Trump non può sbagliare.
Trump
non può sbagliare.
Una UE
Senza Europa è un
Generatore
Automatico di Conflitti.
Conoscenzealconfine.it
– (24 Gennaio 2025) - di Marquez – ci dice:
Il
continuo allargamento UE è solo un atto servile verso gli USA, privo di logica
politica o economica.
Nuovi
membri entrano per fondi e in chiave bellica antirussa.
L’identità
europea collassa, ridotta a costola NATO, lontana dallo spirito fondante di
Ventotene.
La
Nuova UE… Senza Europa.
Ormai
la UE è un generatore automatico di conflitti.
Al momento ci sono nove paesi ufficialmente
candidati all’adesione:
Turchia (candidata dal 1999), Macedonia del
Nord (candidata dal 2004), Montenegro (candidato dal 2010), Serbia (candidata
dal 2012), Albania (candidata dal 2014), e questi sono i casi in sospeso da
anni per valutazioni tecniche ed economiche.
Poi ci
sono gli ultimi casi, su spinta politica ed atlantica, i più spinosi:
Ucraina, Moldavia e Bosnia ed Erzegovina
(tutte e tre candidate dal 2022) e Georgia (candidata dal 2023).
Caso a
parte il Kosovo, altra situazione instabile e di potenziale conflitto, che ha
firmato l’accordo di stabilizzazione e associazione necessario prima che possa
candidarsi per l’adesione, ed è considerato “potenziale candidato”.
L’attuale
espansione dell’Unione Europea appare priva di una logica coerente, sia dal
punto di vista politico che economico.
Sembra dettata esclusivamente dal desiderio di
sfidare la Russia, intensificando e aggravando i conflitti, senza alcun reale
vantaggio per sé.
È
un’operazione che trasuda servilismo nei confronti degli Stati Uniti.
I
nuovi membri, per lo più, aspirano unicamente ad accedere ai fondi strutturali
e ottenere risorse finanziarie.
Tra questi, potrebbe entrare un’Ucraina che,
ben prima del conflitto, mostrava una realtà politica repressiva:
i principali partiti di opposizione messi al
bando e pesanti discriminazioni nei confronti delle minoranze etniche, non solo
russe, ma anche, ad esempio, ungheresi.
L’ingresso
di tali paesi rischia di portare nell’UE enclave russe e nazioni alimentate da
un nazionalismo esasperato.
Per molti di loro, “Europa” non rappresenta valori
culturali, illuminismo, diritti democratici e sociali, ma un’opportunità di
business, una fonte di risorse da sfruttare.
Con
leader come “Maia Sandu”, si profila un futuro in cui saranno necessari
maggiori trasferimenti di denaro.
Paesi
come l’Italia, già contributori netti, dovranno aumentare il proprio impegno
finanziario per sostenere queste nazioni, che si aspettano flussi costanti di
risorse.
Ciò
significherà un maggiore ricorso al debito o, alternativamente, un incremento
della pressione fiscale su imprese e lavoratori, accompagnato da tagli ai
servizi pubblici, come scuole, ospedali e sanità.
Paradossalmente,
paesi che non molto tempo fa invocavano misure drastiche, come sparare ai
migranti ai confini, ora si presentano come difensori dei diritti e delle
libertà.
Il mercato e il profitto sembrano cancellare
ogni peccato:
leader che militarizzavano i confini sono ora
celebrati come paladini dei valori occidentali.
Perfino la Polonia, spesso criticata per le
sue mancanze, è diventata un modello da seguire.
Oggi
l’Unione Europea non solo si allontana dall’idea stessa di Europa, ma tradisce
i suoi valori fondanti, completamente aliena allo spirito di Ventotene.
È
ormai una realtà pienamente integrata nelle logiche della NATO, subordinata
agli interessi strategici statunitensi.
Anche un ipotetico esercito europeo non
sarebbe altro che una forza inquadrata nella struttura atlantica.
L’identità
europea sta svanendo, soffocata da queste dinamiche.
Questa
guerra non sta solo devastando i territori coinvolti, ma sta causando il
collasso di ciò che rendeva unica l’Europa.
Nel
frattempo, altre parti del mondo stanno costruendo il futuro.
Quattro miliardi di persone, dai BRICS a
numerose altre nazioni, stanno sviluppando un sistema alternativo, diffidente
nei confronti dell’Occidente e determinato a non dipendere da esso.
Questo
percorso, seppur ancora arrestabile, sta tracciando la strada verso un mondo multipolare.
Con
l’aumento delle sinergie tra Russia, Cina, India, Brasile e altri paesi
emergenti, si va verso la formazione di due mondi separati, ciascuno con le
proprie regole e interessi.
Poteva
andare diversamente?
Forse se Macron e Scholz prima del loro
collasso politico avessero avuto in Italia un presidente del consiglio diverso,
avrebbero potuto giocare un ruolo diverso.
E invece si sono ritrovati prima Supermario e
poi Giorgia Meloni.
Draghi
non è stato un flagello solo per l’Italia, ma una disgrazia per l’Europa.
L’uomo
che sta rendendo sempre più poveri gli europei. Per qualche dollaro in più….
Non è
arrivato per caso.
E non bisogna essere complottisti, ma meglio
complottisti che cretini.
È arrivato lì per costruire la UE che vogliono gli
USA, non l’Europa degli europei. Questa è già finita.
Lui ne è stato il becchino.
La
Meloni guida il carro funebre.
(Articolo
di Marquez)
(kulturjam.it/politica-e-attualita/una-ue-senza-europa-e-un-generatore-automatico-di-conflitti/)
Gli
elettori possono sbagliare?
Il
caso del presidente Trump
può
stabilire un criterio.
Ilfattoquotidiano.it
– (11 novembre 2024) – Andrea Bellelli – ci dice:
L’elezione
di Donald Trump è una disgrazia, come sostenuto tra gli altri da “Elly Schlein”
e da “Manon Aubry”, del partito “France Insoumise”, Presidente del Gruppo
Sinistra Unita nel Parlamento Europeo.
Sono
state proposte molte analisi delle ragioni per le quali gli elettori hanno
preferito Trump a Harris, analisi che si fermano immediatamente prima di una
conclusione non dicibile comune: gli elettori hanno sbagliato.
Questa
conclusione è anatema per tutti i populisti, per i quali il popolo ha sempre
ragione; ma è inevitabile e riconosce all’elettore l’onore e l’onere della sua
responsabilità.
Possono
sbagliare gli elettori, cioè eleggere qualcuno che faccia il danno loro e del
paese?
Tutti
possiamo sbagliare.
Se gli
elettori avessero sempre ragione e votassero sempre nel modo migliore dovremmo
dire che il ventennio berlusconiano sia stato il meglio che l’Italia poteva
chiedere all’epoca, sebbene sia finito nel 2011 col rischio della bancarotta
dello Stato.
Andando
indietro nel tempo, anche Hitler e Mussolini (golpista fallito il primo, di
successo il secondo) ottennero un forte consenso degli elettori, prima di
distruggere moralmente e materialmente la Germania e l’Italia.
E come
si spiegano le vicende di un partito che passa in pochi anni da più del 30% a
meno del 10% se non ammettendo che molti elettori si sono accorti di aver
sbagliato a votarlo?
Dire che gli elettori possono sbagliare non
implica che le elezioni non siano valide: implica semplicemente che il successo
elettorale non è garanzia di un qualche merito, anche relativo, dell’eletto.
La
retorica della fortezza America ha fatto vincere Trump e fallire l’ultima
globalizzazione.
(Loretta
Napoleoni).
Più
complicato è stabilire un criterio in base al quale una opinione soggettiva
debba essere giudicata come un errore oggettivo.
Nel
caso delle elezioni americane almeno due dati oggettivi saltano all’occhio.
Il
primo:
erano
contrapposti un pregiudicato e fallito golpista e una candidata incensurata. I
tribunali dei paesi democratici rappresentano la più alta ed oggettiva
espressione del diritto, che supera la soggettiva valutazione dell’elettore, a
meno di ricadere nella pretesa di Berlusconi che si voleva assolto dei suoi
reati dal voto popolare.
Il
secondo:
le
ricette politiche di Trump non sono solo bugie propagandiste, ma assurdi
giuridico-politici.
Gli
elettori si sono lasciati imbrogliare, per ingenuità ed egoismo.
Ad
esempio la promessa di deportare i migranti fuori degli Usa è un assurdo
giuridico ed economico perché molti risulteranno essere richiedenti asilo
provenienti da paesi nei quali sarebbero perseguitati, perché l’operazione
avrebbe costi proibitivi, e perché richiederebbe l’instaurazione di un regime
di polizia che forse Trump vorrebbe, ma che non è realizzabile senza
stravolgere le garanzie costituzionali dei cittadini.
Basta a questo proposito guardare all’esempio
italiano:
la
crudele promessa di impedire gli sbarchi si è scontrata con tali e tante norme
del diritto internazionale da risultare inapplicabile (e infatti gli italiani
hanno sbagliato a votare su queste basi Salvini e Meloni).
Poiché
l’elettore può sbagliare ed eleggere un governo che fa il danno suo e del
paese, dal quale poi è difficile liberarsi, l’unica difesa della democrazia sta
nel promuovere la cultura e la capacità di discernimento dei cittadini e nel
difenderne i diritti sociali, civili ed economici, in assenza dei quali
l’elettore è facile preda dei demagoghi come Trump.
La
battaglia è difficile perché il ciarlatano, che promette guarigioni
impossibili, avrà sempre un vantaggio sul medico coscienzioso che annuncia una
prognosi realistica.
SCENARIO
TRUMP- Nomine, Congresso,
Corte suprema, ecco perché Donald
non può più sbagliare.
Ilsussidiario.net
- Luca Pirola – (18 Novembre 2024) – ci dice:
Musk,
Ramaswamy, Kennedy, Rubio, Gabbard, Hegseth, Wiles: I nomi ormai consolidati
della squadra di Trump “promettono” un regime change.
Nella
combo, alcuni nomi della squadra di Trump.
Matt Gaetz, Tulsi Gabbard, Pete Hegseth, Marco Rubio,
Robert F. Kennedy jr.
Ben
Sasse, John Sauer, Jay Clayton, Todd Blance, Michael Waltz (Ansa).
A meno
di due settimane dalla vittoria alle elezioni presidenziali, quando però
mancano ancora un paio di mesi all’effettivo insediamento alla Casa Bianca, la
squadra che governerà gli Stati Uniti per i prossimi quattro anni è quasi al
completo.
Nessuno
si attendeva un governo che piacesse alla stampa, la stessa che per mesi ha
annunciato un testa a testa tra i due candidati, con Kamala Harris in
vantaggio, quando i dati dicono che non c’è mai stata partita, ma il livore con
cui certe nomine sono state annunciate, in Italia e negli USA, fa capire che si
tratta, indubbiamente, di una squadra in discontinuità con le amministrazioni
precedenti, e che forse vale la pena di darci un’occhiata.
AI
& POLITICA/ Il sogno dei Big tech si chiama "Governo della
sorveglianza".
Trump:
chiederò che i tassi di interesse scendano immediatamente.
La
prima novità è l’istituzione del “DOGE”, “Department Of Governement Efficency”,
che sarà guidato da “Elon Musk” e “Vivek Ramaswamy”.
Questo
nuovo dipartimento, guidato dai due miliardari che più hanno sostenuto la
campagna elettorale di Trump, avrà funzioni prevalentemente consultive, e dovrà
ideare e promuovere riforme tese ad efficientare il governo, ridurre sprechi e
burocrazia, migliorare la relazione tra gli apparati federali ed i cittadini.
Musk
ha già pubblicato una lista di un centinaio di sprechi di diverse agenzie
federali che punta a sanare, ma l’obiettivo che Musk si è dato è di proporre
almeno 2mila miliardi di dollari di tagli alle spese federali.
Considerato che il budget federale è di circa
6.750 miliardi, non è chiarissimo come ce la possa fare, però, come detto da
“Scott Besset”, uno dei favoriti alla poltrona del Tesoro statunitense,
“bisogna guardare a come [Musk] gestisce le sue aziende. Le gestisce piuttosto
bene”.
(Trump,
può una rivoluzione del buon senso cominciare con gli ordini?”)
La
seconda novità, già annunciata in campagna elettorale, è la scelta di Robert F.
Kennedy junior al ministero della Salute.
Nipote di uno dei presidenti degli Stati Uniti
più amati del Novecento, John Fitzgerald Kennedy, e figlio di Bob, candidato
alla presidenza, morto assassinato come il fratello, è stato un altro dei
sostenitori del presidente Trump in questa campagna elettorale.
Presentatosi inizialmente come candidato
indipendente, si tratta di una personalità eclettica e affascinante.
Nonostante i suoi settant’anni è ancora in
splendida forma, è un’ambientalista convinto e un’amante della natura e per
questo è sempre piaciuto tra i giovani e nella sinistra americana.
I giornali italiani titolano “Un No Vax
ministro della salute” per le sue posizioni critiche sull’obbligo vaccinale
durante la pandemia Covid-19, ma il suo slogan “Make America Healthy Again” e
il suo programma per i prossimi quattro anni riprendono alcuni temi cari alla
sinistra:
la
lotta ai cibi ultra-processati, eccessivamente zuccherini o grassi, la
promozione di uno stile di vita sano (ricordate Michele Obama?), la riduzione
dell’uso di farmaci, spesso prescritti oltre il necessario dai medici USA, a
volte anche dietro pressioni delle grandi multinazionali farmaceutiche.
(“Hamas
potrebbe non avere tutti gli ostaggi promessi, tregua a rischio”)
Tra le
figure più rilevanti è da evidenziare la nomina di Marco Rubio a segretario di
Stato (figura equiparabile al ministero degli Esteri);
53 anni, viene da una famiglia di umili
origini (padre barista, madre addetta alle pulizie, entrambi esuli cubani) e
frequenta il college solo grazie alla sua bravura come giocatore di football.
Avvocato,
cattolico praticante e padre di 4 figli, nel 2011 diventa senatore della
Florida per il Partito repubblicano.
Rubio
è sempre stato un sostenitore di politiche intransigenti nei confronti della
Cina, dalla quale è stato sanzionato per alcune esternazioni a sostegno dei
manifestanti di Hong Kong, e, anche recentemente, dello Stato di Israele,
avendo sottolineato che “Hamas è il colpevole di tutte le vittime civili di
Gaza”.
Il
fatto di essere madrelingua spagnolo lo rende particolarmente adatto alla
gestione dei rapporti con l’America latina, nonché un simbolo, per la comunità
latino-americana, della possibilità di crescere nel Partito repubblicano fino a
raggiungere i vertici del governo.
Altri
nomi di rilievo della futura amministrazione saranno gli ex militari:
“Tulsi
Gabbard”, combattiva quarantunenne originaria delle isole Hawaii, già tenente
colonnello con diverse esperienze in Medio Oriente, è stata membro del
Congresso per il Partito democratico, prima di passare al Partito repubblicano
stregata da Trump.
Ricoprirà
la carica di direttrice dell’intelligence.
Il nuovo segretario della Difesa sarà invece “Pete
Hegseth”, 44 anni, già membro della Guardia nazionale con anni di esperienza in
Afganistan e Iraq, diventato noto al pubblico per il recente passato da
giornalista per l’emittente conservatrice Fox News.
Criticato dalla stampa liberal per alcuni
tatuaggi (la croce di Gerusalemme sul pettorale destro ed il motto sul bicipite
“Deus vult”, oltre ad alcune armi e ad altri motti militari) verrà affiancato
da un consiglio di cinque generali nella gestione del più potente esercito del
mondo.
Tra le
figure chiave che stanno aiutando il presidente eletto in questa fase, compresa
quella delle nomine e del delicato passaggio di consegne con la precedente
amministrazione, spicca “Susie Wiles”, già coordinatrice della campagna
elettorale di Trump, assumerà il ruolo di capo di gabinetto (chief of staff) della Casa Bianca, prima donna a
ricoprire questo incarico.
Le
nomine sopra descritte segnano un Trump diverso da otto anni fa:
questa
volta si è preparato alla vittoria e ha lavorato alla squadra ancor prima delle
elezioni.
Si
trova di fronte ad una grande possibilità:
per i
prossimi due anni il Partito repubblicano avrà il controllo del Senato e della
Camera e avrà una Corte suprema “amica” (tre dei nove giudici sono stati
nominati dall’ex presidente, ora di nuovo alla Casa Bianca).
Trump
ha realmente la possibilità di impostare quel cambio di rotta nel governo
federale che ha portato la maggioranza degli americani a preferire lui come
candidato: ora occorre rimboccarsi le maniche.
Il neopresidente dovrà riuscire ad
efficientare i processi, alleggerire la macchina statale, rilanciare
l’economia, liberare le istituzioni dall’ideologia woke, riposizionare
l’America nel ruolo internazionale che le compete, proporre un piano di pace
per l’Ucraina e tentare di rappacificare il Medio oriente, rilanciare le
relazioni con il Sudamerica e affrontare la Cina.
Trump
ora non può sbagliare, glielo chiede l’America.
Putin:
“La Guerra Non Sarebbe Scoppiata
Se le
Elezioni del 2020 Non Fossero
State
Rubate a Trump.”
Conoscenzealconfine.it
– (26 Gennaio 2025) - Redazione giubberossenews.it – ci dice:
Trump:
“Facciamola finita con questa guerra, è tempo di fare un accordo”.
Putin:
“Non posso che essere d’accordo con Trump sul fatto che, se fosse stato lui
presidente, non ci sarebbe stata la crisi in Ucraina”.
Giovedì
scorso, il presidente russo Vladimir Putin ha affermato:
“Non
posso che essere d’accordo con lui sul fatto che, se fosse stato presidente, se
la sua vittoria non gli fosse stata rubata nel 2020, allora forse non ci
sarebbe stata la crisi in Ucraina che è sorta nel 2022”.
“Non è
solo una persona intelligente, ma una persona pragmatica”, ha continuato Putin,
a proposito di Trump.
“Per quanto riguarda la questione dei
negoziati… abbiamo sempre detto, e voglio sottolinearlo ancora una volta, che
siamo pronti per questi negoziati sulle questioni ucraine.”
La
guerra di quasi tre anni, che è stata sostenuta dall’amministrazione Biden ed è
ancora sostenuta da altri alleati occidentali, ha provocato la morte di
centinaia di migliaia di uomini.
I
commenti di Putin seguono anche gli espliciti appelli del presidente Trump per
i negoziati di pace tra le due nazioni in guerra:
“Fermatevi
e ponete termine subito a questa ridicola guerra!
La
situazione non farà che peggiorare.
Se non
facciamo un ‘accordo’, presto, non avrò altra scelta che mettere alti livelli
di tasse, dazi e sanzioni su tutto ciò che viene venduto dalla Russia agli
Stati Uniti e a vari altri paesi partecipanti”, ha scritto Trump in un recente
post su Truth Social.
“Facciamola
finita con questa guerra, che non sarebbe mai iniziata se fossi stato
presidente!
Possiamo farlo nel modo più facile o nel modo
più difficile, e il modo più facile è sempre migliore.
È tempo di ‘fare un accordo “, ha aggiunto
Trump.
Nel
frattempo, almeno in superficie, Zelensky è apparso fiducioso che un accordo di
pace sarà completato anche sotto la nuova amministrazione Trump.
“È
certo che la guerra finirà prima con le politiche della squadra che ora guiderà
la Casa Bianca.
Questo
è il loro approccio, la loro promessa ai loro cittadini”, ha dichiarato
Zelensky, aggiungendo che l’Ucraina “deve fare di tutto affinché questa guerra
finisca quest’anno, finisca con mezzi diplomatici”.
I
precedenti colloqui di pace sono stati intenzionalmente bloccati
dall’amministrazione Biden e dai suoi alleati occidentali, secondo l’ex
segretario del Consiglio di sicurezza russo Nikolay Patrushev.
“Se non fosse stato per la pressione
degli Stati Uniti su coloro che hanno installato a capo dell’Ucraina, questa
situazione non sarebbe accaduta, anche gli stessi leader ucraini erano pronti a
firmare un trattato di pace e hanno dato alla Russia proposte scritte che noi,
in linea di principio, abbiamo approvato “,
ha dichiarato Patrushev all’inizio della
guerra nel 2022.
Secondo
quanto riferito, le due parti erano state in grado di raggiungere un quadro per
un accordo provvisorio alla fine del 2022 a Istanbul, in Turchia.
Ma
l’allora primo ministro britannico Boris Johnson recandosi a Kiev, in Ucraina,
per conto dell’amministrazione Biden, chiese a Zelensky di interrompere tutti i
negoziati.
“Questo
è accaduto solo perché gli Stati Uniti hanno fatto pressione su di loro e hanno
detto che non si devono tenere negoziati”, ha aggiunto Patrushev.
(Articolo
della Redazione giubberossenews.it)
(oann.com/newsroom/putin-the-russia-ukraine-war-wouldnt-have-happened-if-2020-election-wasnt-stolen-from-trump/)
(x.com/DailyCaller/status/1882819573562651133)
(giubberossenews.it/2025/01/25/putin-la-guerra-non-sarebbe-scoppiata-se-le-elezioni-del-2020-non-fossero-state-rubate-a-trump/).
Trump,
sanzioni alla Colombia:
rifiuta
aerei militari carichi di migranti.
Ilsole24ore.com
- Marco Valsania – (27 gennaio 2025) – ci dice.
Scontro
tra il presidente Usa, che decide dazi fino al 50%, e il suo omologo colombiano
Gustavo Petro, che lo definisce schiavista e disumano.
Negoziati sulla crisi.
Donald
Trump dichiara una guerra economica alla Colombia, nel primo duro scontro con
un paese latinoamericano sulla politica di espulsioni di massa dei migranti
dagli Stati Uniti.
Il
presidente ha annunciato che imporrà dazi del 25% sulle importazioni da Bogotà
e che questi raddoppieranno al 50% entro una settimana, come rappresaglia per
il rifiuto delle autorità colombiane di accettare il rimpatrio forzato su
velivoli del Pentagono di loro cittadini che si trovavano illegalmente negli
Usa.
Il Presidente della Colombia Gustavo Petro ha
respinto gli aerei militari a stelle e strisce, chiedendo rispetto e
trattamento umano dei migranti.
Trump
non si è fermato ai dazi:
ha
annunciato sanzioni diplomatiche se Bogotà non si piegherà.
Ha vietato l’ingresso negli Stati Uniti di
funzionari governativi della Colombia e bloccato i visti a personale legato
alle istituzioni del Paese.
La
sezione per i visti all’ambasciata Usa a Bogotà è stata chiusa.
“Queste misure sono solo l’inizio – ha scritto
su Truth Social – Non permetteremo al governo colombiano di violare i suoi
obblighi nell’accettare il ritorno dei Criminali (maiuscola nel testo, ndr.)
che hanno spedito negli Stati Uniti!”.
Nel
messaggio ha così fatto riferimento alla sua tesi complottista, e priva di
alcuna prova, che nazioni sudamericane, anche alleati quali la Colombia,
abbiano svuotato le loro carceri per inviare detenuti violenti a invadere gli
Usa.
Le
sanzioni dovrebbero far leva sull’ “International Emergency Economic Power
Act”, che garantisce ampi poteri alla Casa Bianca per colpire altri paesi
dichiarando un’emergenza economica.
Negoziati
per far rientrare la crisi erano tuttavia in corso.
Un
funzionario della Casa Bianca ha parlato di colloqui tra le parti per evitare i
dazi.
Il
governo colombiano ha citato “attive conversazioni con l’amministrazione
statunitense per cercare intese che assicurino condizioni minime di rispetto” e
avrebbe offerto anche l’uso dell’aereo presidenziale colombiano per un
rimpatrio dei clandestini.
La
Colombia ha detto che accetta arrivi di migranti su aerei civili.
“Pedro”
ha tuttavia risposto per le rime alla rappresaglia di Trump, evocando dazi
contro dazi:
“Sono
stato informato che intendi imporre dazi del 50% sul frutto del nostro lavoro
che arriva negli Stati Uniti. Farò lo stesso”, ha scritto su X.
Anche se i rischi non sono pochi per Bogotà:
gli
Usa sono il principale mercato per l’export del Paese latinoamericano, pari al
28% del totale.
Una
guerra commerciale rischia quindi gravi danni per i 16,2 miliardi di dollari di
beni in gioco, per un terzo petrolio.
Gli Usa da parte loro esportano 17,7 miliardi
di beni nel Paese, da mais a componenti per aerei.
Lo
scontro è iniziato domenica mattina, quando Il Presidente colombiano ha
improvvisamente tolto la necessaria autorizzazione diplomatica all’arrivo di
almeno due aerei militari C-17 già in volo con circa 160 migranti espulsi,
costringendoli a rientrare alla base a San Diego.
Velivoli
militari richiedono nulla osta politici al contrario di voli civili.
“Gli Stati Uniti non possono trattare i
migranti colombiani come criminali.
Ho cancellato il permesso agli aerei americani
con i migranti ad entrare nel nostro territorio”.
Ancora:
“Riceveremo
i nostri concittadini su aerei commerciali, senza che siano trattati da
criminali”.
In seguito, davanti alle minacce di Trump, ha
alzato i toni:
“Non
ti piace la nostra libertà – Benissimo. Io non stringo la mano a schiavisti
bianchi. Non ci dominerai”.
Bogotà
non è isolata nel tentare una levata di scudi.
Proteste si stanno levando da altre nazioni
dell’America Latina per la violazione dei diritti umani dei migranti.
Il
Brasile ha denunciato nelle ultime ore il “trattamento degradante” di suoi
cittadini, che sono arrivati in manette e con lacci ai piedi.
Il Messico la scorsa settimana aveva già
respinto un velivolo militare Usa a sua volta pieno di migranti.
Trump
ha proclamato di voler espellere milioni di clandestini, in gran parte
latinoamericani, al più presto, anche se molti dubitano che un simile numero si
possibile per costi, logistica e impatto sull’economia americana, dove i
clandestini lavorano e appaiono insostituibili nell’agricoltura, nelle
costruzioni e nei servizi.
I
migranti oltretutto commettono molti meno reati dei cittadini americani in
proporzione, hanno rivitalizzato intere comunità e pagano le tasse anche senza
ricevere benefici.
Ma
Trump ha fatto scattare molteplici ordini esecutivi che possono portare
comunque ad espulsioni di massa, non solo di migranti responsabili di reati ma
di ogni clandestino che cada in mano alle autorità.
Ha
mobilitato le forze armate, al confine e per i velivoli da trasporto, e
autorizzato fermi anche in scuole chiese.
Retate
da parte di agenti armati dell’immigrazione sono iniziate in grandi città, da
Chicago a Boston a Newark, seminando paura e con centinaia di arresti a volte,
per errore, anche di cittadini americani.
Panama
a muso duro: «Trump si sbaglia,
il Canale non è cinese e gli USA
non pagano di più».
Cdt.ch
- Marcello Pelizzari – (21-1-2025) – ci dice:
Il
Paese centroamericano sta seguendo con attenzione l'operato del neopresidente
degli Stati Uniti: dai media alla politica, ecco le risposte al tycoon.
“Laurentino
Cortizo”, ex presidente di Panama, non ha usato giri di parole nel giudicare le
mire espansionistiche di Donald Trump, ribadite in occasione dell'insediamento
ieri a Washington.
In
particolare, l'intenzione di riportare il Canale di Panama sotto il controllo
degli Stati Uniti è stata definita «insensata».
E
questo perché il presidente americano si è fatto forza su considerazioni tutto
fuorché corrette, nel senso di vere.
In una
breve intervista rilasciata a Radio Panama, leggiamo sui media del Paese,
“Cortizo” ha spiegato che la dichiarazione di Trump secondo cui Panama non
avrebbe rispettato i trattati Torrijos-Carter è falsa.
Questi
trattati, ne avevamo già parlato in un approfondimento di “Giacomo Butti”,
erano stati firmati da Panama e Stati Uniti a Washington nel 1977.
Il
risultato, riassumendo al massimo, era stato duplice e consequenziale:
da un
lato, era stato abrogato il precedente trattato (Hay-Bunau Varilla) mentre
dall'altro era stato stabilito che Panama avrebbe acquisito il controllo del
Canale dopo il 1999, ponendo così fine al controllo che gli Stati Uniti
esercitavano dal 1903.
Così
“Cortizo”:
«Il presidente nel suo discorso, che tutto il
mondo ha sentito, parla di riprendersi il Canale di Panama per violazione dei
trattati.
E
ancora una volta insiste sul fatto che la Cina gestisca il Canale di Panama,
quando molte volte e anche personalmente, nel 2021, gli ho detto che il Canale
di Panama è gestito dai panamensi».
Su un
fatto, verosimilmente, Trump ha ragione.
L'influenza cinese, nella regione del Canale,
è cresciuta e pure parecchio negli ultimi anni.
In
particolare, dal 2017 o, se preferite, da quando Panama ha interrotto le
relazioni diplomatiche con Taiwan per abbracciare Pechino.
Nel
periodo che comprende il primo mandato di Trump e, poi, l'era Biden, Panama si
è rivelato un partner sempre più affidabile per la Cina, al punto da ricevere
lo status di “Most Favoured Nation”, un riconoscimento che garantisce alle navi
di Panama una serie di vantaggi nei porti cinesi.
Non
solo, oggi una società cinese con sede a Hong Kong controlla due dei cinque
porti adiacenti al Canale e vi sono non pochi timori circa possibili attività
militari. Eppure, il commercio statunitense attraverso il Canale non avrebbe
subito flessioni.
Gli aumenti dei prezzi per il passaggio delle
navi, fissati da una commissione locale, sono dovuti a ragioni esterne a una
possibile interferenza cinese:
da una parte, infatti, la siccità ha causato,
insieme a una riduzione dei livelli d'acqua, un calo del numero massimo di
transiti permessi sull'arco dell'anno; dall'altra, ancora, un nuovo sistema di
prenotazione impone multe per le navi che non rispettano la tabella di marcia.
“Cortizo”,
in questo senso, nell'intervista ha ricordato che Trump dispone di informazioni
sbagliate e, parallelamente, di averlo avvertito al riguardo già nel 2021.
Di
nuovo: «Il Canale è una questione che dovrebbe preoccuparci, c'è una relazione
storica con gli Stati Uniti».
Nel suo discorso di insediamento, Trump ha
detto che gli Stati Uniti hanno ceduto il canale in maniera «stupida» e,
appunto, che Washington ne riprenderà presto il controllo.
«Gli
Stati Uniti hanno perso 38 mila vite per costruire il Canale».
Fra le
motivazioni addotte dal tycoon, il fatto che le navi statunitensi sarebbero
state «maltrattate».
Attraverso
i citati pedaggi.
Detto
che anche l'attuale presidente di Panama,” José Raul Mulino”, ha chiuso la porta a Trump e a un
ipotetico controllo statunitense dello stretto («L'amministrazione del canale
di Panama continuerà a essere sotto il controllo panamense con una neutralità
permanente»),
Mosca
è intervenuta nella diatriba schierandosi più o meno apertamente con il Paese
centroamericano:
il
vice-ministro degli Esteri, “Sergei Ryabkov”, ha detto all'agenzia TASS di
aspettarsi che il governo panamense e Donald Trump «rispettino l'attuale regime
legale internazionale di questa via d'acqua fondamentale».
Una
via che deve rimanere «sicura e aperta».
“Newsroom
Panama”, portale in inglese che sta dedicando ampio spazio al Canale e alle
mire di Trump, si è spinto oltre.
Ricordando,
in primo luogo, che la via d'acqua panamense «è sempre stata gestita come un
servizio pubblico internazionale, con pedaggi che coprono a malapena i costi
operativi, per non parlare delle spese di costruzione iniziali».
E, in
secondo luogo, che i pedaggi sono limitati «da ciò che il mercato può
sopportare, tenendo conto delle alternative disponibili»:
Capo
Horn; i sistemi ferroviari transcontinentali roll-on/roll-off; il Canale di
Suez. Di più, Trump
«ignora che il Canale di Panama originale è
stato sostituito da un nuovo, più grande canale costruito da ingegneri e
capitali stranieri, con Panama che deve far fronte a decenni di pesanti debiti
con i suoi creditori».
Il
sentimento, visto da Panama, è che Trump – pur non escludendo l'uso della forza
militare – stia «solo» cercando di mettere pressione sul governo panamense.
Per ottenere condizioni migliori.
Detto
che, trattati alla mano, Washington non potrebbe intervenire anche a fronte di
eventuali o conclamati «abusi panamensi», il neo-presidente degli Stati Uniti
può certamente esercitare una forte influenza.
Anche, se caso, minacciando di uscire
dall'accordo di promozione commerciale fra Panama e Stati Uniti.
Ancora”
Newsroom Panama”:
«Il Canale fa pagare le navi statunitensi più
di altre? No.
Il
Canale fa pagare la Marina degli Stati Uniti di più? No.
In realtà, le navi da guerra statunitensi
ricevono un passaggio accelerato.
Agli Stati Uniti non viene fatto pagare di più
rispetto ad altri Paesi:
un
trattato è un trattato.
Gli
Stati Uniti hanno legalmente firmato la cessione del Canale a Panama.
Dal
Canale possono ora passare navi da 4 mila a 12 mila tonnellate, grazie
all'espansione da 7 miliardi di dollari realizzata da Panama senza l'assistenza
finanziaria degli Stati Uniti».
Trump
propone l’espulsione
dei
palestinesi da Gaza.
Internazionale.it
– (27.1.2025) - Pierre Haski - France Inter – Francia – ci dice:
Nel
fine settimana Donald Trump ha proposto, nella sorpresa generale, di trasferire
la maggior parte dei palestinesi della Striscia di Gaza nei paesi arabi della
regione, in particolare in Egitto e Giordania.
Il
presidente degli Stati Uniti ne ha addirittura parlato con i due capi di stato
coinvolti, il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi e il re di Giordania
Abdallah II.
Come
prevedibile, la proposta è stata subito applaudita dai due leader dell’estrema
destra israeliana, il ministro dell’economia “Bezalel Smotrich “e l’ex ministro
della sicurezza” Itamar Ben Gvir”, dimessosi recentemente per protestare contro
l’accordo per un cessate il fuoco a Gaza.
I due non solo approvano l’iniziativa, ma
chiedono l’espulsione dei palestinesi già da tempo.
La
prima guerra fascista di Israele.
Il
fatto che una proposta simile sia sostenuta dall’estrema destra israeliana,
favorevole alla ricolonizzazione di Gaza e all’annessione della Cisgiordania,
non è affatto sorprendente.
Meno
prevedibile era che ad avanzarla fosse il leader della prima potenza mondiale.
Ovviamente
un trasferimento forzato sarebbe un crimine di guerra e un atto di pulizia
etnica, oltre che un’idea giuridicamente, politicamente e moralmente
insostenibile.
Perché
Trump ha compiuto questo passo clamoroso?
Il presidente americano ha appena ottenuto un
grande successo diplomatico con il cessate il fuoco concluso tra Israele e
Hamas, che ha permesso la liberazione dei primi ostaggi da oltre 12 mesi.
Questo, però, significa anche che è coinvolto
in un processo complesso.
Nel fine settimana sono arrivati i primi
ostacoli, quando le due parti si sono accusate a vicenda di non aver rispettato
i termini del cessate il fuoco.
Da
dove viene questa proposta, che senza dubbio susciterà le proteste dei
palestinesi e del mondo arabo?
L’idea è presentata come un atto di buon
senso:
la
Striscia di Gaza è distrutta, dunque è giusto costruire nuove case per i
palestinesi (altrove) e permettergli di vivere in pace.
È il
genere di ragionamento che circola negli ambienti dell’estrema destra in
Israele, e a quanto pare anche nell’entourage del nuovo presidente statunitense.
La
tregua non fermerà Israele.
Per i
palestinesi la proposta di Trump è sconvolgente, anche perché riporta alla
memoria un trauma storico, quello della “Nakba” (dall’arabo, la “catastrofe”)
del 1948, quando i loro antenati furono costretti alla fuga dall’esercito del
nuovo stato ebraico.
Un
evento documentato e raccontato da molti storici israeliani, da “Ilan Pappé” a “Benny
Morris” e a “Tom Segev”.
I due terzi dei 2,4 milioni di palestinesi di
Gaza discendono dai profughi del 1948, dunque sanno bene cosa sia l’esodo.
La
proposta è anche un errore per l’effetto deleterio che potrebbe avere sul
processo di scambio tra ostaggi e prigionieri.
Se il
dopoguerra porterà davvero un esodo forzato al posto di una soluzione politica,
è ovvio che i palestinesi non hanno alcun interesse a rispettare un accordo di
cui la seconda fase deve ancora essere negoziata.
Tra
l’altro l’idea è assolutamente inaccettabile per l’Egitto e la Giordania, che
non vogliono accollarsi il fardello dei rifugiati che potrebbero riversarsi nei
due paesi, rischiando di destabilizzarli.
Oggi
non esiste un solo leader arabo che sia nelle condizioni di avallare
l’espulsione dei palestinesi dalle loro terre, neanche il principe ereditario
saudita “Mohammed Bin Salman”, che nei piani di Trump dovrebbe spingere “Riyadh”
verso gli accordi di Abramo con Israele.
Ma il
principe non può assumersi questo rischio.
Volendo
essere generosi possiamo immaginare che il presidente statunitense si sia fatto
suggerire un’idea pessima e senza futuro, che si perderà nel caos delle sue
iniziative.
Ma se
davvero Trump crede a quello che dice ed è pronto a passare dalle parole ai
fatti, sarà l’ennesimo segnale inquietante dell’avvento di un mondo basato
sulla legge del più forte.
E l’Europa, per quanto la sua voce sia ormai
quasi inaudibile, deve assolutamente opporsi.
Il
passo falso di Trump
in
Ucraina.
Corriere.it
- Paolo Mieli – (26 gennaio 2025) – ci dice:
Aveva
promesso di risolvere il caso in due giorni.
E invece
si complica. La mano tesa ai russi ha ottenuto da Mosca risposte di sprezzante
irrisione.
L’Ucraina
si sta rivelando come il primo, plateale passo falso commesso da Donald Trump.
Non
già (soltanto) per la promessa non mantenuta di risolvere la questione in
quarantott’ore.
Il mondo intero è sempre stato consapevole del
fatto che quelle parole, pronunciate nel corso della campagna elettorale, erano
niente di più di una spacconata e che, per restituire la pace a Kiev, non
saranno sufficienti né quarantott’ore, né quarantotto giorni.
È un passo falso per la sua immagine.
Per il
fatto che la sua mano tesa ai russi ha ottenuto da Mosca risposte di sprezzante
irrisione.
Nella
prima settimana della sua «seconda volta» alla Casa Bianca, ha scritto “Dmitrij
Medvedev”, vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo, Trump «ha cercato
di confondere il mondo intero».
La Russia, però, secondo Medvedev, non si
lascia ingannare.
Non si
possono poi trascurare i toni usati dal consigliere di Putin, “Dmitrij Suslov”,
nell’intervista concessa a “Paolo Valentino” per le pagine di questo giornale.
Dopo
aver riconosciuto a Trump il «merito» di non essere intenzionato a perseguire
la «sconfitta militare russa» e di aver accettato la ripresa di una «diplomazia
diretta» — cioè, senza intermediari europei — “Suslov” ha messo in chiaro che
l’Ucraina deve rimanere «militarmente debole», «genuinamente neutrale», una
«zona cuscinetto» priva di «partnership, forniture d’armi», a cui non deve
essere consentita la partecipazione a «manovre militari congiunte».
Quanto
alle forze straniere di interposizione tra la parte d’Ucraina annessa
militarmente dalla Russia e quel che resterà del Paese, non se ne parla
nemmeno.
Saranno
sufficienti «garanzie scritte».
Come
quelle del passato.
Zelensky
non deve essere ammesso al negoziato.
Putin si siederà a un tavolo per ratificare la
capitolazione del governo di Kiev solo dopo che in Ucraina si saranno tenute
nuove elezioni e ci sarà un «nuovo governo» con un «nuovo presidente».
Altrimenti?
Nel
caso queste condizioni non siano accettate, «la guerra continuerà» fino al
giorno in cui «la stessa esistenza dell’Ucraina sarà messa in discussione».
Più
chiaro di così?
Qualcuno
penserà che anche quelle dei russi siano spacconate del tipo di quelle di cui
si è detto all’inizio.
Ma è
un errore. I «consiglieri» del Cremlino pronunciano parole del genere (e con
questa brutalità) perché sanno che in linea di massima esse sono condivise non
solo da Putin ma anche da Trump.
Quello
stesso Trump che con modalità non dissimili impostò e portò a termine i
«negoziati» che fecero da premessa al ritiro del contingente internazionale
dall’Afghanistan.
Quell’umiliante
rotta dell’agosto 2021 che poi si ritorse contro Biden prima ancora che contro
l’immagine degli Stati Uniti.
Con un
ritorno dei talebani a Kabul in modalità che, da allora, costringono il mondo
intero a voltarsi dall’altra parte.
Per
non dover, quantomeno quelli che si impegnarono nella ventennale impresa,
prender atto di uno dei più clamorosi fallimenti che mai la storia abbia
registrato. Fallimento solo degli Stati Uniti?
Inutile
qui soffermarci sulle performance di un’Europa che fu lesta a mettere quel
catastrofico ritiro nel conto di Biden.
Ed è,
ora, sostanzialmente afona al cospetto di quel che si produce tra Trump e Putin
nella «ricerca congiunta della pace» in Ucraina.
Tale è
ancora lo choc per il ritorno del magnate alla guida degli Stati Uniti, che i
grandi Paesi europei si guardano bene dal prendere impegni che possano farli
entrare in rotta di collisione con gli enunciati di “Medvedev” e di “Suslov”.
Ma una
collisione si verificherà e sarà tra loro.
Soprattutto
con quei Paesi europei che sempre più apertamente sostengono trattative
impostate in questo modo.
E con
quelli che un’afonia del genere non se la possono consentire.
Ieri
il “Financial Times” ha riferito che alcuni diplomatici Usa avrebbero richiesto
una esenzione dell’Ucraina dal congelamento dell’invio di armi all’estero
(eccezion fatta per Egitto e Israele) annunciato dal segretario di Stato “Rubio”.
Ma
anche se Rubio decidesse di correre ai ripari e raccogliesse la sollecitazione
dei diplomatici, quella «dimenticanza» non può passare inosservata.
È
stato un primo segnale di cedimento.
Che
Trump ha cercato di occultare dicendosi felice del fatto che Putin ha accettato
di parlare con lui.
Surreale.
Se
potessimo osservare tutto ciò da lontano, come se non ci riguardasse, potremmo
dire che si va profilando una straordinaria nemesi.
Come
Biden nel ’21 compromise la sua immagine raccogliendo l’eredità di Trump,
adesso Trump non uscirà rinforzato dal modo in cui sarà obbligato a gestire
quel che gli ha lasciato Biden.
Peccato
solo che saremo noi europei (oltre all’Ucraina, ovviamente) a dover pagare la
parte più cospicua del conto di questa duplice disfatta.
E
questa sarà una nota che allieterà il nuovo presidente degli Stati Uniti.
Ma
sarà l’unica.
Quali
risultati hanno ottenuto
finora i dazi di Trump e Biden.
Forbes.it – (27 – 01 – 2025) - Tommaso
Carboni – ci dice:
Per
Donald Trump, ‘dazi’ è la parola più bella del mondo.
Ha
promesso di alzarli contro Canada, Messico, Unione europea e Cina.
Vuole
raggiungere almeno tre obiettivi contemporaneamente:
il
rilancio della manifattura, la riduzione del deficit commerciale e l’accumulo
di grandi entrate finanziarie per il governo.
Trump
e i suoi sostenitori usano spesso come modello la fine del XIX secolo, un
periodo d’oro per la crescita americana, ottenuto, secondo loro, proprio grazie
a dazi molto alti.
Ma
altri analisti dicono che in quegli anni l’America crebbe per altri motivi, ad
esempio il successo di industrie non esposte al commercio estero.
Che
cosa si può dire dei dazi di oggi?
Biden
non solo ha tenuto quelli messi da Trump nel primo mandato, in alcuni casi li
ha anche aumentati.
Con
quale risultato?
Il
primo dato di fatto è che la manifattura americana non sta decollando.
La sua
quota nell’occupazione è calata da quando Trump ha introdotto i primi dazi. È
vero che alcuni settori si sono avvantaggiati, come acciaio e alluminio, che
sono stati protetti dall’export di Canada e Ue;
ma è
successo a discapito di tante aziende, sempre statunitensi, che hanno pagato
prezzi più cari per le loro materie prime.
Insomma,
il vantaggio di pochi si è tradotto nel danno di altri.
C’è però un ambito in cui la politica
industriale protezionista sembra dare i suoi frutti: quello dei semiconduttori.
In
questo caso ai dazi (contro le importazioni dalla Cina) si sono aggiunti forti
incentivi a produrre negli Usa.
Il
governo americano ha iniettato 40 miliardi di dollari di sussidi per
l’industria dei chip.
E i risultati, in effetti, si vedono.
Il “Chips Act” di Joe Biden ha catalizzato
grandi investimenti nei semiconduttori, molto maggiori dei 40 miliardi
iniziali, con aziende come “Tsmc”, “Intel” e “Samsung “che stanno costruendo
impianti negli Stati Uniti.
Il
pericolo di una guerra commerciale.
I dazi
però non sono serviti a riequilibrare la bilancia dei pagamenti, un’altra
fissazione di Trump.
Il
saldo negativo, per lui, è sinonimo di paese debole che si fa rapinare.
Idea
bizzarra: grandi esportatori come Cina e Germania oggi sono in difficoltà,
malgrado le bilance commerciali positive.
Al
confronto l’America attraversa una fase brillante.
La sua
economia cresce bene, l’inflazione è tenuta ormai sotto controllo.
Il
deficit commerciale però è a livelli record: 310,9 miliardi di dollari, pari al
4,2% del Pil.
Come
mai?
La globalizzazione trova vie alternative in un
mondo più complesso di quello del XIX secolo.
Gli
americani hanno importato meno dalla Cina, ma comprato di più da altri paesi.
Per aggirare i dazi, molte aziende hanno spostato le catene di
approvvigionamento in Sud-Est asiatico (Vietnam, Malesia) e in Messico, che
sono diventati nuovi centri di assemblaggio, usando però anche componenti
cinesi.
Ma il problema non è tanto questo.
Dazi
indiscriminati potrebbero scatenare una guerra commerciale, se altri paesi
reagissero aumentando a loro volta le tariffe.
A quel punto verrebbe colpito anche l’export
dell’America, danneggiandone l’economia.
Il
rapporto fra Trump e l’Europa.
La
speranza è che Trump capisca i rischi dei dazi e li usi più che altro come
strumento per avviare trattative.
“Scott
Bessent”, messo a capo del dipartimento del Tesoro, non è un fanatico del
protezionismo, la sua ricetta è tagli delle tasse e deregulation.
Nel
frattempo, a Davos, Trump ha minacciato l’Europa con nuove tariffe,
lamentandosi di due cose:
lo
squilibrio commerciale e le spese militari ancora carenti.
Potrebbe
andargli bene un compromesso:
niente
tariffe a patto che l’Europa compri più prodotti americani.
Questo
ci riguarda molto da vicino perché l’Italia, dopo la Germania, è il principale
esportatore europeo negli Stati Uniti.
Roma e
Berlino fanno insieme gran parte del deficit commerciale degli Usa con la zona
euro, con rispettivamente un surplus attorno a 40 e 85 miliardi.
Sono
quindi i due paesi più esposti a un aumento dei dazi.
Giorgia
Meloni, visto il buon rapporto con Trump, potrebbe provare a trattare da sola.
Ma
forse sarebbe un errore perché in ordine sparso i paesi europei sono più
deboli, e l’Italia ha comunque bisogno dell’Unione europea.
Meglio
un piano comune.
Peraltro
ci sono prodotti di cui abbiamo bisogno, come il gas naturale liquefatto e più
investimenti nella difesa.
Cos’è
Stargate, il progetto da 500 miliardi
di
dollari che divide Trump e Musk.
Forbes.it
- La redazione di Forbes – (23-01-2025) – ci dice:
Donald
Trump ha presentato “Project Stargate”, un’iniziativa colossale che punta a
rivoluzionare il panorama tecnologico globale.
Il progetto coinvolge “OpenAI”, “Oracle”,
S”oftbank” e il fondo emiratino “Mgx”, con un impegno economico straordinario:
500
miliardi di dollari, destinati a creare un’infrastruttura senza precedenti per
la creazione di data center e infrastrutture di calcolo avanzate, necessarie a
garantire la leadership americana nell’intelligenza artificiale.
L’obiettivo?
Garantire
la supremazia americana nel settore e rilanciare l’occupazione, con la promessa
di 100.000 nuovi posti di lavoro a breve termine.
Elon Musk però non sembra convinto del
progetto e ha criticato apertamente Donald Trump per questo annuncio.
Aspetti
principali.
Durante
l’annuncio, Trump ha descritto Stargate un’impresa “monumentale” e una
“dichiarazione di fiducia verso il potenziale americano”.
Come
si legge su Forbes, il progetto prevede un investimento iniziale di 100
miliardi di dollari, che saliranno a 500 miliardi nei prossimi quattro anni.
Come
spiega “OpenAI” in una nota, queste infrastrutture garantiranno la leadership
americana nell’intelligenza artificiale, creeranno centinaia di migliaia di
posti di lavoro negli Stati Uniti e genereranno enormi benefici economici per
l’intero mondo.
Il
progetto non solo sosterrà la reindustrializzazione degli Stati Uniti, ma
fornirà anche una capacità strategica per proteggere la sicurezza nazionale
dell’America e dei suoi alleati.
Accanto
a Trump, durante la conferenza stampa, c’erano “Sam Altman” (ceo di OpenAI),”
Larry Ellison” (presidente di Oracle) e “Masayoshi Son” (ceo di SoftBank).
Oltre
ai principali finanziatori, “Microsoft”, “Nvidia” e “Arm” si sono uniti come
partner tecnici, rafforzando la portata strategica del progetto.
I
lavori sono già iniziati in Texas e si prevede un’espansione su scala
nazionale, ma il consumo energetico richiesto solleva interrogativi.
Trump
ha già firmato ordini esecutivi per dichiarare l’”emergenza energetica
nazionale”, garantendo una produzione adeguata a sostenere Stargate e altre
iniziative.
Le
critiche di Musk.
Musk,
tramite la sua piattaforma “X”, ha messo in dubbio la solidità economica del
progetto.
L’uomo
più ricco del mondo ha affermato che “non hanno davvero i soldi” e ha sostenuto
di avere fonti affidabili secondo cui “Soft Bank” dispone di meno di 10
miliardi garantiti.
Una fonte vicina al progetto ha smentito
queste dichiarazioni, affermando che i 100 miliardi iniziali sono già
disponibili tramite fondi dei soci fondatori, investitori esterni e operazioni
di raccolta debiti.
Altman
ha replicato a Musk dicendo che “ciò che è buono per il Paese non sempre
coincide con ciò che è ottimale per le tue aziende”.
Ha
inoltre auspicato che Musk, nel suo ruolo di consulente di Trump, metta
l’interesse degli Stati Uniti al primo posto.
Musk ha poi rincarato la dose, definendo”
Stargate” un progetto “falso” e accusando” Altman “di essere un “truffatore”.
Sorprendentemente,
Musk ha criticato Stargate nonostante il coinvolgimento di “Larry Ellison”, suo
stretto alleato e mentore.
“Ellison”
aveva recentemente definito Musk un amico, e Musk aveva elogiato pubblicamente
il ruolo di Ellison.
La
reazione.
Nel
frattempo, l’annuncio di Stargate ha avuto effetti positivi sul mercato: “Soft Bank”
ha visto le sue azioni salire dell’11% a “Tokyo”, “Oracle” del 7%, e i partner
tecnologici “Nvidia” e “Arm Holdings” hanno registrato aumenti del 5% e del
15%.
Made
in Vietnam sarà il nuovo Made
in
China: perché il paese trarrà
vantaggio
dai dazi di Trump.
Forbes.it
- La redazione di Forbes – 22-11-2024 – ci dice:
Il
presidente eletto Donald Trump afferma che il suo piano di imporre pesanti
tariffe sui beni importati negli Stati Uniti ridurrà il deficit federale,
abbasserà i prezzi dei prodotti alimentari e creerà più posti di lavoro in
patria.
In
campagna elettorale, a Savannah (Ga), ha giurato di “trasferire intere
industrie” negli Stati Uniti:
“Vedrete
un esodo di massa di industrie manifatturiere dalla Cina alla Pennsylvania,
dalla Corea alla Carolina del Nord, dalla Germania proprio qui in Georgia”, ha
detto a settembre.
Ma è improbabile che questo “reshoring” si
verifichi, certamente non alla scala e alla velocità volute da Trump, se mai si
verificherà.
Ci si
aspetta invece di vedere un paese come principale beneficiario delle politiche
di Trump: Il Vietnam.
“Se
prima era prodotto in Cina, ora sarà prodotto in Vietnam”, ha dichiarato a
Forbes “Jason Miller”, professore di gestione della catena di
approvvigionamento presso la Michigan State University.
“La
produzione non tornerà in America”.
Durante
la precedente amministrazione Trump, le principali aziende straniere, tra cui “Apple”,
“Foxconn” e “Intel”, hanno iniziato a puntare sul Vietnam per diversificare il
loro portafoglio di produzione.
Solo
due mesi fa, anche “SpaceX” ha annunciato un investimento di 1,5 miliardi di
dollari in Vietnam.
Anche
l’Organizzazione Trump sta investendo nel Paese, con un’operazione immobiliare
di lusso da 1,5 miliardi di dollari recentemente annunciata.
Quali
vantaggi può offrire il Vietnam?
Ora la
nazione del sud-est asiatico è ben posizionata per beneficiare ancora di più
del previsto sentimento anti-cinese della prossima amministrazione, soprattutto
se si muoverà rapidamente per snellire la regolamentazione in modo che le
imprese possano trasferirsi rapidamente.
Il
Vietnam ha una serie di vantaggi rispetto ad altri rivali regionali come
l’India.
In primo luogo, essendo uno Stato autoritario
a partito unico, può e riesce a definire rapidamente nuove politiche favorevoli
alle imprese.
Inoltre, il Paese è geograficamente ben
posizionato:
ha già tre dei 50 porti più trafficati al
mondo ed è vicino alla Cina, il che rende più facile il commercio e la
logistica tra i due Paesi.
Inoltre,
il Vietnam ha un accordo di libero scambio con l’Unione Europea – l’unico altro
Paese della regione, oltre a Singapore, ad averne uno.
L’India sta attualmente negoziando un accordo
di questo tipo, che faciliterebbe le importazioni e le esportazioni tra l’UE e
il Paese più popoloso del mondo.
Il
Vietnam si sta inoltre muovendo rapidamente per migliorare le infrastrutture
necessarie a supportare i grandi progetti, come il nuovo decreto emanato
all’inizio di quest’anno che consente alle aziende di acquistare energia verde
dai produttori di energia solare, anziché rivolgersi alla tradizionale società
elettrica statale.
La
mossa, che rende più facile per le aziende raggiungere i loro obiettivi
climatici, è stata applaudita da “Apple”, “Samsung”, il più grande investitore
straniero del Paese, e dall’ambasciata degli Stati Uniti ad Hanoi.
I dazi
di Trump.
Negli
ultimi mesi, Trump ha ripetutamente affermato di voler promuovere l’industria
manifatturiera americana e rendere più costosa l’importazione di beni prodotti
all’estero.
Ha
citato il Messico e la Cina, dichiarando all’inizio di questo mese che avrebbe
implementato tariffe tra il 25% e il 100% sui prodotti fabbricati a sud del
confine.
In
precedenza, aveva detto che i prodotti fabbricati in Cina avrebbero dovuto
essere colpiti con una tariffa del 60%, mentre tutto ciò che è prodotto
all’estero avrebbe dovuto essere sottoposto a una tariffa generalizzata del
20%, compreso il Vietnam.
Ma il
Paese vede chiaramente un’opportunità di crescita.
Il
flusso di capitali stranieri.
“Il
Vietnam potrebbe avere un lieve successo o un enorme successo a seconda di come
faciliterà questa ondata di investimenti diretti esteri”, ha dichiarato a
Forbes “Anh Ngoc Tran,” professore di governance presso l’”Indiana University”
ed ex consigliere del primo ministro vietnamita.
“Tran”
ha dichiarato che sta preparando un promemoria per Hanoi su come il suo Paese
possa trarre vantaggio da queste nuove e severe regole commerciali, dato che il
Vietnam scommette che un enorme afflusso di capitali stranieri lo aiuterà a
trasformarsi in un Paese sviluppato e ad alto reddito entro il 2045.
In
cima alla lista di “Tran” c’è l’obiettivo di puntare sulle multinazionali che
porteranno il loro ecosistema di fornitori e di concentrarsi su beni di valore
superiore.
“Il
Vietnam dovrebbe dare priorità alle aziende che porteranno altre aziende in
Vietnam”, ha affermato.
“Se si
porta Apple, ci sono molti altri fornitori che vogliono essere vicini ad Apple
– aziende che permettono al Vietnam di muoversi in un settore più high-tech.
Invece
di occuparsi di calzature e tessuti, il paese dovrebbe puntare alla
biotecnologia, all’intelligenza artificiale e ai semiconduttori”.
Dalle
calzature ai prodotti di elettronica.
Si
tratta di un cambiamento rispetto alle sue radici di potenza manifatturiera del
sud-est asiatico.
Il Paese si è fatto conoscere negli anni ’90
per la produzione di calzature e tessuti per multinazionali straniere come “Nike”
e “Adidas”.
Ma a
partire dagli anni 2000, le principali aziende di elettronica hanno iniziato a lasciare la Cina per approfittare dei
costi di manodopera più bassi e degli accordi commerciali favorevoli in Vietnam.
“Samsung
“ha aperto il suo primo impianto di produzione nel 2008 e altre grandi
multinazionali, tra cui “LG” e “Intel,” hanno rapidamente seguito l’esempio.
Questa
ondata di accordi multimiliardari ha spinto anche i piccoli fornitori di queste
grandi aziende a stabilirsi nel Paese.
Di
conseguenza, il deficit commerciale del Vietnam con gli Stati Uniti – la
differenza tra le esportazioni e le importazioni – è triplicato dal 2004.
Secondo
l’Ufficio del censimento degli Stati Uniti, il Vietnam ha ora il quarto più
grande deficit commerciale con gli Stati Uniti, dopo Cina, Messico e Unione
Europea.
L’arrivo
di “Apple”.
Quando
nel 2018 la prima amministrazione Trump ha imposto tariffe su specifici beni
prodotti in Cina, come pannelli solari e lavatrici, non ha invogliato le
aziende a riportare la produzione in patria.
Al
contrario, la produzione si è spostata in Vietnam e in altri Paesi asiatici,
tra cui Thailandia, Malesia e India.
Ma il Pil del Vietnam è cresciuto più
velocemente di tutti i suoi vicini asiatici, ad eccezione della Cina, con una
crescita media del 6,2% all’anno.
Nel
maggio 2020,” Apple” ha iniziato a spostare la produzione degli “Air Pod” dalla
Cina al Vietnam.
Mesi dopo, “Foxconn” avrebbe iniziato a
spostare parte dell’assemblaggio di” iPad e “MacBook” dalla Cina al Vietnam, su
richiesta di “Apple”, che ha anche spostato parte della produzione in” India”.
Le
statistiche della Commissione per il Commercio Internazionale degli Stati Uniti
mostrano inoltre che tra il 2018 e il 2019 le importazioni di prodotti
elettronici dal Vietnam sono quasi raddoppiate.
Un
rapporto della Banca Mondiale del 2023 ha rilevato che tra il 2017 e il 2022,
la quantità di articoli di produzione cinese, dalle macchine da cucire alle
stampanti laser, importati negli Stati Uniti è diminuita, mentre la quota di
articoli di produzione vietnamita è aumentata a tassi corrispondenti.
La
crescita dell’economia delle esportazioni.
Il
Vietnam ha chiaramente colto l’opportunità.
È “uno
dei Paesi che è riuscito a trarre vantaggio dai dazi Usa-Cina, in termini di
possibilità di entrare negli Stati Uniti, almeno nei primi anni della guerra
commerciale”, ha dichiarato a Forbes “Pablo Fajgelbaum”, professore di economia
presso l’”Università della California”, Los Angeles.
Questo
ha fatto crescere l’intera economia delle esportazioni del Paese, poiché gli
impianti si sono spostati in Vietnam, producendo beni destinati non solo ai
consumatori statunitensi.
“Il Vietnam ha aumentato le sue esportazioni
anche verso il resto del mondo”, ha detto “Fajgelbaum”.
Il professore prevede che se ci sarà un
divario di tariffe tra il Vietnam e la Cina, le aziende continueranno a
trasferire i loro impianti lì.
Di
recente, “Maersk” ha annunciato alla fine del mese scorso di aver aperto il suo
primo magazzino doganale nel nord del Vietnam – una struttura in cui le merci
possono essere immagazzinate prima di pagare dazi o tariffe – nella regione del
porto di Haiphong, e ha annunciato che “Amazon Vietnam” sarà il suo primo
cliente.
Anche”
Lego”, l’azienda danese produttrice di giocattoli iconici, ha dichiarato
all’inizio del mese che il suo nuovo stabilimento da 1 miliardo di dollari a”
Binh Duong” era quasi completato e sarebbe entrato in funzione all’inizio del
prossimo anno.
Gli
investimenti della famiglia Trump in Vietnam.
Il
Vietnam si è anche avvicinato a Trump stesso.
All’inizio
di ottobre, “Eric Trump”, figlio del presidente eletto e vicepresidente
esecutivo della “Trump Organization”, ha annunciato lo sviluppo di un progetto
da 1,5 miliardi di dollari che comprenderà hotel a cinque stelle e campi da
golf in una provincia fuori “Hanoi”.
“Il
Vietnam ha un potenziale enorme per l’ospitalità e l’intrattenimento di lusso,
e siamo entusiasti di lavorare con questa straordinaria famiglia per ridefinire
il lusso nella regione”, ha dichiarato il giovane Trump in un comunicato
dell’epoca, riferendosi ai partner vietnamiti della società.
L’interesse
degli investitori nazionali.
Anche
gli investitori nazionali vedono grandi opportunità.
“Michael
Kokalari”, capo economista di “Vina Capital”, una delle maggiori società di
investimento nel Paese, con 3,7 miliardi di dollari in gestione, ha dichiarato
a Forbes di ritenere che tutte queste tendenze creeranno una domanda per le
aziende di logistica e di energia pulita e contribuiranno alla crescita della
classe media in Vietnam.
“Gran
parte delle nostre attività di investimento presso “Vina Capital “si
concentrano su società che beneficiano direttamente o indirettamente della
crescita della classe media”, ha dichiarato.
Così
come un tempo le aziende spostavano la produzione in Cina, i dazi di Trump non
faranno altro che accelerare il trasferimento in Vietnam.
In ogni caso, la nave nazionale è salpata.
Trump
promette nuove tariffe su Cina,
Messico
e Canada dopo
il suo
insediamento.
Forbes.it
- La redazione di Forbes – (26-11-2024) - ci dice:
Il
presidente eletto Donald Trump ha annunciato che, una volta entrato in carica,
imporrà tariffe sulle importazioni da Cina, Messico e Canada, dando seguito
alle promesse fatte in campagna elettorale di istituire dazi sui beni prodotti
all’estero che, secondo molti economisti, porteranno a un aumento dei prezzi.
Aspetti
principali.
Trump
ha dichiarato che imporrà tariffe del 25% su tutti i prodotti provenienti da
Messico e Canada come uno dei suoi primi ordini esecutivi, dando la colpa alla
droga e all’immigrazione non autorizzata, aggiungendo che le tariffe rimarranno
in vigore “fino a quando la droga, in particolare il “Fentanyl,” e tutti gli
stranieri illegali non fermeranno questa invasione del Paese”.
Il
presidente eletto ha annunciato anche tariffe del 10% sui beni cinesi “al di
sopra di qualsiasi altra tariffa”, citando il farmaco “fentanyl “di produzione
cinese.
Trump
si è schierato a favore delle tariffe durante la campagna elettorale di
quest’anno, sostenendo che avrebbero spinto le aziende a portare la produzione
negli Stati Uniti e a ridurre il deficit federale.
I
contro.
Gli
esperti hanno detto che le tariffe aumenteranno i prezzi per i consumatori, con
gli economisti di “Goldman Sachs” che prevedono un aumento dello 0,1% dei
prezzi dei beni di consumo per ogni aumento percentuale del tasso effettivo di
tariffa, oltre all’aumento dell’inflazione.
Sullo
sfondo.
Trump
ha aumentato le tariffe durante la sua prima presidenza, scatenando una guerra
commerciale con la Cina dopo aver imposto tariffe su importazioni cinesi per
200 miliardi di dollari.
In
campagna elettorale, il tycoon ha promesso tariffe ancora più severe,
proponendo dazi generalizzati del 10% sui beni importati o del 60% per i beni
cinesi, rispetto a una media rispettivamente dell’1% e dell’11%, secondo il “Wall
Street Journal”.
Il
presidente eletto ha sostenuto che le tariffe potrebbero proteggere i posti di
lavoro americani e non costituirebbero un costo per i consumatori, nonostante i
risultati contrastanti degli economisti.
Le
tariffe sono considerate un mezzo per spingere i consumatori ad acquistare
prodotti nazionali piuttosto che esteri, anche se gli economisti ritengono che
potrebbero rallentare la crescita economica e che molti dei costi aggiunti
verrebbero probabilmente trasferiti ai consumatori.
“John
David Rainey,” direttore finanziario di “Walmart”, ha dichiarato questo mese
alla “Cnbc “che le tariffe “sono inflazionistiche per i clienti” e che
“probabilmente” porteranno a un aumento dei prezzi, sottolineando che l’azienda
“lavorerà con i fornitori e con il nostro assortimento di marchi privati per
cercare di ridurre i prezzi” in caso di aumento delle tariffe.
Anche
i costi del gas potrebbero aumentare con l’impennata delle tariffe, dato che
quasi un quarto della benzina raffinata negli Stati Uniti proviene da petrolio
canadese importato.
Fatti
sorprendenti.
Un
tempo, alla fine del XVIII secolo, la tassa sulle importazioni/esportazioni
rappresentava una quota massiccia delle entrate del governo.
Da oltre 75 anni le tariffe rappresentano meno
dell’1% delle entrate federali totali.
In passato, Trump ha proposto di sostituire le
imposte sul reddito con le tariffe.
La
Catastrofe della Sinistra.
Conoscenzealconfine.it
– (27 Gennaio 2025) - Mario Adinolfi – ci dice:
La
catastrofe della sinistra è tutta oggi nella sua crisi identitaria.
Per
decenni nel Novecento la sinistra ha gestito il presente indicando la
prospettiva rivoluzionaria, il “sol dell’avvenire”.
Tramontato il sogno comunista nel 1989, uccisa
ogni idea collettivista, la sinistra si è fatta progressivamente sempre più
individualista.
Nel
XXI secolo ha scelto l’ideologia dei “nuovi diritti” abortisti e lgbt come
tratto caratterizzante, il fiancheggiamento di alcune minoranze e in
particolare degli immigrati irregolari.
Un mix
letale che ha allontanato la sinistra dai bisogni reali dei ceti popolari
medio-bassi, che ovunque nel mondo si sono trasferiti in massa a votare opzioni
opposte, populiste e nazionaliste.
Senza
l’appoggio dei ceti popolari la sinistra non ha senso, diventa establishment e
difesa dei privilegi, roba per garantiti dalla mangiatoia pubblica più attori,
giornalisti, registi e cantanti tutti obbligatoriamente sfilanti sui carri
arcobaleno del Pride.
Davanti
all’evidente vitalità delle destre, la sinistra appare incartapecorita a voler
imporre auto elettriche da quarantamila euro e veganesimo come massima idea di
futuro.
Arriva
Trump e cancella la parola “genere” per sostituirla nei documenti pubblici con
il caro vecchio “sesso”, e la sinistra non sa neanche come replicare.
Tutta
la paccottiglia degli ultimi vent’anni, i 58 diversi generi d’appartenenza tra
cui Facebook ci obbligava a scegliere, diventano improvvisamente persino
ridicoli.
Le
battaglie per i tampax nei cessi maschili si rivelano per quel che sono sempre
state: inconsistenza allo stato puro.
Auguro
alla sinistra di risvegliarsi dal sonno che ha generato i suoi mostri e di
tornare a difendere i veri bisognosi:
i ragazzi e le ragazze che hanno come
necessità prevalente non quella di cambiare sesso, ma di trovare una casa in
affitto a prezzi ragionevoli e un lavoro per cominciare la propria vita;
la famiglia, magari monoreddito, con figli a
carico che fatica ad arrivare alla fine del mese, e si sente minacciata da
droghe e microcriminalità spesso collegate al mondo degli immigrati irregolari
di cui non si vuole ammettere (e quindi reprimere) la tendenza a delinquere;
anziani,
disabili e sofferenti cui viene proposto più il “nuovo diritto” a suicidarsi
che a essere decentemente curati nelle strutture pubbliche di cui si difendono
sprechi indecenti;
le donne che vogliono il diritto ad essere
madri senza essere soverchiate dalla relativa fatica, altro che aborto;
i non garantiti che hanno bisogno di una
fiscalità più leggera e costi generali non appesantiti da un ambientalismo di
maniera che viene fatto tutto pagare a chi si ritroverà a dover ristrutturare
casa, pagare bollette, cambiare modo di mangiare e di muoversi, secondo regole
green che uccideranno il ceto medio.
Credo
che la sinistra sia vecchia, incartapecorita, incatenata in una piattaforma
politica individualista che sta sbagliando tutto e non sa indicare un’idea di
futuro in cui i più deboli possano pensare di migliorare la loro condizione.
I deboli sanno che se la sinistra vince,
staranno peggio.
Per questo non la votano più.
E i deboli ormai sono una moltitudine, la
stragrande maggioranza, ma la sinistra si appassiona solo alle minoranze.
In
Italia nel 2023 si sono celebrati 184.207 matrimoni tradizionali tra uomo e
donna, 3.071 unioni civili tra persone dello stesso sesso, il rapporto è 61 a
1.
Ma per
la sinistra la famiglia costituzionalmente intesa (per l’articolo 29 è “società
naturale fondata sul matrimonio”) è un territorio del patriarcato
pericolosamente abusante, il nuovo “sol dell’avvenire” è l’unione queer o lgbt:
le “famiglie arcobaleno” – cioè contesti gay in cui sono associati minori
sempre nati da procedure illegali – sono a star larghi diecimila (gli iscritti
alla relativa potente associazione sono cinquemila), gli italiani uniti in
matrimonio con figli a carico in nuclei familiari tradizionali sono ventinove
milioni.
Eppure
la sinistra non ha mezza parola per i bisogni della famiglia naturale, si
eccita solo se vede spuntare un utero in affitto o una fecondazione eterologa
illegale in una coppia dello stesso sesso.
Come si fa a non capire che così si crea uno
scollamento totale dalla realtà, dalle necessità reali delle persone vere?
La
catastrofe della sinistra, stordita dall’ingresso di Trump alla Casa Bianca, in
attesa del tracollo della storica “Spd tedesca” alle elezioni del 23 febbraio
2025, è tutta nell’incapacità di mettersi in connessione con la realtà, nella
presunzione ideologica di imporre ancora una volta una visione sovrastrutturale
ad un mondo in crisi.
Operazione
che riuscì dopo le due guerre mondiali e persino dopo il crollo del Muro, così
come all’inizio del XXI secolo, ma ora non può funzionare più perché la qualità
delle sue leadership è inconsistente:
da Kamala Harris a Elly Schlein, da Macron a
Scholz, è troppo evidente che gli interessi che vogliono tutelare non sono
quelli popolari.
Il
popolo quindi li punisce sistematicamente.
La
catastrofe della sinistra può costringerla alla riscrittura dell’agenda
programmatica, se invece insisterà solo nell’additare il nemico, la sua fine è
già scritta.
(Mario
Adinolfi) - (ariannaeditrice.it/articoli/la-catastrofe-della-sinistra).
Trump
e Musk: in
principio
è l'azione
Doppiozero.com - Alessandro Carrera – (28
Gennaio 2025) – ci dice:
Nel
film “Un volto nella folla” (Elia Kazan, 1957) assistiamo all’inarrestabile
ascesa di “Larry “Lonesome” Rhodes”, ex cantante country interpretato da “Andy
Griffith” che, scoperto dalla conduttrice di una trasmissione radio, diventa
presto un idolo delle folle, un influencer (allora si diceva testimonial),
nonché un aspirante politico.
Ma quando “Marcia”, la produttrice che
purtroppo si è innamorata di lui, decide di punirlo dei suoi tradimenti, non
deve far altro che lasciare acceso il microfono alla fine di un programma
televisivo e poi diffondere la registrazione in cui “Lonesome Rhodes”, il
campione del popolo, dà degli idioti a coloro che lo seguono.
Il suo indice di gradimento crolla e la sua
carriera politica è finita.
Questo
nel 1957, ma oggi non è più così.
Il nuovo populista non teme affatto di far
sapere al suo elettorato quello che pensa di loro.
Quando
Trump ha detto: “Amo gli ignoranti” (“I love the uneducated”) non ha perso
voti, anzi ne ha guadagnati.
Il populista che disprezza il popolo viene
osannato da un popolo che a quanto pare disprezza soprattutto sé stesso.
Ma è
proprio così?
“Michael
Sandel”, filosofo della politica e autore di “La tirannia del merito” (2020),
ha argomentato che i recenti movimenti populisti, negli Stati Uniti e altrove,
sono una rivolta delle masse contro le élites di coloro che si ritengono, per
nascita e censo, “la metà migliore” (è un’espressione che userò ancora, in un
contesto più preciso).
Ma non sono sicuro che questo sia ancora vero.
Il 20
gennaio 2025, durante l’inaugurazione della sua seconda presidenza, accanto a
Trump non c’erano gli ex minatori della Pennsylvania o gli operai del Michigan;
c’erano gli amministratori delegati delle grandi tech companies, gli uomini più
ricchi e potenti del pianeta, nessuno dei quali ha mai nascosto la propria
politica antisindacale e l’assunto in base al quale il miglior amministratore è
quello che licenzia di più.
Come si è realizzata questa “unholy alliance”,
questo matrimonio osceno di populismo, tecnocrazia e sovranismo?
Una
risposta non effimera, anzi seriamente filosofica, la troviamo in un recente
libro di” Rocco Ronchi”, “Populismo / Sovranismo”.
Una
illustre genealogia (pp. 164, Castelvecchi 2024).
È un testo dal peso specifico troppo alto per
essere semplicemente recensito; un breve riassunto delle sue tesi non gli
farebbe giustizia.
Di fatto, ogni capitolo potrebbe essere
l’inizio di un libro a sé.
Entrerò
quindi in discussione con “Ronchi” cercando di esporre le sue idee principali e
avvertendo il lettore dove aggiungerò del mio.
Mi
riferirò alla realtà americana perché è quella che conosco meglio, anche se il
testo di Ronchi si rivolge soprattutto ai sovranismi/populismi europei.
La
tesi iniziale è che populismo e sovranismo hanno la stessa genealogia, la quale
non è poi così lontana da quella della democrazia.
Ciò che i tre regimi hanno in comune è che non
mettono mai in discussione la sovranità del “popolo”.
Come
poi articolano questa sovranità e che cosa intendono per “popolo” resta da
vedere, ma la loro comune genesi sta nella “metafisica moderna della libertà” (p. 8) che li tiene insieme più di
quanto sembri.
Innanzitutto,
sostiene “Ronchi” la critica della sinistra al populismo manca il suo obiettivo
nel momento in cui “semplifica” il successo che il populismo sta avendo su
scala planetaria, riducendolo ad un inganno di cui le masse sarebbero vittime.
È un
errore già commesso in passato, quando liberali, socialisti e comunisti avevano
sottovalutato la portata “filosofica” del fascismo, che non era un’aberrazione
del liberalismo bensì una vera e propria metafisica.
Una
metafisica del potere? Dello Stato? Mi azzarderei a dire: dell’azione.
Ronchi
fa entrare qui la categoria del mito, o la politica del mito, che riprende da “Georges
Sorel “(il pensatore le cui tesi potevano essere piegate a destra come a
sinistra, e che forse più di ogni altro ha influenzato il giovane Mussolini).
È il
“mito dell’azione” a costituire allora la metafisica del fascismo, e troverei la sua prima radice
nell’interpretazione che il “Faust di Goethe “dà del primo verso del Vangelo di
Giovanni:
“In principio era il Verbo”.
No,
dice Faust: “In principio era l’azione!”.
Con
questa traduzione, azzardata ma non troppo (perché il Lógos / Verbum di Giovanni
può essere inteso come performativo, come ciò che crea letteralmente –
attraverso lettere – il mondo), si aprono i secoli dell’ingegneria sociale o, come si
direbbe oggi, della biopolitica.
Pare
che una volta “Joseph Goebbels” abbia affermato:
“Non amo affatto Goethe ma gli perdono molte
cose per aver detto: ‘In principio era l’azione’”.
Mussolini
avrebbe potuto esprimersi nello stesso modo.
Anche
Lenin. Anche Fidel Castro o Mao.
L’importante è agire; le conseguenze si
vedranno dopo.
Il
fascismo, sostiene Ronchi, non è stato un archetipo ma un “prototipo”, lo
schema operativo di modelli a venire, anche molto diversi dal modello iniziale,
ma che non possono ripudiarlo del tutto.
Se
oggi parliamo ancora di fascismo, direi allora che dobbiamo indicarlo come si
farebbe con le automobili:
come
esiste una Bugatti 1932 o una Jaguar 1966, così esistono una democrazia 1945,
una demagogia 1994 e un fascismo 2025.
E il
motore di quest’ultimo fascismo è l’insofferenza nei riguardi del sapere.
Ronchi
riprende qui un’analisi condotta altrove del motto “Me ne frego!”, nato in una canzone del 1920, inno
degli Arditi di Fiume, e poi divenuto passaparola fascista.
Ricordo una scena di “Anni difficili” (Luigi Zampa,
1948):
in un
teatro d’opera, un gerarca fascista si scandalizza perché ci sono versi, nel
libretto della “Norma” di “Bellini”, in cui si inneggia alla distruzione di
Roma.
Gli
fanno notare che è stato scritto cent’anni prima.
“Me ne frego!” tuona il gerarca. “Io l’ho
sempre detto che gli intellettuali italiani sono degli sporchi antifascisti!”.
La
ragione filosofica del “me ne frego del sapere”, che può toccare tanto Vincenzo
Bellini quanto i vaccini contro il Covid, non sta tanto nell’ignoranza della
plebe, sostiene Ronchi, quanto in una “metafisica della libertà” le cui radici
vanno cercate nell’illuminismo kantiano e, aggiungerei (ma è scontato),
nell’empirismo inglese.
A mo’
di postilla, osserverò che l’ignoranza della plebe come fattore politico non è
però da sottovalutare.
Le
recenti elezioni americane sono state un’orgia di disinformazione come non se
n’è mai vista, e che è solo un preludio ad orge ancora più devastanti.
Ma oltre alla disinformazione c’è,
potentissima e ignorata da tutti, la totale mancanza di informazioni.
Il
giorno prima delle elezioni, la domanda più frequente rivolta a Google negli
Stati Uniti è stata: “È vero che Biden non si ripresenta?”.
Il
senso dell’argomentazione di Ronchi però non cambia.
L’illuminismo vuole che l’essere umano si
faccia soggetto autonomo, che metta in discussione l’autorità, ogni autorità,
tranne quella della ragione scientifica.
Se
però qualcuno si alza a dire che anche sottomettersi all’autorità della ragione
scientifica non è diverso dal sottostare a una tirannia, ecco che l’edificio
della razionalità comincia ad incrinarsi e, quel che è peggio, si incrina
proprio grazie alle armi fornite da quella libertà nata per difendere la
ragione.
Il
profeta di questa demolizione è l’uomo del sottosuolo di Dostoevskij (1864), il
risentito contro il mondo che dalla sua topaia (perché la vera traduzione del
titolo, come aveva fatto notare Nabokov, non è tanto Memorie dal sottosuolo
quanto “Memorie da una topaia”) argomenta “filosoficamente” che non c’è vera
libertà se non c’è il diritto di dire che 2+2=5.
Se io
voglio che 2+2=5, la mia volontà (che è altrettanto infinita quanto quella di Dio, e lo
dice Cartesio nel Discorso sul metodo) deve esercitare sovranità assoluta.
Non c’è libertà se non nell’errore (o nel Peccato Originale, aggiungerei), ma se l’errore è un diritto assoluto,
anzi se coincide con la capacità dell’essere umano di trascendere sé stesso e
le proprie limitazioni, come possiamo ancora chiamarlo errore?
Quando
“Kellyanne Conway”, consigliere della Casa Bianca durante la prima presidenza
Trump, il 22 gennaio 2017 dichiarò davanti ai giornalisti stupefatti che il
numero di persone che avevano assistito alla prima inaugurazione di Trump,
quale era stato fornito dalla Casa Bianca, non era fasullo, era solo un “fatto
alternativo”, non sapeva di portare a conclusione un discorso filosofico che,
stando all’analisi di Ronchi, era iniziato ancora prima di Dostoevskij;
per la precisione con “Max Stirner”, “L’unico
e la sua proprietà” (1844), nel quale il diritto all’errore in quanto errore
viene rivendicato come assoluto.
Elaboriamo:
in quel giorno, 22 gennaio 2017, il mondo è
cambiato.
D’un
tratto, non era più vero che “non esistono fatti, ma solo interpretazioni”
(Nietzsche), perché Nietzsche intendeva dire che le interpretazioni sono esse
stesse dei fatti.
Non
era più vero che la realtà avesse ceduto il posto al suo simulacro
(Baudrillard), perché nessuno intendeva simulare niente.
Non
era più nemmeno vero che esistessero una scienza dei fatti “conservatrice” e
una scienza dei fatti “rivoluzionaria”, come si sarebbe detto ai tempi del
maoismo.
No: da
quel giorno cominciò a esistere la realtà fai-da-te.
La Casa Bianca non perse neanche tempo a
difendere la verità dei suoi numeri rispetto a quelli verificati dai media.
Voi dite che alla mattina solo 193.000 persone
hanno preso la metropolitana per andare all’inaugurazione?
Benissimo, e io dico che erano 420.000.
È il
mio fatto alternativo, e non è nemmeno l’errore in quanto errore di cui andava
fiero Stirner.
No, il
mio fatto è tanto “vero” quanto il vostro.
(Negli anni della sinistra extraparlamentare,
Lotta Continua raddoppiava di regola il numero dei partecipanti alle
manifestazioni; si chiamava “raddoppio rivoluzionario”, ma Lotta Continua non è
mai arrivata alla Casa Bianca, tutt’al più è arrivata a fornire dei quadri a
Mediaset.
Dopo
l’invenzione dei “fatti alternativi” viviamo tutti in un romanzo di Philip K.
Dick, possibilmente “L’uomo nell’alto castello”, altrimenti conosciuto come “La
svastica sul sole.)
Il
mondo è cambiato un’altra volta, e forse ancora di più, il 6 ottobre 2024,
quando “Elon Musk” è apparso sul palco di un comizio elettorale di Donald Trump
facendo salti di gioia, mentre il giorno della seconda inaugurazione di Trump,
il 20 gennaio 2025, tutti hanno visto anche il suo para-saluto romano, preludio
a un prossimo remake di “Fascisti su Marte”.
In quel momento si è incarnata quella che
Ronchi chiama “la convergenza tra populismo anti-istituzionale e la forma più
pura del liberalismo: l’anarco-capitalismo”.
E
aggiunge: “Per quanto la propaganda populista sia infarcita di retorica
anticapitalista, l’enarca, vale a dire il soggetto della libertà infinita, è
veramente il soggetto neoliberale.
Il grande teorico liberale “Isaiah Berlin”
(che certo non può essere ascritto all’anarco-capitalismo) lo ha dovuto
francamente riconoscere.
A
fondare il diritto assoluto di una convinzione, scrive [in” La libertà e i suoi
traditori”, pubblicato nel 2002 ma basato su conferenze del 1952], è il solo
fatto di essere una mia convinzione.
La sua verità e fondatezza è del tutto
inessenziale” (p. 23).
La
questione della libertà si lega al cuore di quella che è la ricerca
fondamentale di Ronchi come filosofo teoretico, la relazione tra potenza e
potere (è l’argomento del suo libro immediatamente successivo, “La rana e lo
scorpione”.
Il
canone della potenza, Castelvecchi 2025).
La
filosofia non manca mai al suo compito quando si occupa del potere.
Il
binomio potenza-potere è il suo argomento più prossimo, e se il filosofo
descrive o appoggia sistemi illiberali o decisamente orrendi è perché vuole che
la sua teoria del potere si faccia immediatamente pratica.
Il che
non è una scusa, ma serve a far capire che il filosofo non è mai stato un’anima
bella.
Il
potere attira il filosofo come un teorema irrisolto attira il matematico, e
nessuno dei due sopporta volentieri che un’equazione finale non lo risolva.
Ma che
dire allora dei filosofi che hanno teorizzato, seguendo in questo il IX libro della Metafisica di Aristotele, la
natura duale della potenza, il suo darsi e il suo sottrarsi?
Non
sarebbe forse questa la chiave per liberarsi dall’ossessione di agguantare il
potere con le armi del pensiero?
Quando Aristotele era ancora in vita, il
dibattito iniziò ad opera di alcuni riottosi discepoli di Socrate, i non molto
conosciuti “megarici” (il “canone minore” dell’epoca, per usare un termine che
a Ronchi è familiare), i quali non riponevano molta fiducia nella categoria
della potenzialità:
una
cosa, qualunque cosa, non è “possibile”; o è o non è (e se a qualcuno viene in
mente l’ontologia di Emanuele Severino, ebbene, ci sta).
Nel
Medioevo, specifica Ronchi, si sarebbe parlato di potenza divina “assoluta”
oppure “ordinata”.
Dio
può violare le leggi della natura che ha creato lui stesso, altrimenti non
sarebbe onnipotente;
non è detto però che lo faccia, se non in casi
eccezionali.
Ma con
questa oscillazione tra ordine assoluto e ordine relativo, determinato da
specifici “stati di eccezione”, si sono poste le basi per quella che poi
sarebbe diventata la sovranità dello stato moderno.
Le
leggi sono sacre, tranne quando lo stato di eccezione, che è più sacro ancora,
ci costringe a metterle da parte.
Ci dovrebbe essere una via d’uscita:
se
l’essere umano (mettiamo da parte per ora i megarici) è un aristotelico “essere
del possibile”, vuol dire che può volere, o fare, come può anche decidere di
non volere, o non fare.
Il suo potere è anche un potere-di-non, che
non è affatto un non-potere o un’impotenza; il potere-di-non è pur sempre un
potere.
Ma è
una via praticabile?
Da “Gilles
Deleuze” a “Giorgio Agamben”, la figura simbolica del “potere-di-non “è stata
individuata nel “Bartleby di Melville”, il misterioso scrivano che ad ogni
richiesta del suo capufficio risponde invariabilmente “I would prefer not to”
(“Avrei preferenza di no”, come ha tradotto Gianni Celati, o “Preferirei di
non”, come tradurrei io, per lasciare la frase sospesa come lo è in inglese).
Agamben
è un grande apologeta del “potere-di-non” bartlebyano.
Ma con ciò si espone, come fa notare Ronchi, a
un’auto costrizione:
per poter essere fedele alla sua feroce
critica dello stato d’eccezione e per difendere il suo “passivismo”, Agamben
“non poteva non dire” ciò che ha detto sulla pandemia (che le misure per
contenerla erano una forma di dominazione biopolitica artatamente imposta dal
Potere ecc.), mettendosi così in strana compagnia con gli ultra libertari che
consideravano l’obbligo della mascherina in pubblico come l’equivalente di una
dittatura orwelliana.
In
altre parole, il teorizzatore del potere-di-non-fare si è trovato nella
situazione di non-poter-non-fare ciò che ha fatto.
La
singolare concordanza verificatasi negli ultimi anni tra sinistra “radicale”
(se il termine ha ancora un senso) e populismo “radicale” (termine che ha
sempre più senso) ha, come si vede, “radici” molto antiche, e che forse non si
possono estirpare.
Devo
tralasciare altri capitoli (compreso quello di critica a Pasolini e
all’“ideologia italiana”, che mi trova d’accordo) per giungere a quelli che mi
premono di più:
la virtù politica, sostiene Ronchi sulla base
delle sue letture di Nietzsche, Brecht, Deleuze e Guattari, è quella
dell’opportunismo strategico e non semplicemente tattico.
Sia la”
Grande Politica” di Nietzsche sia il “Grande Metodo” di Brecht sono
interpretati da Ronchi come un “Grande Riformismo” che non dà nulla per
immutabile, perché il divenire è un processo e non solo un voler raggiungere
l’obiettivo.
Quando
l’obiettivo è raggiunto, non siamo gli stessi che eravamo quando l’abbiamo
concepito, e nemmeno l’obiettivo è più lo stesso.
Come
già la intendeva Platone nell’”Alcibiade I”, la virtù politica è quella del
timoniere che conduce la nave in porto, conoscendo le correnti e scivolando
sulle onde senza mai sfidare apertamente il mare.
Il “riformismo
radicale” (mi verrebbe da dire “processuale”) è l’unica strategia che sia
rimasta alla democrazia, e se viene così raramente tentata è perché è la più
difficile.
Nessuno
è così odiato, dal populista come dal sovranista, come il riformista vero.
La riforma rende superfluo lo stato di eccezione in
cui sguazza il sovrano, così come smorza la furia di chi sente il grido della
canaille.
Prova ne sia che un riformista serio come “Joe
Biden” oggi è la persona più odiata da mezza America, al punto che gli stessi
democratici non sanno più come difenderlo e sperano solo che la storia sia
pietosa con lui almeno come lo è stata con Jimmy Carter.
Se nei
confronti di Kamala Harris c’è disprezzo (iena ridens, la chiamano i social
media), nei confronti di Biden c’è una rabbia in tutto e per tutto
sproporzionata anche rispetto agli errori che può aver commesso.
Ma dal
punto di vista sovranista/populista è una rabbia che ha la sua giustificazione.
Se
Biden fosse stato in grado di reggere il timone per altri quattro anni, molte
delle istanze populiste si sarebbero dissolte e Trump sarebbe tornato a
costruire alberghi.
O
forse no, o non del tutto, perché il timoniere è troppo intento ad evitare gli
scogli per tener conto del fatto che i passeggeri della sua nave non provano
alcun godimento in un viaggio che si annuncia sicuro.
Citando
un distico brechtiano, da “Ascesa e rovina della città” di “Mahagonny”, Ronchi
osserva: “Cos’è
la furia del ciclone / a paragone dell’uomo che cerca di godere?” (p. 25).
Ebbene,
l’uomo del sottosuolo sa poche cose, ma sa con certezza che in democrazia si
può provare qualche piccolo piacere, ma raramente si gode.
E l’essenza dell’umano non è né il piacere né
la soddisfazione, insiste Ronchi, bensì der Genuß, la “jouissance”, il piacere
indistinguibile dal dolore, la trasgressione rischiosa, la pulsione di morte
che ci fa sentire vivi solo quando mettiamo a repentaglio la vita.
I democratici possono portare sul palco
“Taylor Swift”, “Oprah Winfrey” e “Beyoncé,” ma non c’è competizione se
l’avversario porta sul palco “Elon Musk”, un puro shot di pulsione di morte, la
più convincente incarnazione del “Dottor Stranamore” che si sia mai vista
(ricordate la scena in cui Peter Sellers non riesce a controllare il braccio
che parte in un saluto nazista e chiama “Mein Führer “il Presidente degli Stati
Uniti?).
La
piccola “economy of opportunity” di cui parlava “Kamala Harris” fa venire il
latte alle ginocchia se davanti a noi abbiamo “L’Uomo-Più-Ricco-Del-Mondo” a
prometterci che andremo su Marte.
Perché?
“Perché
è lì” (“Because it’s there”), come disse “George Mallory” a chi gli chiedeva
perché volesse scalare l’Everest.
Morì nel tentativo, ma questo non importa, fa
parte del patto.
E i
sovrano-populisti non hanno siglato un patto con il “Dottor Stranamore” e il
suo Presidente solo per l’abbassamento dell’inflazione o la diminuzione
dell’immigrazione clandestina, bensì per il godimento che provano quando comprano i bitcoin
dai distributori automatici che in Texas, dove vivo io, già pullulano nei
supermercati e nelle stazioni di benzina.
Davanti
alla teofania della ricchezza assoluta non c’è “opportunity” che tenga, e
nemmeno” democracy”, Il modello americano ha portato alle estreme conseguenze
l’ “homo oeconomicus,” progettato fin dai tempi dall’empirismo inglese.
Qui mi
riferisco al “Foucault” nella “Nascita della biopolitica”:
si può
concepire la libertà del cittadino a partire dai diritti dell’uomo oppure dal
grado di indipendenza da concedere a chi è governato, che però resta
intoccabile nel suo diritto alla proprietà privata.
La
prima libertà è quella dell’”homo juridicus” che deve armonizzare i diritti
individuali con i diritti della collettività;
la
seconda è quella dell’homo oeconomicus che nella sua “volontà di possesso”
(introduco questo termine come sottospecie della “volontà di potenza”) non
conosce limiti.
Ma, se
l’”homo oeconomicus” non può contenere la sua urgenza di accumulazione, è anche
vero che questo lo rende assolutamente prevedibile, e dunque assolutamente
governabile.
Il
singolo non viene “represso”.
Non ce
n’è bisogno, se non per contingenti ragioni demagogiche.
Anzi, viene “accompagnato” nel suo desiderio
di possesso, così come oggi veniamo “accompagnati” dagli algoritmi a desiderare
ciò che ci viene offerto da desiderare.
Foucault
vi allude quando parla di intervento “ambientale”.
Nessuno
mi costringe a fare nulla, ma è l’ambiente in cui mi muovo (i rapporti di
produzione più la semiosfera) a determinare ciò che posso fare o
non-posso-non-fare.
Si
situa qui il passaggio dal “lassez-faire” alla “governa mentalità”.
Tra il
soggetto giuridico e il soggetto d’interesse prevale il soggetto d’interesse
(homo oeconomicus), ma il soggetto d’interesse non vince rispetto all’ambiente.
Potrei
aggiungere che, se la volontà di possesso è infinita, la volontà di governo,
che è un’altra forma di possesso, è altrettanto infinita.
E la
Cina ne è il modello:
ampia
libertà d’impresa, ma legata un controllo politico capillare.
Nessun
“valore” che non sia fondato sulla volontà di possesso o sulla volontà di
controllo “ambientale” sopravvive a questa stretta.
La sfilata dei mega ricchi e dai loro stra-miliardi
all’inaugurazione del secondo mandato di Trump è l’incarnazione di questo
assioma.
Per
alcuni è uno schiaffo alla miseria, per altri è la mano tesa al blue-collar
worker che si sente Elon Musk mentre compra i bitcoin nel supermercato di
quartiere.
E
bisogna capire che tutt’e due le cose sono “alternative” e insieme tutt’e due
vere.
Impossibile
qui non citare “Benjamin”, la Postilla al saggio “L’opera d’arte nell’epoca
della sua riproducibilità tecnica”:
“Il
fascismo cerca di organizzare le recenti masse proletarizzate senza però
intaccare i rapporti di proprietà la cui eliminazione esse perseguono.
Il fascismo vede la propria salvezza nel
consentire alle masse di esprimersi (non di veder riconosciuti i propri
diritti).
Le masse hanno un diritto a un cambiamento dei
rapporti di proprietà;
il fascismo cerca di fornire loro una
espressione nella conservazione degli stessi”.
Cito
anche il commento di “Robert Zaretsky “apparso in un recente articolo di
“Forward” (la rivista storica della sinistra ebraica americana), qui nella mia
traduzione:
“La proprietà non consiste più in ferrovie o
acciaierie; è fatta di piattaforme social e intelligenza artificiale (…)
Quando
[Musk] ha menzionato il futuro della civiltà, ha suggellato le sue parole con
un gesto che ha lanciato mille memi e una cacofonia di messaggi (…)
Ironicamente,
questo va bene sia a coloro che appoggiano la nuova amministrazione sia a
coloro che le resistono, per non dire all’amministrazione stessa.
Dà a tutti noi la sensazione di essere parte
del processo, mentre la realtà dietro le quinte dello spettacolo si fa più cupa
e più buia…” (It's not Musk's gesture that matters; it's the fascism – The
Forward).
Il
fascismo (ancora Benjamin) permette all’umanità “di vivere il proprio
annientamento come un godimento estetico di prim’ordine”.
Era
fascista il gesto di Musk?
Lui
l’ha negato, ma che importa?
I
fascisti di tutto il mondo l’hanno riconosciuto come cosa loro, ed è il
“percepito” che conta, non è così che ci avete insegnato, voi signori dei
social media?
Che per lui non lo fosse è solo un “fatto
alternativo”.
Per l’”homo
oeconomicus”, però, la vera estetica è il “triumphus pecuniae”, la parata
trionfale del denaro.
Negli
Stati Uniti, ma non solo, chi appartiene alla classe medio-alta, se ha un buon
stipendio e la possibilità di investirne gradualmente una parte, con un po’ di
accortezza e di fortuna può trovarsi benestante all’età della pensione.
Questa
democrazia della ricchezza tocca una percentuale minoritaria della popolazione,
e solo in pochi e privilegiati paesi, ma non può essere trascurata, come invece
lo è stata in tutte le recenti analisi politiche, nessuna esclusa.
Perché contribuisce a una “trasvalutazione di
tutti i valori” al termine della quale l’unico valore che rimane è appunto la
ricchezza.
Non la
ricchezza di chi possiede 7.500 satelliti, ma una “benestanza” che abbaglia Mr.
Smith il quale, quando vede il suo vicino Mr. Jones avviarsi verso una
confortevole vecchiaia, scopre che la democrazia e i diritti umani non fanno
aumentare i suoi fondi d’investimento, e allora a che servono?
Il punto di vista non è poi così abissalmente
diverso da quello di un operaio stalinista degli anni Cinquanta che magari
avrebbe scelto un lavoro sicuro nell’Unione Sovietica anche se poco pagato e un
appartamento in un orrendo casermone rispetto all’inutile “libertà di pensiero”
garantita dalla democrazia occidentale, e che sul tavolo non gli portava
niente.
Poi
naturalmente non lo faceva, perché non era possibile, e perché avrebbe perso il
godimento di poter dire: “’Ha da venì Baffone!”.
Il
capitalismo avanzato è riuscito nell’impresa di rendere sua complice la classe
lavoratrice.
Molti
hanno salutato con gioia maligna l’uccisione il 4 dicembre 2024 di “Brian
Thompson”, amministratore delegato di “United Healthcare”, ditta di
assicurazioni ben nota (come molte altre) per il numero di rimborsi che nega
agli assicurati.
Ma
quanti di coloro che hanno scritto messaggi di simpatia per “Luigi Mangione”
(l’assassino) sanno che magari i loro fondi pensione sono investiti proprio
nella ditta dell’amministratore ucciso?
Se la
mia assicurazione decide di non rimborsarmi perché deve assicurare il profitto
più alto possibile agli azionisti, e se tra quegli azionisti, indirettamente,
ci sono anch’io, contro chi dovrei protestare?
Chi
dovrei uccidere?
Il
timoniere platonico, che in Ronchi incarna il riformista radicale, non ha molte
scelte a disposizione.
La sua
radicalità consiste nel fare solo ciò che è necessario, e con l’accortezza di
non farlo neanche apparire come una riforma.
“Non
cercate la libertà, dicevano [Bergson e Nietzsche], dove credete sempre di
trovarla, vale a dire nell'alternativa tra possibilità date e nel principio
della libera scelta.
Se
frugate in quell’arsenale quello che alla fine vi resterà nelle mani saranno
ancora le catene dalle quali volevate liberarvi.
Piuttosto
imbarcatevi e procedete in mare aperto.
Sperimentate
il non-poter-non, la volontà di potenza, affidatevi alla creativity del reale!
Allora
la libertà di cui farete esperienza sarà una libertà sui generis, una libertà
del terzo tipo rispetto alla frigida libertà dell'intelletto e alla irrazionale
libertà della volontà.
Questa
libertà non discende dal possibile ma lo crea ricavandolo dall'impossibile,
apre un sentiero dove c'era una selva.
Il possibile di nuovo genere creato da questa
libertà ha il senso del praticabile volta a volta, situazione per situazione,
caso per caso, e guai a girare indietro lo sguardo...” (p. 144).
C’è
qualche riformista che vorrà seguire questa esortazione?
Lo spero, ma mi permetto di tornare a quella
“metà migliore” alla quale avevo accennato all’inizio.
In “Titanic”,
proprio il polpettone di “James Cameron” (1996), quando all’arrogante
harvardiano elitista Caledon Hockley dicono che non ci sono scialuppe a
sufficienza e che metà dei passeggeri dovrà morire, il suo commento è: “Non la
metà migliore” (“Not the better half”).
Significa
che il timoniere non deve solo guardarsi da bonacce e tempeste;
deve
anche tener presente che “la metà migliore” dei suoi passeggeri magari intende
sfasciare la nave sugli scogli e poi vedere cosa succede.
Loro
si salveranno in ogni caso, gli altri faranno da cavia.
È accaduto nel 2008 con il crollo dei “mutui
subprime”, può accadere ancor e su più larga scala perché ora è presente la
variabile dell’intelligenza artificiale.
La stabilità, o l’arrivo in porto della nave,
non è tra gli scopi dei tecnocrati più decisi, i quali sanno che con il caos si
guadagna di più che con l’ordine.
Quella che hanno messo in moto è una
rivoluzione economico-culturale che causerà sangue, sudore e lacrime, finché
non finirà in un mare di fango, con un crollo finanziario o una guerra
finanziaria o militare che nessuno poi dirà di aver voluto, mentre la
democrazia, come sempre, sarà chiamata a raccogliere i cocci.
Trump
sospende i dazi dopo
che
Colombia ha accettato
voli
con migranti espulsi.
Ilsole24ore.com
- Marco Valsania – (27 gennaio 2025) – ci dice:
Scontro
tra il presidente Usa, che decide dazi fino al 50%, e il suo omologo colombiano
“Gustavo Petro”, che lo definisce schiavista e disumano.
Negoziati
sulla crisi.
Gli
Stati Uniti non continueranno a imporre dazi sulla Colombia, dopo che Bogotà ha
accettato di accogliere - senza restrizioni - i migranti espulsi.
Lo ha
reso noto la Casa Bianca.
Ieri
Donald Trump aveva dichiarato una guerra economica alla Colombia, nel primo
duro scontro con un paese latinoamericano sulla politica di espulsioni di massa
dei migranti dagli Stati Uniti.
Il presidente aveva annunciato dazi del 25%
sulle importazioni da Bogotà e che questi sarebbero raddoppiati del 50% entro
una settimana, come rappresaglia per il rifiuto delle autorità colombiane di
accettare il rimpatrio forzato su velivoli del Pentagono di loro cittadini che
si trovavano illegalmente negli Usa.
Il Presidente della Colombia “Gustavo Petro”
aveva respinto gli aerei militari a stelle e strisce, chiedendo rispetto e
trattamento umano dei migranti.
In una
dichiarazione, la Casa Bianca afferma che la Colombia ha accettato i migranti
in arrivo su aerei militari statunitensi “senza limitazioni o ritardi”.
La
Colombia ha affermato che verrà mantenuto un dialogo per “garantire la dignità
dei nostri cittadini”.
La
Casa Bianca ha salutato l’accordo con la Colombia come una vittoria
dell’approccio duro e puro di Trump.
La
minaccia.
Trump
non si è fermato ai dazi:
ha
annunciato sanzioni diplomatiche se Bogotà non si piegherà.
Ha
vietato l’ingresso negli Stati Uniti di funzionari governativi della Colombia e
bloccato i visti a personale legato alle istituzioni del Paese.
La sezione per i visti all’ambasciata Usa a
Bogotà è stata chiusa.
“Queste
misure sono solo l’inizio – ha scritto su “Truth Social” – Non permetteremo al
governo colombiano di violare i suoi obblighi nell’accettare il ritorno dei
Criminali (maiuscola nel testo, ndr) che hanno spedito negli Stati Uniti!”.
Nel messaggio ha così fatto riferimento alla
sua tesi complottista, e priva di alcuna prova, che nazioni sudamericane, anche
alleati quali la Colombia, abbiano svuotato le loro carceri per inviare
detenuti violenti a invadere gli Usa.
Le
sanzioni dovrebbero far leva sull’”International Emergency Economic Power Act”,
che garantisce ampi poteri alla Casa Bianca per colpire altri paesi dichiarando
un’emergenza economica.
Negoziati
per far rientrare la crisi erano tuttavia in corso.
Un funzionario della Casa Bianca ha parlato di
colloqui tra le parti per evitare i dazi.
Il
governo colombiano ha citato “attive conversazioni con l’amministrazione
statunitense per cercare intese che assicurino condizioni minime di rispetto” e
avrebbe offerto anche l’uso dell’aereo presidenziale colombiano per un
rimpatrio dei clandestini.
La Colombia ha detto che accetta arrivi di
migranti su aerei civili.
Petro
ha tuttavia risposto per le rime alla rappresaglia di Trump, evocando dazi
contro dazi:
“Sono stato informato che intendi imporre dazi
del 50% sul frutto del nostro lavoro che arriva negli Stati Uniti.
Farò
lo stesso”, ha scritto su X.
Anche
se i rischi non sono pochi per Bogotà:
gli
Usa sono il principale mercato per l’export del Paese latinoamericano, pari al
28% del totale.
Una
guerra commerciale rischia quindi gravi danni per i 16,2 miliardi di dollari di
beni in gioco, per un terzo petrolio.
Gli
Usa da parte loro esportano 17,7 miliardi di beni nel Paese, da mais a
componenti per aerei.
Lo
scontro è iniziato domenica mattina, quando Il Presidente colombiano ha improvvisamente
tolto la necessaria autorizzazione diplomatica all’arrivo di almeno due aerei
militari C-17 già in volo con circa 160 migranti espulsi, costringendoli a
rientrare alla base a San Diego.
Velivoli militari richiedono nulla osta
politici al contrario di voli civili.
“Gli Stati Uniti non possono trattare i
migranti colombiani come criminali.
Ho
cancellato il permesso agli aerei americani con i migranti ad entrare nel
nostro territorio”.
Ancora:
“Riceveremo i nostri concittadini su aerei commerciali, senza che siano
trattati da criminali”.
In
seguito, davanti alle minacce di Trump, ha alzato i toni:
“Non
ti piace la nostra libertà –
Benissimo.
Io non stringo la mano a schiavisti bianchi. Non ci dominerai”.
Bogotà
non è isolata nel tentare una levata di scudi.
Proteste
si stanno levando da altre nazioni dell’America Latina per la violazione dei
diritti umani dei migranti.
Il Brasile ha denunciato nelle ultime ore il
“trattamento degradante” di suoi cittadini, che sono arrivati in manette e con
lacci ai piedi.
Il
Messico la scorsa settimana aveva già respinto un velivolo militare Usa a sua
volta pieno di migranti.
Trump
ha proclamato di voler espellere milioni di clandestini, in gran parte
latinoamericani, al più presto, anche se molti dubitano che un simile numero si
possibile per costi, logistica e impatto sull’economia americana, dove i
clandestini lavorano e appaiono insostituibili nell’agricoltura, nelle
costruzioni e nei servizi.
I
migranti oltretutto commettono molti meno reati dei cittadini americani in
proporzione, hanno rivitalizzato intere comunità e pagano le tasse anche senza
ricevere benefici.
Ma
Trump ha fatto scattare molteplici ordini esecutivi che possono portare
comunque ad espulsioni di massa, non solo di migranti responsabili di reati ma
di ogni clandestino che cada in mano alle autorità.
Ha
mobilitato le forze armate, al confine e per i velivoli da trasporto, e
autorizzato fermi anche in scuole chiese.
Retate
da parte di agenti armati dell’immigrazione sono iniziate in grandi città, da
Chicago a Boston a Newark, seminando paura e con centinaia di arresti a volte,
per errore, anche di cittadini americani.
«Vi
spiego perché, nonostante la
vittoria,
Trump non sarà
il futuro degli USA, mentre Vance sì».
Startupitalia.eu - Alessandro Di Stefano – (06/11/2024)
– ci dice:
L'intervista
a “Marco Sioli”, professore di Storia degli Stati Uniti all'Università degli
Studi di Milano.
«Si tratta di una rivincita degli ex Stati
blu. L'inflazione morde l'America profonda»
«Trump
è un suprematista e non rappresenta il futuro degli Stati Uniti.
Il futuro è il suo vice, J.D. Vance, che ha
sposato una indiana e può rappresentare un’America multietnica».
Nelle ore in cui si attende la conferma
definitiva della vittoria di Donald Trump, destinato a tornare alla Casa
Bianca, “Start up Italia” ha intervistato Marco Sioli, professore di Storia
dell’America del Nord all’Università degli Studi di Milano.
Con
lui abbiamo analizzato come sono cambiati gli USA dal 2016 a oggi:
perché il tycoon ha ottenuto questa volta (a
differenza del 2016) la maggioranza del voto popolare?
Quali scenari si aprono per il futuro della
superpotenza?
Gli attimi
successivi al fallito attentato contro Trump a Butler, nell’estate 2024
Come
commenta il voto americano?
Trump
ha già celebrato la propria vittoria nella sua Florida.
Ha
detto che il suo è un movimento, dunque si stacca dal Partito Repubblicano che
lo ha spesso contestato.
Il
movimento MAGA, “Make America Great Again”, punta appunto a far ritornare
grande l’America.
Ma lo
è già, anche se ha due problemi enormi.
Quali
sarebbero?
Immigrazione
e inflazione.
Biden
ha iniettato molti soldi nell’economia con il risultato di un’inflazione che
morde l’America profonda.
Aumenta la benzina, il caffè passa a 5
dollari, le uova alla dozzina triplicano il costo.
Oggi
ci si confronta con stipendi che non crescono così tanto, con un lavoro che
c’è, ma non ovunque.
In un
certo senso la vittoria di Trump ha segnato una rivolta di quelli erano gli
Stati blu, dove si è formata la “Rust Belt” a causa della chiusura delle
fabbriche. Passando in auto lungo questi territori si nota la reale
devastazione.
JD
Vance, è il candidato vicepresidente indicato da Donald Trump.
Che
America è quella del 2024 rispetto a quella che ha fatto vincere il tycoon nel
2016?
Hilary
Clinton aveva dalla sua il voto popolare.
C’era una opposizione nei confronti di un
miliardario che non si sapeva quanto potesse rappresentare la povera gente.
Oggi
tutto il voto popolare si sposta insieme al voto dei Grandi elettori.
È un trionfo, una rivincita.
Il
ceto medio si sente tartassato: la guerra in Ucraina, la difesa estrema in
Medio Oriente non è di interesse per queste persone.
Chi è
riuscito a convincere il candidato repubblicano?
Ha
convinto quasi tutti i gruppi e le minoranze.
Bisognerà
ripensare il tutto con dati più chiari.
Ha
raccolto consenso soprattutto tra gli uomini, compresi ispanici e afroamericani
che, in un certo senso, una figura così elitaria come Kamala Harris sentivano
non li avrebbe rappresentati.
Ho
notato che il ticket elettorale California – Harris – e Minnesota – Walz – è
stato un errore.
Trump
invece ha scelto un giovane dell’Ohio, Vance, autore di “Elegia Americana” in
cui racconta proprio le sofferenze dell’America bianca.
Trump
rappresenta il passato.
Resto
convinto che l’unico che avrebbe potuto sconfiggere Trump era Biden, ma non era
più all’altezza
.
Vance rappresenta il futuro.
Viene
dal Midwest e conosce la sofferenza di quei luoghi.
Non
tutto di questo movimento populista MAGA è negativo, bisognerà capire come
verrà interpretato dalla politica.
A chi
assomiglia Trump dei presidenti americani del passato?
Lui si
ispira ad “Andrew Jackson” (il settimo presidente USA, tra il 1829-1837, ndr).
Joe
Biden invece ha messo nel proprio Pantheon “Benjamin Franklin”, mai stato
presidente e uomo di cultura e scienza.
Jackson
è famoso per aver rimosso gli indiani con una legge.
Ecco,
Trump oggi vorrebbe fare lo stesso con i latinoamericani, portandoli dall’altra
parte del Rio Grande.
Avesse
perso è probabile che Trump avrebbe parlato di brogli.
Resta
ancora aperta la ferita di Capitol Hill?
L’America
è divisa e ha sbagliato Trump quando ha premuto sull’acceleratore per favorire
quella rivolta il 6 gennaio 2021.
È
stato un errore perché ora lui ora rappresenta quelle stesse istituzioni.
Se
tornerà la volontà di rivolta questa volta sarà nei suoi confronti.
Il
ritorno di Trump
Comitatoatlantico.it - Simone Zuccarelli - Direttore del
Programma Transatlantico – ci dice:
Parte
I.
Dopo
gli accadimenti del 6 gennaio 2021 e lo scontro sui risultati delle elezioni di
pochi mesi prima, molti commentatori, diversi esperti e policy-maker avevano
dato per conclusa la parabola politica di Donald Trump.
A
questo, poi, si sono aggiunti quattro processi e il classico stile divisivo del
magnate newyorkese, ulteriormente accentuatosi nei quattro anni di Joe Biden
alla presidenza.
Anche nell’ambito della destra statunitense
diversi erano coloro che ritenevano necessario, qualora la speranza fosse stata
quella di tornare alla Casa Bianca nel 2025, sostituire Trump o con figure più
moderate, come “Nikki Haley”, o sì vicine alle posizioni del tycoon ma meno
compromesse, come “Ron DeSantis”.
Ancora
una volta, come nel 2015 e nonostante il 2016, Trump è stato sottovalutato:
non solo ha sbaragliato la concorrenza
repubblicana, ma ha condotto una campagna elettorale quasi perfetta e ha
ottenuto la vittoria più ampia a livello di collegio elettorale per un
repubblicano dai tempi di George H.W. Bush, arrivando a conquistare, a
differenza che nel 2016, anche il voto popolare, oltre che Camera e Senato.
L’elezione rievoca la storia stessa di Trump:
arrivato
al successo verso la fine degli anni Ottanta, nel 1987 pubblica il suo primo
best seller, “The Art of the Deal”, nel quale dipinge il suo peculiare stile
negoziale e le ragioni dietro la sua ascesa.
All’inizio
del decennio successivo, tuttavia, l’impero costruito da Trump sembrava
prossimo al collasso, distrutto sotto i colpi della recessione.
In pochi anni, però, il futuro Presidente
riesce a invertire la tendenza e nel 1997 pubblica “The Art of the Come back”,
un presagio di quanto riproposto alle elezioni dello scorso anno.
La vittoria lo ha reso il secondo Presidente
statunitense dopo “Grover Cleveland” a servire per due mandati non consecutivi,
in uno dei più grandi “come back “nella storia politica americana.
Capire
le ragioni della vittoria di Trump per comprendere l’America.
La
sorpresa per tale risultato storico è arrivata soprattutto nel Vecchio
Continente; questo perché, in aggiunta alla sottovalutazione, raramente in
Europa c’è una comprensione profonda delle dinamiche statunitensi e, in
generale, quanto avviene oltre Oceano viene filtrato attraverso un certo
sistema mediatico che, come noto, non ha mai particolarmente visto con occhio
positivo Donald Trump – ma anche i repubblicani in generale.
Tuttavia, i segnali premonitori per questo
risultato erano numerosi e nemmeno troppo difficili da individuare.
1. Il
rapporto tra Trump e il GOP.
Innanzitutto, nonostante il calo della sua popolarità
seguìto ai fatti del 6 gennaio, Trump ha mantenuto una solida presa sul Partito
Repubblicano, sempre più orientato verso un approccio conservatore classico, in
parte di matrice europea, a scapito del tradizionale approccio reaganiano delle
passate decadi (in merito si veda, ad esempio, l’irrigidimento sul tema
immigrazione e il progressivo abbandono dell’internazionalismo e della retorica
wilsoniana in politica estera).
Il
primo elemento poco studiato e compreso è proprio questa profonda
trasformazione in corso, che ha poi un impatto sia a livello domestico che
nelle scelte di politica estera.
Gli
elettori repubblicani, sempre più alienati rispetto a una certa direzione presa
in Occidente e rispetto alla progressiva radicalizzazione di una parte della
sinistra americana, hanno iniziato a reagire virando verso “destra”.
C’è però un elemento essenziale da
comprendere.
L’errore
più comune che viene fatto quando si tenta di interpretare il rapporto tra
Trump e molti suoi elettori, infatti, è pensare che esso sia un legame di tipo
quasi religioso-messianico, dove il leader riceve la fiducia cieca dei
sostenitori in quanto visto come profeta.
In realtà, la stragrande maggioranza di questi
elettori segue Trump perché in lui ha riconosciuto un soggetto che parla con la
loro stessa voce e non ha paura di rendersi inviso a tutto quel sistema
mediatico e politico che, da decenni, è maggioranza negli Stati Uniti.
Qualora
Trump dovesse abbandonare questo approccio e ammorbidire la sua retorica buona
parte dei suoi sostenitori si dileguerebbe:
l’errore,
dunque, è ritenere Trump una causa delle trasformazioni in atto più che una
conseguenza.
2. Il
riallineamento interno.
Il
secondo indicatore è stato il profondo riallineamento occorso nell’ultima
decade in certi Stati americani storicamente democratici.
L’esempio
perfetto è l’Ohio, che negli ultimi otto anni si è spostato decisamente verso
destra, soprattutto grazie alla conquista da parte del Partito Repubblicano di
una fetta importante dell’elettorato democratico, quella composta dai
cosiddetti “blue-collar”, operai, spesso specializzati, che rappresentano una
componente rilevante in molti Stati della “Rust Belt”.
Negli
ultimi trent’anni, infatti, mentre il consensus politico virava verso la
necessità di cavalcare la globalizzazione, i blue-collar hanno progressivamente
perso posti di lavoro:
le loro aziende hanno delocalizzato e l’arrivo
di mano d’opera a basso costo ne ha depresso i salari.
Mentre
i repubblicani rimanevano totalmente schierati a favore del libero commercio, i
democratici si sono progressivamente concentrati su temi culturali come
l’aborto e i nuovi diritti, favorendo politiche migratorie decisamente lasche.
In conseguenza di ciò, sempre più lavoratori attivi in certi settori si sono
sentiti abbandonati dalla classe politica ma l’arrivo di Trump ha cambiato
completamente la scena:
con il
suo richiamo alla necessità di recuperare i “forgotten men and women”, con il
suo istinto protezionista e con i suoi modi da uomo del popolo ha rapidamente
conquistato quella fetta di elettorato.
Non è
un caso, dunque, se l’Ohio dal 2016 ha cessato di essere uno “swing state” ed è
diventato una “roccaforte del GOP.”
3.
L’impopolarità di Biden e lo spostamento a sinistra dei democratici.
Il terzo indicatore era la profonda impopolarità del
Presidente Biden, percepito come inaffidabile sia sui principali temi domestici
– economia, immigrazione e sicurezza sopra tutti – che in politica estera.
Non è
questa la sede per analizzare nel dettaglio tali aspetti, ma è indubbio che
l’elettore medio americano negli ultimi quattro anni ha visto l’economia
scivolare nella spirale inflazionistica, l’immigrazione andare fuori controllo,
grandi città diventare ancora meno sicure e una serie di rilevanti
tentennamenti ed errori nella gestione della politica estera – dall’Afghanistan
all’Ucraina passando dal Medio Oriente.
Naturalmente Trump ha cavalcato ed esacerbato
le mancanze dell’Amministrazione uscente, ma un altro errore spesso ripetuto è
ritenere che la sua retorica da sola sia la causa del progressivo irrigidimento
dell’elettorato repubblicano.
Oltre al fatto che, in realtà, è più una
reazione allo spostamento verso sinistra dei democratici (come visto sopra e
come rappresentato anche in un grafico), tale valutazione non tiene conto del
fatto che le questioni sulle quali Trump ha incentrato la campagna elettorale
incidono effettivamente nella realtà statunitense e milioni di cittadini ne
sono toccati, a volte profondamente.
Cercare di liquidare tutto come semplice
artifizio retorico, come inganno delle masse, è un errore che non aiuta a
comprendere quanto sta avvenendo nel Paese.
L’incapacità
di Kamala Harris di condurre una campagna elettorale all’altezza delle sfide
che stanno segnando la realtà americana, o comunque non sufficientemente
convincente per apparire più adatta di Trump a governare il Paese, è un’altra
ragione che ne ha segnato il fallimento.
Trump
non ha guadagnato voti solo tra le donne – a dispetto di una certa
considerazione generale sul suo conto e del fatto che l’avversaria apparteneva
a tale categoria – ma anche tra i giovani e le minoranze.
È chiaro, dunque, che questo non può
semplicemente essere frutto di una specie di allucinazione collettiva;
al contrario, i guadagni elettorali di Trump
in quasi tutti i raggruppamenti elettorali principali mostrano quanto il suo
messaggio e le soluzioni da lui proposte siano state in grado di incontrare un
favore ampio e non solo limitato al classico elettorato repubblicano.
4. Un
sostegno più diffuso.
Infine,
a differenza del 2016 e del 2020, in questa tornata Trump, oltre a essere stato
in grado di ampliare sensibilmente il suo bacino elettorale, è stato capace di
convincere importanti figure pubbliche – alienate dalla traiettoria presa dal
Partito Democratico – a sostenere la sua campagna.
Tra
questi, diversi ex democratici che, per varie ragioni, hanno deciso di
abbandonare la loro storica collocazione politica, come “Tulsi Gabbard” e “Robert
Kennedy Jr.”, nipote del Presidente che porta il suo cognome, che hanno già
ricevuto la chiamata a servire nell’Amministrazione entrante.
Inoltre,
rilevante è stato il supporto di “Elon Musk”, l’uomo più ricco del mondo che,
dopo aver comprato Twitter, ha lanciato una battaglia per il” free speech” e,
soprattutto, si è detto deciso a «distruggere l’ideologia woke».
Insieme
a Musk, diversi miliardari – come “Peter Thiel”, l’uomo dietro l’ascesa del
prossimo Vicepresidente, J.D. Vance –, spesso parte dell’élite della
democratica e progressista della Silicon Valley, hanno dato il loro supporto
alla campagna Trump.
Ulteriore
novità è stata la decisione di importanti miliardari operanti nei settori
chiave di mass media e social network, come “Mark Zuckerberg” e “Jeff Bezos”,
di non schierarsi nella contesa politica.
Il caso di” Bezos” è particolarmente rilevante
in quanto proprietario di uno dei più rispettati giornali statunitensi, il “Washington
Post”.
Per la
prima volta dal 1992, infatti, il giornale non ha dato l’endorsement al
candidato democratico alla presidenza.
Nonostante
il turbinio di critiche, incluse quelle provenienti dalla stessa redazione del
suo giornale, Bezos è stato inamovibile.
Il
magnate americano, del resto, ha compreso quello che molti altri, anche
ritenuti fini analisti, non hanno:
la
fiducia nei media è crollata, ed è crollata soprattutto tra l’elettorato
repubblicano;
questo non perché divenuto vittima della
retorica populista o della disinformazione, talvolta di origine esterna, ma
perché i media mainstream sono tendenzialmente schierati con i democratici e,
quindi, non imparziali come invece dichiarano di essere.
Il
risultato è che i repubblicani si informano sempre più su media alternativi e
ciò contribuisce, tra le altre cose, ad alimentare la già rilevante
polarizzazione nel Paese, oltre che la diffusione di notizie parzialmente o
interamente false.
Comunque,
lo sganciamento di milioni di americani dai media mainstream ha reso molto più
difficile per questi veicolare una certa narrativa e avere un impatto sulle
elezioni.
Bezos
si è reso conto che «[t]he Washington Post and the New York Times win prizes,
but increasingly we talk only to a certain elite. More and more, we talk to
ourselves».
Il fatto che un gran numero di persone abbia
smesso di ritenere credibili i media mainstream costituisce un problema per la
tenuta del sistema democratico.
L’unico
modo di riacquistare credibilità non è solo fare giornalismo il più possibile
esente da “bias”, ma anche mostrarsi imparziali nella pratica e non solo nelle
dichiarazioni.
Lo stesso ragionamento fatto, più di recente,
anche da “Mark Zuckerberg”, che ha deciso di riportare “META” alle origini,
invertendo la traiettoria progressista presa negli ultimi anni.
Il
tema non può essere estinto in poche righe e diversi altri aspetti
significativi potrebbero essere trattati, ma questi quattro punti sono già più
che sufficienti a illustrare le ragioni dietro la vittoria di Donald Trump.
Ciò
che più è rilevante sottolineare è che rispetto al 2016 il Presidente eletto ha
maggiore esperienza governativa e difficilmente commetterà nuovamente tutta una
serie di errori che ne hanno limitato o compromesso l’azione in occasione del
suo primo mandato, a partire dalla scelta delle figure che serviranno nella
nuova Amministrazione.
Forte
del mandato ricevuto, Trump ha riempito e sta riempiendo le caselle più
importanti con persone a lui fidate e in linea con la sua visione del mondo e
dell’America.
A differenza del 2016, infatti, molte nomine
di primo piano non sono espressione dell’establishment del Partito e ciò lascia
presagire la volontà di portare serie trasformazioni sia in politica interna
che estera.
Social
senza freni: che
cambia
con la svolta
pro-Trump.
Agendadigitale.eu
- Antonino Mallamaci , avvocato – (10 gen. 2025) - ci dice:
Meta
abbandona il fact checking o quasi.
Musk
su X l’ha già fatto.
Il”
liberi tutti” sostenuto dal nuovo presidente Usa Donald Trump per i contenuti
social viene in realtà da lontano, dall’anima sregolata delle big tech e ci
porteranno in un nuovo scenario. Ecco come.
La
reazione di Donald Trump all’annuncio di Mark Zuckerberg sulla cancellazione
del “fact checking” per i suoi social?
“Hanno fatto molta strada”.
E
quando gli è stato chiesto se pensava che i cambiamenti fossero una risposta
alle sue minacce ha risposto “Probabilmente”.
Dalla
quasi totalità degli osservatori la mossa del ceo di Meta è stata interpretata
come un ulteriore passo per accreditarsi verso i nuovi padroni degli Stati
Uniti, appunto il presidente prossimo all’insediamento e il suo sodale “Elon
Musk”.
È
vero, ma c’è chi indica anche altri motivi che vedremo più avanti. In sostanza,
Zuckerberg non ha mai amato il controllo sugli utenti, e ora è potuto venire
allo scoperto in modo eclatante e repentino.
Stile
Musk.
Della
rivoluzione erano già stati avvisati i funzionari di Trump, secondo fonti
interne a Meta.
“L’annuncio
del fact-checking” ha coinciso con un’ospitata sulla Fox del nuovo responsabile
delle politiche globali di Meta “Joel Kaplan”, uno dei pochi repubblicani al
servizio di Zuckerberg:
c’è
“troppa parzialità politica” nel programma di fact-checking di Meta, ha
dichiarato.
Indice
degli argomenti:
Meta
non ha mai amato i controlli.
Meta
trae profitto da contenuti impropri.
L’Europa.
Meta
va dove va il vento politico.
Un
grosso risparmio.
Il
rischio economico.
Le
critiche dei “fact checker” alla scelta Meta.
Le
critiche al fact checking.
Come
diventeranno “Facebook”- “Instagram”-“Threads”.
Meta
non ha mai amato i controlli.
Tornando
indietro nel tempo, si può verificare quanto il fondatore di Facebook fosse
allergico ai controlli, come d’altra parte tutti i suoi colleghi dirigenti e
proprietari di social media.
Nel
2019, intervenendo alla Georgetown University, aveva sostenuto che “la libertà
di espressione è stata la forza trainante del progresso nella società americana
e in tutto il mondo e che inibire la parola, per quanto ben intenzionate siano
le ragioni per farlo, spesso rafforza le istituzioni e le strutture di potere
esistenti invece di dare potere alle persone.
Alcuni
credono che dare voce a più persone stia alimentando la divisione, credono che
raggiungere i risultati politici che ritengono importanti sia più importante
che dare voce a ogni persona. Penso che sia pericoloso”.
Oggi
afferma che le “recenti elezioni” sono un “punto di svolta culturale per
tornare a dare priorità alla parola”.
Una
“nuova era” in cui l’azienda può tornare “alle proprie radici” e “concentrarsi
sul ripristino della libertà di espressione” piuttosto che cercare di ridurre i
contenuti falsi, dannosi o offensivi.
Zuckerberg
ha precisato che la misura “anti fact checking” avrà, per ora, validità solo
negli USA.
Meta
trae profitto da contenuti impropri.
Questo
è un argomento delicato, che concerne i problemi che la piattaforma dovrà
affrontare in tutto il mondo, in particolare nella UE.
Proprio in questi giorni, un rapporto del
gruppo di ricerca europeo senza scopo di lucro “AI Forensics “ha rivelato che
3.316 annunci pubblicitari con immagini e video espliciti per adulti sono
comparsi nell’ultimo anno su Facebook e altre piattaforme Meta in Europa,
raggiungendo 8 milioni di utenti.
Gli
annunci, molti dei quali presentano atti sessuali espliciti, sono stati
mostrati principalmente a uomini di età superiore ai 44 anni, grazie ai sistemi
di targeting pubblicitario dell’azienda.
Quando
i ricercatori hanno tentato di pubblicare le stesse immagini e video su
Facebook e Instagram, essi sono stati rapidamente rimossi.
Secondo
i ricercatori ciò evidenzia un “doppio standard” in base al quale Meta sta
traendo profitto da materiale che le sue politiche vietano e solleva dubbi
sulla conformità dell’azienda alle normative europee.
Documenti
interni di Meta inoltre, rivelati dal “FT”, dicono che l’azienda ha esonerato
dai controlli i grandi investitori pubblicitari.
Ai
sensi del “Digital Services Act,” le maggiori piattaforme online devono
divulgare gli aspetti chiave delle loro pratiche di moderazione dei contenuti,
eseguire valutazione del rischio dei potenziali danni che potrebbero
verificarsi sulle loro piattaforme e adottare misure per mitigare tali danni.
Nelle
sue valutazioni del rischio per Facebook e Instagram, Meta ha riferito di
“esaminare in modo proattivo tutti gli annunci pubblicitari prima che possano
essere pubblicati sulle piattaforme di Meta”.
Cosa
succederà ora?
Zuckerberg
ha criticato l’Europa per le numerose leggi che “rendono difficile costruire
qualcosa di innovativo da quelle parti”.
E già
questo è indicativo.
L’Europa.
Secondo
“Thierry Breton,” ex commissario Ue e principale artefice dell’adozione del “Dsa”
(intervistato da Repubblica)
“L’Europa deve garantire le regole sulle
piattaforme digitali e la sua sovranità nelle infrastrutture di
telecomunicazioni. Gli strumenti per proteggere le nostre democrazie ci
sono, è importante applicarli”.
Su
Elon Musk, Breton è chiaro:
egli “ha il diritto di esprimere le proprie
opinioni.
Se
interviene con un articolo su un giornale come “Die Welt” si tratta di libertà
di espressione.
Diverso è quando le stesse opinioni di Musk
vengono diffuse sul suo “social X”, sottoposto alle regole del “Dsa”.
In questo caso, l’Europa ha il dovere di
vigilare per evitare manipolazioni di contenuti”.
“Politico”
riporta l’appello del ministro francese “Jean-Noël Barrot”, il quale ha
“invitato la Commissione europea in diverse occasioni a sfruttare in modo molto
più vigoroso gli strumenti a sua disposizione per dissuadere tale comportamento
(di Musk)” e ad avviare un’azione contro Musk e X ai sensi del Digital Services
Act.
Fin
qui alcune prese di posizione dell’Europa.
A
questo proposito, vi è tuttavia da rilevare che molti partiti e governi a guida
sovranista potrebbero, nel breve o medio termine, determinare un cambiamento
dell’atteggiamento nei confronti dell’”onda americana”, con sviluppi non
prevedibili.
Meta
va dove va il vento politico.
Per
tornare alle ragioni che hanno indotto Zuckerberg alla svolta radicale
annunciata, vi è da premettere che il padre di Facebook non è mai stato
insensibile rispetto alle mutazioni dello scenario politico.
Le
politiche sulla libertà d’espressione dell’azienda nel corso degli anni sono
cambiate insieme ai venti politici prevalenti.
Nel 2017, l’azienda ha risposto alla rabbia
per le interferenze elettorali russe e la disinformazione assumendo migliaia di
moderatori e lanciando un programma di verifica dei fatti, ma ha in gran parte
esentato Trump da quelle politiche.
L’impunità del tycoon è durata però meno di 24
ore dopo l’elezione di Biden.
Il 7
gennaio 2021 Facebook si è unito ad altri giganti della tecnologia nel
sospendere l’account di Trump per il suo ruolo nei fatti del giorno precedente
a Capitol Hill.
Durante
il mandato di Biden, con le minacce normative incombenti, l’azienda ha lavorato
per reprimere bufale e teorie del complotto, in particolare sulla pandemia di
covid e sui vaccini.
Un’attività costosa, sia in termini di risorse
necessarie per un’efficace moderazione, sia per l’esposizione contro la Destra.
I
repubblicani hanno avviato indagini sulla “censura” delle Big Tech e i
procuratori generali degli Stati repubblicani hanno citato in giudizio
l’amministrazione Biden, accusandola di collusione con Facebook per sopprimere
le opinioni conservatrici.
Nel
gennaio 2023, con i repubblicani che avevano preso il controllo della Camera
dei Rappresentanti e Trump che puntava a un’altra corsa alla presidenza,
Facebook e altre piattaforme tecnologiche lo hanno reintegrato.
Ora
Zuckerberg si sta affrettando a mettersi dalla parte buona per ingraziarsi un
soggetto che prende la politica sul piano personale e non ha mostrato scrupoli
nell’usare i propri poteri per perseguire le aziende che lo ostacolano.
Nel
suo primo mandato, Trump ha cercato due volte di annullare la “Sezione 230”, e
la sua” Federal Trade Commission” ha intentato una causa antitrust contro
Facebook che è ancora in tribunale.
La
presidente uscente della FTC, Lina Khan, ritiene che Meta e Amazon potrebbero
essersi avvicinate a Trump nella speranza di un accordo nei rispettivi casi
antitrust.
Nel
frattempo, Trump sta esortando la Corte Suprema a ritardare il divieto di “TikTok”
in modo che possa decidere personalmente il destino del principale concorrente
di “Meta”.
E la presidente della Federal Communications
Commission, Brendan Carr (trumpiana), ha avvertito formalmente Meta e altre Big
Tech che un fact-checking troppo zelante potrebbe costare loro le protezioni
della “Sezione 230 “che ricadono sotto la sua supervisione.
Un
grosso risparmio.
Allinearsi
con Trump comporta l’ulteriore attrattiva di far risparmiare a Meta cifre
enormi.
Per
essa, creare un software che connetta i propri utenti più o meno senza
soluzione di continuità e li tenga agganciati ai contenuti degli altri è la
parte più facile.
Un singolo prodotto può servire miliardi di
persone, il che rende i giganti di Internet molto più redditizi rispetto, ad
esempio, alle società di media che pagano professionisti per produrre i loro
contenuti.
È
invece molto costoso e generatore di problemi vari assumersi una certa
responsabilità per i contenuti generati dagli utenti.
Moderare
richiede di addentrarsi in spinose questioni legali e morali, con probabili
rimostranze anche se fatto bene.
E
farlo bene, su scala globale, è estremamente costoso.
Una
strategia molto più economica è quella di intervenire in modo selettivo,
scadente o non farlo affatto, chiamando il risultato conseguito “libertà di
parola”.
Zuckerberg
ha criticato aspramente le pratiche di moderazione dei contenuti della sua
azienda, definendo i suoi fact-checker “di parte” e denunciando la “censura”
risultante.
Il
rischio economico.
C’è
però un rovescio della medaglia.
Allentando le regole sull’ “hate speech”, per
consentire agli utenti di definire l’omosessualità una malattia e le donne come
proprietà, Meta rischia di allontanare alcuni utenti e inserzionisti, come
avvenuto su X che ha dimezzato i ricavi pubblicitari da quando c’è Musk (2024 vs 2021).
Ciò
può avere inoltre conseguenze nel mondo reale per i gruppi vulnerabili.
Ora
che Trump è tornato al potere, sembra che sia un sacrificio che Meta è disposta
a fare.
Le
critiche dei” fact checker” alla scelta Meta.
“Carlos
Hernández-Echevarría”, direttore associato della piattaforma spagnola
indipendente di fact-checking “Maldita.es”., sottolinea:
“Basta
vedere i festeggiamenti sui canali di noti attori della disinformazione per
sapere che questa è una cattiva notizia per gli utenti di Meta”, aggiungendo
che i “fact-checker” “non hanno censurato nessuno e non hanno mai chiesto a
Meta di rimuovere nulla di legale”.
Egli
si aspetta inoltre che le leggi dell’UE vengano applicate “indipendentemente
dalla pressione politica proveniente dagli Stati Uniti. È il momento di essere
coraggiosi e di non cedere alle intimidazioni”.
“Alexios
Mantzarlis” fondatore dell’ international fact-checking network (ifcn), la
coalizione globale di progetti di fact-checking, ha esercitato la sua
professionalità sull’annuncio di Zuckerberg.
Secondo
lo studioso, nelle 96 parole della parte del suo annuncio che concernono la smobilitazione dei “fact
checkers” c’è così tanta malafede da non
sapere da dove cominciare.
Zuckerberg
ha scelto di ignorare la ricerca che mostra che gli interventi politicamente
asimmetrici contro la disinformazione possono derivare dalla condivisione
politicamente asimmetrica di disinformazione.
In
sostanza, i conservatori americani tendevano a condividere più da siti Web di
notizie false su Twitter anche quando la definizione di “notizie false” era
lasciata al voto di un gruppo bipartisan di utenti piuttosto che di “fact-checker
“professionisti.
Ancora:
il codice di principi dell’”International
Fact-Checking Network “(IFCN) ha rigorosi requisiti di trasparenza che vengono
esaminati annualmente da un valutatore esterno, e perciò Zuckerberg si affidò a
quello.
Il
codice è stato apprezzato persino della rivista conservatrice “The Weekly
Standard”, e lo stesso CEO di Meta ha dichiarato al Congresso USA che l’IFCN
aveva “uno standard rigoroso per svolgere il ruolo di fact-checker”.
Egli
oggi non dice che una grossa fetta dei contenuti che i fact-checker hanno
segnalato non ha a che fare con la politica.
Si
tratta di “clickbait spam” di bassa qualità che le piattaforme Meta hanno
mercificato. PolitiFact raccoglie tutte le falsità che ha etichettato:
solo
il 21% riguarda post politicamente sensibili e il 45% non riguarda la politica.
Zuckerberg
giustifica la chiusura del programma come una difesa della libertà di parola,
ma le etichette di fact-checking non hanno portato alla rimozione dei post, ma
solo alla riduzione della loro visibilità;
non ha impedito agli utenti di continuare ad
accedervi.
Il
programma di fact-checking non era perfetto e i fact-checker hanno senza dubbio
sbagliato in una certa percentuale nell’apposizione delle etichette.
Il
report sulla trasparenza di Meta
suggerisce che questo tasso di
errore nell’UE potrebbe essere del 3%, inferiore al tasso di errore per altri
contenuti declassati.
“Mantzarlis”
prende quindi in esame l’alternativa proposta da Zuckerberg ai fact-checker,
rilevando in primis come sia insolito vedere un CEO affermare che imiterà il
prodotto di un’altra piattaforma.
Quanto
al rimedio, egli cita una ricerca secondo la quale gli utenti di “Community
Notes” sono motivati da partigianeria.
Inoltre,
il 90% delle Community Notes non vengono mai visualizzate su X.
Conclude
affermando di non essere contrario in linea di principio al fact-checking
basato sull’intervento degli utenti, ma dubita che Meta abbia in mente di
incentivarlo in modo da rendere il sistema efficace.
Le
critiche al “fact checking”.
Ci
sono anche studi discordanti su validità del fact checking. Molti dei quali
pubblicati da “Walter Quattrociocchi”, direttore del Centro di “Data Science
and Complexity for Society” (CDCS) della Sapienza.
La sua
idea, nelle evidenze raccolte, è che il fact-checking non funziona.
E
spesso peggiora le cose, rafforzando la polarizzazione e consolidando le “echo
chamber”.
“Il
problema è che siamo intrappolati in un modello di business che premia
l’engagement, non l’accuratezza.
Le
piattaforme amplificano ciò che divide ed emoziona, perché questo genera
interazioni.
Nel
frattempo, fenomeni come il “confirmation bias” – che ci porta a cercare solo
informazioni che confermano le nostre convinzioni – e le “echo chamber” – che
rinforzano narrative univoche isolando il confronto – prosperano senza alcun
freno”.
“Inoltre,
le dinamiche di interazione, come il discorso d’odio, sono sorprendentemente
indipendenti dalla piattaforma.
Lo
abbiamo dimostrato nel nostro studio pubblicato su “Nature”, dove abbiamo
analizzato la persistenza dei pattern di interazione sociale attraverso diverse
piattaforme.
Questo
significa che i problemi non possono essere risolti semplicemente cambiando uno
strumento o una policy”.
Come
diventeranno Facebook-Instagram-Threads.
Alcuni
esperti avvertono che le modifiche a Facebook, Threads e Instagram
consentiranno alla disinformazione, alla misinformazione, ai discorsi estremi e
persino all’incitamento all’odio di prosperare sui siti.
Allo stesso tempo, affermano che consentire
alle persone di segnalare i post problematici in tempo reale potrebbe
funzionare bene solo se incentivato a dovere.
Secondo
“Kate Ruane”, direttrice del “Center for Democracy and Technology’s Free
Expression Project,” che sostiene la libertà di espressione e la libertà di
parola, “il nuovo processo potrebbe sostituire le verifiche dei fatti più lente
con qualcosa di più simile a Wikipedia, che ha più fiducia nel pubblico
rispetto alle testate giornalistiche tradizionali.
È
positivo che Meta stia cercando soluzioni scalabili che, si spera,
miglioreranno la fiducia e il sostegno alla libertà di parola allo stesso
tempo”.
Zuckerberg
ha anche intenzione di ridurre le barriere intorno al discorso sulle donne,
l’identità di genere e i migranti, e di cambiare l’algoritmo per rendere più
difficile vedere nuove informazioni.
“Tutto
ciò potrebbe isolare le persone nelle proprie comunità, in modo che gli utenti
siano più propensi a fare eco – piuttosto che sfidare – i punti di vista”
secondo “Laura Edelson,” ex funzionario del “Dipartimento di Giustizia ed
esperta di algoritmi presso la “Northeastern University”.
“Avremo
“tane del coniglio” più estreme”, avverte.
“Maximillian
Potter”, giornalista di “Protect Democracy”, gruppo anti-autoritario,
sottolinea che i giornalisti stessi sono impegnati a riportare i fatti e ad
aiutare le persone a comprenderli.
Ma il
loro lavoro diventerà molto più difficile se ci sarà una pressione dall’alto.
“Stiamo assistendo a questo impulso alla resa in tutta la società americana”,
avverte “Jonathan Last”, editore del gruppo mediatico di centro-destra “Bulwark”.
Tutto
questo – un panorama mediatico in difficoltà, e quello dei social media più
selvaggio – potrebbe rendere più difficile per chiunque usare la libertà di
parola, dicono gli esperti.
“Sono
preoccupato per l’uso del concetto di libertà di parola come randello per
mettere a tacere le persone che non sono d’accordo con il governo”, rileva un
portavoce del “Center for Democracy and Technology’s Free Expression Project.”
Questo non è solo una possibilità:
Trump
e i suoi alleati hanno detto apertamente di voler perseguire oppositori e
giornalisti, e persino di voler incarcerare ex membri del Congresso.
In
conclusione, sembra che la rivoluzione conservatrice e sovranista abbia
disinibito anche Big Tech.
Se qualche tentativo c’era stato negli USA per
limitare lo strapotere dei giganti della tecnologia, l’avvento del duo delle
meraviglie Trump – Musk (o viceversa) ha scatenato la voglia di rifiutare ogni
regola.
In
questo frangente, la Vecchia Europa potrebbe rappresentare un argine.
Ma
fino a quando?
E, in
ogni caso, con quale forza?
Lo sapremo presto.
Usa,
Corte suprema dà l'ok a Trump:
strada spianata verso
le elezioni di novembre.
It.euronews.com
– (5 -3-2024) - Gabriele Barbati – ci dice:
L'ex
presidente degli Stati Uniti è il probabile candidato repubblicano alle
prossime presidenziali, Donald J. Trump.
La
decisione della Corte suprema di lunedì ribalta la decisione del Colorado, ma
anche quelle del Maine e dell'Illinois, di squalificare Trump dal voto per le
presidenziali.
Per i
giudici, il 14esimo emendamento della Costituzione può essere invocato solo dal
Congresso, non dai singoli stati.
La
Corte Suprema degli Stati Uniti ha dato ragione a Donald Trump nel ricorso
presentato contro la decisione del Colorado di escluderlo dalle elezioni.
I nove
giudici, di cui tre nominati proprio dall'ex presidente tra il 2017 e il 2020,
hanno stabilito lunedì che i singoli Stati non possono impedire a qualcuno di
essere eletto sulla base della Costituzione, senza che via sia una pronuncia
del Congresso in tal senso.
La
Corte suprema statale del Colorado aveva squalificato Trump dalle primarie e
dalle presidenziali citando il 14esimo emendamento della Costituzione, che al
terzo comma vieta un incarico pubblico a chi si è reso responsabile di
un'insurrezione.
Corte
Suprema Usa: Trump è eleggibile in Colorado e altrove.
L'istigazione
ai suoi sostenitori ad assaltare il Campidoglio a Washington il 6 gennaio 2021
(giorno in cui doveva essere certificata la vittoria del suo sfidante, Joe
Biden, alle presidenziali del 2020), per cui Trump è stato rinviato a giudizio,
costituiva per i magistrati una fattispecie per invocare l'emendamento contro
un candidato presidente, una prima volta nella storia degli Stati Uniti.
La
decisione della Corte Suprema ribalta non solo la sentenza del Colorado, ma
anche quelle simili emesse nel Maine e nell' Illinois la scorsa settimana.
La
strada per Donald Trump verso la nomination repubblicana per le presidenziali e
forse per la vittoria stessa il prossimo novembre sembra ora spianata.
Trump
esulta per la sentenza a suo favore: "Onorato"
Il via
libera dei giudici costituzionali, che hanno argomentato anche che il Congresso
non potrebbe invocare il 14esimo emendamento ex post dunque a elezioni
avvenute, arriva infatti alla vigilia del “Super Tuesday”, il martedì di
primarie in 15 Stati, che dopo le vittorie ottenute finora potrebbe già
incoronare Trump.
"La
Corte ha abdicato alle sue responsabilità nei confronti della democrazia"
ha commentato “Mario Nicolais”, il legale che ha rappresentato il Colorado
davanti alla Cortes Suprema.
L'ex
presidente Usa si è detto invece onorato della decisione.
"Non
si tratta di me, ma di tutti i futuri presidenti" ha commentato lunedì a
una radio statunitense.
Donald
Trump.
Attacco
all'Europa: "Maltratta gli Usa,
dovrà
pagare i dazi."
Quattroruote.it
- Redazione Online Pubblicato il (22/01/2025) – ci dice:
Donald
Trump continua a mettere nel mirino i partner storici degli Stati Uniti e dopo
gli attacchi a Canada e Messico lancia un chiaro avvertimento all'Europa.
In
particolare, il neo inquilino della Casa Bianca ha promesso di nuovo
l'imposizione di dazi sulle merci dell'Unione, a meno che non ci sia una
correzione all'attuale squilibrio degli scambi commerciali.
"Ci trattano molto, molto male", ha
detto Trump parlando di Bruxelles. "Quindi, dovranno pagare i dazi. Non
puoi ottenere giustizia se non fai questo".
La
risposta di Bruxelles.
Gli
attacchi di Trump non sono nuovi e vanno letti come un tentativo di ridurre il
disavanzo commerciale degli Stati Uniti.
A tal proposito, diversi esperti ritengono che
la minaccia di dazi all'Europa celi l'obiettivo di ottenere dagli europei
precise garanzie su un aumento delle esportazioni di petrolio e gas
statunitense verso i Paesi del blocco comunitario e non solo:
il neo
presidente, infatti, ha parlato di un "cattivo trattamento"
commerciale riservato agli Usa sia dall'Europa, che da "tutti gli altri".
Ovviamente,
le nuove promesse trumpiane hanno scatenato le prime reazioni ai massimi
livelli istituzionali del Vecchio Continente.
Il
presidente della Commissione, “Ursula von der Leyen”, ha colto l'occasione
della sua presenza al “World Economic Forum” di Davos per inviare un messaggio
di distensione, al fine di scongiurare guerre commerciali.
"Abbiamo
tutti da perderci dalla rottura dell'equilibrio economico mondiale", ha
detto von der Leyen, mettendo in chiaro che l'eventuale scontro con gli Usa
potrebbe spingere la Ue a guardare ad altri Paesi: "Abbiamo un piano strategico per
crescere, per aumentare la competitività, anche grazie al dialogo con Cina e
India".
Uno
sguardo a Est.
Non a
caso, il primo viaggio diplomatico della nuova commissione sarà proprio in
India.
L'obiettivo è rafforzare il partenariato strategico
con Nuova Delhi e, soprattutto, evitare un'eccessiva dipendenza politica da
Washington.
In tal
senso, rientrano anche nuove aperture verso la Cina dopo lo scontro sui dazi
all'importazione di elettriche.
"Dobbiamo impegnarci in modo costruttivo
con la Cina per trovare soluzioni nel nostro reciproco interesse", ha
proseguito von der Leyen.
"Il
2025 segna il cinquantesimo anniversario delle relazioni diplomatiche della
nostra Unione con la Cina.
La vedo come una opportunità per impegnarci e
approfondire le nostre relazioni e, ove possibile, anche di espandere i nostri
legami commerciali e di investimento, in uno spirito di equità e reciprocità.
Siamo entrati in una nuova era di dura
competizione geostrategica, l’Europa deve cambiare marcia".
Sempre
da Davos, il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha chiesto di "difendere il
libero scambio" perché "l'isolamento va a scapito della
prosperità" e, soprattutto, di "mantenere il sangue freddo"
visto l'obiettivo di Trump di "tenere il mondo sulle spine".
E
difatti, le politiche trumpiane saranno al centro di un incontro tra lo stesso
Scholz e il presidente della Francia, Emmanuel Macron.
La
posizione di Roma.
Intanto,
il governo italiano, forte anche del rapporto tra il presidente del consiglio
Giorgia Meloni e lo stesso Trump, è tornato alla carica per ottenere da
Bruxelles un cambio di passo, anche sul fronte automobilistico.
Il
ministro delle Imprese, Adolfo Urso, ha incontrato diversi commissari per
discutere di diversi argomenti e uno di questi è stato il "non paper"
con le proposte per la revisione degli attuali regolamenti sulle emissioni.
"Pensiamo che la neutralità tecnologica sia l’affermazione più
corrispondente ai principi e ai valori su cui si è fondata l’Ue, che a
differenza di altri contesti politici, pensiamo all’Unione sovietica, non
impone una tecnologia ma la libertà nell’utilizzo di ogni tecnologia", ha
ribadito Urso, chiedendo all'istituzioni continentali di varare per l'auto motive
un piano paneuropeo con "incentivi e risorse comuni sia sul fronte degli
investimenti tecnologici delle imprese sia sul fronte della domanda".
Per
Urso, il ritorno di Trump alla Casa Bianca "alza l’asticella della
competitività in Europa e ci impone una analoga velocità di decisione nel
rivedere il percorso del Green Deal".
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