L’internazionale progressista è una ipocrisia globalista.

 

L’internazionale progressista è una ipocrisia globalista.

 

 

L’incubo americano. Delenda Carthago.

Ariannaeditrice.it – Roberto Pecchioli – (19-05 -2025) – ci dice:

(Fonte: Ereticamente). 

 

 

L’Occidente collettivo ha gettato ogni maschera. Le sue narrazioni su libertà, democrazia, pluralismo si rivelano per quello che sono: menzogne a uso di masse inebetite.

La reazione all’attentato al primo ministro slovacco Fico – inviso alle oligarchie coloniali – è sconcertante;

il velo di ipocrisia istituzionale lascia il passo alla sincerità.

 Mentre il politico di Bratislava è dipinto come mafioso, populista, nostalgico dell’Unione Sovietica, il feritore – o assassino, se Fico non sopravvivrà – è presentato come un mite vecchino amante della poesia, un innocuo intellettuale progressista uso a passeggiare mano nella mano con la moglie, un fiero democratico pensoso delle sorti del suo sfortunato paese caduto nelle mani di Barbablù.

Strano che si aggirasse per la città armato, pronto a scaricare i colpi della pistola nel petto dell’orribile dittatore eletto regolarmente dal popolo slovacco.

Negli Usa, centrale dell’Impero del Bene, la Camera dei Rappresentanti – non si sa se sfidando più il ridicolo o la costituzione del 1776 – vota una legge che dichiara antisemita il Nuovo Testamento.

 Per il Vecchio, prudenza:

è stato scritto da semiti, i primi cinque libri sono sacri a una minoranza assai potente.

 Ma il Vangelo, via, è uno scandalo.

Fa credere che il popolo in cui nacque Gesù sia colpevole della sua morte in croce. Lo stesso Redentore non risparmia dure critiche al potere, registrate dagli evangelisti, semiti anch’essi.

Addirittura, i cristiani – vergogna a cui porre rimedio con la forza della legge – considerano il Nuovo Testamento “parola del Signore”.

Chissà se, di questo passo, sarà ancora possibile dirsi cristiani o se il Vangelo – come già capita a molti testi sgraditi al radicalismo progressista – verrà “purgato” e magari affermerà che l’uomo di Nazareth è morto di raffreddore, come i capi dell’Unione Sovietica.

Fortunata l’America, i cui politici non hanno problemi sociali, economici, finanziari, etici, razziali da risolvere e possono dedicarsi a combattere l’antisemitismo del Vangelo.

Un senatore romano, Catone detto il Censore, un bieco reazionario sostenitore del mos maiorum, le antiche tradizioni, terminava ogni discorso esigendo che Cartagine, la potenza nemica di Roma, venisse distrutta: “delenda Carthago”.

 La potente città nordafricana fu la prima potenza mercantile “globale”, e il vecchio Catone fu accontentato.

Scipione la rase al suolo e Roma iniziò a dominare il mondo.

Ci sentiamo come lui, chiedendo con il poco di voce che ci resta la secessione dall’Occidente e in particolare dagli Usa.

Nessuna distruzione materiale, nessuno spargimento di sangue.

Vogliamo solamente rinunciare al privilegio di essere occidentali e servi – pardon, fedeli alleati – degli Stati Uniti.

Non accettiamo la loro volontà di colonizzarci culturalmente, economicamente, militarmente, linguisticamente.

Hollywood e New York non sono le nostre capitali: ciò che proviene da lassù è distruttivo, quindi lo dobbiamo rifiutare.

Siamo ragionevoli, chiediamo l’impossibile, era uno slogan del Sessantotto. Lasciateci sognare.

Il sogno americano è un incubo da cui vorremmo risvegliarci.

Gli Usa hanno il diritto di vivere come vogliono, di organizzare la loro società in base ai principi in cui credono.

Nessuna ingerenza:

sono padroni a casa propria, una casa, peraltro, usurpata con le armi alle popolazioni native.

La smettano però di credere nel “destino manifesto” di dominare il mondo.

La frase, intrisa di suprematismo razzista, fu coniata da un giornalista dell’Ottocento,” John O’ Sullivan”, sostenitore del Partito Democratico.

Smettano di pensare che il loro modello debba valere per ogni altro popolo e che vada esportato con la forza a popoli ignoranti, selvaggi, arretrati.

Gli Usa hanno costante bisogno di un nemico da demonizzare, la cui distruzione è inevitabilmente un atto di civiltà.

Le vittime sono danni collaterali.

 Vale anche per il primo ministro di una piccola nazione dell’Europa Centrale – la Slovacchia ha una popolazione di poco superiore ai cinque milioni e una superficie pari a Lombardia e Piemonte – vale addirittura per il libro una volta sacro alle popolazioni di questo pezzo di mondo, la terra del tramonto.

Il Dipartimento di Stato americano (ministero degli Esteri) pubblica un rapporto annuale sui “diritti dell’uomo”, in cui si criticano – e si minacciano – i paesi che non condividono le idee delle classi dominanti Usa.

Un’intollerabile ingerenza del Grande Fratello negli affari altrui, rivolto al mondo che lo Zio Sam considera il cortile di casa.

 Quest’anno le attenzioni del benefattore a stelle e strisce si rivolgono contro le “posizioni conservatrici sulla sessualità umana e i diritti sessuali e riproduttivi. “Ancora una volta, ecco la vera agenda:

destrutturare l’uomo, animalizzarlo sin nelle parole (salute riproduttiva sa di manuale zootecnico) e sottrargli ogni identità con l’alibi dei “diritti” sessuali, proclamati in sostituzione di quelli sociali e politici.

Dominio sullo zoo umano.

Il rapporto si basa su una visione dei diritti umani incoerente con i documenti internazionali ufficiali, ma in linea con la prassi delle agenzie ONU finanziate dai miliardari americani “filantropi”.

Il rapporto giudica se i governi stranieri rispettano i “diritti riproduttivi”, se riconoscono legalmente i generi sessuali e se considerano degni di protezione legale i diversi “orientamenti sessuali e l’identità di genere percepita.”

Nessuno di questi concetti corrisponde a un diritto umano in base alle norme internazionali.

Il segretario di Stato Blinken ha affermato che “c’è molto lavoro da fare per sostenere i diritti enunciati nella Dichiarazione Universale”.

Eppure, non esiste un diritto internazionale all’aborto;

la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani tace su quel punto.

Si tratta di una priorità politica del governo americano, come il concetto di diritti riproduttivi, introdotto dalla presidenza Obama.

Il rapporto critica El Salvador per il divieto di aborto, l’Ungheria per “aver richiesto che le donne esaminino i segni vitali del feto prima di sottoporsi a un aborto”, punta il dito contro Burkina Faso, Camerun e Uganda per la mancanza di accesso “all’aborto e ai servizi di salute sessuale e riproduttiva”.

Non esattamente le urgenze dei paesi poveri africani.

Denuncia l’assenza di educazione sessuale in Burundi e Romania.

“Ci sono barriere che impediscono di mantenere la salute riproduttiva, inclusa la mancanza di assistenza sanitaria comunitaria e di educazione sessuale adeguata all’età.”

Blinken osserva che il rapporto include “disposizioni specifiche sui membri delle comunità vulnerabili”, espressione utilizzata per promuovere riconoscimenti e diritti speciali per soggetti e gruppi LGBTQI+.

La Polonia è criticata perché non consente l’adozione alle coppie LGBTQI+ e attacca un’iniziativa legislativa che “impedisce l’ideologia LGBT nelle scuole, invoca la protezione dei bambini dalla corruzione morale e dichiara il matrimonio unione esclusiva tra una donna e un uomo”.

Condanna l’Ungheria che impedisce “alle persone transgender o intersessuali di cambiare il sesso o il genere loro assegnato alla nascita sui documenti legali di identificazione” e per la legge sulla protezione dei minori che impone ai “siti web contenenti qualsiasi forma di contenuto LGBTQI+ di richiedere agli utenti la prova di avere almeno diciotto anni con avvisi relativi ai contenuti per adulti”.

 Il Burundi è accusato di aver permesso alle scuole cattoliche di non collaborare con organizzazioni che violano l’insegnamento della Chiesa.

 Come la mettono con la libertà di religione garantita in Usa dalla costituzione? Ah, già, il Vangelo è antisemita.

Un alto funzionario governativo ha affermato che il rapporto “è più centrale che mai in un mondo in cui vediamo sempre più fatti diffamati come bugie, bugie presentate come fatti e informazioni manipolate per ostacolare gli obiettivi degli autocrati e di altri attori pericolosi”.

Per fortuna lo Zio Sam – da non confondere con la maggioranza degli statunitensi – veglia su di noi, abitanti di un mondo pieno di “soggetti pericolosi, di autocrati e di bugiardi.” I

l Ministero della Verità ha sede a Washington D.C.

Impallidiscono Orwell e la censura vaticana che concedeva o negava la pubblicazione – “imprimatur”, si stampi – ai testi non conformi alla dottrina cattolica.

Il rapporto ha tuttavia dei meriti:

innanzitutto ci ricorda la nostra condizione di colonie a sovranità limitata (ricordate l’Unione Sovietica?) su cui vigila l’occhio onnipresente di Capitan America.

 Poi spiega con chiarezza quali sono le priorità e le volontà imperiali:

diminuzione della popolazione, distruzione dell’identità più intima di individui e popoli, manipolazione delle coscienze sin da bambini.

Scartata l’ipotesi grottesca che lorsignori ci credano sul serio, resta l’evidenza di una formattazione dell’umanità in linea con gli interessi oligarchici di cui gli Usa sono il braccio secolare (e violento).

Nessun rapporto impegna gli Usa sui diritti sociali – pressoché inesistenti nel regno del “libero” mercato in cui tutto e tutti sono in vendita – nessuna lotta contro le dipendenze– il Fentanyl uccide oltre centomila americani ogni anno – nessun interesse per i diritti politici, se non la stanca riproposizione di una democrazia rappresentativa che non rappresenta più e risponde esclusivamente ai finanziatori di partiti e uomini politici “di sistema”.

La libertà di stampa, di espressione e di pensiero – garantita dal primo emendamento costituzionale – è riconvertita in lotta alle opinioni “false”, cioè diverse dalle idee dominanti.

Il tutto condito con l’indifferenza per le tradizioni, i costumi, le convinzioni morali, gli usi, le credenze religiose di ogni popolo, da sottomettere ai “diritti sessuali e riproduttivi” e, concretamente al sistema socioeconomico liberista e globalista a cui è vano opporsi, in quanto “non c’è alternativa” (il copyright è di Margaret Thatcher).

Garantire i diritti sessuali e riproduttivi non comprende in America un’assistenza sanitaria che impedisca di morire per mancanza di cure a chi non le può pagare – sono decine di milioni – o offra una casa ai tantissimi senzatetto, a cui è offerto però un risarcimento verbale: devono essere chiamati “persone che non hanno un’abitazione”.

La loro condizione non cambia, ma la coscienza dei Buoni è a posto.

 Chi un tetto ce l’ha sono i milioni di carcerati che fanno degli Usa lo Stato con la più alta percentuale di detenuti, anzi “ospiti del sistema penitenziario”.

Un sistema in parte privatizzato, in cui si lavora a ritmo e con salario schiavistico.

Il sogno americano degli sfruttatori.

Mentre politici, intellettuali e ceti abbienti pensano alla salute riproduttiva, decine di milioni di connazionali non hanno i mezzi per affrontare un’emergenza imprevista.

Le spese militari e di polizia assorbono percentuali elevatissime del bilancio, con poteri immensi – spesso incontrollati – dell’esercito e delle agenzie di sicurezza, esterne (CIA, DEA eccetera) e interne, come NSA e “Homeland Security Department”.

Su tutti veglia l’apparato mondiale di intrattenimento (la società dello spettacolo svelata da “Guy Debord”) di Hollywood, che colonizza l’immaginario globale, diffondendo idee, modi di vita, preferenze e ideologie americane.

Saremo gli unici, almeno in questo angusto angolo di mondo, ma non ci stiamo. Senza sangue, senza odio, “Delenda Cathago”, a partire dal nostro foro interiore.

 Lontano dagli occhi, lontano dal cuore.

Si tengano il loro sogno americano, la loro salute riproduttiva e i loro diritti sessuali.

 

 

 

Il Summit sull’Intelligenza

Artificiale di Parigi.

Conoscenzealconfine.it – (18 Febbraio 2025) - Der Einzige Italia – ci dice:

 

Il summit di Parigi ha fissato gli obiettivi della rivoluzione digitale dell’IA. Essa dovrà riguardare tutti gli Stati e nessuno dovrà sottrarsi ad essa, dovrà quindi essere estesa ad ogni azienda e ad ogni singolo cittadino.

Introdotto anche il concetto di “IA sostenibile”, cioè IA alimentata da fonti di energia green che verranno costruite occupando dei terreni agricoli. Tutto ciò dovrà portare a quella che loro chiamano “trasformazione economica” e sarà guidata dall’UE e dalla Francia, tramite l’adozione di regole di governance globale con cui assicurarsi che le persone possano usare l’IA solo come dice il sistema.

 

A tal fine hanno iniziato a revisionare tutte le regolamentazioni che i Paesi hanno adottato per l’IA con lo scopo di creare un framework di regolamentazione unico, ma la revisione fatta non è disponibile perché hanno dichiarato di non aver ancora pubblicato il documento.

Hanno anche regolamentato l’IA in ambito militare.

 Nella dichiarazione non si vietano del tutto le armi automatiche guidate dall’IA, ci si limita solo a dire che l’uso di tecnologie automatiche non escluderà la responsabilità umana e che gli esseri umani saranno ritenuti responsabili dell’uso di queste armi automatiche e si riterrà che non potranno agire totalmente al di fuori del controllo umano.

L’Italia ha aderito a questa dichiarazione.

 

Sacrificare Posti di Lavoro e Privacy in Nome dell’Agenda 2030.

Tra le pubblicazioni del summit ne esiste una che dovrebbe parlare dell’impatto dell’IA sul mercato del lavoro, ma aprendola si parla di tutto tranne che di questo.

Si parla solo di idiozie woke come l’uso dell’IA per la transizione green e la parità di genere, dove in sintesi non si fa altro che ribadire che è legittimo sacrificare i posti di lavoro per perseguire gli obiettivi dell’agenda 2030.

È il lavoratore che si deve adattare all’introduzione dell’IA, che da parte loro è vista come una necessità.

Se il lavoratore non si riqualificherà e non si adatterà al nuovo mercato del lavoro, la sua esclusione sarà esclusivamente colpa sua.

Hanno lanciato la versione europea del progetto “Stargate” chiamata “Current AI”, una partnership pubblico-privato il cui compito è ottenere fino a 2 miliardi di euro di fondi per lo sviluppo dell’IA. La lista dei partner, tra cui Google, e degli aderenti si può vedere.

Un’altra dichiarazione introduce il fatto che l’IA sia considerata di interesse pubblico.

Ciò – come spiegato nella dichiarazione stessa – significa che l’IA usata dagli Stati potrà avere accesso a dati “di altissima qualità” dei cittadini senza il loro consenso e farne ciò che si vuole, condividendoli anche con terzi.

Si citano le leggi in materia di tutela della privacy, ma queste sono scarne nella migliore delle ipotesi, oppure effettive prese in giro.

Hanno lanciato l’iniziativa “AI for public” che oltre alla condivisione dei nostri dati prevede che i cittadini europei paghino l’IA anche per l’Africa.

Conclusioni.

In questo PDF Macron sostiene che la Francia è leader mondiale dell’IA, così come con il lasciapassare verde è stato dato a Macron “l’onore” di essere il primo.

 Nel PDF vengono elencati nel dettaglio tutti gli investimenti e le infrastrutture che la Francia dedica all’IA, e le pp. 20-21 sono dedicate al nuovo progetto dei datacenter.

Macron vuole convertire 1200 ettari di terreno in datacenter entro il 2028, e questo è solo l’inizio.

 Anche Amazon e altre aziende (pp. 23-29) hanno stretto collaborazioni col governo francese per aprire ulteriori datacenter e siti dedicati all’IA.

Questo altro non è che una distruzione pianificata di agricoltura e industria in nome del nulla, perché quando avremo fame non potremo mangiare gli algoritmi.

Riferimenti:

(Articolo di Der Einzige Italia).

(t.me/dereinzigeitalia).

(elysee.fr/emmanuel-macron/2025/02/11/les-actions-de-paris-pour-lintelligence-artificielle).

 

 

 

 

Il vero nemico dei progressisti

è la democrazia?

Centromachiavelli.com - Gianmaria Pisanelli – (19-1-2024) – ci dice:

 

“L’Occidente e le democrazie devono guardare alle primarie americane come l’inizio di una straordinaria e spettacolare resa dei conti tra populismo e democrazia che riguarda ognuno di noi”.

 (M. Molinari, La Repubblica)

In vista delle elezioni americane del 2024, si moltiplicano gli allarmi di politici e opinionisti di sinistra per i rischi che correrebbe la democrazia in caso di un successo di Trump.

Ciò che temono questi autorevoli pensatori è che il popolo americano, come già ha fatto nel 2016, possa eleggere un presidente che loro considerano non un semplice avversario ma un nemico giurato, in quanto portatore di un pensiero populista e nazionalista e avversario dichiarato della “ideologia globalista e wokeista”.

Senza minimamente entrare nel merito della figura controversa dell’imprenditore e miliardario repubblicano, e delle sue iniziative spesso discutibili e talvolta difficilmente difendibili, l’aspetto interessante di queste polemiche sta nella assoluta dissonanza fra ciò che viene denunciato e la realtà dei fatti.

 Nei quattro anni di presidenza Trump non sono state proposte riforme autoritarie o comunque contrarie alla costituzione, né le regole procedurali e istituzionali che presidiano la democrazia statunitense sono mai state messe in discussione.

In altri termini, non è stato sferrato alcun ‘attacco’ alla democrazia.

Quello che viene enfaticamente presentato dai progressisti come un pericolo per la democrazia va inteso in realtà come il rischio che possa prevalere, come è fisiologico in un sistema retto da libere elezioni, un loro avversario.

 A ben vedere, un assunto aberrante, che tuttavia vediamo rilanciato da anni ogni volta che si presentano in qualche tornata elettorale personaggi estranei e ostili alle quei poteri globalisti di cui la sinistra è garante dichiarata.

È successo per la Le Pen in Francia, per Orban in Ungheria, e ovviamente per Giorgia Meloni nel nostro Paese, e il copione è sempre lo stesso:

se vincono loro, vuol dire che il popolo ha votato male, che non è maturo né culturalmente preparato a esercitare in modo adeguato il diritto di voto.

A questo orientamento sempre più marcato e ormai onnipresente su tutta la stampa mainstream italiana e internazionale, ha fornito una base teorica e una dignità culturale il filosofo americano “Jason Brennan,” nel suo libro del 2016 “Contro la democrazia”.

La versione italiana del libro venne pubblicata nel 2018, quindi nel pieno del periodo traumatico che aveva fatto seguito all’”annus horribilis delle élite globaliste” (successo del referendum sulla Brexit ed elezione di Trump), caratterizzato da reazioni rabbiose e classiste contro il popolo “che non sa votare” e i leader sovranisti “che mettono in pericolo la democrazia”.

 

Gli intellettuali di sinistra erano impegnati in quella fase a schernire l’ignoranza degli agricoltori britannici o l’analfabetismo primordiale dei “redneck” dell’America più profonda, cui contrapponevano la saggezza e la capacità dei ceti abbienti e metropolitani di scegliere i candidati più illuminati e dediti al bene comune, cioè quelli progressisti.

Di qui l’emergere di proposte solo apparentemente provocatorie, come quella della “patente per votare”, scaturita dal pensiero profondo e sofferto di autentici guru della sinistra nostrana (fra i quali Michele Serra e Corrado Augias), che lo individuavano come uno strumento necessario per limitare l’elettorato attivo ai competenti e ai consapevoli azzerando in questo modo i rischi di governi sovranisti o comunque ostili ai poteri sovranazionali, Unione europea in primis.

 

D’altronde, se c’è una costante nel pensiero nel mondo progressista italiano degli ultimi 30 anni, è la scarsissima fiducia negli elettori e in generale dei cittadini italiani, che non a caso lo ha indotto più volte a proporre e sostenere governi tecnici, cioè formati da personaggi estranei alla politica e quindi sottratti al giudizio e al controllo democratico.

 Da Amato a Ciampi, da Monti al Draghi del 2021, la sinistra ha sempre guardato con estremo favore a questo tipo di esecutivi, proprio per la loro distanza dalle esigenze e dalle aspettative dei cittadini, e per il loro impegno nella implementazione di programmi per lo più dettati o addirittura predisposti a Bruxelles, e generalmente contrastanti con gli interessi nazionali.

L’idea di fondo del ceto mediatico-politico progressista è quella per cui le grandi scelte strategiche, a partire da quelle economico-sociali-ambientali, ma in seconda istanza anche quelle attinenti i c.d. diritti civili, debbano essere esclusivo appannaggio di una élite di tecnocrati, capaci di trascendere gli interessi immediati del popolo per proiettarsi su obiettivi di lungo periodo, finalizzati al benessere dell’intero pianeta.

E in tal senso l’architettura istituzionale della Unione europea risponde largamente a questa esigenza, con un Parlamento che ha scarsissimi poteri di iniziativa e sostanzialmente destinato a ratificare le decisioni della Commissione, organo decisionale formato da politici e burocrati nominati dai governi e che non rispondono in alcun modo ai cittadini.

Ma, naturalmente, se anche il modello di Bruxelles soddisfa le aspirazioni elitiste del mondo progressista, non altrettanto può dirsi dei sistemi di governo nazionali, ancora legati al rito anacronistico del voto popolare.

 Ed ecco dunque che le proposte di studiosi come Brennan tornano molto utili, specie laddove si ancorano a considerazioni di apparente buon senso:

 “Se ci rifiutiamo di tollerare una pratica medica o il lavoro dell’idraulico privi di conoscenza e competenza, dovremmo trattare con lo stesso metro il votare inconsapevolmente”.

 (Il sottinteso, ovviamente, è che a votare consapevolmente siano solo gli elettori di sinistra).

I veri rischi per la democrazia, in realtà, nascono proprio quando intellettuali, veri o presunti, avanzano idee come quella di subordinare il diritto di voto a esami che accertino la preparazione culturale, almeno nella misura in cui queste suggestioni siano in grado di diffondere l’idea deleteria per cui le scelte politiche di un Paese siano questioni troppo serie per essere affidate ai cittadini.

 

In definitiva, nel momento in cui individua nel popolo votante il peggior pericolo per la democrazia, emerge con forza nel discorso progressista tutta la recente deriva ideologica di marca wokeista, non a caso nata negli Stati Uniti, e poi tracimata in Europa.

L’intolleranza per le tesi degli avversari, la convinzione manichea di essere impegnati in una lotta mortale contro il male dei nazionalismi e dei populismi, la delegittimazione morale di chiunque metta in discussione i nuovi dogmi (dalla sottrazione della sovranità ai singoli Paesi al cambiamento climatico di origine antropica, dal totalitarismo sanitario alla educazione gender nelle scuole), costituiscono altrettanti pilastri teorici della sinistra, sempre più in sintonia con gli obiettivi dichiarati delle élite finanziarie che concentrano nelle proprie mani le leve del potere reale.

E giacché questi obiettivi non sembrano molto promettenti né auspicabili per la stragrande maggioranza dei cittadini occidentali, questi finiscono inevitabilmente per riversare i propri consensi elettorali a quelle forze politiche che si presentano come alternative al sistema.

 

Di qui risultati come quello del 2016, quando, malgrado l’opera di meticolosa demonizzazione dei media e l’aperta ostilità dell’establishment mediatico e politico, Trump ha battuto la favoritissima Hillary Clinton, o anche del 2020, quando ha perso di misura contro Biden, raccogliendo oltre 74 milioni di voti, il numero di consensi più alto mai conseguito da un candidato non vincitore.

 

Il divario tra il modello di società perseguito da questa potente casta di illuminati, o autoproclamatisi tali, e gli interessi del 98% dei cittadini si fa sempre più incolmabile, e il dibattito politico viene inevitabilmente condizionato da questa circostanza.

 Gli allarmi lanciati quasi quotidianamente dagli editorialisti quando ci si avvicina a importanti consultazioni elettorali dove i vituperati populisti possono realisticamente aspirare a un successo, hanno dunque ben poco a che vedere con rischi di torsioni autoritarie o anti democratiche, ma rivelano, molto semplicemente, la loro preoccupazione per i possibili intralci o ritardi che potrebbero derivarne alla realizzazione di quel mondo – per loro – idilliaco, in cui la gente “non avrà nulla e sarà felice”.

(Gianmaria Pisanelli.)

(Laureato in Giurisprudenza (Università Sapienza), dopo una breve esperienza come funzionario del Ministero del Lavoro è stato consigliere parlamentare alla Camera dei Deputati per oltre trent'anni.)

 

 

 

I sovranisti s’inchinano

 a Trump.

Internazionale.it - Thomas Legrand, Libération, Francia – (23-1-2025) - ci dice:

 

I sostenitori europei di Donald Trump – Giorgia Meloni, Viktor Orbán, Alice Weidel, Eric Zemmour e, in modo più prudente, Marine Le Pen – hanno in comune con il presidente statunitense un mix di populismo e nazionalismo.

Il problema è che il nazionalismo di Trump, basato sulla potenza degli Stati Uniti e del loro esercito industriale e tecnologico, ha come obiettivo il vassallaggio o almeno la mercificazione del resto del mondo, unicamente a vantaggio del suo paese (“America first!”).

Il nazionalismo degli europei, invece, è circoscritto a ogni singolo paese del continente.

 In Europa la base delle nostre legittimità resta la nazione.

Siamo francesi, tedeschi, ungheresi o polacchi prima di essere europei.

 

Il problema è che nel mondo del 2025 per affrontare i grandi temi che determinano la vita degli europei – ambiente, commercio internazionale, industrializzazione, immigrazione – la dimensione degli stati europei è insufficiente.

 All’epoca in cui è emerso il concetto di stato-nazione, tra il settecento e l’ottocento, i confini dei paesi rappresentavano spazi lontani per popolazioni che conoscevano solo il loro ambiente immediatamente circostante.

Oggi, invece, le nazioni europee sono spazi dall’orizzonte troppo ravvicinato e chiuso.

Le soluzioni dei grandi problemi possono arrivare (a cominciare dalla questione climatica) solo in una prospettiva o molto locale o molto allargata, sicuramente non nel quadro limitato delle nazioni europee.

Eppure i nazionalisti hanno il vento in poppa in quasi tutti i paesi del continente.

 È uno strano paradosso.

La tragica necessità dell’Europa si fa sentire soprattutto oggi, in un momento in cui gli imperi di Russia, Cina e Stati Uniti decidono di attaccare contemporaneamente quello che abbiamo l’abitudine di chiamare “modello europeo”.

Ma questo concetto, che indica un certo modo contrattuale di gestire il rapporto tra le economie, gli stati e le società, sta declinando.

La Comunità europea (e poi l’Unione) e i suoi promotori non sono mai riusciti a convincere né i governi né i popoli d’Europa a costruire il quadro di una nuova legittimità continentale.

Questo è il momento in cui tutti i sovranisti (un modo gentile di chiamare i nazionalisti) dovrebbero farsi da parte.

E invece – utili idioti di Trump, Xi Jinping e Putin – sfilano orgogliosamente in ognuna delle loro piccole nazioni impotenti.

 

 

 

Le promesse oscure

del ritorno di Trump.

 Internazionale.it - M.Gessen -  (21 -11 – 2024) – ci dice:

 

 

Le promesse oscure del ritorno di Trump

Per chi si chiede come mai tanti statunitensi il 5 novembre sembrano aver votato contro i valori della democrazia liberale,” Bálint Magyar” ha una considerazione utile:

“La democrazia liberale offre dei vincoli morali senza la soluzione dei problemi”, cioè tante regole e poco cambiamento, mentre “il populismo offre una soluzione ai problemi ma senza vincoli morali”.

A “Magyar”, ricercatore ungherese esperto di autoritarismo, non interessa definire Trump un fascista.

 Il fascino del presidente eletto, sostiene, è l’espressione di qualcosa di più primordiale:

 “Trump ti promette che non dovrai pensare agli altri”.

In tutto il mondo i populisti autoritari hanno sfruttato il potere di questa promessa per trasformare i loro paesi in strumenti della loro volontà personale.

 Vladimir Putin e Viktor Orbán hanno promesso la restaurazione di un passato semplice, in cui gli uomini erano uomini e stavano al comando.

Hanno permesso di stravolgere la convivenza civile e di seminare l’odio tra i gruppi sociali.

Magyar lo definisce un “egoismo collettivo senza vincoli morali”.

Probabilmente il nuovo presidente statunitense comincerà sbarazzandosi di esperti e altri dipendenti della pubblica amministrazione che considera superflui.

Il primo mandato di Trump aveva seguito sotto alcuni aspetti le orme dell’operato iniziale di Putin e Orbán.

Osservare le loro traiettorie attraverso la lente delle teorie di Magyar ci offre un’indicazione chiara e agghiacciante di quale direzione potrebbe prendere il secondo mandato di Trump.

Nell’inverno del 2021, quando mi era diventato chiaro che Trump si sarebbe ricandidato, ho chiamato Magyar, che ha studiato a fondo l’autoritarismo di Orbán.

Come Trump, Orbán era stato rimosso dal suo incarico nel 2002 con un voto che i suoi sostenitori avevano definito fraudolento, per poi tornare al potere otto anni più tardi.

Nel frattempo aveva consolidato l’immagine di sé e del suo partito come unici rappresentanti del popolo ungherese.

 Quando è stato rieletto ha intrapreso quella che Magyar definisce una “svolta autoritaria”, cambiando leggi e prassi in modo da non poter essere rimosso di nuovo.

 A questo ha contribuito il fatto di avere un’ampia maggioranza in parlamento.

In modo simile, Trump ha passato quattro anni ad attaccare l’amministrazione di Biden e il voto che l’aveva portato alla Casa Bianca, denunciando brogli e ponendosi come unica voce del popolo.

Anche lui è tornato con una tripletta di poteri: la presidenza ed entrambe le camere del congresso.

Anche lui potrebbe in breve tempo rimodellare a sua immagine il sistema di governo statunitense.

Trump e i suoi sostenitori hanno dimostrato una forte ostilità verso le istituzioni civili – la magistratura, i mezzi d’informazione, le università, molte organizzazioni non profit, alcuni gruppi religiosi – che tendono a far rispettare i nostri obblighi reciproci.

Leader autoritari come Orbán e Putin rivendicano per sé il diritto esclusivo di definire questi obblighi.

Se in qualche modo possiamo usare come indicatori questi due leader e il primo mandato di Trump, probabilmente il nuovo presidente comincerà sbarazzandosi di esperti e altri dipendenti della pubblica amministrazione che considera superflui. Aspettiamoci di trovare i funzionari addetti a gestire le domande di asilo in cima a questa lista.

 

Uno dei principali bersagli al di fuori delle istituzioni di governo saranno le università.

 In Ungheria la “Central european university”, un’accademia d’avanguardia per la ricerca e l’istruzione, è stata costretta all’esilio.

 Per capire cosa può succedere alle università pubbliche negli Stati Uniti basta guardare la Florida, dove il governatore “Ron De Santis” ha di fatto trasformato il sistema universitario in un braccio del suo governo.

 L’assalto del “movimento trumpiano Maga” (Make America great again) alle università private è in atto da tempo;

questo ha portato in tempi recenti alle audizioni del congresso sull’antisemitismo, e alle dimissioni di alcune rettrici.

Prepariamoci a delle iniziative che toglieranno alle università private i finanziamenti federali.

Questo genere di pressioni costringerà anche le università più grandi a tagliare posti di lavoro: i college umanistici dovranno chiudere.

Se Trump fosse stato rieletto nel 2020, forse avrebbe cercato di abrogare l’emendamento che stabilisce il limite di due mandati per i presidenti.

 Credo che possa ancora provarci.

Le organizzazioni della società civile – soprattutto quelle che assistono migranti, ex detenuti, persone lgbt, donne e gruppi vulnerabili – saranno prese di mira.

Poi potrebbe essere il turno dei sindacati.

Come Orbán, inoltre, Trump ricompenserà i mezzi d’informazione a lui fedeli e attaccherà quelli che lo criticano colpendo le altre aziende dei loro proprietari.

È una tattica efficace, che forse abbiamo già visto all’opera ancor prima della sua rielezione, quando i miliardari proprietari del” Los Angeles Times” e del “Washington Post” hanno deciso di bloccare la pubblicazione sulle loro testate di articoli che esprimevano sostegno ai candidati presidenziali.

 

La campagna elettorale di “Kamala Harris”, naturalmente, ha cercato di mettere in guardia su questo e altro, definendo Trump un fascista.

 Ma “Magyar” descrive i movimenti fascisti come “guidati dall’ideologia”, cosa che non vale per Trump.

 Prendiamo” Jarosław Kaczyński”, l’ex primo ministro polacco, che ha limitato il diritto all’aborto anche se i sondaggi indicavano che poteva costargli caro.

Trump, invece, ha fatto campagna contro il diritto all’aborto quando gli conveniva, e poi si è posto come paladino dei diritti riproduttivi quando il contesto è cambiato.

Questa distinzione non mi convince.

Per usare l’espressione di “George Orwell”, il volto di un politico si modifica per adattarsi alla sua maschera ideologica.

 Forse l’esempio migliore è “Vladimir Putin”, un tempo un cinico senza convinzioni politiche, che oggi sta conducendo una guerra costosa e disastrosa nel nome di un’ideologia (per quanto incoerente) di sua invenzione.

E solo con il senno di poi i fascisti del novecento appaiono guidati da un’ideologia coerente:

 i contemporanei descrivevano le loro visioni come un guazzabuglio d’idee.

“Jason Stanley”, filosofo di Yale e autore del libro” Noi contro loro”.

Come funziona il fascismo (Solferino 2019) ha affermato che i fascisti non sono definiti tanto dalle loro convinzioni quanto dal loro agire politico:

 manipolano la paura e l’odio contro l’altro, affermano la propria supremazia sull’altro.

Tutte cose che descrivono Trump, non è vero?

 

Ho presentato questa tesi a “Magyar,” ma senza successo.

Lui mi ha detto: “guarda la propensione della famiglia Trump a trarre profitti dal suo incarico politico”.

Questa non è una cosa tipica dei fascisti.

 I nazisti “quando espropriavano gli ebrei dei loro averi, non se li intascavano.

Li mettevano nel bilancio dello stato”, mi ha detto.

 Molti nazisti trassero vantaggio dal saccheggio, ma l’arricchimento personale non era lo scopo principale del movimento.

Per diventare il più ricco d’America Trump dovrebbe accumulare un capitale maggiore di quello di “Elon Musk”, cosa che appare impossibile.

Putin ha risolto il problema, ricattando gli alleati e derubando gli avversari.

 

“Orbán” ha usato la paura e l’odio verso i migranti per dichiarare uno stato d’emergenza quando nel 2015 i rifugiati dal Medio Oriente hanno cominciato ad arrivare in Europa.

 Poi ha usato la pandemia e la guerra in Ucraina come pretesti per adottare poteri speciali.

Allo stesso modo, Trump nel suo primo mandato ha dichiarato un’emergenza nazionale legata all’arrivo dei richiedenti asilo alla frontiera meridionale.

 Il presidente Biden l’ha revocata nel 2021.

 Ma gli Stati Uniti si trovano in uno stato di emergenza permanente dal 14 settembre 2001, quando George W. Bush la dichiarò in risposta agli attacchi dell’11 settembre 2001.

Tutti i presidenti successivi, compresi Barack Obama e Joe Biden, l’hanno rinnovata.

 

I poteri speciali hanno dato a “Orbán” un controllo più ampio sulle forze armate, compresa l’opzione di mobilitare l’esercito per questioni interne al paese.

Negli Stati Uniti il presidente, in alcune circostanze, ha già questo potere.

Ma uno stato d’emergenza offre altri poteri straordinari.

Compresa la possibilità di reindirizzare i fondi federali, come ha fatto Trump per finanziare la costruzione del muro al confine.

 E l’arsenale dei poteri arriva a limitare le comunicazioni elettroniche ed esercitare pressioni sulle aziende private.

Orbán ha usato norme simili per controllare le aziende private.

In Ungheria Orbán è lo stato.

 

“Magyar” descrive la svolta autoritaria come una transizione dallo stato di diritto alla legge del governo.

Nel 2000 lo slogan di Putin nella campagna per le presidenziali era “Dittatura della legge”.

Putin ha cominciato a governare per decreti, come fa Orbán oggi e come Trump ha fatto nel suo primo mandato e come ha detto che intende fare nel secondo.

Leggendo l’opera di “Magyar” su quel periodo, mi ha colpito lo stato d’animo suscitato dalle azioni di Orbán.

Durante il primo mandato di Trump era diffusa la sensazione che stesse succedendo tutto nello stesso momento, che fosse impossibile concentrarsi su eventuali minacce gravi o distinguerle da ciò che invece era irrilevante, ammesso che una tale distinzione esista.

 Non si tratta solo di quello che fanno i leader autoritari, ma di come lo fanno:

far passare leggi (o firmare ordini esecutivi) velocemente, senza alcuna discussione, a volte di notte, sempre continuando a delegittimare qualsiasi opposizione.

Per quanto riguarda i dettagli, sappiamo meno di quello che pensiamo.

Secondo “Magyar” se Trump fosse stato eletto per un secondo mandato nel 2020 avrebbe cercato di abrogare il ventiduesimo emendamento della costituzione, quello che stabilisce il limite di due mandati per i presidenti.

 Credo che possa ancora provarci, aprendo la strada a una sua futura ricandidatura all’età di 82 anni.

 

Il Project 2025 è stato descritto come una sorta di piano legislativo per la seconda presidenza Trump.

 Lo storico “Rick Gerstein “in una serie di articoli sulla rivista “The American Prospect “dice che se ne è parlato in modo fuorviante.

Il Project 2025 è un documento ampio e complesso, pieno di raccomandazioni contraddittorie all’apparenza suggerite da persone con idee e obiettivi differenti. In linea con la teoria di Magyar sui governi autoritari, rappresenta non tanto un documento ideologico quanto uno specchio del clan che dà forza a Trump, e che da lui è rafforzato.

 Non è un programma coerente di riforma legislative, ma è pur sempre un programma:

un piano per travolgere il sistema di governo com’è oggi, un piano di distruzione.

 

 

 

 

Vance, Musk e gli

equivoci sulla libertà.

 Euroctiv.it - Antonio Nicita – (18 feb.- 2025) – ci dice:

 

Elon Musk, Donald Trump, JD Vance presenti a rapporto.

Con un discorso duro e provocatorio a Monaco di Baviera, il vice presidente “Vance” ha bacchettato l’Unione Europea e i suoi Stati membri per quella che considera una frattura crescente nei valori condivisi, in particolare sulla libertà di espressione e su come tutelarla, tra Stati Uniti ed Europa.

Antonio Nicita, Senatore della Repubblica Italiana, è autore de “Il mercato delle verità.

Come la disinformazione minaccia la democrazia” (2021, Il Mulino) e “Nell’età dell’odio.

Sfera pubblica, intolleranza e democrazia” (2025, Il Mulino).

L’ironia?

Vance non ha tutti i torti, ma è proprio il suo intervento a segnare la distanza tra l’Europa e la nuova America sul concetto di libertà di parola.

La visione difesa da Trump, Vance e Musk si allontana dalla tradizione di “Oliver Wendell Holmes”, “John Stuart Mill” e persino dal conservatore “Antonin Scalia”.

 

Il Primo Emendamento garantisce protezione dall’interferenza del governo sulla libertà di espressione, ma la storia della Corte Suprema statunitense non ha mai sostenuto che questo diritto fosse assoluto.

 L’esempio classico di “Holmes “– vietare di gridare “al fuoco!” in un teatro affollato – richiama il pensiero di “Mill”:

la libertà finisce dove inizia un danno imminente.

Anche “Voltaire” fissava un limite nel mantenimento dell’ordine sociale e della pace pubblica.

 E Scalia, nella sentenza “R.A.V. v. City of St. Paul”, chiariva che atti come bruciare la bandiera americana o una croce di legno sono ammissibili solo se inseriti in una protesta politica pubblica.

Per oltre un secolo, la “Corte Suprema” ha legato la libertà di espressione alla ricerca della verità, nella speranza ottimistica di “Mill” che il confronto aperto smascherasse, col tempo, le menzogne.

Ma se il fine della libertà di parola è avvicinare la società alla verità, non riguarda solo chi parla, ma anche chi ascolta, senza interferenze o secondi fini.

In Europa ci siamo posti una domanda semplice:

la selezione algoritmica dei contenuti e le bolle di filtraggio delle piattaforme online garantiscono davvero libertà di parola e di ascolto?

Spingere certe notizie – vere o false – verso pubblici selezionati crea davvero uno spazio informativo equo e neutrale?

E la creazione, manipolazione e diffusione di “fake news e discorsi d’odio “ci avvicina al dialogo aperto immaginato da “Mill e Popper”?

 

Il free speech non è free spin.

 Manipolare non significa esprimersi, soprattutto quando sono gli algoritmi a decidere cosa vediamo online.

Non tutti vediamo le stesse cose.

Non sappiamo cosa vedono gli altri né perché certi contenuti ci vengono mostrati. E spesso dimentichiamo che molte voci online, apparentemente genuine, sono in realtà propaganda pagata, amplificata da eserciti di micro-influencer retribuiti a visualizzazione.

In Europa, difendere la libertà di espressione significa proteggerla dalla disinformazione.

Il diritto a informare e a essere informati include anche il diritto a non essere ingannati.

Un ambiente digitale neutrale o almeno trasparente è essenziale:

è questo l’obiettivo del “Digital Services Act”, che ha messo sotto inchiesta la piattaforma “X” di Elon Musk.

 

Chi vince elezioni grazie a manipolazioni algoritmiche, “hate speech” e “spin online” difficilmente appoggerà regole che vogliono difendere la libertà di espressione dalla disinformazione.

Ma risparmiateci lezioni sul “free speech”.

Vance dice che chi ha paura delle opinioni non può garantire sicurezza.

La nostra risposta?

Se l’internazionale dell’estrema destra e dei suprematisti fosse davvero sicura delle proprie idee, non avrebbe bisogno di odio, bugie e algoritmi per vincere.

I valori europei condivisi si chiamano stato di diritto. E noi, a questo, non rinunciamo.

 

 

La Sapienza celebra il centenario

della Facoltà di Scienze Politiche.

 Lospecialegiornale.it – (19 Febbraio 2025) – Adnkronos – Redazione - ci dice:

 

(Adnkronos) – Il preside Pierpaolo D’Urso:

 “Un luogo dove la conoscenza politica ha plasmato generazioni di pensatori, studiosi, accademici, leader politici e della società civile, donne e uomini delle istituzioni e cittadini consapevoli”.

Roma, 19 febbraio 2025.

Si sono tenute ieri e oggi le celebrazioni per il centenario dell’istituzione della Facoltà di Scienze Politiche della Sapienza Università di Roma.

 Dopo la cerimonia di inaugurazione che si è tenuta presso l’Aula magna del Rettorato, la Sala lauree di Scienze Politiche ha ospitato il Convegno di studi “Scienze politiche: le sfide di oggi, il sapere di domani”. 

“Celebriamo oggi un traguardo importante – ha dichiarato ieri nel suo intervento il professor “Pierpaolo D’Urso”, preside della Facoltà di Scienze Politiche, Sociologia, Comunicazione -:

i 100 anni della Facoltà di Scienze Politiche, un luogo dove la conoscenza politica ha plasmato generazioni di pensatori, studiosi, accademici, leader politici e della società civile, donne e uomini delle istituzioni e cittadini consapevoli”.

“La Facoltà di Scienze Politiche – ha ricordato D’Urso – è stata istituita il 4 settembre 1925 e l’economista “Alberto De Stefani” ne fu il primo Preside.

 La Facoltà rappresentava il compimento di un progetto che affondava le sue radici nel pensiero di “Angelo Messedaglia”, professore di Economia e Statistica del nostro Ateneo, che sottolineava la necessità di affiancare allo studio del diritto una formazione multidisciplinare che includesse economia, statistica, storia, sociologia e geopolitica”.

“Cento anni non sono solo un simbolo di longevità, ma un testamento di dedizione, impegno e visione – ha aggiunto il preside -.

Questa Facoltà, con le sue radici salde nella tradizione e lo sguardo sempre rivolto al futuro, è stata ed è una fucinai di idee, dove si coltiva la speranza per una società migliore e più giusta.

Dopo la riforma del 2010 la nostra Facoltà ha ampliato la portata della sua visione con l’unione di altre anime altre anto preziose: Sociologia e Comunicazione.

Il nuovo assetto della Facoltà è costituito oggi da tre dipartimenti in due dei quali è confluita, in diversa misura, l’eredità della storica Facoltà.

 Questa integrazione – che rappresenta la naturale evoluzione della visione innovativa e lungimirante di “Messedaglia” – ha rafforzato ulteriormente il ruolo della nuova Facoltà come colonna portante del più grande Ateneo d’Europa.

Grazie a questa fusione, oggi siamo un polo multidisciplinare unico – che accoglie oltre 12.000 studentesse e studenti, dimensioni di un Ateneo medio – capace di affrontare le sfide della contemporaneità con uno sguardo ampio e inclusivo”. 

“In questi cento anni, la Facoltà ha avuto un ruolo cruciale nella politica italiana e internazionale – ha sottolineato D’Urso -.

Dal dopoguerra alla costruzione della democrazia, dalla partecipazione ai grandi processi di integrazione europea fino alle missioni per la pace, questa Facoltà è stata protagonista della storia del nostro Paese.

La nostra missione, come comunità accademica, è stata e continuerà a essere quella di formare giovani capaci di navigare la complessità del mondo contemporaneo, con una mente critica e un cuore aperto affinché la realtà non sia solo subìta, ma compresa e trasformata.

La ricerca, il dubbio, il confronto sono i pilastri di questa Facoltà, che da cento anni coltiva il coraggio di porre domande per trovare risposte autentiche.

 Oggi guardiamo ai giovani, a voi studentesse e studenti, con grande fiducia.

Siete voi gli eredi di questo immenso patrimonio, ma anche i costruttori del domani.

È attraverso il sapere che si conquista l’autonomia per affrontare le sfide del presente e del futuro. “

Tra i laureati della nostra Facoltà vi sono numerose personalità illustri, come “Paolo Gentiloni” – già commissario europeo per gli affari economici e monetari e Presidente del Consiglio dei ministri, e “Rosanna Oliva de Conciliis “– che con coraggio e determinazione ha aperto in Italia la strada verso la parità di genere nelle carriere della Pubblica Amministrazione.

Da entrambi sentiremo tra poco una testimonianza come ex studenti della nostra Facoltà.

Tra i suoi più illustri docenti, la nostra Facoltà ha avuto anche alcuni martiri della Repubblica, vittime del terrorismo, che hanno sacrificato la propria vita al servizio delle istituzioni e della democrazia: Aldo Moro, Vittorio Bachelet e Massimo D’Antona.

Nella celebrazione dei 100 anni della nostra Facoltà, il ricordo di questi illustri Servitori dello Stato è un doveroso a o di memoria e gratitudine.

 Come comunità accademica abbiamo la responsabilità di tramandare alle nuove generazioni il loro esempio di impegno e servizio, riaffermando i valori che hanno difeso fino all’ultimo:

 il dialogo, la giustizia e la dignità del lavoro, fondamenta irrinunciabili di una società libera e democratica”.

“Oggi – ha evidenziato il preside – la Facoltà è chiamata a confrontarsi con le drammatiche sfide dell’attualità:

dai conflitti che continuano a segnare il nostro tempo alla necessità di risposte globali alle disuguaglianze e alle migrazioni.

Ma è nelle sfide che troviamo la nostra forza: siamo pronti a costruire ponti dove altri alzano muri.

La multidisciplinarità è il cuore pulsante della Facoltà:

diritto, storia, scienza della politica, economia, statistica, sociologia, lingue e comunicazione convivono e interagiscono tra loro, offrendo un panorama formativo unico nel suo genere.

Questo approccio ci ha permesso di affrontare le grandi trasformazioni sociali e culturali degli ultimi cento anni, contribuendo alla vita politica e all’amministrazione della cosa pubblica con un impatto profondo e duraturo.

Nel celebrare i cento anni della Facoltà di Scienze Politiche, non possiamo ignorare le profonde trasformazioni che stanno investendo le democrazie contemporanee.

Crescente sfiducia nelle istituzioni, polarizzazione politica, crisi della rappresentanza e nuove forme di autoritarismo stanno mettendo alla prova i modelli democratici tradizionali, richiedendo una riflessione critica e la ricerca di nuovi paradigmi di governance.

In questo scenario, la nostra Facoltà è chiamata a svolgere un ruolo centrale nell’analisi e nella proposta di modelli innovativi, capaci di rispondere alle sfide della contemporaneità.

Studiare e comprendere le trasformazioni della democrazia significa non solo analizzarne le fragilità, ma anche individuare nuove prospettive capaci di rafforzarne i principi fondamentali, adattandoli alle esigenze di una società sempre più interconnessa e complessa.

In un’epoca di transizione, la ricerca scientifica e il confronto accademico sono strumenti essenziali per immaginare il futuro della democrazia e della politica:

 la politica non è solo gestione del potere, ma è il tessuto connettivo della democrazia, il respiro che anima le società libere.

A tal proposito, il 12 e 13 giugno organizzeremo il “Convegno di Facoltà “dal titolo ‘Democrazia, Autorità, Processi Globali. Cent’anni di Facoltà’.

Viviamo un’epoca di sfide determinanti, che ci impongono di ripensare il concetto stesso di società.

Ma ogni sfida è anche un’opportunità:

quella di reinventarci, di osare di immaginare un mondo più giusto, inclusivo e sostenibile.

Come ci ricorda Hegel ‘La storia del mondo è il progresso nella coscienza della libertà’.

La nostra Facoltà, in cento anni di storia, ha contribuito proprio a questo progresso, costruendo un sapere che è insieme radicato nel passato e proiettato verso il futuro, sempre al servizio della libertà e della giustizia.

“In questo centenario, onoriamo il passato, ma soprattutto ci impegniamo per il futuro – ha affermato D’Urso -.

E allora, lasciamo che questo centenario non sia solo un momento di celebrazione, ma un grido di speranza.

 Immaginiamo insieme i prossimi cento anni:

un mondo dove la conoscenza politica non sia esclusiva, ma condivisa;

 dove la democrazia non sia solo un ideale, ma una pratica quotidiana vissuta da ciascuno di noi;

dove sapere e amore si uniscono per creare una società più umana.

Il Centenario della nostra Facoltà cade nell’anno del Giubileo, occasione straordinaria per riflettere sul valore della solidarietà, della pace e dell’inclusione, opportunità in cui la nostra Facoltà si pone come protagonista attiva, ossia come motore di cambiamento sociale al fine di promuovere valori universali e come luogo dove la conoscenza si pone al servizio del bene comune.

La Facoltà guarda al futuro con visione e determinazione, pronta a cogliere le sfide dell’internazionalizzazione, delle trasformazioni geopolitiche e sociali, della innovazione tecnologica e delle rivoluzioni digitali, come l’intelligenza artificiale, che sta cambiando il modo in cui impariamo, lavoriamo e viviamo.

Ma la sfida più bella sarà insegnare a realizzare una società più inclusiva, accogliente, che garantisca il rispetto dei diritti umani, che insegni il valore del confronto come mezzo di risoluzione delle controversie, nelle quali devono trovare ruolo dominante la dialettica, il dialogo, il buon senso, la bontà.

Una Facoltà che insegni a costruire e a vivere la pace.

 Come ci ha ricordato il nostro Presidente della Repubblica Mattarella, nel suo intervento in occasione della Giornata del laureato qui in Sapienza, ‘La libertà, la pace e i diritti umani passano attraverso il dialogo […] e l’Università deve educare alla libertà e al confronto”.

 

“Grazie a tutti voi che avete contribuito a rendere questa Facoltà un pilastro della cultura e della società.

 E grazie a voi, giovani, che siete la nostra speranza e la nostra promessa.

 Andate avanti con coraggio, con la consapevolezza che ogni piccolo passo verso il cambiamento è un a o d’amore per l’umanità.

 E ricordate, questa Facoltà non è solo un luogo di studio, ma un faro di speranza, un crocevia di sogni e ambizioni, un laboratorio dove si forgiano le menti e i cuori di chi cambierà il mondo.

È qui, tra queste aule, che il passato incontra il futuro, che le idee si trasformano in azioni, che la passione diventa forza per costruire una società migliore.

Ognuno di voi è una scintilla di questa grande storia, una promessa di ciò che possiamo diventare insieme.

Non dimenticate mai che il sapere è potere, che il coraggio di credere in un ideale può illuminare il cammino dell’umanità. Auguri alla Facoltà di Scienze Politiche – oggi Facoltà di Scienze Politiche, Sociologia, Comunicazione – affinché – ha concluso D’Urso – possa continuare a essere un punto di riferimento per la conoscenza, la democrazia e la crescita delle nuove generazioni e della società”.

 

 

 

I limiti della democrazia nella società aperta.

Riflessione sui sistemi democratici.

 Sociologiaonweb.it - Rosario Fittante – (1° settembre 2023) – ci dice:

“Con il termine politica intendiamo piuttosto riferirci soltanto alla direzione o all’influenza esercitata sulla direzione di un gruppo politico, vale a dire oggi di uno Stato” (Max Weber).

 “Pur nella sua imperfezione, la democrazia rimane l’unico sistema praticabile contro il pensiero unico;

 l’alternativa è un buco nero che preclude ogni libertà, i cittadini pensanti precipiteranno nell’oblio più profondo, e quando comprenderanno che la loro autostrada è diventata una mulattiera buia senza una via d’uscita, sarà troppo tardi e invertire la rotta sarà arduo”.

 

L’inizio del XXI secolo, ha visto profondi cambiamenti sociali, prodotti in gran parte dall’eredità del passato ed in parte da eventi nuovi che ne hanno caratterizzato le trasformazioni globali.

Nelle democrazie occidentali sono diversi i modelli costituzionali, la loro architettura definisce certamente la separazione dei poteri e dei sistemi nell’elezione delle cariche istituzionali.

 In Francia vige un sistema di repubblica semipresidenziale dove il potere esecutivo è condiviso dal presidente della Repubblica e dal primo ministro.

Il Presidente viene eletto a suffragio universale diretto a doppio turno, e ha il potere di nomina del primo ministro.

 In Germania vi è il cancellierato, una repubblica federale dove il cancelliere viene eletto dal Bundestag (parlamento) su proposta del presidente federale che lo nomina ed ha il potere di nomina e revoca dei ministri, e può sciogliere nei casi previsti, il parlamento.

Nel sistema tedesco vi è la sfiducia costruttiva (il Bundestag può sfiduciare il cancelliere solo avendo la certezza di poter eleggere il successore a maggioranza dei suoi membri).

 In Gran Bretagna dove non vi è una carta costituzionale codificata, ma un sistema di norme e statuti che fanno riferimento ad una organizzazione consolidata dello Stato, vi è una monarchia costituzionale parlamentare che si fonda su tre ordini:

La Corona, l’esecutivo e il parlamento.

 La Corona nomina il primo ministro sulla base dei risultati elettorali della Camera dei Comuni.

 Il premier nomina e revoca i ministri e può chiedere lo scioglimento anticipato delle Camere.

 In Spagna vi è una monarchia costituzionale con a capo il re ed è fondata sulla divisione dei poteri, il potere legislativo è esercitato dalle due camere, con il congresso dei deputati che danno fiducia al capo del governo e può esercitare la sfiducia costruttiva.

Il potere esecutivo spetta al premier che è proposto dal re.

Negli Stati Uniti d’America vige una repubblica federale formata da 50 stati e un distretto federale ed è fondata sul presidenzialismo.

Il potere politico è diviso tra il presidente degli Stati Uniti, il Congresso (Parlamento) e le corti giudiziarie federali.

Il presidente è capo dello Stato e guida dell’esecutivo.

La sua elezione passa attraverso il voto dei singoli stati poi conteggiato con il sistema dei grandi elettori, su base nazionale;

 non può essere rimosso tranne che nel caso di Impeachment.

 

L’esempio fatto di alcune democrazie occidentali, ci porta ad una riflessione sul significato etimologico della parola democrazia,

“governo del popolo, ovvero sistema di governo e di valori sociali, in cui la sovranità è esercitata direttamente o indirettamente dal popolo, ovvero l’insieme dei cittadini che attraverso una consultazione popolare, eleggono i propri rappresentanti”.

“Karl Popper”, (1902 Vienna- 1994 Regno Unito) uno dei più importanti filosofi della scienza del ‘900, nella sua opera, “La società aperta e i suoi nemici”, fa una netta distinzione nella descrizione dei valori tra una società aperta “democratica” e una società chiusa, “autocrazia/dittatura”, portatrice di valori presunti assoluti, da imporre con ogni mezzo agli individui subalterni e devoti.

La società aperta è una società di valori, con più visioni del mondo, essa può introdurre proposte politiche, ed è aperta ai partiti politici che la compongono e si sottopone alle critiche più severe facendone tesoro.

Karl Popper nella definizione di società aperta sosteneva:

“La società aperta, è aperta alla fallibilità della conoscenza umana”.

La società chiusa, è chiusa dalla pretesa di essere possessori di verità ultime, totali e razionali, addirittura incontrovertibili, e portatori di valori presunti assoluti razionalmente dimostrati e comunque da imporre agli altri, legittimando il consenso con ogni mezzo, anche con la violenza, reprimendo qualsiasi forma di dissenso.

 Nella società chiusa l’individuo non esiste come soggetto pensante.

“La società aperta e i suoi nemici” è la risposta di Popper, principalmente per affrontare quelli che pensava fossero le ideologie più pericolose del suo tempo, principalmente “Fascismo a destra e Comunismo a sinistra”, quelli peggiori però secondo Popper sono gli irrazionalisti, cioè, sono quelli che non danno nessun valore alla ragione nella convinzione che non debba essere il principale valore sia individuale che sociale.

Le democrazie, si distinguono tra loro per vari aspetti, di carattere sociale, storico e culturale, ma hanno un unico denominatore comune, la libertà di agire degli individui, la possibilità di cambiare, di dissentire, di avere giustizia.

Questi sistemi democratici, come è stato ribadito in precedenza, non sono perfetti, la richiesta di cambiamento deve essere fatta sempre mettendo le libertà al primo posto, perché a volte l’irrazionale ricerca di un cambiamento a tutti i costi, può rivelarsi fatale, il pericolo di derive non democratiche è sempre in agguato, pronto con le sue ricette avvelenate di demagogia.

Come è noto, la storia ci ricorda che le libertà conquistate, sono quasi sempre frutto di guerre, di rivoluzioni che hanno causato milioni di morti;

quindi, nulla può essere dato per scontato, anche nel tempo dell’iper-velocità e dell’intelligenza artificiale.

L’insoddisfazione che l’individuo subisce, spesso causata dal senso di abbandono delle democrazie post-moderne che a causa dell’eccessiva burocrazia, e dei sistemi di potere fatto dalle Caste, e dalle lobby dimenticano le sofferenze e le disuguaglianze del mondo esterno ad essi.

Questo fenomeno sociale può indurre gli individui in modo inconsapevole a cercare un cambiamento che può rivelarsi fatale.

Il populismo, e le fake news, sono i nemici della società aperta, ma hanno il loro fascino nella società di oggi;

l’antidoto è quello di educare socialmente l’individuo ad una maggiore consapevolezza del proprio pensiero, della propria ragione.

 

In Italia si sta discutendo da tempo di una modifica dell’architettura costituzionale, per dare avvio ad una nuova forma di governo, per arrivare ad un sistema presidenziale o un premierato forte, le motivazioni date sono certamente valide, per fornire al sistema Paese le riforme necessarie per renderlo efficiente e competitivo.

Riforme certamente da fare, in funzione di una società che cambia e si evolve, il punto è, come farle, con chi farle, e nell’interesse di chi?

 Dal 1970 al 2018, quasi tutti i partiti che ci hanno governato, hanno tentato di fare alcune riforme, in parte realizzate con qualche modesto risultato, in parte rimaste sulla carta, altre ancora hanno addirittura de-potenziato economicamente il sistema Paese.

 Il debito pubblico italiano, che nel 1970 era il 37,1 %, è arrivato al 131,5% nel 2018 (dati Fondazione Einaudi).

Questa abnorme crescita ha portato l’Italia ad essere l’anello debole tra le economie avanzate.

La politica senza una visione a lungo termine non può dare le risposte che i cittadini si aspettano, guardare solo al prossimo turno elettorale esclusivamente per tenere saldo il potere, con il tempo si troverà senza elettori, queste debolezze rischiano di fare il gioco dei populisti e dei propagatori di fake news che potranno prendere il potere nel nome del “Popolo”.

Questa debolezza democratica, accomuna non solo l’Italia, ma anche molte democrazie occidentali, basta osservare i dati sulla bassa percentuale di elettori che si reca alle urne, un fenomeno che aumenta ad ogni elezione, arrivando in alcuni casi sotto la soglia pericolosa del 50%.

Questo dato molto preoccupante, purtroppo è trattato con disinvoltura dai leader politici sia quando governano che, quando sono all’opposizione;

il perché di questa scarsa attenzione verso il fenomeno potrebbe essere spiegato con il paradosso che meno persone votano, più aumentano i consensi per i monopolisti della politica, questo perché controllando una consolidata fetta di elettori ottengono risultati affidabili che garantiscono al 99% la possibilità di essere eletto

. Chi sono gli elettori che favoriscono questo processo e che consentono con il loro voto una performance elettorale di tutto rispetto nell’elezione di uno o più candidati?

Sempre indicati dal gruppo politico di riferimento e mai dagli elettori.

Alcuni fattori condizionanti potrebbero essere:

il disagio sociale legato alla mancanza di lavoro, o alla condizione socioculturale delle persone meno istruite, o ancora a fattori psicosociali (Carl Hovland 1912-1961), ma sono i social media l’arma più potente che molto spesso persuadono gli elettori, ad identificarsi con i loro leader veri o presunti.

 

La globalizzazione, l’immigrazione, l’invecchiamento, l’insicurezza della popolazione senza più solidi riferimenti sociali e istituzionali, contribuiscono a rendere l’individuo sempre più dipendente, dal medium digitale nella “società dell’indifferenza”.

Questa moltitudine di elettori sempre più numerosa, oggi si informa esclusivamente attraverso la piazza virtuale e, come un moltiplicatore si auto-manipolano, metabolizzano fatti, notizie, e quant’altro propinati dai social media senza verificarne l’attendibilità, diffondendo a loro volta notizie mai verificate.

Questi soldatini della rete, armati di tastiera e smartphone, saranno sempre lì pronti a diffondere all’infinito le nuove fake news, nella spensierata convinzione di essere stati utili ad una giusta causa.

 Nell’ultimo decennio della post-modernità, vi è stata una forte accelerazione della comunicazione nella piazza virtuale, gli algoritmi, i medium digitale (siti web, chat room, posta elettronica, forum, ecc…) hanno completamente modificato la struttura sociale e la vita degli individui, completamente assorbiti dalla web society, dove discernere il reale dall’irreale diventa sempre più complicato.

 Il cambiamento sociale è irreversibile, le società cambiano e si adeguano ai processi sociali sulla base delle nuove scoperte scientifiche.

Nuovi paradigmi rimoduleranno la società proiettandola nel nuovo mondo degli avatar: sarà progresso oppure no?

La risposta la darà il tempo, il pericolo però è dietro l’angolo e si chiama: “cattivo utilizzo delle tecnologie” che può far precipitare l’individuo in un buco nero, dove l’attrazione gravitazionale è così forte da catturare anche il futuro.

La sfida dei governi eletti democraticamente, sarà quella di sconfiggere questo moltiplicatore di fake news, per evitare che la nuova frontiera dell’intelligenza artificiale possa diventare “stupidità artificialmente costruita”.

 

(Il Potere e la Potenza- Max Weber)

(Erfurt 1864- Monaco 1920).

 

In politica la differenza tra potenza e potere è sostanziale, sono due concetti antitetici che segnano la differenza tra la libertà e la sua negazione, questi due concetti e il suo seguito descritti da Max Weber, ci portano a definire meglio limiti e debolezze dei sistemi democratici moderni.

La “Potenza” è la possibilità di imporre a un altro individuo la propria volontà, a prescindere dalla volontà che questo individuo ha di obbedire o meno, questo concetto è quasi come un brutale rapporto di forza.

 Il “Potere” è la possibilità di trovare obbedienza ad un proprio comando.

 Una relazione di potere è quando colui che obbedisce assume il contenuto del comando come massima del proprio agire.

Vi sono molti modi che portano all’obbedienza di alcuni individui verso altri individui, per esempio per paura, per convenienza, per interesse ecc…

Ma ce n’è uno che rende davvero stabili le relazioni di potere, questo elemento è la credenza nella legittimità di chi esercita il comando, questa legittimità del potere può durare nel tempo.

Il potere per Weber è l’elemento centrale sul quale si fonda il rapporto dell’individuo cittadino elettore con lo stato, egli elenca tre forme di potere legittimo:

Potere tradizionale – Potere razionale/ legale -Potere carismatico.

Il potere tradizionale si basa sulla credenza e sulla fede, nell’autorità dell’eterno ieri, è una forma di potere in cui noi obbediamo ad una persona, perché essa incarna una tradizione valida da sempre.

Non si obbedisce al comando di una persona, ma alla tradizione che essa rappresenta ed è valida da sempre.

 Il potere razionale /legale è una forma di potere che si basa sulla credenza nella legittimità, cioè un insieme di regole razionalmente stabilite, si obbedisce ad un bene superiore, perché agisce sulla base di regole definite razionalmente leggi, che non sono frutto di una tradizione, e preesistono alla persona alla quale si obbedisce, potere impersonale di natura ordinaria che è routine nella vita sociale.

Il potere carismatico è una forma di potere in cui si obbedisce alla persona in quanto tale, perché si ha fiducia nella persona che impartisce il comando per le sue doti straordinarie;

secondo Weber questo potere si manifesta in tempi di crisi e non rispecchia nel suo agire norme tradizionali o regole razionali.

 La sua legittimità è condizionata da un meccanismo di prova e di riconoscimento, il capo carismatico è l’uomo che deve risolvere la crisi e deve dimostrare di essere in grado con il suo successo, con la sua gloria, di risolvere una situazione eccezionale.

 Ma come tutti i poteri carismatici nella storia se questa prova non c’è, le cose vanno male, il potere carismatico del capo inizia a dissolversi lentamente fino a perdere ogni consistenza, (Il potere carismatico per Weber non ha durata) qui è il punto in cui avviene il ripudio.

 Max Weber specifica che il riconoscimento dei dominati nei confronti del capo carismatico, non configura in nessun modo un processo democratico, ma esso ne pretende il riconoscimento.

Nel saggio del 1919 “La politica come professione”, Weber precisa che il luogo della politica come professione è nei partiti politici, e quando arriva la democrazia succedono 4 cose:

1) arrivano i partiti politici e la politica deve organizzarsi;

2) Chi controlla il partito controlla tutto: nasce una nuova oligarchia.

3) Arriva il cesarismo e i partiti si sottomettono al leader che li fa vincere.

4) I parlamentari diventano un branco di votanti ben disciplinati che segnano la fine del parlamentarismo: tutto si sposta nelle segreterie dei partiti.

 

Nei periodi di cambiamento, “le ideologie non devono vincere”.

La politica può essere fatta in due modi, si può vivere per la politica, o vivere di politica, nel primo caso la politica è fatta per passione ed è alimentata da un fuoco anteriore che anima quella persona;

vivere della politica invece vuol dire trovare quei mezzi che permettano di occuparsi di politica costantemente.

Qui Weber differenzia i due concetti, quello dell’etica dei principi o dell’intenzione e l’etica della responsabilità, sostenendo che questi due concetti apparentemente antitetici possano convivere.

Per comprendere la relazione dei due concetti Weber traccia le tre caratteristiche che contraddistinguono l’uomo politico e sono:

la passione, il senso di responsabilità e la lungimiranza.

Quindi vivere di politica, perché si hanno dei temi da proporre (passione, valori ecc…), ma chi si occupa di politica solo per passione è destinato a perdere, poiché per Weber la sola passione non crea l’uomo politico, può però farcela se nella causa che vuole portare avanti, non fa anche della responsabilità, nei confronti di essa la sua stella polare dell’agire.

Quindi la qualità principale del politico deve essere la sintesi dei due concetti e cioè avere la capacità di coniugare la passione con la lungimiranza, con la responsabilità, essere spinti da una causa ispiratrice, prevedendo le conseguenze del proprio agire, mettendo una sorta di barriera tra sé e il mondo circostante senza farsi coinvolgere eccessivamente (passione e freddezza).

 Il pericolo maggiore del politico però è rappresentato dalla vanità, essa è un vizio radicato in ogni uomo e in ogni professione, e comporta il pericolo dell’auto compiacimento, che mette il proprio ego di fronte a qualsiasi cosa, in politica questo vizio è fatale perché viene meno la causa del proprio intervento, e in preda alla vanità tenderà ad agire nel vuoto, senza vedere ciò che accade intorno a lui.

La politica deve essere fatta con la testa, ma non solo con essa, etica della responsabilità, etica dei principi e buon senso possono aiutare a commettere meno errori.

(Dott. Rosario Fittante, sociologo).

 

 

 

 

 

 

Il CTO di Meta ai dipendenti: se non siete

d'accordo con il nuovo corso, andatevene.

Hwupgrade.it – (14-2-2025) - Manolo De Agostini – ci dice:

 

Clima teso in casa Meta dopo i cambiamenti alla policy interna sui programmi di diversità, equità e inclusione (DEI) e la gestione del dibattito interno.

Il CTO Bosworth avrebbe risposto ai dipendenti sugli ultimi sviluppi senza troppi giri di parole.

La decisione di Meta di cessare con effetto immediato i suoi programmi di diversità, equità e inclusione (DEI) ha suscitato malumori all'interno della società guidata da Mark Zuckerberg.

I dipendenti hanno espresso preoccupazione per i recenti cambiamenti di policy introdotti dopo l'insediamento del presidente degli Stati Uniti Donald Trump.

Secondo loro, le nuove politiche prendono di mira la comunità “LGBTQ,” sostengono ideologie di estrema destra e limitano la libertà di espressione.

Secondo quanto riportato da” Business Insider”, durante una discussione su una chat interna, il direttore tecnologico “Andrew Bosworth” avrebbe dichiarato chiaramente che chi non è d'accordo è libero di andarsene.

 

L'articolo fa riferimento a un post condiviso il 30 gennaio in un “thread” intitolato "Let's Fix Meta", all'interno di un gruppo aperto sul forum interno “Work place”.

In quel contesto, un dipendente criticava Meta per aver tagliato i programmi DEI e per aver, a suo dire, messo a tacere il dissenso interno.

Bosworth ha risposto che i dipendenti che ritengono giusto divulgare informazioni interne ai media a causa di disaccordi politici "dovrebbero prendere in considerazione l'idea di lavorare altrove".

“Bosworth” ha citato il problema delle fughe di notizie, facendo riferimento a un recente memo di Mark Zuckerberg, in cui il CEO lamentava il ripetersi di “leak alla stampa “prima di ogni annuncio o cambiamento interno.

Da qui la decisione della dirigenza di non rispondere più a sessioni di domande e risposte in tempo reale nei meeting interni, optando per un sistema in cui i dipendenti propongono le domande in anticipo, con le più votate che vengono affrontate.

Nella chat, un dipendente ha replicato a Bosworth sostenendo che incolpare i lavoratori per le fughe di notizie non fosse la risposta giusta e che i dipendenti di Meta si sono sentiti non rispettati.

Bosworth ha risposto: "Dovresti licenziarti se ti senti così, dico sul serio".

Nel suo post, il CTO ha aggiunto: "Come previsto, l'intero Q&A di oggi è trapelato.

Sembra che qualcuno abbia dato l'intero audio a un giornalista.

Ho visto tutte le reazioni arrabbiate e tristi sul cambiamento del formato e condivido un senso di smarrimento, ma credo che quanto accaduto chiarisca che è stata la decisione giusta".

Commentando il post, un dipendente ha giustificato quanto avvenuto come la conseguenza dei cambiamenti in atto:

 "1. L'azienda cambia le politiche per colpire specificamente la comunità LGBTQ,

 2. Taglia i propri programmi DEI

, 3. La leadership va su un podcast di estrema destra per spiegare i cambiamenti invece di rivolgersi ai dipendenti,

4. Limita la libertà di parola internamente... e c'è da sorprendersi?".

In risposta, Bosworth ha scritto: "Se il vostro punto di vista è 'tutti devono gradire tutte le politiche che abbiamo e se non lo fanno è appropriato farle trapelare', allora penso che dovreste considerare di lavorare altrove".

Un dipendente ha aggiunto: "Incolparci per le fughe di notizie per il fatto che le decisioni politiche di Mark non possono nemmeno essere discusse, tanto meno appellate, è uno schiaffo in faccia.

 Siamo tutti qui perché quando siamo stati assunti eravamo i migliori candidati per il lavoro".

 Il dipendente ha sostenuto che i lavoratori sono stati trattati male.

Bosworth ha espresso turbamento per l'insinuazione che i dipendenti venissero maltrattati:

"A meno che tu non ti riferisca ai cambiamenti di politica, nel qual caso Mark ha passato un bel po' di tempo a parlarne, sembra che tu non sia d'accordo. In questo caso puoi andartene o non essere d'accordo e impegnarti".

Un dipendente ha chiesto dove fosse possibile esprimere critiche, dato che le discussioni interne vengono scoraggiate, mentre un altro ha parlato di un clima che sta rendendo Meta un "luogo di lavoro più ostile".

 

Vance umilia la UE woke:

una lezione di libertà.

  Lavocedelpatriota.it – (15 Febbraio 2025) - Cecilia Carapellese – ci dice:

 

 

 

JAMES DAVID VANCE, un patriota.

Avete mai provato a sporgervi da una finestra, in punta di piedi, cercando di osservare cosa c’è fuori? Ecco.

 Esattamente quella sensazione di precarietà, tra ciò che sta dentro e ciò che c’è fuori, quella sensazione che con una sola mossa si può tornare con i piedi ben per terra o precipitare nel vuoto.

 Ecco, questa è la condizione in cui si trova adesso l’Unione Europa.

Una Unione che sta vivendo in un equilibrio fragile, fragile che rischia, se fa il minimo movimento sbagliato, di cadere giù.

Questa condizione l’ha ben rappresentata il vicepresidente USA, JD Vance, nel suo intervento alla Conferenza sulla sicurezza a Monaco.

Il repubblicano ha evidenziato come il Vecchio Continente stia passando un momento di forte squilibrio interno, più precisamente dal punto di vista valoriale.

Uno squilibrio che, drammaticamente, non deriva da fattori esterni, quanto piuttosto da scombussolamenti che muovono dalla pancia degli stessi paesi europei.

“La minaccia che mi preoccupa di più nei confronti dell’Europa non è la Russia, non è la Cina, non è nessun altro attore esterno.

Ciò che mi preoccupa è la minaccia dall’interno.

 L’allontanamento dell’Europa da alcuni dei suoi valori più fondamentali, valori condivisi con gli Stati Uniti d’America” ha infatti dichiarato, aggiungendo che “Quando guardo oggi all’Europa, non è chiaro cosa sia accaduto ad alcuni dei vincitori di quel conflitto.

Hanno paura della libertà di espressione e scappano di fronte ai loro elettori”.

Ma non si può e non si deve avere paura di quelle “opinioni che non sono d’accordo con la leadership”.

Perché, e qui Vance ha aperto il vaso di Pandora da troppo tempo chiuso:

 “La democrazia poggia sul sacro principio che la voce del popolo conta.” Centrato.

 

E poi, ancora, altro attacco all’Unione europea, e in subordine alla cultura woke:

“Non potete costringere le persone a pensarla in un certo modo, a sentire o credere in un certo modo.

Chiudere le serrande di fronte a punti di vista non ortodossi”.

 Colpito di nuovo, e stavolta affondato.

Dalla Gran Bretagna alla Svezia fino alla Germania.

Tutti i casi in cui il pensiero imposto ha avuto la meglio sulla libertà di espressione.

Vance per far comprendere meglio questo agghiacciante stato di cose ha portato alla luce diversi esempi, calcando la mano su come le autorità sia a livello unione europea che nazionale stiano sostanzialmente reprimendo la libertà di espressione da parte di quei cittadini che non si allineano al pensiero unico dominante.

Ma anche in termini di democrazia generale, secondo il Vicepresidente Usa, c’è una forte crisi in Ue:

 “Quando vediamo tribunali europei annullare elezioni e alti funzionari minacciare di annullarne altre, dovremmo chiederci se stiamo rispettando standard sufficientemente elevati di democrazia”, ha infatti commentato.

Ha raccontato poi di come la “Commissione europea” intenda chiudere i social media durante i periodi di disordini civili nel momento in cui individuano “ciò che hanno giudicato essere, tra virgolette, un contenuto odioso.”

Ha ricordato anche che in Germania la polizia ha effettuato retate contro cittadini sospettati di aver postato commenti anti-femministi online, “come parte della lotta alla misoginia su internet”.         

E, ancora, in Svezia, dove due settimane il governo ha condannato un attivista cristiano per aver partecipato al rogo del corano che ha provocato l’omicidio di un suo amico.

Infine, “forse, cosa più preoccupante”, ha menzionato il Regno Unito con il caso di “Adam Smith,” fisioterapista cinquantunenne che poco più di due anni fa è stato condannato per aver ‘osato’ pregare a meno di duecento metri da una clinica abortista, in virtù di quelle leggi che “criminalizzano la preghiera e altre azioni che potrebbero influenzare la decisione di una persona entro 200 metri da una struttura abortiva”.

Un caso, però, che non è isolato, ma anzi è rappresentativo di una legislazione avvilente nei confronti delle libertà di espressione e opinione, anche quelle più private e personali.

Temo che la libertà di parola sia in ritirata in tutta Europa”, ha chiosato, ammonendo la platea presente e, in generale, tutti gli ‘allineati’ al mainstream, che tanto millantano libertà e uguaglianza e poi sono i primi a invocare la censura se qualcosa non va loro a genio.

 

Focus migranti. Per Vance “Serve un cambio di rotta.”

Il patriota americano si è infine focalizzato sul tema migranti, tra gli argomenti più caldi dell’agenda mondiale.

Credo che non ci sia nulla di più urgente della migrazione di massa”, ha sottolineato, aggiungendo che connessa a questo c’è una grande “immigrazione di criminali”.

 Un problema evidente e che è necessario da affrontare.

Ma non come ha fatto e sta proseguendo a fare l’establishment europeo.

“Oggi una persona su 5 viene dall’estero, è simile negli Usa, il numero dei migranti entrati nella Ue sono raddoppiati nel 2021.

L’Europa deve cambiare rotta sull’immigrazione”, ha detto Vance.

L’Europa rappresenta un mondo alla deriva, stretto tra le maglie della cultura woke.

Quello che ha raccontato ieri Vance, e che è stato accolto con un silenzio assordante – tra un misto di stupore e incredulità- è un mondo alla deriva.

Un mondo, o meglio, una Europa, che ha dimenticato i suoi valori fondanti e fondamentali per inseguire un universo nel quale ad esistere deve essere un solo ed unico pensiero, incontrovertibile.

Una Europa che, tristemente, non si allontana da quella realtà raccontata quasi un secolo fa da “George Orwell “nel suo romanzo ‘1984’.

Una realtà, che, se prima solamente immaginata e narrata, ad oggi non appare più così lontana, e rischia di divenire sempre più vera e reale, a meno che non si agisca subito, cambiando rotta e ristabilendo l’equilibrio necessario.

 Affinché nessuno tema più per la propria sicurezza e la propria incolumità, e affinché ognuno torni ad essere libero di poter esprimere la propria opinione e di poter parlare e pregare senza venire accusato di essere un criminale.

E dunque, per evitare di arrivare davvero a vivere in un mondo senza più sogni e speranza, è necessario che vengano ritrovati i principi che una volta condussero alla creazione della bella Europa, sconfiggendo una volta e per tutte quelle derive “wokiste” e della “cancel culture” che nient’altro fanno se non avvilire e sminuire l’uomo.

Gli Stati Uniti, rieleggendo Trump, lo hanno capito forte e chiaro e lo stanno gridando a gran voce.

 Ed è ora che anche l’Europa si risvegli dal suo torpore e torni a combattere per la propria libertà e per la propria sicurezza.

 

 

Cattolici e politica. Mons. Renna:

 no al partito unico, sì al

processo di inclusione trasversale.

Portalecce.it - Alberto Baviera – (16 Febbraio 2025) - ci dice:

 

“La ‘Rete di Trieste’ - che ho definito ‘una sorpresa dello Spirito’ - non costituisce l’avvio di un processo per la costituzione di un movimento politico, né vuole escludere qualcuno”.

 Ma coltiva l’intento di includere in maniera trasversale quanti amministrano la cosa pubblica avendo chiaro il riferimento per le loro scelte i principi della Dottrina sociale della Chiesa”.

Lo ha affermato mons. “Luigi Renna, arcivescovo metropolita di Catania e presidente del Comitato scientifico e organizzatore delle Settimane sociali, in video collegamento nella giornata conclusiva della costituente “La rete di Trieste. (Perfino) più di un partito” che si è svolta fino a ieri al “Th Hotel Carpegna” di Roma.

Nella sua riflessione, il presule si è soffermato sui “veri e falsi profeti” di cui si parla nel Vangelo di Matteo.

 I “profeti coltivano la speranza” ma bisogna stare attenti e saperli distinguere - attraverso un “discernimento” non sempre “facile” - “tra coloro che illudono e hanno secondi fini e chi invece lascia avanzare il regno di Dio”.

“Ciascuno di voi incarna la profezia nel suo impegno per il bene comune”, il tributo di mons. Renna che ha invitato a “misurare il proprio impegno sulle attese più importanti, che per noi credenti sono quelle delle Beatitudini”, e a “rispondere alle esigenze che vengono dal grido dei poveri che è un tutt’uno con il grido della terra”.

“Il frutto - ha evidenziato - non è la politica ma il bene della polis, e la politica è lo strumento” per raggiungerlo.

 “A Trieste - ha rilevato - abbiamo visto che la democrazia è sostanziale”; e, “atterriti dall’astensionismo”, ha richiamato la necessità di “rigenerare la partecipazione”.

L’arcivescovo si è poi soffermato sul “pluralismo di scelte partitiche da parte dei cattolici che non vogliamo piegare ad un progetto univoco ma accompagnare a realizzare opere di giustizia e carità”.

“Ognuno di voi - ha aggiunto Renna - è impegnato nel proprio territorio, ha le sue radici nella formazione cristiana.

La prospettiva più ampia che ci accumuna è il bene del Paese, dell’Europa, del mondo.

A questa ampiezza ci richiama la Dottrina sociale della Chiesa” a cui hanno attinto diversi “uomini e donne che hanno dato il loro prezioso apporto di pensiero e impegno, con sacrificio e alle volte martirio”.

Nella sua riflessione il presule ha richiamato il “modello del poliedro” per affrontare una situazione nella quale “le polarizzazioni non aiutano.

 Ma crediamo - ha sottolineato - che la forza di impegno e idee” nella “dinamica del poliedro” aiutino a superarle, anche perché “se le polarizzazioni diventano assolute ci immiseriscono”.

Dall’arcivescovo l’invito a “tornare a formare a tutti i livelli” perché “solo chi ha una coscienza ricca di valori potrà servire l’uomo”.

 E “se voi siete qui, è perché non avete gettato la spugna nell’impegno a formarvi”, ha proseguito, prima di sottolineare che “il recente richiamo di Mattarella a Marsiglia è evidentemente molto scomodo per chi non vuole leggere in maniera sapienziale la storia”.

Bisogna portare avanti il “sogno di un’Europa che ha garantito pace e sviluppo, dove non si possono creare muri.

Il sogno dell’Europa non può tramontare o fare passi indietro”, il monito di mons. Renna.

L’arcivescovo ha esortato a “condividere in luoghi di confronto e dialogo”, anche perché in passato “ci siamo feriti tra credenti, dando spazio più alle nostre appartenenze partitiche e politiche e meno alla nostra comune appartenenza al Vangelo”.

Il presule ha anche evidenziato come “siamo chiamati a far maturare la pagine sull’impegno laicale del Concilio Vaticano II”.

Serve “un militare non ideologico ma critico” e “non possiamo divederci su valori - la difesa dell’embrione, della vita, del lavoro, dei migranti - che sono un tutto”.

Nella convinzione che “questo dialogo” avviato a Trieste “farà bene non solo ai credenti ma al nostro Paese”, mons. Renna ha invitato i presenti a “camminare insieme” e a “non cedere a chi vorrebbe vederci divisi anche nel dialogo fuori dai partiti”.

 

 

 

 

L'INEVITABILE RITORNO

DEL MACCARTHYSMO.

Nuovogiornalenazionale.com - Marco Della Luna – Opinioni – (17 Febbraio 2025) – ci dice:

 

Il nucleo al vertice del potere occidentale, col suo modello economico incentrato sulla speculazione finanziaria e sulla rendita in pratica senza limite, che nei fatti concentra la ricchezza e diffonde la povertà, è oggi discreditato e battuto sul piano sia economico che militare da un modello di sviluppo alternativo, russo, cinese (ma non solo), basato sul finanziare l'economia reale e gli investimenti utili.

Perciò, al fine di distrarre l’attenzione dell’opinione pubblica dal proprio fallimento, essa si difende lanciando una nuova caccia alle streghe e una istigazione al riarmo e al confronto militare contro la supposta minaccia russa e cinese.

 

Fino forse alla metà degli anni ‘80, fino ai disastri di Chernobyl e dell'Afghanistan, l'Unione Sovietica comunista era presente come possibile modello alternativo di società ed economia rispetto a quello capitalistico occidentale.

Almeno sul piano politico, ideale, aspirazionale, psicologico, il comunismo costituiva una concorrenza per il capitalismo a trazione egemonica statunitense.

Una concorrenza e un'alternativa concrete e temibili soprattutto negli anni ‘50, nel periodo di grande sviluppo economico, tecnologico, scientifico e militare, che coincideva con una importante fase di decolonizzazione e di contestazione dell'imperialismo occidentale.

 Logico quindi che si sviluppasse, come difesa anche in forma di inibizione e repressione culturali, il fenomeno del maccartismo, della caccia alle streghe contro il comunismo e dei suoi simpatizzanti veri e supposti.

Ma a quei tempi anche il modello capitalista andava forte e assicurava occupazione, benessere, stabilità in Occidente.

Prometteva un buon futuro.

Cosa che non è più.

Oggi dalla Russia e dalla Cina, sebbene divenute capitalistiche, ritorna una minaccia all'egemonia e al pensiero unico socio-economico neoliberale che domina il declinante Occidente.

Ritorna in forma di modello alternativo e palesemente più efficace, più sostenibile, e anche più amico della società civile, anziché al puro servizio dell’oligarchia bancaria.

Meno predatorio.

 

L'intero Occidente infatti da quasi tre anni è impegnato contro la Russia in una lotta economica (con le sanzioni) e altresì militare (con imponenti forniture belliche), nel contesto della “proxy war” dell'Ucraina.

L’UE ha speso ad oggi 145 miliardi – con che risultato?

 L’Europa si è svenata, gli USA si prendono le risorse minerarie ucraine, l’Ucraina perde i territori più ricchi, non entra nella NATO e la “pace” viene negoziata sopra la sua testa (come è naturale, in una “proxy war”).

 Il Pil dei paesi Nato è 20 volte quello della Russia, e così pure il suo budget militare, e la sua popolazione è ottupla.

 I suoi governanti e i suoi media non proprio oggettivi avevano preannunciato il tracollo economico e militare della Russia entro poche settimane o mesi, per effetto delle sanzioni, e (mentendo) affermavano che i soldati russi stessero già combattendo con le vanghe, avendo esaurito le munizioni.

 

Al contrario, la Russia non solo tiene testa in termini di produzione e di spiegamento di armi, e fa continui progressi sul terreno, ma sta godendo di una notevole crescita economica, la borsa sale, il rublo è ai massimi dalla scorsa estate, e Mosca è leader di una nascente e crescente coalizione detta dei “BRICS”, che si sta dotando di un suo sistema bancario alternativo all’angloamericano” SWIFT” e di un sistema monetario alternativo al Dollaro, che ne minaccia il ruolo di moneta di riserva.

 L’industria russa produce armi e munizioni a un ritmo adeguato e a costi sostenibili, che sono (pare) circa un decimo, o meno, di quelli occidentali.

 La Cina, dal canto suo, negli ultimi 40 anni, mentre l'Occidente, e soprattutto l'Europa, e ancora di più l'area comunitaria, hanno percorso un cammino di stagnazione, indebitamento, demolizione dell’industria primaria (l’auto motive), perdita di posizioni nella dimensione mondiale - la Cina, dicevo, è balzata da paese sotto sviluppato a potenza leader dello sviluppo mondiale, con gigantesche realizzazioni infrastrutturali e militari, e diventando la manifattura del mondo occidentale.

 

È riuscita a far ciò perché ha stampato soldi e li ha investiti nell’economia reale, aumentando la produzione e la produttività e la domanda interna, mentre la FED, la BCE etc. stampano moneta e la mettono nei mercati speculativi e improduttivi togliendola dagli investimenti e dai redditi per prevenire un’esplosione inflattiva.

 

E l’India? L'India, dal 2008 al 2024, ha avuto un incremento medio del PIL del 6,4.

Ma, se tutto questo è vero, allora la dottrina economica che ci viene propinata in Occidente come giustificazione e legittimazione di tutte le scelte recessive di fondo, con la sua virtuosità di bilancio e i suoi vincoli, è tutta una balla, è distruttiva, i nostri statisti e governanti, i nostri banchieri centrali, sono un branco di inadeguati, che alla fine danneggiano il proprio ambito interno, al servizio di soggetti che non si assumono le responsabilità.

Per di più a tutto questo si aggiunge la loro narrazione in materia di tutela ecologica, con ciò che ne consegue come ulteriori danni che si vanno a creare.

Di fronte a tale conclusione, l’attuale maccartismo russofobo è pertanto una inevitabile reazione difensiva della cricca di potere che governa l'Occidente imponendogli un modello economico finanziario costruito esclusivamente a tutela delle rendite e del mantenimento del controllo di questa medesima élite, con il sacrificio dell'economia reale, dello sviluppo, degli investimenti, dei servizi, dell'occupazione, sostanzialmente della popolazione generale, di tutti coloro che non beneficiano direttamente della macchina stampa soldi, e che vedono il loro redditi e patrimoni taglieggiati da inflazione e da una crescente tassazione che rincorre, e a cui si prescrive di prepararsi a un mutamento profondo del tenor di vita per salvare l’ecosistema.

Mutamento che si annuncia con la recessione e le chiusure aziendali.

(Green Transition, Net Zero, C40 etc.).

Le nazioni occidentali sono sottoposte a stati, ad apparati pubblici, tanto indebitati, da obbedire ciecamente ai loro finanziatori e da non lasciare alcuno spazio alla tutela degli interessi della popolazione né alla rappresentanza della medesima negli organi istituzionali, né a uno spazio di autonomia decisionale rispetto ai Diktat del rating, dei mercati, dei banchieri centrali.

Praticamente, è la fine del settore pubblico, dello spazio per una politica pubblica.

I mass media interamente controllati e strategicamente sovvenzionati dalla cricca non propongono alcuna critica a questo sistema, al massimo ne contestano isolate applicazioni e alcune conseguenze, di cui però non individuano le radici eziologiche profonde.

Plutocrazia totale, democrazia zero.

 Non si tratta di essere filorussi o filocinesi o filo indiani – Russia, Cina e India curano i loro interessi, non i nostri – ma di individuare il nostro nemico interno e i suoi kapò.

La trasformazione socio economica che la "cricca" porta avanti è chiaramente verso un sistema di proletarizzazione generale e livellamento al basso del corpo sociale, e sua sottoposizione a un controllo totale e univoco, senza possibilità di resistenza, da parte di essa, grazie anche ai mezzi tecnologici di cui dispone.

Sul piano della realtà tangibile, l'Europa occidentale è in recessione, e  se togliamo l’1,5% circa di PIL dovuto ai soldi a debito del PNRR, è una recessione grave.

 

La narrazione ideologica e moralistica di amicizia e unità atlantica, fondamentale pilastro dello storytelling occidentale, è messa in discussione dal sabotaggio del gasdotto Nord stream eseguito per volontà della NATO, da l 'appropriazione energetica di Washington ai danni dell’economia europea, e, adesso, dai dazi punitivi contro gli alleati subalterni e dal fatto che Washington si prende i tesori minerari dell’Ucraina lasciando all’Europa il costo della sua difesa.

Peraltro anche gli USA sono in grave crisi economica e sociale, con una povertà dilagante.

Logico quindi, anzi inevitabile, che il potere occidentale reagisca in modo rabbioso, attraverso i suoi "sottoposti" ai vertici dell'Unione Europea, della NATO, dei singoli paesi, chiamando a una corsa agli armamenti contro la Russia, scatenando una campagna russofoba, bandendo persino compositori, poeti e novellisti del passato, colpevoli di appartenere a quella nazione.

Il concorrente che ha successo sul piano pratico e che quindi minaccia di smascherare gli scellerati e antisociali intenti della cricca occidentale, deve essere demonizzato sul piano morale e oscurato su quello culturale.

La questione va spostata dal piano della realtà socio-economica, in cui la cricca rimane inevitabilmente sputtanata, al piano ideologico e moralistico, sul quale la cricca si difende bene perché controlla completamente il clero mediatico e intellettuale, clero che dipende interamente dai soldi che essa elargisce.

 

Un piano per Gaza che

ha già fatto danni.

Internazionale.it - Meron Rapoport, +972 Magazine-Sikha Mekomit, Israele – (13-2-2025) – ci dice:

La proposta di Donald Trump di trasferire gli abitanti del territorio palestinese avvelenerà la società israeliana e metterà a rischio il futuro della regione.

Nel settembre 2020, verso la fine del suo primo mandato presidenziale, Donald Trump aveva patrocinato la firma degli accordi di Abramo tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein sul prato della Casa Bianca.

Gli accordi, a cui nei mesi successivi avrebbero aderito anche Sudan e Marocco, furono presentati come “accordi di pace”, ma sarebbe stato più corretto definirli “accordi per emarginare il popolo palestinese”.

 Il loro obiettivo non era creare la pace – quegli stati non erano in guerra – ma piuttosto stabilire una nuova realtà regionale in cui la lotta di liberazione palestinese sarebbe stata marginalizzata e infine dimenticata.

I successivi quattro anni e mezzo sono stati i più sanguinosi nella storia del conflitto israelo-palestinese.

 Sei mesi dopo la firma degli accordi, durante il Ramadan, le forze israeliane hanno attaccato i fedeli alla moschea di Al Aqsa e hanno cercato di sfrattare le famiglie palestinesi dal quartiere Sheikh Jarrah di Gerusalemme, scatenando una raffica di razzi di Hamas da Gaza e un’esplosione di violenza intercomunitaria tra ebrei (sostenuti da soldati e polizia israeliani) e palestinesi, che ha travolto l’intero territorio tra il mar Mediterraneo e il fiume Giordano per la prima volta dal 1948.

 

Nel 2022 e nel 2023 i soldati e i coloni israeliani hanno ucciso un numero senza precedenti di palestinesi e c’è stata un’impennata di attacchi agli israeliani.

Poi è arrivato il 7 ottobre, la prova definitiva che cercare di mettere da parte la lotta palestinese è come ignorare uno spartitraffico: il risultato è una collisione fatale.

 

Corrente sotterranea.

Che Trump lo capisca o meno, la sua nuova proposta dice essenzialmente: se non possiamo aggirare i palestinesi, espelliamoli.

“Ho sentito che Gaza è stata una grande sventura per loro”, ha detto in conferenza stampa insieme al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu il 4 febbraio, aggiungendo che sarebbe quindi meglio se l’intera popolazione della Striscia si trasferisse in un “pezzo di terra buono, fresco e bello”.

Come prima cosa è stata esaminata la fattibilità dell’idea.

 Da questo punto di vista, ovviamente non regge.

Le possibilità che più di due milioni di palestinesi accettino di andarsene ora sono prossime allo zero.

 In gran parte sono rifugiati o discendenti di rifugiati della Nakba del 1948, rimasti nei campi profughi di Gaza per 75 anni pur di non lasciare la loro patria.

La probabilità che paesi come la Giordania o l’Egitto accettino anche solo una frazione di quella popolazione è altrettanto scarsa, dato che una simile mossa potrebbe destabilizzare i loro regimi.

E l’idea che gli Stati Uniti, dopo aver messo fine alle lunghe, costose e mortali occupazioni in Iraq e Afghanistan, siano ora disposti a “possedere” Gaza, a governarla e a svilupparla sembra altrettanto inverosimile.

 

Ma questo piano è peggiore della somma delle sue parti.

Anche se non dovesse avanzare nemmeno di un centimetro, ha già avuto un profondo impatto sul discorso politico ebraico-israeliano.

Anzi, sarebbe forse più corretto dire che la proposta di Trump ha attinto a una profonda corrente sotterranea della società israeliana.

Netanyahu è stato il primo a congratularsi per l’iniziativa del presidente.

 “Questo è il tipo di pensiero che può rimodellare il Medio Oriente e portare la pace”, ha dichiarato.

Com’era prevedibile, anche i leader della destra messianica israeliana si sono affrettati a esprimere la loro gioia per la proposta, osannando le parole di Trump. Ma non sono stati gli unici.

Benny Gantz”, che ha lasciato il governo in polemica per la conduzione della guerra a Gaza, ha descritto il piano di trasferimento di Trump come “creativo, originale e interessante”.

 Secondo “Yair Lapid”, capo del partito centrista “Yesh acid”, la conferenza stampa è stata positiva per Israele.

“Yair Golan”, leader del Partito democratico di sinistra sionista, si è limitato a commentare l’impraticabilità dell’idea.

È stato come se i politici di tutto lo spettro sionista avessero semplicemente aspettato il momento in cui la pulizia etnica avrebbe ricevuto il timbro di approvazione “made in America” prima di appoggiarla.

Questo veleno della propaganda a favore del trasferimento non sparirà presto da Israele.

E le conseguenze potrebbero essere catastrofiche per l’intera regione.

Anche senza l’intervento statunitense sul terreno, la sensazione che Israele si sia imbattuto in un’opportunità storica per svuotare la Striscia di Gaza dai suoi abitanti palestinesi darà un enorme impulso alle richieste dei leader di estrema destra “Bezalel Smotrich” e” Itamar Ben Gvir”, che esortano Netanyahu a far saltare il cessate il fuoco prima che raggiunga la sua seconda fase, a conquistare Gaza e a ricostruire gli insediamenti ebraici nella Striscia.

Lo stesso Netanyahu è favorevole all’idea di “sfoltire” la popolazione di Gaza e potrebbe cedere a queste richieste, soprattutto nel timore di perdere la sua coalizione.

Nessun compromesso.

Per quanto riguarda l’esercito israeliano, un alto ufficiale citato dal sito israeliano “Ynet” ha definito l’iniziativa di Trump “un’idea eccellente”.

Nel frattempo, il “Coordinatore delle attività governative nei territori” (Cogat), l’organismo dell’esercito responsabile della supervisione degli affari umanitari a Gaza e in Cisgiordania, ha già cominciato a mettere a punto i piani.

 Se, per esempio, l’Egitto si rifiuta di consentire l’uso del valico di Rafah per facilitare la pulizia etnica di Gaza, l’esercito può aprire altre rotte “dal mare o dalla terra e verso un aeroporto per trasferire i palestinesi nei paesi di destinazione”.

Anche se il cessate il fuoco procedesse nelle fasi due e tre, gli ostaggi fossero tutti rilasciati, l’esercito si ritirasse da Gaza e si raggiungesse una tregua permanente, il piano di Trump non scomparirà dalla politica israeliana.

Quale incentivo avrebbe un governo o un partito a spingere per un accordo politico con i palestinesi se l’opinione pubblica ebraica vede la loro espulsione come una valida alternativa?

Ogni accordo, ogni cessate il fuoco, potrebbe essere considerato come nient’altro che un passo temporaneo verso l’obiettivo finale del trasferimento di massa.

 Le possibilità di un’efficace cooperazione politica israelo-palestinese si ridurranno notevolmente.

E perché fermarsi a Gaza?

 Non c’è un motivo particolare per cui la proposta di Trump non possa essere estesa ai palestinesi della Cisgiordania – un’altra area che probabilmente lui considera “una grande sventura” per loro – o a Gerusalemme Est, o perfino a Nazareth.

Dal lato palestinese, il piano di Trump non farà altro che logorare ulteriormente qualsiasi idea di riconciliazione con Israele.

Con entusiasmo o a malincuore, fin dagli accordi di Oslo del 1993 (e anche prima), la leadership politica palestinese ha accettato la possibilità di vivere accanto a uno stato nato sulle rovine del proprio popolo cacciato nel 1948.

 Certo, questo non è mai stato lineare; ci sono stati ostacoli, ipocrisia e opposizione violenta – in particolare da Hamas – ma questo approccio è rimasto dominante per decenni.

Una volta che il presidente statunitense propone il trasferimento come soluzione al “problema palestinese”, e una volta che tutto Israele – dalla destra religioso-fascista al centro liberale e perfino alla sinistra sionista – lo accoglie, il messaggio per i palestinesi è chiaro:

non c’è possibilità di compromesso con Israele e il suo alleato statunitense, almeno nella sua forma attuale, perché sono determinati a eliminare il popolo palestinese.

Ciò non significa per forza che masse di palestinesi cominceranno subito la lotta armata, anche se è un esito possibile.

 Ma di sicuro qualsiasi leader palestinese che cerchi di raggiungere un accordo con Israele non riuscirà a mantenere il sostegno popolare.

 La legittimità dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) è già al suo punto più basso; entrando in un processo politico con Israele all’ombra del piano di Trump, non potrà che deteriorarsi ulteriormente.

La stessa conclusione.

E il pericolo non finisce qui.

 Trump, nella sua totale ignoranza della realtà mediorientale, ha “regionalizzato” la questione palestinese:

invece di cercare una soluzione che coinvolga gli ebrei e i palestinesi tra il fiume e il mare, ha scaricato la responsabilità sugli stati circostanti.

Non solo pretende che Egitto, Giordania, Arabia Saudita e altri paesi accettino centinaia di migliaia di palestinesi nei loro territori, ma gli chiede anche di autorizzare la sepoltura della causa palestinese.

Questa richiesta è una minaccia diretta ai regimi del mondo arabo.

Il governo giordano teme che un flusso significativo di palestinesi nel suo regno possa provocarne la caduta, alterando il delicato equilibrio demografico del paese, che già pende fortemente a favore dei palestinesi.

Ma anche dove il legame con la Palestina è meno diretto, la situazione è altrettanto fragile.

Bastava guardare i canali di informazione sauditi il giorno dell’annuncio di Trump per cogliere il senso di shock, di minaccia e di paura.

Quindici anni prima che l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) raggiungesse uno storico compromesso con lo stato di Israele, l’Egitto era arrivato alla conclusione che poteva non solo accettare l’esistenza di Israele nella regione, ma anche trarne beneficio, e aveva firmato il trattato di pace del 1979.

La Giordania ha seguito l’esempio e quattro anni e mezzo fa gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein, il Sudan e il Marocco hanno adottato la stessa linea di pensiero.

Pur senza aver normalizzato ufficialmente le relazioni con Israele, il peso massimo della regione, l’Arabia Saudita, sembra aver raggiunto una conclusione simile.

Ma la mossa sconvolgente di Trump, e l’approvazione istintiva di Israele, potrebbero segnalare ai regimi mediorientali –compresi quelli etichettati come “moderati” (in realtà spesso più autoritari degli altri) – che il compromesso è inutile.

Suggerisce che Israele, grazie alla sua potenza militare e al sostegno degli Stati Uniti, crede di poter imporre alla regione qualsiasi soluzione desideri, compreso l’allontanamento forzato di milioni di persone dalla loro patria e la negazione del loro diritto quasi universalmente riconosciuto all’autodeterminazione.

Nell’ultimo anno e mezzo, Israele non si è accontentato delle uccisioni di massa a Gaza e della distruzione delle infrastrutture necessarie alla vita umana.

Ha anche occupato parti del Libano, rifiutando di ritirarsi in violazione dell’accordo di tregua, e si è impadronito di parti della Siria senza intenzione di andarsene presto.

Questa realtà rafforza l’impressione che Israele abbia deciso di stabilire un nuovo ordine in Medio Oriente con la sola forza, senza accordi né negoziati.

La guerra del 1973 è stata l’ultima occasione in cui Israele ha combattuto contro gli eserciti di stati sovrani invece che contro organizzazioni militanti non statali, storicamente molto più deboli.

Anche se i libri di testo di storia israeliani oggi affermano che Israele non ebbe alcuna responsabilità per quella guerra, non c’è dubbio che Egitto e Siria la lanciarono perché si resero conto dell’impossibilità di recuperare pacificamente i territori occupati da Israele nel 1967.

Il percorso attuale, seguito sotto l’influenza di Trump, potrebbe sfociare nello stesso risultato, cioè far concludere ai suoi vicini che Israele capisce solo la forza.

 “Middle East Eye” ha citato fonti di Amman secondo cui la Giordania è pronta a dichiarare guerra se Netanyahu tenterà di trasferire con la forza i rifugiati palestinesi nel suo territorio.

Tutto questo non è inevitabile.

Molto dipende da Trump e dalla sua determinazione a mettere in pratica i suoi propositi nonostante le critiche internazionali.

La resistenza deve venire non solo dai palestinesi, ma anche da quegli ebrei in Israele consapevoli di non avere futuro se non si troverà il modo di vivere in condizioni di parità con gli abitanti nativi della terra.

Potrebbe anche nascere una nuova coalizione in Medio Oriente e non solo, che si rifiuti di accettare i dettami statunitensi.

Per ora è chiaro che i piani bellicosi di Trump e il patetico tentativo di Israele di cavalcare l’onda rischiano di ricevere una risposta basata sulla forza.

E questo sarebbe disastroso per tutti.

(Meron Rapoport è un giornalista e scrittore israeliano.)

(Lavora per “Sikha Mekomit”, un sito in ebraico che si occupa di democrazia, pace, uguaglianza, giustizia sociale e lotta contro l’occupazione. Il sito spesso condivide gli articoli con +972 Magazine, dove sono pubblicati in inglese.)

Ultime notizie.

Tregua in bilico.

Il cessate il fuoco tra Israele e Hamas è in bilico dopo che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump l11 febbraio 2025 ha minacciato linferno se il movimento estremista palestinese non rilascerà tutti gli ostaggi israeliani entro il 15 febbraio.

Il giorno prima Hamas aveva minacciato di rinviare la liberazione degli ostaggi prevista il 15 febbraio nellambito dellaccordo, accusando Israele di averlo violato.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha ordinato allesercito di prepararsi a “tutti gli scenari” e ha inviato rinforzi intorno alla Striscia di Gaza.

 La prima fase dell’accordo di cessate il fuoco prevede la liberazione di 33 ostaggi israeliani in cambio di 1.900 palestinesi prigionieri in Israele.

 Nelle mani di Hamas ci sono ancora 73 israeliani, di loro almeno trentacinque sono stati dichiarati morti dall’esercito di Tel Aviv.

L11 febbraio il re di Giordania “Abdallah II” è stato ricevuto da Trump alla Casa Bianca per esprimere la sua opposizione al piano del presidente statunitense per Gaza.

Il 9 febbraio la polizia israeliana ha perquisito due librerie della catena Educational bookshop, punti di riferimento culturali di Gerusalemme Est, e ha arrestato i due gestori, “Mahmoud Muna” e suo nipote Ahmad, con laccusa di vendere libri contenenti appelli allodio.

 I due sono stati scarcerati l11 febbraio, ma dovranno restare agli arresti domiciliari per cinque giorni e non potranno tornare a lavorare per venti giorni.

Le due librerie hanno riaperto il 10 febbraio.

Loperazione israeliana ha suscitato un’ondata di indignazione locale e internazionale.

(Afp, Haaretz).

 

 

Democrazia ed efficienza

nell’Era digitale.

 Mentiinfuga.com - Mauro Sorrecchia – (20 Febbraio 2025) – ci dice:

 

Il ruolo delle élites tra Intelligenza Artificiale, populismo e crisi della rappresentanza è questo di cui proviamo ad occuparci in questo articolo.

 Sia nella brevità del testo esploreremo un paradosso del nostro tempo:

mentre l’intelligenza artificiale (IA) e il capitalismo della sorveglianza promettono soluzioni rapide e personalizzate, la democrazia sembra arrancare, vittima di una crescente sfiducia nei confronti delle élites e del dilagare di fenomeni populisti che sfruttano la disintermediazione digitale per polarizzare l’opinione pubblica.

Introduzione.

La democrazia è lenta, faticosa, imperfetta.

L’efficienza è rapida, lineare, implacabile.

Ma la velocità può essere democratica? E, soprattutto, una decisione rapida è sempre una buona decisione?

In un’epoca dominata dalle tecnologie digitali e dall’intelligenza artificiale, la tensione tra democrazia ed efficienza non è più solo un dibattito teorico per politologi e filosofi.

È una sfida concreta che riguarda la nostra vita quotidiana, le istituzioni che ci governano e il futuro stesso della sovranità popolare.

 Da un lato, assistiamo al trionfo di modelli decisionali basati su dati, algoritmi e automazione, capaci di analizzare e risolvere problemi con una velocità impensabile per le istituzioni democratiche tradizionali.

 Dall’altro, cresce la consapevolezza che la democrazia non può essere ridotta a una questione di mera efficienza: è un processo complesso, fatto di confronto, partecipazione e, talvolta, di sana lentezza.

 

Partendo dalle riflessioni di “Norberto Bobbio” e “Giovanni Sartori”, pensatori contemporanei che hanno condiviso un dialogo critico sul destino della democrazia, e proseguendo con le analisi di “Jan-Werner Müller” sul “tradimento delle élites” e la crisi del populismo, fino ad arrivare alla critica radicale di “Shoshana Zubov “sul capitalismo della sorveglianza, cercheremo di rispondere a tre domande fondamentali:

– È possibile conciliare l’efficienza delle tecnologie digitali con i principi della democrazia?

– Quale ruolo spetta alle élites nella difesa degli ordinamenti democratici in un mondo governato dagli algoritmi?

– In che modo i fenomeni populisti rappresentano una reazione, o forse una conseguenza, di questa nuova tensione tra efficienza e partecipazione?

In fondo, la posta in gioco non è solo la qualità del nostro sistema politico, ma la natura stessa della nostra libertà in un mondo sempre più interconnesso e controllato.

Democrazia ed efficienza: Un conflitto storico?

Sin dalle origini del pensiero politico moderno, la democrazia è stata percepita come un sistema intrinsecamente lento e complesso.

“Norberto Bobbio”, nel suo celebre “Il futuro della democrazia”, sottolineava come il processo decisionale democratico richieda tempo, confronto e mediazione, elementi spesso in contrasto con l’esigenza di efficienza che caratterizza le società contemporanee.

Bobbio evidenziava il rischio che, di fronte alle crisi o alle emergenze, la tentazione di aggirare la lentezza democratica per favorire decisioni rapide possa erodere le fondamenta stesse della partecipazione e della rappresentanza.

 

Egli definisce la democrazia come «il regime del potere pubblico in pubblico», sottolineando l’importanza della trasparenza e della responsabilità come pilastri fondamentali.

Questo principio entra in forte contrasto con l’opacità delle decisioni algoritmiche e con la governance predittiva basata sull’intelligenza artificiale, che rischiano di ridurre il controllo pubblico e democratico sui processi decisionali.

Inoltre, Bobbio distingue tra democrazia formale e democrazia sostanziale:

la prima si concentra sulle regole procedurali, mentre la seconda mira a garantire l’effettiva uguaglianza e partecipazione.

Nell’era digitale, questa distinzione diventa cruciale:

un sistema può rispettare formalmente le regole democratiche, ma fallire sul piano sostanziale se la partecipazione è svuotata da meccanismi di controllo tecnologico e manipolazione dell’informazione.

“Giovanni Sartori”, anch’egli acuto osservatore delle dinamiche democratiche, dialoga implicitamente con Bobbio su questi temi, pur condividendo la stessa epoca e preoccupazioni.

 Sartori ci invita a non confondere la democrazia con la sua forma ideale.

 La democrazia reale, afferma, è un sistema imperfetto che deve costantemente bilanciare la partecipazione dei cittadini con l’efficienza governativa.

 Per Sartori, il vero problema non è la lentezza, ma la capacità del sistema di adattarsi alle trasformazioni sociali senza perdere di vista i suoi principi fondamentali.

Il concetto di efficienza, tuttavia, è ambiguo:

ovviamente, vuole indicare la capacità di raggiungere obiettivi nel modo più rapido e meno dispendioso possibile;

 ma, nella sfera politica, implica anche la qualità delle decisioni prese, la loro legittimità e il loro impatto sul tessuto sociale.

In questo senso, un sistema può essere tecnicamente efficiente, ma politicamente disastroso se sacrifica la rappresentanza e il pluralismo.

“Jan-Werner Müller”, nel suo lavoro sul “populismo e la crisi della democrazia liberale”, evidenzia come le crisi della rappresentanza e la sfiducia nelle élites siano esiti di queste tensioni irrisolte.

I fenomeni populisti, sostiene Müller, emergono proprio là dove l’efficienza decisionale si trasforma in un’arma per escludere il confronto democratico.

 In questo senso, la riflessione di Bobbio sulla necessità di garantire spazi pubblici di discussione e quella di Sartori sulla resilienza delle istituzioni democratiche si completano, offrendo chiavi di lettura per comprendere le dinamiche contemporanee.

 

La sfida dell’era digitale: IA, algoritmi e democrazia.

L’avvento delle tecnologie digitali e, in particolare, dell’intelligenza artificiale ha radicalmente trasformato la nostra idea di efficienza.

Oggi, algoritmi sofisticati analizzano enormi quantità di dati, prendendo decisioni in frazioni di secondo.

Questa capacità di elaborazione supera di gran lunga quella delle istituzioni democratiche tradizionali, sollevando interrogativi fondamentali:

Chi decide? Su quali basi vengono prese le decisioni? È possibile controllare il “cervello” invisibile che governa processi cruciali per la nostra società?

L’IA promette una “governance predittiva”, capace di anticipare bisogni e risolvere problemi prima ancora che emergano.

Tuttavia, questa efficienza ha un costo: riduce lo spazio per il dibattito pubblico e per la deliberazione democratica.

Le decisioni automatizzate, se non opportunamente regolate, rischiano di diventare opache e incontestabili.

 

Le istituzioni democratiche si trovano così di fronte a una doppia sfida:

– Integrare l’IA nei processi decisionali senza perdere il controllo politico e democratico.

– Garantire che gli algoritmi rispettino i principi fondamentali della democrazia, come la trasparenza, l’equità e la responsabilità.

Il dilemma è evidente:

 come conciliare la rapidità delle macchine con la lentezza necessaria del dibattito democratico?

 La risposta, probabilmente, non sta nel rifiutare la tecnologia, ma nel costruire meccanismi di accountability algoritmica.

 In questo senso, le recenti iniziative normative, come il “Digital Services Act” e il “Digital Markets Act “dell’Unione Europea, rappresentano tentativi di riaffermare la sovranità democratica nell’ambito digitale.

 

Il Capitalismo della sorveglianza: efficienza senza democrazia?

Nel suo libro “Il capitalismo della sorveglianza”, Shoshana Zubov descrive un nuovo modello economico basato sull’estrazione e l’analisi dei dati personali con l’obiettivo di prevedere e influenzare i comportamenti umani.

Questo sistema, che poggia su piattaforme digitali come Google, Facebook e Amazon, non mira semplicemente a soddisfare i bisogni esistenti, ma a plasmarli in funzione di logiche di profitto.

Come scrive la Zubov “Il capitalismo della sorveglianza non è il futuro che volevamo, ma il futuro che ci è stato imposto da coloro che hanno il potere di decidere cosa conta come futuro.”

Il capitalismo della sorveglianza rappresenta la forma estrema di un’efficienza disancorata da qualsiasi vincolo democratico.

 L’algoritmo decide cosa vediamo, cosa compriamo, persino cosa pensiamo di desiderare.

Questo potere predittivo, apparentemente neutrale, ha un impatto devastante sulla democrazia:

– Riduce l’autonomia individuale, trasformando le persone in meri “oggetti” di calcolo.

– Concentra il potere nelle mani di poche corporation tecnologiche, al di fuori di qualsiasi controllo democratico.

– Alimenta la disinformazione e la polarizzazione, sfruttando la logica della viralità per massimizzare l’engagement.

“Bobbio” parlava della necessità di «trasparenza delle decisioni pubbliche» come fondamento della democrazia.

Oggi, paradossalmente, la trasparenza si è invertita: i cittadini sono costantemente sorvegliati, mentre i meccanismi decisionali delle piattaforme restano opachi e inaccessibili.

 

Populismo e disintermediazione: figli dell’efficienza digitale.

Il populismo contemporaneo si nutre proprio di questo nuovo ecosistema informativo.

 Leader carismatici utilizzano i social media per eludere le istituzioni tradizionali, stabilendo un rapporto diretto e non mediato con il “popolo”.

Questa dinamica, che “Jan-Werner Müller “definisce «disintermediazione populista», sfrutta la velocità e l’emotività delle piattaforme digitali per costruire narrazioni semplificate e polarizzanti.

Gli algoritmi, ottimizzati per massimizzare l’engagement, favoriscono contenuti che suscitano emozioni forti, come rabbia, indignazione e paura.

 Questo meccanismo crea una spirale di radicalizzazione che mina la qualità del dibattito pubblico e rafforza la logica amico/nemico tipica del discorso populista.

Il paradosso è evidente:

 mentre le tecnologie digitali promettono di ampliare la partecipazione democratica, finiscono per favorire una forma di “partecipazione tossica”, basata sulla reattività immediata piuttosto che sulla riflessione critica.

 

Efficienza versus democrazia: il caso Italia.

Particolarmente importanti appaiono queste riflessioni nel confronto politico e sociale che l’Italia e l’Europa si trovano ad attraversare. 

Da molte parti, non solo politiche, ma anche imprenditoriali, si addebita infatti proprio alla “lentezza della democrazia” una buona parte dei problemi del Paese, e si propone (o forse, per meglio dire, si ripropone…) l’idea dell’uomo o della donna soli al comando.

Analogamente accade per quanto riguarda il giudizio sul valore di quelle istituzioni sovranazionali, dall’ONU  alla Corte Penale Internazionale – definite come “figlie di un’altra epoca” – e ormai dipinte come “continue produttrici di inutili ostacoli” al dispiegarsi di una politica che appare sempre più tornare a basarsi sulla forza e che vede in ogni organismo di controllo e finanche in ogni organismo di tutela – da quella sanitaria a quella umanitaria, per non parlare di quella climatica – un avversario da ridurre al silenzio.

Magari affidando tale compito proprio a chi ha costruito la propria fortuna sul mito populistico della «possibilità di ciascuno di connettersi con il mondo intero, gratuitamente, nel modo e con lo strumento tecnologico più semplici».

Ma dove si è più operato per far crescere nell’opinione pubblica, l’idea dell’inaccettabilità del contrasto tra lentezza della democrazia e necessità dell’efficienza, appare essere, in questi anni, il tema dell’integrazione europea.

Non c’è stata, infatti, solo la Brexit, a fianco ad essa e con gli stessi obiettivi (quando addirittura non anche con gli stessi slogan), è stata fatta crescere, in modo scientifico, la convinzione che Bruxelles, la Commissione e l’intera Unione Europea costituiscano un’inutile soma anziché un patrimonio costruito sulle tragedie di due guerre mondiali e di una Cortina di ferro che ha tagliato in due, per decenni, Paesi e città con storia, lingua e tradizioni comuni, ha diviso parenti da parenti, ha reso nemici i propri vicini di casa ed ha riportato nel cuore dell’Europa, il fragore delle bombe e il sangue dei massacri.

L’erosione del consenso intorno all’idea di un’Europa forte perché unita e la rinascita dell’idea che “ci si possa salvare da soli” è figlia dello stesso contrasto che in questo articolo stiamo esaminando e si nutre delle stesse modalità per crescere e rafforzarsi:

mascheramento delle vere cause delle crisi – da quella climatica a quella migratoria, riproposizione, via via più edulcorata se non addirittura giustificatoria, di un orribile passato fatto di bandiere nere e saluti romani, fino alla crescita di un moderno “populismo di Stato”. 

Allora, discutere come questo articolo cerca di fare, vuole contribuire a mantenere ferma l’idea che la democrazia non sia un ostacolo all’efficienza, ma un modo per rendere le decisioni più robuste, giuste e legittime.

La sfida è trasformare la lentezza democratica in una risorsa, non in un difetto, e costruire istituzioni capaci di affrontare la complessità senza rinunciare ai principi di partecipazione, trasparenza e giustizia sociale.

 

Nell’Italia contemporanea, tra coloro che più hanno riflettuto su questi argomenti, vanno citati, da un lato “Massimo Cacciari”, dall’altro il gruppo di intellettuali raccoltosi nell’”Associazione Libertà e Giustizia”, tra i quali “Tomaso Montanari”, “Sandra Bonsanti”, “Nadia Urbinati e “Gustavo Zagrebelsky”.

L’Associazione Libertà e Giustizia, in particolare, è stata fondata appunto con l’obiettivo di difendere i principi costituzionali e promuovere la cultura della legalità.

 Le riflessioni ed i documenti prodotti dall’Associazione offrono un contributo prezioso al dibattito sulla tensione tra democrazia ed efficienza, non limitandosi a una visione critica ma proponendo anche visioni costruttive per rafforzare e garantire il futuro della democrazia.

Le campagne e i manifesti promossi dall’Associazione si sono spesso concentrati sulla difesa della Costituzione, sulla trasparenza delle istituzioni e sulla necessità di una cittadinanza attiva e consapevole, argine alla possibilità che la democrazia venga svuotata della sua linfa vitale.

Proprio la “cittadinanza attiva”, oltre che esercitare una funzione di permanente controllo sull’operato dei governanti, può infatti trasferire alle Istituzioni –  anche attraverso strumenti quali le proposte di referendum propositivo e le leggi di iniziativa popolare – quelle istanze che finirebbero invariabilmente  per essere ignorate da un sistema che vede pochi, ma potentissimi  gruppi finanziari e tecnologici che,  grazie alla proprietà di grandi network mediatici e attraverso l’uso pervasivo dei social, impongono la propria visione del mondo e “delle sue esigenze” all’opinione pubblica.

Montanari, in particolare, sottolinea l’importanza della cultura e della memoria storica come strumenti di resistenza alla riduzione della politica a gestione tecnica. Per lui, l’educazione civica, la difesa del patrimonio culturale e la partecipazione dal basso sono fondamentali per mantenere viva la democrazia.

 La sua visione costruttiva si concentra sulla necessità di rafforzare la cittadinanza attiva, promuovendo spazi di discussione e deliberazione pubblica come antidoto alla logica dell’efficienza cieca.

Attraverso l’”Associazione Libertà e Giustizia”, Montanari ha sostenuto iniziative contro la deriva autoritaria e per la tutela dei beni comuni, ribadendo il ruolo centrale della cultura nella formazione del pensiero critico.

Bonsanti ha promosso battaglie per la libertà di stampa e la trasparenza, mentre Urbinati ha approfondito il tema del populismo come rischio per la democrazia rappresentativa, ponendo l’accento sulla necessità di un rinnovato impegno civico.

Il grande costituzionalista Zagrebelsky, infine, insiste sull’idea di “diritto mite”, ovvero un diritto che non si impone con la forza, ma che persuade attraverso la ragione e la giustizia.

La democrazia efficiente – ci ha più volte ricordato – non è quella che decide più in fretta, ma quella che garantisce decisioni giuste e condivise, rispettando la pluralità delle opinioni e dei valori.

Propone quindi un modello di democrazia “lenta”, che valorizza il processo deliberativo come momento di crescita collettiva.

Con Libertà e Giustizia, Zagrebelsky ha partecipato a manifesti e campagne per la difesa della Costituzione e contro le riforme che rischiano di indebolire la separazione dei poteri.

Da ultimo mi piace ricordare il contributo di analisi, ma soprattutto di stimolo alla più larga opinione pubblica, rappresentato dagli articoli di Ezio Mauro, l’ex Direttore del quotidiano la Repubblica.

Proprio sui rischi del populismo, che in Italia si nutrono di una tradizione particolarmente pericolosa, e sul “tradimento delle élites”, di quella struttura sempre incombente ma sovente irresponsabile.

 

«Un vero establishment avrebbe la coscienza di ciò che si perde in questa trasformazione, e diventerebbe classe generale nel senso moderno del termine proprio tutelando quei valori e quelle regole nelle quali ha costruito il suo successo, e il Paese ha prosperato:

 dimostrando di custodire in sé il seme della democrazia come bene comune.

Ma in realtà la classe dirigente è condizionata perché avverte la propria delegittimazione costante a opera del” populismo antipolitico” che fa precipitare tutti i membri dell’élite dentro un atto d’accusa generale non per come hanno esercitato il potere, ma per averlo fatto». […].

«La scommessa è rompere il nesso tra Stato e democrazia, fonte della civiltà occidentale per tutti gli ottant’anni del dopoguerra.

Quindi sterilizzare il concetto di democrazia liberandola dai vincoli con le procedure liberal-democratiche, dalle eredità storiche come l’antifascismo, dall’equilibrio e dalla separazione dei poteri […]

 Ora, com’è possibile che questa prospettiva non generi un rifiuto, una ribellione o almeno un’obiezione universale?

 Con la fine dell’opinione pubblica, spezzettata in tante opinioni private spese a vuoto sui social dove non fanno “causa”, noi consumiamo il progetto trumpiano di democrazia autoritaria in singoli episodi che riducono in pillole il disegno reazionario, impediscono di leggerne la portata, e anzi sfilando a turno sullo schermo spettacolarizzano l’eversione, trasformando ogni frase e qualsiasi gesto in un numero isolato da circo, mentre invece sono la realtà».

 

Mi sembra che all’analisi ci sia poco da aggiungere, ma allora tutto è perduto?

«Se l’algoritmo sa già cosa voteremo, che senso ha ancora la democrazia?».

La risposta è semplice: la democrazia ha senso perché ci ricorda che non siamo dati da prevedere, ma cittadini da ascoltare.

Conclusioni: difendere la democrazia senza rallentare il progresso.

In un mondo dove la tecnologia promette efficienza assoluta, la democrazia può sembrare obsoleta.

Ma è proprio in questa apparente debolezza che risiede la sua forza.

 La democrazia non è il sistema più veloce né il più semplice, ma è l’unico che garantisce la libertà e la dignità di ogni individuo.

Di fronte a queste sfide, la domanda cruciale è:

come difendere la democrazia senza sacrificare i benefici dell’innovazione tecnologica?

La risposta richiede un ripensamento profondo del rapporto tra tecnologia e politica:

– Riconoscere il valore della lentezza democratica:

 La democrazia non deve competere con la velocità degli algoritmi, ma riaffermare l’importanza della deliberazione e del confronto.

– Regolare il potere delle piattaforme:

Le democrazie devono dotarsi di strumenti normativi efficaci per garantire la trasparenza degli algoritmi e la protezione dei diritti fondamentali.

– Promuovere una cittadinanza digitale consapevole:

 L’educazione civica deve includere la comprensione dei meccanismi digitali che influenzano le opinioni e le scelte politiche.

Naturale, allora, sembra essere concludere l’articolo con un richiamo al “Manifesto di Ventotene”:

«la lotta per la democrazia oggi non è contro regimi autoritari visibili, ma contro forme più sottili di controllo e manipolazione.

 La democrazia non è solo un sistema di regole, ma un’idea di libertà che va difesa e rinnovata continuamente».

(Mauro Sorrecchia).

 

 

 

 

Democrazia, democratura

e nonviolenza.

 Istitutoeuroarabo.it – (1° gennaio 2024) - Comitato di Redazione - Andrea Cozzo -ci dice:

 

«Molte delle cose che sembrano democratiche mandano in rovina le democrazie, (…) poiché ignorano che, come c’è un naso che, benché sia deviato (rispetto alla linea diritta, che è la più bella) verso una forma aquilina o schiacciata, tuttavia è ancora bello  e gradevole alla vista, però, nel caso che uno lo tenda ancora di più verso l’eccesso, dapprima perderà la proporzione della parte e alla fine non sembrerà più nemmeno un naso, (…) allo stesso modo stanno le cose per le diverse forme costituzionali» (Aristotele, Politica 1309b 20 sgg.).

 

Democrazia o Democratura?

Le dittature sono regimi politici inaccettabili. Nessuno di noi ha dubbi su questo. Forse, però, è il caso di averli sulla qualità da attribuire alle forme politiche ‘nostre’, del cosiddetto mondo libero, che chiamiamo democrazie.

 Nel 1940, Gandhi definiva la democrazia occidentale «una forma diluita di nazismo o di fascismo», e aggiungeva, pensando in particolare al modo in cui l’Inghilterra si era impadronita dell’India, che «al più è un paravento per mascherare le tendenze naziste e fasciste dell’imperialismo» (Gandhi 1996; 140-141).

E già nel 1938 il Mahatma aveva scritto:

 «Gli Stati che oggi sono formalmente democratici, o sono destinati a divenire apertamente totalitari, oppure, se vogliono divenire veramente democratici, devono avere il coraggio di divenire nonviolenti» (Gandhi 1996: 270-271).

 

Certamente dal 1938 ad oggi la teoria e la pratica della non violenza si sono diffuse e lotte portate avanti con paziente determinazione, con la non collaborazione e la disobbedienza civile – una per tutte, che è sotto gli occhi di chiunque e che forse non siamo abituati a mettere dentro il contenitore «nonviolenza» ma che di fatto vi rientra a pieno titolo, quella delle donne contro la violenza del patriarcato – hanno prodotto risultati straordinari.

Al contempo, non è certo possibile dire che le democrazie siano divenute nonviolente, e anzi esse hanno seguito esattamente la traiettoria alternativa che il “Mahatma£ aveva previsto.

 

“Lombardi Vallauri” (1989: 26) ha scritto che la ‘normale’ quotidianità della cultura moderna, «contiene, in atto o in potenza, delle componenti criminogene, o in ogni caso crimine-compatibili, intrinseche, strutturali, non accidentali, su una scala molto grande».

 Bisogna dire di più: essa contiene, in potenza o in atto, componenti intrinseche, strutturali, non accidentali, di violenza e generatrici di violenza – o, come diceva Gandhi, di totalitarismo.

La questione esula dagli specifici colori politici dei vari Governi.

 Parole e atti appartenenti all’ambito della Destra, che dell’autoritarismo in politica interna e dell’idea che la violenza sia legittima nella risoluzione dei conflitti internazionali non ha mai fatto mistero, sono diventati da un pezzo, in barba a qualsiasi Costituzione (da noi l’art. 11 che sancisce il ripudio della guerra «come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali»), lessico (cioè mentalità) e pratica diffusa trasversalmente nell’arco parlamentare e negli strati sociali di qualsiasi orientamento politico.

Per questo motivo l’attuale Parlamento (mi riferisco in particolare all’Italia, ma la considerazione si può estendere a tutto l’Occidente) andrebbe considerato, direi, come costituito da una Destra-destra, una Destra-centro e un Centro-destra.

Tutte le parti ormai da tempo danno per scontata la liceità del ricorso alla forza militare nei rapporti internazionali.

 E non è questione di attacco o di difesa, di invasione o di liberazione, perché le “cose” vengono fatte dalle parole:

per esempio, i Russi, entrando con le armi in Ucraina, l’hanno invasa e attaccata, ma la ‘nostra’ Nato, entrando con le armi in Iraq e in Afghanistan, ci ha difeso – per non parlare del fatto che praticamente non c’è stato nessuno dei nostri politici e dei nostri giornalisti che non abbia serenamente preteso che la violenza russa in Ucraina aveva portato la guerra in Europa dopo settanta anni che il nostro continente ne era stato lontano obliterando del tutto con la più grande spudoratezza la guerra nell’ex-Jugoslavia, con i bombardamenti della Nato, nel 1999, e che non abbia sostenuto l’invio delle armi all’Ucraina.

 D’altronde, il rapporto non solo tra democrazia e belligeranza ma anche tra democrazia e bellicismo è ampiamente attestato:

 dal fatto di garantire formalmente libere elezioni, di rispettare i diritti umani, di avere la pace interna «deriva anche l’autocompiacimento delle democrazie, il sentimento di appartenere a un “Commonwealth di democrazie” col diritto, e il dovere, di belligeranza» (Galtung 2000: 106). 

Si ricordi la nozione di guerra umanitaria; anzi, poiché ‘i buoni’ non fanno mai guerre, di intervento umanitario.

Credo pertanto che non sbaglieremmo affatto a considerare i nostri regimi politici occidentali come «democrature», parola con cui si indica una varietà di regimi politici che, formalmente democrazie, presentano nella sostanza più o meno forti caratteristiche di dittatura (con un correlato consistente tasso di corruzione).

Innanzitutto, con quelle che, situate ovviamente fuori dall’Occidente in senso stretto, si è soliti denominare in tale modo – come il regime di Putin o quello di Erdogan, con cui rispettivamente abbiamo fatto affari fino a prima del 24 febbraio 2022 o stiamo continuando a farli – abbiamo in comune il concetto di pace intesa come assenza di guerra e salvaguardia della libertà rispetto ad un Paese straniero.

Alla luce di tale nozione di pace appiattita sull’idea che la guerra sia semplicemente una violenza diretta, fisica, che mira a soggiogare uno Stato con la forza delle armi, basta che ciò non avvenga e ci si considera in un regime di pace.

In questo caso, non importa occuparsi preventivamente della costruzione di rapporti pacifici duraturi, si chiude tranquillamente un occhio sui conflitti armati che restino limitati e non ci ‘disturbino’ (come quelli tra Russia e Ucraina esistenti già dal 2014, e tra Israele e Palestina dal 1948 ad oggi), e si ignorano del tutto i conflitti latenti per la soluzione dei quali invece bisognerebbe adoperarsi da subito senza attendere che deflagrino apertamente quando risulta più difficile (più difficile ma non impossibile) intervenire senza fare ricorso alle armi.

 

Dal punto di vista non violento, invece, la pace è concepita dinamicamente e consiste nella risoluzione dei conflitti non distruttiva lavorando appunto anche sui conflitti latenti in modo da evitare che poi giungano allo stadio di violenza esplicita o di rischio di allargamento

 Di più, la pace nonviolenta non si limita a considerare i rapporti interstatali ma guarda anche ai rapporti intra statali (perché vi sia giustizia), ai rapporti tra le persone e tra le persone e la natura (perché siano quanto più possibili armonici ed ecologici), e a quelli intrapersonali (perché vi sia benessere psico-fisico individuale):

 per questo, lavora anche per l’eliminazione della violenza strutturale e culturale (nell’ambito dell’economia, della religione, della scienza, del linguaggio, dell’educazione, dell’istruzione…).

«Se vuoi la pace, prepara la pace in ogni campo» è la sua regola.

 

Democratura e (apparenza di) libertà.

Certamente, sul fronte interno il nostro regime politico ci appare diverso da quello dell’attuale “nemico” Putin (che è capo di una Repubblica semipresidenziale) e da quello dell’attuale “amico” Erdogan (anch’egli a capo di una Repubblica presidenziale) che non esitano troppo a reprimere il dissenso popolare con la forza poliziesca.

 In realtà, di tale esibizione di forza la nostra democratura, che come quella della Repubblica presidenziale statunitense, è fondata sulla connessione e sulla comunicazione, semplicemente non ha bisogno.

Tale suo carattere infocratico (o mediacratico)

«rende obsolete tecniche disciplinari come l’isolamento spaziale, la rigida regolamentazione del lavoro o l’addestramento fisico.

La docilità (docilité), che significa anche arrendevolezza e remissività, non è l’ideale del regime dell’informazione. Il soggetto sottomesso nel regime dell’informazione non è docile né ubbidiente.

Piuttosto si crede libero, autentico e creativo: produce e performa sé stesso» (Han 2023: 3-4).

La nostra democratura si basa sulla parola d’ordine «libertà» non solo nei rapporti internazionali ma anche in quelli interni ai singoli Stati.

 È dunque sufficiente che ognuno si creda libero perché tutto funzioni senza troppi intoppi.

 La libertà è innanzitutto libertà di espressione, tendenzialmente assicurata in quanto nei confronti dell’opinione pubblica eventualmente dissidente le nostre democrature tendono ad adottare la tecnica del «muro di gomma» (cioè semplicemente a ignorarne le proteste), e, più o meno, a lasciarle il ruolo decisionale al momento del voto.

 A tutti i livelli, il mondo dei partiti – la Partitica – ha coltivato il solo valore della libertà.

La pressoché esclusiva dedizione a questo non è stata casuale, dato che esso è appannaggio del “liberalismo politico e del liberismo economico”, insomma del” laissez fair” in generale.

Effettivamente, mentre è dato ampio spazio alla «libertà», sono trascurati totalmente o relegati in posizione del tutto marginale gli altri due valori del trittico che aveva dato vita alla democrazia moderna, cioè uguaglianza e fraternità.

Quest’ultima poteva essere declinata almeno nei termini della solidarietà – di una politica della solidarietà – ma è stata abbandonata alla libera volontà della beneficenza.

 

Provo a spiegare come mi sembra che il dominio unico del valore della libertà ci abbia condotto sulla strada della democratura sia sul piano economico e istituzionale (violenza strutturale) sia su quello simbolico (violenza culturale).

 

Come sapeva già Platone, da sé sola, la libertà diventa presto oppressiva e selvaggia: «i cittadini sono liberi, la città è piena di libertà e di diritto di dire qualsiasi cosa, e c’è licenza di fare ciò che si vuole? (…) Ma è evidente che, dove c’è licenza, ciascuno potrà organizzare la propria vita come gli piace» (Repubblica 557b)

 «Organizzare (si intende, interamente) la propria vita come piace», sia chiaro, non è un valore, perché significa mirare al proprio piacere, indipendentemente dal rispetto e dalla solidarietà.

 Per Platone, che non conosce i social odierni, si tratta di un atteggiamento che si ritrova, causato dal vino, nell’ubriachezza, quando ognuno si mette a «parlare e ad agire in qualsiasi modo senza alcun indugio» (Leggi 649b).

Si tratta, in sostanza, di una libertà sfrenata e anarchica, priva di regole, al di fuori di un ordinamento, cioè di quello che i Greci, mettendo insieme valore politico, valore etico e valore estetico, chiamavano (kósmos).

 

Tale regime di libertà ‘secondo proprio piacere’, trova la sua espressione nell’edonismo, nell’estetismo, nell’individualismo, nell’insensibilità verso le differenze: «la democrazia (…) avrà dunque queste e altri analoghi caratteri, e a quanto pare sarà una forma di governo piacevole, anarchica e variopinta, che distribuisce una certa uguaglianza a ciò che è uguale e a ciò che non è uguale» (Platone, Repubblica 558c).

 È questa una libertà che non conosce vincoli di relazione:

essa è quel valore democratico che, tirato all’eccesso e non accompagnato da altri principi, come diceva Aristotele nell’esergo all’inizio di queste pagine, manda in rovina le democrazie.

 

Sulla base di queste considerazioni, torniamo a noi.

L’Italia, che non brilla per libertà di stampa essendo al 41° posto, dopo il Montenegro e l’Argentina, nell’Index 2023 di Reporter Senza Frontiere sulla libertà di stampa in 180 Paesi del mondo (rsf.org/en/index), sembra brillare in compenso per ‘libertinaggio’ di stampa, fondato sulla ‘libertà’ di espressione di odio e di vittimismo.

Tra le «libertà» recentemente sdoganate anche in un libro delirante dell’ormai noto generale Vannacci, c’è appunto anche «il diritto all’odio».

La connessione social, che ha preso il sopravvento su quella sociale, è un’opzione individuale e in ogni caso una relazione astratta, fatta di individui virtuali di cui possiamo benissimo ignorare tutto, sia prima sia dopo avere dato loro l’amicizia. Più in generale, la libertà si definisce egocentricamente e trova il suo limite, solo teorico e mal tollerato, nell’osservanza delle leggi.

Tuttavia, per l’oligarchia politica e/o finanziaria (aggettivi che sempre più tendono a coincidere), che può redigersi leggi ad personam, o ‘ad partitum’ o pagarsi una pletora di avvocati o corrompere, il limite è, appunto, soltanto teorico.

Dell’immenso potere della ricchezza, poi, è prova eclatante, per fare un solo esempio, l’incontro alla pari, nella sede istituzionale di Palazzo Chigi, tra l’imprenditore multimiliardario Elon Musk (il cui patrimonio è valutato 251 miliardi di dollari) e la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni il 15 giugno 2023.

Inoltre, il 27 novembre 2023 Elon Musk si è recato in Israele, dove ha visitato con Benjamin Netanyahu il kibbutz di Kfar Azza attaccato da Hamas il 7 ottobre, e il 29 novembre è stato invitato da Osama Hamdan, leader di quest’ultima, a visitare la striscia di Gaza.

Il fatto che i plutocrati detengano risorse finanziarie, mezzi di informazione o addirittura, come appunto Musk non a caso ‘tirato per la giacca’ da tutti, satelliti attraverso cui è possibile gestire la connessione Internet in tutto il pianeta, rivela il loro straordinario potere sia di far credere alla gente ciò che vogliono o anche solo di gettarla nella confusione più totale con notizie di tutti i tipi, sia di influire direttamente sulle sorti delle relazioni internazionali.

 

Democratura e presidenzialismo.

 

La riforma costituzionale in senso presidenzialista che si profila all’orizzonte in Italia va nella direzione della piena legittimazione costituzionale della democratura, e non a caso, come ho ricordato sopra, anche in Russia e in Turchia sono in vigore forme di Governo analoghe.

Il presidenzialismo è la parodia della democrazia, il culmine della democrazia ridotta a pura vuotezza formale del voto degli individui, la forma costituzionale adeguata al dominio assoluto degli imprenditori plutocrati, meglio se già parte del mondo dello spettacolo  – e, da questo punto di vista come anche da molti altri (l’idea che la Politica sia Amministrazione tecnico-economica, che la Sanità e l’Istruzione siano privatizzabili etc.), gli Usa sono pienamente esemplari.

 

Il presidenzialismo è l’ovvia prosecuzione del sistema elettorale maggioritario che indirizzava verso il bipolarismo di cui, appunto, i vari tipi di presidenzialismo sono espressione.

Il motivo introdotto per il passaggio al presidenzialismo è, come era per il passaggio al sistema elettorale maggioritario, la stabilità dei Governi non più basati sulle alleanze tra Partiti bensì scelti tra due unici fronti precostituiti, che naturalmente vanno a tendere verso il Centro fino al punto da fare risultare pressoché nulle le differenze tra loro.

Motivo paradossale per una democrazia, che dovrebbe favorire il pluralismo e volere che la tenuta di un Governo derivi non da ingegnerie costituzionali volte a permetterla tecnicamente a prescindere dal coinvolgimento nel voto dalla totalità dei cittadini e dall’astensionismo di massa ma da modalità politiche che inneschino almeno nella maggioranza del popolo la partecipazione politica in generale e al voto in particolare.

 

Motivo paradossale in una democrazia ma non in una democratura, in cui ciò che conta è la libertà formale del voto, indipendentemente dal fatto che questo sia realmente rappresentativo della volontà popolare.

 È sufficiente che anche pochi vadano a votare:

l’eterodirezione del voto attraverso la manipolazione attuata con le stesse precise tecniche dello spettacolo e del mercato pubblicitario farà il resto.

 

La “democratura infocratica”, infatti, non è solo un regime politico.

 È anche, e innanzitutto, un regime culturale fondato appunto sullo spettacolo: figura rilevante è quella dello “spin doctor”, l’esperto di comunicazione consigliere e curatore, attraverso metodi di marketing, dell’immagine pubblica – dall’aspetto fisico all’abito ai discorsi – dell’uomo politico, sempre più coincidente con uno “showman”.

 Fa parte del sistema, dunque, non solo la disponibilità finanziaria di chi ne sarà il capo ma anche la complicità, consapevole o meno, dei giornalisti e degli intellettuali.

Così, il premierato, una variante della concentrazione del potere rivendicata dal presidenzialismo, benché possa essere avversato da qualcuno per questioni abbastanza di dettaglio, è stato fatto ‘digerire’ già da anni all’opinione pubblica parlando disinvoltamente di ogni Presidente del Consiglio come del «Premier» – carica fino ad oggi inesistente nel nostro Paese!

Tutti i media, dai Tg di qualsiasi rete televisiva ai giornalisti di qualsiasi orientamento, hanno ammannito – e continuano ad ammannire – quotidianamente questa vera e propria menzogna abituando ad essa l’orecchio dell’opinione pubblica.

 Quindi, non stupisce affatto che si è arrivati alla proposta governativa attuale: tanto tuonò che piovve.

 

Altre parole-chiave: Nazione, Patria.

 

Di recente, sull’onda del vocabolario della nostra Presidente del Consiglio, si è affermata anche nei nostri Tg la parola «Nazione».

La Nazione è il luogo concettuale in cui è riposto il valore cieco della Fedeltà, o della Lealtà al proprio Paese – «che abbia torto o ragione» – che postula «la materia del sangue e del suolo, ma più ancora (dopo tutto viviamo in tempi consapevoli della propria contingenza) la materia della storia condivisa» (Bauman 2003, cap. 3, par. Tribù, nazione e repubblica).

 O meglio: che postula la materia di una certa narrazione – quella volta a creare un ben preciso senso di identità – di storia condivisa.

 

Il nazionalismo, ‘cappello’ politico del liberalismo individualistico e ‘atomizzante’, fornisce il collante spirituale minimo tra gli individui nella propaganda del Patriottismo.

In quest’ultimo si coagula appunto quell’ideale ottuso di Fedeltà al proprio Paese, «che abbia torto o ragione».

Come ciò possa anche giustificare la guerra di difesa, da anni peraltro affidata all’esercito professionale che ha messo in soffitta il «sacro dovere» di difendere la Patria (art. 52 della Costituzione Italiana) dopo il riconoscimento che tale dovere poteva essere assolto non solo mediante il servizio di leva ma anche tramite il servizio civile ad esso alternativo, mi pare evidente.

La violenza bellica, infatti, è legittimata proprio per la difesa della Patria (e ho già ricordato, più sopra, come la nostra democratura abbia provveduto a chiamare con tale espressione anche i suoi attacchi ad altri Paesi).

Ma, per l’arroganza della democratura, il Patriottismo è stato tirato in ballo, per esempio in occasione del 25 aprile scorso, anche per legittimare il contributo dato dall’Italia alla difesa armata della Patria altrui!

 L’invio di armi in Ucraina, a dispetto e a oltraggio dell’art. 11 della Costituzione, sancisce di fatto la scelta della guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti internazionali.

 

Il Patriottismo è un tutt’uno con il senso di appartenenza e di identità – altre parole che risuonano oggi sempre più spesso sulla bocca di chi è al Governo.

 La nozione di identità serve ad includere qualcuno per escludere qualcun altro e si delinea in realtà come di volta in volta si desidera a seconda chi si vuole mettere nel «Noi».

 Così, ci identifichiamo ora come Occidente, ora come Europa  (una appartenenza spirituale sostanzialmente mai percepita prima del trattato di Maastricht), ora come Italia, ora come la tale Regione o la tale Città o il tale Quartiere o la tale Famiglia, ora come Io o la mia Razionalità, la mia Emotività, la mia Pancia…

Politicamente, il patriottismo e l’identità sotterrano, inoltre, ogni diritto, fatto apparire come un tradimento, alla disobbedienza civile e alla scelta di valori sovraordinati rispetto a quelli detti.

Ma, poi, nella realtà, l’identità esiste?

Non mi pare. Esiste, piuttosto, la (in)cultura identitaria, il cui funzionamento è stato ben descritto, nel 1936, dall’antropologo “Ralph Linton” (1973: 359-360), in questo modo:

 

«Il cittadino americano medio si sveglia in un letto costruito secondo un modello che ebbe origine nel vicino Oriente ma che venne poi modificato nel Nord Europa prima di essere importato in America.

Egli scosta le lenzuola e le coperte che possono essere di cotone, pianta originaria del vicino Oriente; o di lana di pecora, animale originariamente addomesticato nel vicino Oriente; o di seta, il cui uso fu scoperto in Cina.

Tutti questi materiali sono stati filati e tessuti secondo procedimenti inventati nel vicino Oriente.

Si infila i mocassini, inventati dagli indiani delle contrade boscose dell’Est, e va nel bagno, i cui accessori sono un misto di invenzioni europee ed americane, entrambe di data recente.

Si leva il pigiama, indumento inventato in India, e si lava con il sapone, inventato dalle antiche popolazioni galliche.

Poi si fa la barba, rito masochistico che sembra sia derivato da sumeri o dagli antichi egiziani (…).

Andando a fare colazione si ferma a comprare il giornale, pagando con delle monete che sono un’antica invenzione della Lidia.

Al ristorante viene a contatto con tutta una serie di elementi presi da altre culture: il suo piatto è fatto di un tipo di terraglia inventato in Cina;

il suo coltello è d’acciaio, lega fatta per la prima volta nell’India del Sud, la sua forchetta ha origini medievali italiane, il cucchiaio è un derivato dell’originale romano (…).

Quando il nostro amico ha finito di mangiare si appoggia alla spalliera della sedia e fuma, secondo un’abitudine degli indiani d’America (…).

Mentre fuma legge le notizie del giorno, stampate in un carattere inventato dagli antichi semiti, su di un materiale inventato in Cina e secondo un procedimento inventato in Germania.

Mentre legge i resoconti dei problemi che s’agitano all’estero, se è un buon conservatore, con un linguaggio indo-europeo, ringrazierà una divinità ebraica di averlo fatto al cento per cento americano».

Potrebbe anche essere sufficiente, forse, ricordarsi che il capo d’abbigliamento più rappresentativo dell’odierno mondo occidentale, indossato da uomini e donne, cioè i pantaloni, provengono dall’antica Persia, … dunque dall’Oriente.

 

La contemporaneità guardata dagli antichi.

 O cosa farsene della comparazione col passato.

 

Infine, le nostre idee apologetiche della sola libertà, non troppo diversamente che ai tempi di Platone, spazzano via non solo le anti egalitarie gerarchie tradizionali (che vogliono la superiorità degli anziani rispetto ai giovani, dei nobili rispetto ai plebei, dei genitori rispetto ai figli, dei maschi rispetto alle femmine etc.) ma anche ogni rapporto che non sia quello giuridico o economico-giuridico.

Potremmo dire, con le parole dello stesso Platone, che esse «mandano via disonorevolmente, in esilio, il riguardo (aidós) dandogli il nome di dabbenaggine, scacciano la moderazione chiamandola viltà e infangandola, e persuadendo che la misura e le spese ordinate sono rozzezza e meschinità (…):

chiamano buona educazione la tracotanza, libertà l’anarchia, magnificenza la dissolutezza, coraggio l’impudenza» (Repubblica 560d-e).

Una società del genere era, secondo il filosofo, una teatrocrazia (Leggi 701a): a legare il popolo al suo interno, qui, sono lo spettacolo e il divertimento consumistico.

In un altro passo, Platone attribuisce a” Protagora” il pensiero secondo cui uno Stato non sussiste in presenza di un certo livello di divisione del lavoro e di rapporti di scambio ma solo quando si danno, oltre a questa complementarità economica tra gli individui, anche la giustizia e, appunto, l’aidós, il riguardo, o addirittura la philía, l’amicizia.

 Non erano idee soltanto di Protagora e di Platone. Per gli antichi Greci in generale questa è praticamente un’ovvietà.

Aristotele scrive che uno Stato (polis, dice egli in realtà) che si preoccupi della giustizia, cioè dell’astensione dal danneggiare gli altri, ma non della virtù – possiamo dire più chiaramente: della relazione costruttiva di fiducia e di solidarietà – non garantisce un legame comunitario tra i cittadini ma semplicemente una loro «alleanza» sul piano giuridico o un loro «contratto» sul piano economico:

 esso finisce per garantire, insomma, solo un vincolo ‘tecnico’ tra i cittadini.

 In base a tale vincolo, l’unica cosa importante è «che essi non commettano alcuna ingiustizia l’uno contro l’altro»;

ma lo Stato ha uno scopo molto diverso:

«è chiaro che lo Stato che merita veramente questo nome e non è tale solo a parole deve avere a cuore la virtù»;

difatti, «quanti si curano del buon governo prendono in considerazione la virtù e la cattiveria presenti nello Stato» (Politica 1280a 34-b 8);

e ancora: «i legislatori rendono buoni i cittadini attraverso l’abitudine: questa è l’intenzione propria di ogni legislatore» (Etica Nicomachea 1103b 3-5).

 

Anche Isocrate criticava la democrazia dei suoi tempi perché lascia che ognuno, dopo il periodo dell’educazione, «faccia ciò che vuole», ed esalta invece quella dei tempi antichi che si curava che i cittadini, anche da adulti, perseguissero la moderazione;

 infatti, bisogna avere il senso di giustizia nell’animo, perché «non con i decreti si amministrano bene le città ma con i costumi» (Areopagitico 37 e 41).

Oltre alla virtù ‘negativa’ della giustizia, che è un non fare qualche danno ad altri, c’è bisogno di una virtù ‘positiva’, cioè che un fare il bene agli altri.

 

Dunque, non tutto ciò che il codice penale non punisce è anche raccomandabile fare.

In Senofonte (Memorabili 4, 4, 19-20), Socrate richiama, ad esempio di ciò, il fatto che la legge non prescrive che i figli onorino i genitori ma, lo stesso, è legge non scritta, da rispettare, che si faccia così.

 La libertà e la giustizia non garantiscono la coesione sociale: entrambe sono soltanto manifestazioni dell’individualismo che pone nel diritto il suo unico limite, la sua unica regolamentazione.

 

Ora, tutto ciò non descrive esattamente quanto avviene, anche a livello popolare, nella nostra società, in cui «lo spettacolo si presenta nello stesso tempo come la società stessa, come parte della società, e come strumento di unificazione» (Debord 2002, tesi 3)?

Le urla sguaiate e volgari di uno Sgarbi che ha fatto dell’insulto la sua cifra espressiva e che ancora viene invitato nei talk show, trasmissioni-spazzatura come Il grande fratello o L’isola dei famosi, giornali pieni di odio, come Libero o Il Giornale (parere mio), pubblicità maschiliste (ci ricordiamo, per esempio, di “Fatti il capo” di un noto amaro?

O della ancora più ignobile scena di un uomo sopra una donna supina con accanto a lui altri tre uomini di una casa stilistica?

 O di quel marchio di una collezione di abiti in cui due poliziotti abusano del loro potere su due donne?),

 il Governo delle Olgettine, la monetizzazione di qualsiasi cosa e il diritto di accumulare ricchezza senza limiti (e senza che passi per la testa a nessuno l’opportunità di leggi che ne fissino una soglia massima), la mercificazione dello sport, la normalità dello spot pubblicitario che interrompe un film o una trasmissione televisiva, la logica dello spettacolo ovunque e sempre (basti ricordare la ‘maratona’ tv su funerali di regine e pregiudicati – per i quali si propongono perfino intitolazioni di strade – che, se si fosse trattato di Kim Jong-un, sarebbe stata considerata prova di culto della personalità), la competizione nell’economia, nella scuola, nell’università, nei comportamenti quotidiani: tutto assomiglia all’individualismo, alla spudoratezza e alla teatrocrazia oggetto della critica di Platone.

L’idea del solo valore della libertà coincidente con “il diritto di fare tutto ciò che non è espressamente vietato “– dalla libertà di offesa verso chi dissente dalle nostre idee a quella di dire ciò che si pensa su qualsiasi tema indipendente dal livello di informazione posseduta, da quella di non cedere il posto all’anziano sui mezzi pubblici a quella di inveire contro chi si vuole, da quella di tirare dritto davanti al clochard steso sul marciapiede non si sa se vivo o morto o davanti a una rissa e così via – fa venir meno il riguardo, e con esso qualsiasi legame comunitario ‘non tecnico’.

Di più, la cultura della sola libertà ha garantito lo scioglimento della relazione dell’individuo non solo con la società (e con la natura) ma anche con sé stesso.

Come è avvenuta la frammentazione dei film in televisione attraverso l’inserzione di pubblicità, è avvenuta anche quella dell’individuo stesso.

La velocizzazione dei tempi della vita – la società «sincrona», come è stata detta , che troviamo rappresentata, per esempio, nella pratica quotidiana, dal “fast food alla fast science” – ha operato la separazione del presente dal passato e l’appiattimento sul primo, in un eterno presentismo.

 

L’alienazione è alienazione non più ‘solo’ dal lavoro e dalla società ma anche da se stessi nel senso più stretto del termine, nel senso della schizofrenia, della malattia mentale, della depressione, del burnout e, più banalmente, dell’inconsapevolezza totale di ciò che si sta facendo e dicendo – compulsivamente venendo agiti invece di agire, venendo parlati invece di parlare.

L’individuo perde il rapporto con la sua stessa continuità di vita e con il suo stesso corpo.

La vita diventa una vita nell’istante vissuto senza legame col passato e con un progetto di futuro, consumisticamente:

il presentismo diventa la cifra dominante tanto per l’individuo quanto per la cultura generale che eleva a valore supremo l’efficienza, la tecnologia, la rimozione della Storia e della possibilità di comparare il «momento attuale» con qualche «momento altro» e di creare archivi di esperienze per stabilire connessioni, complessità, possibilità di confronto e di scelta.

 

Ci sono alternative!

 

Nell’Introduzione al suo “La solitudine del cittadino globale”, “Zygmunt Bauman” (2003) ricorda le «orge di compassione e carità» con cui i popoli occidentali oggi manifestano la loro socialità in specifiche occasioni dolorose come la tragica morte della principessa Diana.

 Potremmo ricordare, in Italia, eventi più recenti come i ben noti «Ce la faremo» e «Andrà tutto bene» che campeggiavano su moltissimi profili Facebook e sui balconi delle case, con tanto di accompagnamento di canti, durante la pandemia, o gli sdegni di massa per femminicidi o stupri particolarmente efferati, non di rado tra l’altro condannati con un atteggiamento giustizialista, anzi forcaiolo, e non meno crudele di quello che si intende stigmatizzare nel criminale («pena di morte», «castrazione chimica» etc.: è, ancora una volta, la violenza dei sedicenti ‘buoni’).

 

Ciò che mi interessa, comunque, è la notazione seguente di Bauman:

 

«Priva di sfoghi regolari, la nostra socialità viene tendenzialmente scaricata in esplosioni sporadiche e spettacolari, dalla vita breve, come tutte le esplosioni. (…) una volta tornati alle nostre faccende quotidiane, tutto riprende a funzionare come prima, come se nulla fosse successo. E quando la fiammata di fratellanza si esaurisce, chi viveva in solitudine si ritrova di nuovo solo» (cors. mio).

La relazione, insomma, ridotta a sprazzi momentanei e scenografici, come eccezione rispetto alla normalità della vita interamente ‘normale’, spesa nella libertà individualista e consumista.

La socialità può apparire anche nella forma alienata del (solo) divertimento sussunto all’economia consumistica: «aperitivo et circenses».

Abbiamo bisogno, invece, di relazione che vada oltre il diritto allo spritz con gli amici e sia progettazione politica comune, partecipata , in uno spazio d’azione micro legato ad una forma di pensiero macro («pensare globale/agire locale, pensare locale/agire globale», secondo il suggerimento circolare di Morin e Kern 1994: 170) – come potrebbe fare forse un federalismo politico, cooperativo, non isolazionista (come era invece quello proposto da qualche politico nemico della democrazia, che è veramente democrazia solo se è anche solidale).

Per superare la democratura, che avvolge la nostra vita intera, non è possibile far nulla?

 Sì, ritengo, se ci muoviamo sulla via della nonviolenza proposta da Gandhi e purché sia chiaro che questa prevede un’azione a vari livelli – economico, politico, sociale, individuale – nessuno dei quali è più importante degli altri.

Tutti sono fondamentali, anche se hanno tempi di attuazione diversi.

Allora, secondo me, bisogna lottare:

in economia, per un modo di produzione e di consumo ecologico e giusto, fondato sulla riduzione dei bisogni, sull’uso di fonti energetiche non inquinanti, su una limitazione dell’arricchimento massimo possibile;

in politica, per un’organizzazione federale a cerchi concentrici (mondiale, internazionale, nazionale, regionale, comunale) che permetta e solleciti la partecipazione attiva alla cosa pubblica di tutti e tutte e preveda la gestione pacifica dei conflitti, a partire da quelli internazionali, attraverso una difesa nonviolenta, l’istruzione alle tecniche la quale va assicurata alla cittadinanza da brevi periodi di servizio civile regolato da un Ministero della Pace:

 perché ciò non sia un sogno utopistico, è fondamentale che l’esercito venga smantellato gradualmente ma a partire da subito;

nella società, per la diffusione di una cultura (giornalistica, mediatica, scolastica, universitaria) pensosa, in ascolto, con tempi non da competizione ma da riflessione:

è ora di fermare la caduta nell’abisso della «sempre maggiore rapidità» e di «rallentare le scienze» e di mirare a delle università «di  eccellenza», come suggerisce” Isabelle Stengers” (2013), e in generale a una «scienza con coscienza» (Morin 1988), a una scienza «utile» non nel senso economico del termine ma in quello sociale, che guardi alla ricerca scientifica come ad un lavoro non solo di “problem solving” ma, ancor prima, di “problem making” («a che tipi di problema è opportuno rispondere?»);

in ambito individuale – per chi si lamentasse che quanto proposto nei punti precedenti riguarda solo alcune specifiche persone e non tutte –, per portare nella propria vita quotidiana, per quanto si è capaci, uno sconvolgimento, in quanto

«è un errore credere che la nonviolenza sia pace, ordine, lavoro e sonno tranquillo, matrimoni e figli in grande abbondanza, nulla di spezzato nelle case, nessuna ammaccatura nel proprio corpo. La nonviolenza non è l’antitesi letterale e simmetrica della guerra: qui tutto infranto, lì tutto intatto.

 La nonviolenza è guerra anch’essa o, per dir meglio, lotta, una lotta continua contro le situazioni circostanti, le leggi esistenti, le abitudini altrui e proprie, contro il proprio animo e il subcosciente, contro i propri sogni, che sono pieni, insieme, di paura e di violenza disperata.

 La nonviolenza significa esser preparati a vedere il caos intorno, il disordine sociale, la prepotenza dei malvagi, significa prospettarsi una situazione tormentosa» (Capitini 1977: 221).

Così era già per Gandhi, il quale riteneva necessario – e praticava – quello che chiamava «programma costruttivo», cioè un modo di vivere immediatamente inverante la società auspicata.

È in ogni caso un programma di azione che comincia già nel riflettere al di là delle mode e in una lotta continua anche con sé.

Non diversamente da “Capitini”, l’appello di “Virgina Woolf” invita a questo sforzo continuo di auto-sorveglianza contro la guerra e il patriarcato:

«Pensare, pensare dobbiamo.

In ufficio; sull’autobus; mentre tra la folla osserviamo l’Incoronazione e l’investitura del sindaco di Londra, mentre passiamo accanto al Monumento ai Caduti;

mentre percorriamo Whitehall;

mentre sediamo nella tribuna riservata al pubblico della Camera dei Comuni;

 nei tribunali; ai battesimi, ai matrimoni, ai funerali.

 Non dobbiamo mai smettere di pensare: che ‘civiltà’ è questa in cui ci troviamo a vivere?

Cosa significano queste cerimonie, e perché dovremmo prendervi parte?

Cosa sono queste professioni, e perché dovremmo diventare ricche esercitandole? Dove, in breve, ci conduce il corteo dei figli degli uomini colti?» (1992: 92-93).

Sarebbe il caso di citare per esteso altri brani di “Woolf”, che l’avvicinano moltissimo al pensiero della nonviolenza;

per esempio, quelli relativi: all’opportunità di guadagnare semplicemente «per vivere […] ma nulla di più»;

al rifiuto di lavorare intellettualmente per avere di più «oppure farlo solo per amore della ricerca (…) oppure gratuitamente per fornire a chi ne ha bisogno le conoscenze da voi acquisite professionalmente;

all’impegno a liberarsi dei «fittizi legami di fedeltà» cioè «in primo luogo dell’orgoglio per la vostra patria: e anche dell’orgoglio per la vostra religione, per la vostra università, scuola, famiglia, sesso (…).

Non appena i tentatori si presentano per sedurvi, stracciate le pergamene; rifiutatevi di compilare i moduli» (199: 113-114). Ma questo articolo è diventato ormai troppo lungo.

Aggiungo solo, alla rinfusa, qualche altra azione ancora più concreta che possiamo compiere anche individualmente per trasformare la società in senso nonviolento:

1. istruirsi alla nonviolenza (perché essa non è, come si è visto, tranquillità e bonarietà ma una forma di lotta), per conoscerne il funzionamento e applicarla;

2. praticare anche un’amicizia ‘politica’, costruttiva di trasformazione sociale attraverso mezzi pacifici;

3. appendere alla finestra o al balcone, e lì lasciarla perennemente, una bandiera della pace;

4. contestare, il 4 novembre, singolarmente, silenziosamente e senza disturbare nessuno, semplicemente esibendo un cartello che ricordi che gli eserciti servono ad uccidere e non a portare la pace, le cerimonie di celebrazione delle Forze Armate;

5. chiedere ai Dirigenti Scolastici delle Scuole o ai Rettori delle Università – lo possono fare coloro che le frequentano o i genitori di coloro che le frequentano o chi vi insegna – di “non istituire Percorsi per le Competenze Trasversali e per l’Orientamento (PCTO, cioè l’ex Alternanza Scuola-Lavoro) o altri rapporti di collaborazione con rappresentati dell’Esercito”;

6. avere il coraggio di dire in pubblico (non semplicemente social) la nostra opinione a favore della pace, il nostro sdegno per le mancate dimissioni di un politico corrotto etc., e tentare di innescare così un’abitudine alla non rassegnazione e alla partecipazione sociale;

7. praticare nella vita quotidiana, e in particolare sui social, un’assertività gentile e, come suggeriva Virginia Woolf, una lentezza riflessiva in ogni cosa che si sta facendo e dicendo.

8. … e naturalmente scoprire da sé, creativamente, cos’altro sia possibile fare.

Non so quando e su chi tali piccoli gesti avranno effetto.

Ma so che in ogni caso, come nella teoria del caos la famosa farfalla, essi avranno un effetto e so pure che l’effetto contribuirà alla costruzione di una società migliore.

(Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024).

Commenti

Post popolari in questo blog

Quale futuro per il mondo?

La truffa in politica.

Co2 per produrre alimenti.