece il tuo obiettivo è quello di non perdere soldi, subirai senza dubbio la
perdita peggiore:
quella dell’opportunità.
I
ricchi si impegnano per essere ricchi. I poveri vogliono solo essere ricchi.
Tutti
vorrebbero essere ricchi, ma ben pochi si impegnano per riuscirci.
Dovrai
lavorare duro, assumerti dei rischi.
Dovrai
fare il primo passo, che tu ti senta pronto o meno.
Alzati
prima al mattino.
Leggi
libri e studia, anziché guardare Netflix.
Occorrerà
un sacco di costanza e impegno quotidiano, non si diventa ricchi dal giorno
alla notte.
Il
successo è il risultato di un lungo e faticoso percorso.
I
ricchi pensano in grande. I poveri in piccolo.
Avere
una grande visione è importante per diversi motivi.
Prima
di tutto, è più motivante:
se
sogni di arrivare a guadagnare 2.000 euro al mese (mentre oggi ne guadagni
1.500), potresti pensare che il gioco non valga la candela.
Se
invece punti, per esempio, a 10 volte di più, ti sentirai più motivato a
raggiungere l’obiettivo.
Un’altra
ragione è che ti aiuta a pensare fuori dagli schemi.
Convincere
qualcuno a comprare un tuo prodotto a 5 euro, richiede uno sforzo limitato.
Ma
pensa invece se dovessi vendere un prodotto da 500 o 5.000 euro.
Se
pensi in piccolo, guardi vicino a te.
Se
pensi in grande, guardi avanti, lontano, verso l’alto.
E
anche se non raggiungerai l’obiettivo che ti sei prefissato, andrei ben oltre
il punto in cui sei ora.
I
ricchi sono focalizzati sulle opportunità.
I poveri sugli ostacoli.
Pensa
a quante startup di successo sono arrivate sul mercato negli ultimi anni.
Pensa a quanti ostacoli hanno dovuto
affrontare i loro fondatori.
Non
solo ideare il prodotto/servizio, ma anche cose più “banali” come ottenere
finanziamenti, gestire l’impresa e i collaboratori, confrontarsi col pubblico e
i concorrenti.
Se ti
concentri sugli ostacoli, non vedrai mai le opportunità.
Anche
se queste ti fissano in faccia.
I
ricchi ammirano gli altri ricchi e le persone di successo.
I
poveri, invece, provano risentimento.
Se hai
una mentalità da povero, vedi la ricchezza e il successo come una torta:
se
qualcuno ha una fetta più grande della tua, pensi che a te toccherà una fetta
più piccola.
E quindi proverai rancore nei confronti dei
ricchi, perché pensi che ti portino via qualcosa di cui tu hai diritto.
Se
invece coltivi una mentalità di abbondanza, ammirerai i ricchi e cercherai di
emularli.
Riconoscerai il valore che hanno e che danno
agli altri.
Non
penserai che sono ricchi solo perché sono fortunati o hanno truffato qualcuno.
I
ricchi si associano con persone positive e di successo.
I poveri con persone negative e fallite.
Con
chi trascorri il tuo tempo?
Con
persone che ti migliorano o ti peggiorano?
Ti
danno vibrazioni positive o ti soffocano con la loro negatività?
Se
vuoi avere successo, allontana da te chi si lamenta di continuo.
Scappa
dai “vampiri energetici”.
Piuttosto
isolati da tutto e da tutti, e lavora su te stesso (io lo faccio ormai da molti
anni).
I
ricchi promuovono loro stessi e le loro attività. I poveri pensano che
promuoversi sia sbagliato.
Se
vuoi farti conoscere, o far conoscere i prodotti/servizi che vendi, devi
imparare a promuovere te stesso e ciò che hai da offrire.
Ciò
non significa essere presuntuoso o arrogante, ma semplicemente mettere in
mostra in modo chiaro ed onesto le proprie conoscenze, competenze e prodotti:
se sei capace di fare bene qualcosa, se hai
qualcosa di utile per il mercato, non aver paura di promuoverlo.
I
ricchi superano i loro problemi. I poveri ne vengono sovrastati.
Il
mondo è pieno di persone che giustificano in tutti i modi i loro insuccessi:
è
sempre colpa della politica, dell’economia, del capo che non capisce, dei
colleghi che non fanno bene il loro lavoro.
Per le
persone di successo, invece, si tratta solo di sfide che vanno superate.
La
scelta è tua:
vuoi
continuare a vedere i tuoi problemi come più grandi di te, o è giunto il
momento di vederli come più piccoli e superabili?
I
ricchi sono molto ricettivi. I poveri molto poco.
Per
realizzare i tuoi obiettivi, potresti aver bisogno d’aiuto.
Se il
tuo orgoglio non te lo permette, è un problema che devi affrontare.
Il
vantaggio del ricevere, è anche quello di rafforzare una relazione:
potresti pensare di trovarti in debito nei confronti
di chi ti offre il suo aiuto, ma in realtà accettare di essere aiutato ti
avvicina a questa persona.
Se non
accetti l’aiuto o il confronto con gli altri, ti chiudi alle relazioni e alle
opportunità.
I
ricchi scelgono di essere pagati in base ai risultati. I poveri in base al
tempo.
Il
tempo è la risorsa più preziosa che abbiamo.
Se
investi il tuo tempo nel creare qualcosa che puoi vendere a tante persone
(come, ad esempio, un videocorso), guadagni denaro e ottieni più tempo per te.
Se
invece scambi il tuo tempo per denaro, ottieni soldi ma perdi praticamente
tutto il tuo tempo (tipico di chi lavora sotto padrone).
Essere
pagati per il risultato (anziché per il tempo) è però spaventoso per molte
persone:
l’idea di non essere in grado di creare un
prodotto o un servizio appetibile, o di essere un consulente che nessuno vuole
assoldare, è un peso troppo grosso per tanti.
Che preferiscono così passare la loro vita
come dipendenti, lamentandosi del loro (basso) stipendio e tenore di vita.
I
ricchi pensano “entrambe le cose”.
I poveri pensano “o una cosa, o l’altra”.
Pensi
che possiamo vincere entrambi, o che se io vinco tu perdi?
Pensi
che possiamo collaborare per vincere assieme, o pensi che siamo destinati a
combattere affinché solo uno dei due vinca?
Questa
mentalità vale anche per quanto riguarda la gestione del tempo e delle risorse.
Ti
concentri sul presente o sul futuro?
Su una attività, o su più di una?
A
volte sarai costretto a scegliere l’uno o l’altro, ci mancherebbe, ma il tuo
primo pensiero dovrebbe essere quello di vagliare più opportunità. Spesso,
infatti, il successo sta proprio nella diversificazione, nel far correre più
cavalli.
I
ricchi si focalizzano sul patrimonio netto.
I poveri sul reddito da lavoro.
Non
sto dicendo che avere un buon stipendio sia un male, sia chiaro.
Ma lo stipendio non dovrebbe essere la tua
unica fonte di reddito.
Se hai
una buona entrata fissa, dovresti metterne da parte un po’ ed investirla per
fare ancora più soldi.
In
poche parole: fai lavorare i tuoi soldi, facendo in modo che generino altri
soldi.
I
ricchi gestiscono bene i soldi. I poveri molto male.
Pare
che le persone con pochi soldi siano quelle con i debiti più alti sulle loro
carte di credito.
In
realtà fare debiti non è sbagliato, se sei capace di utilizzare i soldi presi
in prestito per farne molti di più… e non per spenderli in cose inutili.
Questo
concetto può essere esteso anche all’investire su se stessi:
i
ricchi spendono molto in corsi e libri, per aumentare continuamente le loro
conoscenze e competenze.
Sanno
che investire soldi per accrescere il proprio know-how è il miglior
investimento possibile, cosa che i poveri non fanno.
I
ricchi fanno lavorare i soldi. I poveri lavorano per i soldi.
Come
abbiamo già detto, i ricchi investono soldi in cose che ne producono ancora di
più (come azioni, immobili, attività), mentre i poveri si indebitano e lavorano
per pagare i soldi che hanno già speso.
È
importante sottolineare che, per ottenere un ritorno sugli investimenti
effettuati, può essere necessario parecchio tempo.
E quindi è necessaria parecchia pazienza (e
costanza) prima di vedere dei risultati economicamente rilevanti.
Ma
quando poi parte lo “snowball effect,” non ce n’è più per nessuno …
I
ricchi agiscono nonostante la paura.
I poveri lasciano che la paura li fermi.
Se le
cose a cui ambisci nella vita fossero nella tua “comfort zone”, le avresti già
trovate da un pezzo.
Ma
ricchezza e successo sono fuori da quella zona.
Devi
quindi fare in modo di rendere i tuoi sogni più grandi delle tue paure.
Scrivili, ripetili, visualizzali
incessantemente.
Fai in
modo di non poter vivere senza di essi.
Affrontare
le paure è doloroso, ma se stare nella tua zona di comfort è un dolore più
forte delle tue paure, allora hai una possibilità di farcela.
I
ricchi studiano e imparano costantemente. I poveri pensano di sapere già tutto.
Tutti
hanno un sogno, una visione di quello che sperano sia il loro futuro.
Ma per
arrivarci potrebbe essere necessario studiare ed applicarsi parecchio, e magari
“accelerare” grazie alle nozioni presenti in alcuni libri (scritti da chi ai soldi e al
successo ci è già arrivato da un pezzo).
Eccone
3:
Padre
ricco padre povero (di Robert T. Kiyosaki).
I
segreti della mente milionaria (di T. Harv Eker).
Pensa
e arricchisci te stesso (di Napoleon Hill).
La
maggior parte dei “pensieri da poveri” ci sono stati tramandati dai genitori,
dal contesto in cui abbiamo vissuto, dalle persone che abbiamo frequentato sin
da quando eravamo piccoli.
Sono
credenze e abitudini molto difficili da debellare, perché si sono stratificate
dentro di noi nel corso di anni, portandoci ad essere quello che siamo:
magari con un lavoro che non ci piace, uno
stipendio che non sentiamo adeguato, una vita che ci sta stretta.
Se
però riesci a sradicare questo sistema di credenze e a cambiare la tua
mentalità, di conseguenza cambieranno anche le tue azioni.
E in
quel momento riuscirai finalmente a cambiare te stesso, a seguire la tua
vocazione e a diventare la persona che meriti di essere:
te lo auguro di cuore.
(Max
Valle)
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