L’internazionale progressista è una ipocrisia globalista.
L’internazionale
progressista è una ipocrisia globalista.
L’incubo
americano. Delenda Carthago.
Ariannaeditrice.it
– Roberto Pecchioli – (19-05 -2025) – ci dice:
(Fonte:
Ereticamente).
L’Occidente
collettivo ha gettato ogni maschera. Le sue narrazioni su libertà, democrazia,
pluralismo si rivelano per quello che sono: menzogne a uso di masse inebetite.
La
reazione all’attentato al primo ministro slovacco Fico – inviso alle oligarchie
coloniali – è sconcertante;
il
velo di ipocrisia istituzionale lascia il passo alla sincerità.
Mentre il politico di Bratislava è dipinto
come mafioso, populista, nostalgico dell’Unione Sovietica, il feritore – o
assassino, se Fico non sopravvivrà – è presentato come un mite vecchino amante
della poesia, un innocuo intellettuale progressista uso a passeggiare mano
nella mano con la moglie, un fiero democratico pensoso delle sorti del suo
sfortunato paese caduto nelle mani di Barbablù.
Strano
che si aggirasse per la città armato, pronto a scaricare i colpi della pistola
nel petto dell’orribile dittatore eletto regolarmente dal popolo slovacco.
Negli
Usa, centrale dell’Impero del Bene, la Camera dei Rappresentanti – non si sa se
sfidando più il ridicolo o la costituzione del 1776 – vota una legge che
dichiara antisemita il Nuovo Testamento.
Per il Vecchio, prudenza:
è
stato scritto da semiti, i primi cinque libri sono sacri a una minoranza assai
potente.
Ma il Vangelo, via, è uno scandalo.
Fa
credere che il popolo in cui nacque Gesù sia colpevole della sua morte in
croce. Lo stesso Redentore non risparmia dure critiche al potere, registrate
dagli evangelisti, semiti anch’essi.
Addirittura,
i cristiani – vergogna a cui porre rimedio con la forza della legge –
considerano il Nuovo Testamento “parola del Signore”.
Chissà
se, di questo passo, sarà ancora possibile dirsi cristiani o se il Vangelo –
come già capita a molti testi sgraditi al radicalismo progressista – verrà
“purgato” e magari affermerà che l’uomo di Nazareth è morto di raffreddore,
come i capi dell’Unione Sovietica.
Fortunata
l’America, i cui politici non hanno problemi sociali, economici, finanziari,
etici, razziali da risolvere e possono dedicarsi a combattere l’antisemitismo
del Vangelo.
Un
senatore romano, Catone detto il Censore, un bieco reazionario sostenitore del
mos maiorum, le antiche tradizioni, terminava ogni discorso esigendo che
Cartagine, la potenza nemica di Roma, venisse distrutta: “delenda Carthago”.
La potente città nordafricana fu la prima potenza
mercantile “globale”, e il vecchio Catone fu accontentato.
Scipione
la rase al suolo e Roma iniziò a dominare il mondo.
Ci
sentiamo come lui, chiedendo con il poco di voce che ci resta la secessione
dall’Occidente e in particolare dagli Usa.
Nessuna
distruzione materiale, nessuno spargimento di sangue.
Vogliamo
solamente rinunciare al privilegio di essere occidentali e servi – pardon,
fedeli alleati – degli Stati Uniti.
Non
accettiamo la loro volontà di colonizzarci culturalmente, economicamente,
militarmente, linguisticamente.
Hollywood
e New York non sono le nostre capitali: ciò che proviene da lassù è
distruttivo, quindi lo dobbiamo rifiutare.
Siamo
ragionevoli, chiediamo l’impossibile, era uno slogan del Sessantotto.
Lasciateci sognare.
Il
sogno americano è un incubo da cui vorremmo risvegliarci.
Gli
Usa hanno il diritto di vivere come vogliono, di organizzare la loro società in
base ai principi in cui credono.
Nessuna
ingerenza:
sono
padroni a casa propria, una casa, peraltro, usurpata con le armi alle
popolazioni native.
La
smettano però di credere nel “destino manifesto” di dominare il mondo.
La
frase, intrisa di suprematismo razzista, fu coniata da un giornalista
dell’Ottocento,” John O’ Sullivan”, sostenitore del Partito Democratico.
Smettano
di pensare che il loro modello debba valere per ogni altro popolo e che vada
esportato con la forza a popoli ignoranti, selvaggi, arretrati.
Gli
Usa hanno costante bisogno di un nemico da demonizzare, la cui distruzione è
inevitabilmente un atto di civiltà.
Le
vittime sono danni collaterali.
Vale anche per il primo ministro di una
piccola nazione dell’Europa Centrale – la Slovacchia ha una popolazione di poco
superiore ai cinque milioni e una superficie pari a Lombardia e Piemonte – vale
addirittura per il libro una volta sacro alle popolazioni di questo pezzo di
mondo, la terra del tramonto.
Il
Dipartimento di Stato americano (ministero degli Esteri) pubblica un rapporto
annuale sui “diritti dell’uomo”, in cui si criticano – e si minacciano – i
paesi che non condividono le idee delle classi dominanti Usa.
Un’intollerabile
ingerenza del Grande Fratello negli affari altrui, rivolto al mondo che lo Zio
Sam considera il cortile di casa.
Quest’anno le attenzioni del benefattore a
stelle e strisce si rivolgono contro le “posizioni conservatrici sulla
sessualità umana e i diritti sessuali e riproduttivi. “Ancora una volta, ecco
la vera agenda:
destrutturare
l’uomo, animalizzarlo sin nelle parole (salute riproduttiva sa di manuale
zootecnico) e sottrargli ogni identità con l’alibi dei “diritti” sessuali,
proclamati in sostituzione di quelli sociali e politici.
Dominio
sullo zoo umano.
Il
rapporto si basa su una visione dei diritti umani incoerente con i documenti
internazionali ufficiali, ma in linea con la prassi delle agenzie ONU
finanziate dai miliardari americani “filantropi”.
Il
rapporto giudica se i governi stranieri rispettano i “diritti riproduttivi”, se
riconoscono legalmente i generi sessuali e se considerano degni di protezione
legale i diversi “orientamenti sessuali e l’identità di genere percepita.”
Nessuno
di questi concetti corrisponde a un diritto umano in base alle norme
internazionali.
Il
segretario di Stato Blinken ha affermato che “c’è molto lavoro da fare per
sostenere i diritti enunciati nella Dichiarazione Universale”.
Eppure,
non esiste un diritto internazionale all’aborto;
la
Dichiarazione Universale dei Diritti Umani tace su quel punto.
Si
tratta di una priorità politica del governo americano, come il concetto di
diritti riproduttivi, introdotto dalla presidenza Obama.
Il
rapporto critica El Salvador per il divieto di aborto, l’Ungheria per “aver
richiesto che le donne esaminino i segni vitali del feto prima di sottoporsi a
un aborto”, punta il dito contro Burkina Faso, Camerun e Uganda per la mancanza
di accesso “all’aborto e ai servizi di salute sessuale e riproduttiva”.
Non
esattamente le urgenze dei paesi poveri africani.
Denuncia
l’assenza di educazione sessuale in Burundi e Romania.
“Ci
sono barriere che impediscono di mantenere la salute riproduttiva, inclusa la
mancanza di assistenza sanitaria comunitaria e di educazione sessuale adeguata
all’età.”
Blinken
osserva che il rapporto include “disposizioni specifiche sui membri delle
comunità vulnerabili”, espressione utilizzata per promuovere riconoscimenti e
diritti speciali per soggetti e gruppi LGBTQI+.
La
Polonia è criticata perché non consente l’adozione alle coppie LGBTQI+ e
attacca un’iniziativa legislativa che “impedisce l’ideologia LGBT nelle scuole,
invoca la protezione dei bambini dalla corruzione morale e dichiara il
matrimonio unione esclusiva tra una donna e un uomo”.
Condanna
l’Ungheria che impedisce “alle persone transgender o intersessuali di cambiare
il sesso o il genere loro assegnato alla nascita sui documenti legali di
identificazione” e per la legge sulla protezione dei minori che impone ai “siti
web contenenti qualsiasi forma di contenuto LGBTQI+ di richiedere agli utenti
la prova di avere almeno diciotto anni con avvisi relativi ai contenuti per
adulti”.
Il Burundi è accusato di aver permesso alle
scuole cattoliche di non collaborare con organizzazioni che violano
l’insegnamento della Chiesa.
Come la mettono con la libertà di religione
garantita in Usa dalla costituzione? Ah, già, il Vangelo è antisemita.
Un
alto funzionario governativo ha affermato che il rapporto “è più centrale che
mai in un mondo in cui vediamo sempre più fatti diffamati come bugie, bugie
presentate come fatti e informazioni manipolate per ostacolare gli obiettivi
degli autocrati e di altri attori pericolosi”.
Per
fortuna lo Zio Sam – da non confondere con la maggioranza degli statunitensi –
veglia su di noi, abitanti di un mondo pieno di “soggetti pericolosi, di
autocrati e di bugiardi.” I
l
Ministero della Verità ha sede a Washington D.C.
Impallidiscono
Orwell e la censura vaticana che concedeva o negava la pubblicazione –
“imprimatur”, si stampi – ai testi non conformi alla dottrina cattolica.
Il
rapporto ha tuttavia dei meriti:
innanzitutto
ci ricorda la nostra condizione di colonie a sovranità limitata (ricordate
l’Unione Sovietica?) su cui vigila l’occhio onnipresente di Capitan America.
Poi spiega con chiarezza quali sono le
priorità e le volontà imperiali:
diminuzione
della popolazione, distruzione dell’identità più intima di individui e popoli,
manipolazione delle coscienze sin da bambini.
Scartata
l’ipotesi grottesca che lorsignori ci credano sul serio, resta l’evidenza di
una formattazione dell’umanità in linea con gli interessi oligarchici di cui
gli Usa sono il braccio secolare (e violento).
Nessun
rapporto impegna gli Usa sui diritti sociali – pressoché inesistenti nel regno
del “libero” mercato in cui tutto e tutti sono in vendita – nessuna lotta
contro le dipendenze– il Fentanyl uccide oltre centomila americani ogni anno –
nessun interesse per i diritti politici, se non la stanca riproposizione di una
democrazia rappresentativa che non rappresenta più e risponde esclusivamente ai
finanziatori di partiti e uomini politici “di sistema”.
La
libertà di stampa, di espressione e di pensiero – garantita dal primo
emendamento costituzionale – è riconvertita in lotta alle opinioni “false”,
cioè diverse dalle idee dominanti.
Il
tutto condito con l’indifferenza per le tradizioni, i costumi, le convinzioni
morali, gli usi, le credenze religiose di ogni popolo, da sottomettere ai
“diritti sessuali e riproduttivi” e, concretamente al sistema socioeconomico
liberista e globalista a cui è vano opporsi, in quanto “non c’è alternativa”
(il copyright è di Margaret Thatcher).
Garantire
i diritti sessuali e riproduttivi non comprende in America un’assistenza
sanitaria che impedisca di morire per mancanza di cure a chi non le può pagare
– sono decine di milioni – o offra una casa ai tantissimi senzatetto, a cui è
offerto però un risarcimento verbale: devono essere chiamati “persone che non
hanno un’abitazione”.
La
loro condizione non cambia, ma la coscienza dei Buoni è a posto.
Chi un tetto ce l’ha sono i milioni di
carcerati che fanno degli Usa lo Stato con la più alta percentuale di detenuti,
anzi “ospiti del sistema penitenziario”.
Un
sistema in parte privatizzato, in cui si lavora a ritmo e con salario
schiavistico.
Il
sogno americano degli sfruttatori.
Mentre
politici, intellettuali e ceti abbienti pensano alla salute riproduttiva,
decine di milioni di connazionali non hanno i mezzi per affrontare un’emergenza
imprevista.
Le
spese militari e di polizia assorbono percentuali elevatissime del bilancio,
con poteri immensi – spesso incontrollati – dell’esercito e delle agenzie di
sicurezza, esterne (CIA, DEA eccetera) e interne, come NSA e “Homeland Security
Department”.
Su
tutti veglia l’apparato mondiale di intrattenimento (la società dello
spettacolo svelata da “Guy Debord”) di Hollywood, che colonizza l’immaginario
globale, diffondendo idee, modi di vita, preferenze e ideologie americane.
Saremo
gli unici, almeno in questo angusto angolo di mondo, ma non ci stiamo. Senza
sangue, senza odio, “Delenda Cathago”, a partire dal nostro foro interiore.
Lontano dagli occhi, lontano dal cuore.
Si
tengano il loro sogno americano, la loro salute riproduttiva e i loro diritti
sessuali.
Il
Summit sull’Intelligenza
Artificiale
di Parigi.
Conoscenzealconfine.it
– (18 Febbraio 2025) - Der Einzige Italia – ci dice:
Il
summit di Parigi ha fissato gli obiettivi della rivoluzione digitale dell’IA.
Essa dovrà riguardare tutti gli Stati e nessuno dovrà sottrarsi ad essa, dovrà
quindi essere estesa ad ogni azienda e ad ogni singolo cittadino.
Introdotto
anche il concetto di “IA sostenibile”, cioè IA alimentata da fonti di energia
green che verranno costruite occupando dei terreni agricoli. Tutto ciò dovrà
portare a quella che loro chiamano “trasformazione economica” e sarà guidata
dall’UE e dalla Francia, tramite l’adozione di regole di governance globale con
cui assicurarsi che le persone possano usare l’IA solo come dice il sistema.
A tal
fine hanno iniziato a revisionare tutte le regolamentazioni che i Paesi hanno
adottato per l’IA con lo scopo di creare un framework di regolamentazione
unico, ma la revisione fatta non è disponibile perché hanno dichiarato di non
aver ancora pubblicato il documento.
Hanno
anche regolamentato l’IA in ambito militare.
Nella dichiarazione non si vietano del tutto
le armi automatiche guidate dall’IA, ci si limita solo a dire che l’uso di
tecnologie automatiche non escluderà la responsabilità umana e che gli esseri
umani saranno ritenuti responsabili dell’uso di queste armi automatiche e si
riterrà che non potranno agire totalmente al di fuori del controllo umano.
L’Italia
ha aderito a questa dichiarazione.
Sacrificare
Posti di Lavoro e Privacy in Nome dell’Agenda 2030.
Tra le
pubblicazioni del summit ne esiste una che dovrebbe parlare dell’impatto
dell’IA sul mercato del lavoro, ma aprendola si parla di tutto tranne che di
questo.
Si
parla solo di idiozie woke come l’uso dell’IA per la transizione green e la
parità di genere, dove in sintesi non si fa altro che ribadire che è legittimo
sacrificare i posti di lavoro per perseguire gli obiettivi dell’agenda 2030.
È il
lavoratore che si deve adattare all’introduzione dell’IA, che da parte loro è
vista come una necessità.
Se il
lavoratore non si riqualificherà e non si adatterà al nuovo mercato del lavoro,
la sua esclusione sarà esclusivamente colpa sua.
Hanno
lanciato la versione europea del progetto “Stargate” chiamata “Current AI”, una
partnership pubblico-privato il cui compito è ottenere fino a 2 miliardi di
euro di fondi per lo sviluppo dell’IA. La lista dei partner, tra cui Google, e
degli aderenti si può vedere.
Un’altra
dichiarazione introduce il fatto che l’IA sia considerata di interesse
pubblico.
Ciò –
come spiegato nella dichiarazione stessa – significa che l’IA usata dagli Stati
potrà avere accesso a dati “di altissima qualità” dei cittadini senza il loro
consenso e farne ciò che si vuole, condividendoli anche con terzi.
Si
citano le leggi in materia di tutela della privacy, ma queste sono scarne nella
migliore delle ipotesi, oppure effettive prese in giro.
Hanno
lanciato l’iniziativa “AI for public” che oltre alla condivisione dei nostri
dati prevede che i cittadini europei paghino l’IA anche per l’Africa.
Conclusioni.
In
questo PDF Macron sostiene che la Francia è leader mondiale dell’IA, così come
con il lasciapassare verde è stato dato a Macron “l’onore” di essere il primo.
Nel PDF vengono elencati nel dettaglio tutti
gli investimenti e le infrastrutture che la Francia dedica all’IA, e le pp.
20-21 sono dedicate al nuovo progetto dei datacenter.
Macron
vuole convertire 1200 ettari di terreno in datacenter entro il 2028, e questo è
solo l’inizio.
Anche Amazon e altre aziende (pp. 23-29) hanno
stretto collaborazioni col governo francese per aprire ulteriori datacenter e
siti dedicati all’IA.
Questo
altro non è che una distruzione pianificata di agricoltura e industria in nome
del nulla, perché quando avremo fame non potremo mangiare gli algoritmi.
Riferimenti:
(Articolo
di Der Einzige Italia).
(t.me/dereinzigeitalia).
(elysee.fr/emmanuel-macron/2025/02/11/les-actions-de-paris-pour-lintelligence-artificielle).
Il
vero nemico dei progressisti
è la
democrazia?
Centromachiavelli.com
- Gianmaria Pisanelli – (19-1-2024) – ci dice:
“L’Occidente
e le democrazie devono guardare alle primarie americane come l’inizio di una
straordinaria e spettacolare resa dei conti tra populismo e democrazia che
riguarda ognuno di noi”.
(M. Molinari, La Repubblica)
In
vista delle elezioni americane del 2024, si moltiplicano gli allarmi di
politici e opinionisti di sinistra per i rischi che correrebbe la democrazia in
caso di un successo di Trump.
Ciò
che temono questi autorevoli pensatori è che il popolo americano, come già ha
fatto nel 2016, possa eleggere un presidente che loro considerano non un
semplice avversario ma un nemico giurato, in quanto portatore di un pensiero populista e nazionalista e
avversario dichiarato della “ideologia globalista e wokeista”.
Senza
minimamente entrare nel merito della figura controversa dell’imprenditore e
miliardario repubblicano, e delle sue iniziative spesso discutibili e talvolta
difficilmente difendibili, l’aspetto interessante di queste polemiche sta nella
assoluta dissonanza fra ciò che viene denunciato e la realtà dei fatti.
Nei quattro anni di presidenza Trump non sono
state proposte riforme autoritarie o comunque contrarie alla costituzione, né
le regole procedurali e istituzionali che presidiano la democrazia statunitense
sono mai state messe in discussione.
In
altri termini, non è stato sferrato alcun ‘attacco’ alla democrazia.
Quello
che viene enfaticamente presentato dai progressisti come un pericolo per la
democrazia va inteso in realtà come il rischio che possa prevalere, come è
fisiologico in un sistema retto da libere elezioni, un loro avversario.
A ben vedere, un assunto aberrante, che
tuttavia vediamo rilanciato da anni ogni volta che si presentano in qualche
tornata elettorale personaggi estranei e ostili alle quei poteri globalisti di
cui la sinistra è garante dichiarata.
È
successo per la Le Pen in Francia, per Orban in Ungheria, e ovviamente per
Giorgia Meloni nel nostro Paese, e il copione è sempre lo stesso:
se
vincono loro, vuol dire che il popolo ha votato male, che non è maturo né
culturalmente preparato a esercitare in modo adeguato il diritto di voto.
A
questo orientamento sempre più marcato e ormai onnipresente su tutta la stampa
mainstream italiana e internazionale, ha fornito una base teorica e una dignità
culturale il filosofo americano “Jason Brennan,” nel suo libro del 2016 “Contro
la democrazia”.
La
versione italiana del libro venne pubblicata nel 2018, quindi nel pieno del periodo
traumatico che aveva fatto seguito all’”annus horribilis delle élite globaliste”
(successo
del referendum sulla Brexit ed elezione di Trump), caratterizzato da reazioni rabbiose e
classiste contro il popolo “che non sa votare” e i leader sovranisti “che
mettono in pericolo la democrazia”.
Gli
intellettuali di sinistra erano impegnati in quella fase a schernire l’ignoranza degli
agricoltori britannici o l’analfabetismo primordiale dei “redneck” dell’America
più profonda, cui
contrapponevano la saggezza e la capacità dei ceti abbienti e metropolitani di
scegliere i candidati più illuminati e dediti al bene comune, cioè quelli
progressisti.
Di qui
l’emergere di proposte solo apparentemente provocatorie, come quella della
“patente per votare”, scaturita dal pensiero profondo e sofferto di autentici
guru della sinistra nostrana (fra i quali Michele Serra e Corrado Augias), che
lo individuavano come uno strumento necessario per limitare l’elettorato attivo
ai competenti e ai consapevoli azzerando in questo modo i rischi di governi sovranisti o
comunque ostili ai poteri sovranazionali, Unione europea in primis.
D’altronde,
se c’è una costante nel pensiero nel mondo progressista italiano degli ultimi
30 anni, è la scarsissima fiducia negli elettori e in generale dei cittadini
italiani, che non a caso lo ha indotto più volte a proporre e sostenere governi
tecnici, cioè formati da personaggi estranei alla politica e quindi sottratti
al giudizio e al controllo democratico.
Da Amato a Ciampi, da Monti al Draghi del 2021, la sinistra ha sempre guardato con
estremo favore a questo tipo di esecutivi, proprio per la loro distanza dalle
esigenze e dalle aspettative dei cittadini, e per il loro impegno nella implementazione
di programmi per lo più dettati o addirittura predisposti a Bruxelles, e
generalmente contrastanti con gli interessi nazionali.
L’idea
di fondo del ceto mediatico-politico progressista è quella per cui le grandi
scelte strategiche, a partire da quelle economico-sociali-ambientali, ma in
seconda istanza anche quelle attinenti i c.d. diritti civili, debbano essere
esclusivo appannaggio di una élite di tecnocrati, capaci di trascendere gli
interessi immediati del popolo per proiettarsi su obiettivi di lungo periodo,
finalizzati al benessere dell’intero pianeta.
E in
tal senso l’architettura istituzionale della Unione europea risponde largamente
a questa esigenza, con un Parlamento che ha scarsissimi poteri di iniziativa e
sostanzialmente destinato a ratificare le decisioni della Commissione, organo
decisionale formato da politici e burocrati nominati dai governi e che non
rispondono in alcun modo ai cittadini.
Ma,
naturalmente, se anche il modello di Bruxelles soddisfa le aspirazioni elitiste
del mondo progressista, non altrettanto può dirsi dei sistemi di governo
nazionali, ancora legati al rito anacronistico del voto popolare.
Ed ecco dunque che le proposte di studiosi
come Brennan tornano molto utili, specie laddove si ancorano a considerazioni
di apparente buon senso:
“Se ci rifiutiamo di tollerare una pratica
medica o il lavoro dell’idraulico privi di conoscenza e competenza, dovremmo
trattare con lo stesso metro il votare inconsapevolmente”.
(Il sottinteso, ovviamente, è che a votare
consapevolmente siano solo gli elettori di sinistra).
I veri
rischi per la democrazia, in realtà, nascono proprio quando intellettuali, veri
o presunti, avanzano idee come quella di subordinare il diritto di voto a esami che
accertino la preparazione culturale, almeno nella misura in cui queste suggestioni siano
in grado di diffondere l’idea deleteria per cui le scelte politiche di un Paese
siano questioni troppo serie per essere affidate ai cittadini.
In
definitiva, nel momento in cui individua nel popolo votante il peggior pericolo
per la democrazia, emerge
con forza nel discorso progressista tutta la recente deriva ideologica di marca
wokeista, non a caso nata negli Stati Uniti, e poi tracimata in Europa.
L’intolleranza
per le tesi degli avversari, la convinzione manichea di essere impegnati in una
lotta mortale contro il male dei nazionalismi e dei populismi, la
delegittimazione morale di chiunque metta in discussione i nuovi dogmi (dalla
sottrazione della sovranità ai singoli Paesi al cambiamento climatico di
origine antropica, dal totalitarismo sanitario alla educazione gender nelle
scuole), costituiscono altrettanti pilastri teorici della sinistra, sempre più
in sintonia con gli obiettivi dichiarati delle élite finanziarie che
concentrano nelle proprie mani le leve del potere reale.
E
giacché questi obiettivi non sembrano molto promettenti né auspicabili per la
stragrande maggioranza dei cittadini occidentali, questi finiscono inevitabilmente per
riversare i propri consensi elettorali a quelle forze politiche che si
presentano come alternative al sistema.
Di qui
risultati come quello del 2016, quando, malgrado l’opera di meticolosa
demonizzazione dei media e l’aperta ostilità dell’establishment mediatico e
politico, Trump ha battuto la favoritissima Hillary Clinton, o anche del 2020,
quando ha perso di misura contro Biden, raccogliendo oltre 74 milioni di voti,
il numero di consensi più alto mai conseguito da un candidato non vincitore.
Il
divario tra il modello di società perseguito da questa potente casta di
illuminati, o autoproclamatisi tali, e gli interessi del 98% dei cittadini si
fa sempre più incolmabile, e il dibattito politico viene inevitabilmente
condizionato da questa circostanza.
Gli allarmi lanciati quasi quotidianamente
dagli editorialisti quando ci si avvicina a importanti consultazioni elettorali
dove i vituperati populisti possono realisticamente aspirare a un successo,
hanno dunque ben poco a che vedere con rischi di torsioni autoritarie o anti
democratiche, ma rivelano, molto semplicemente, la loro preoccupazione per i
possibili intralci o ritardi che potrebbero derivarne alla realizzazione di
quel mondo – per loro – idilliaco, in cui la gente “non avrà nulla e sarà
felice”.
(Gianmaria
Pisanelli.)
(Laureato
in Giurisprudenza (Università Sapienza), dopo una breve esperienza come
funzionario del Ministero del Lavoro è stato consigliere parlamentare alla
Camera dei Deputati per oltre trent'anni.)
I
sovranisti s’inchinano
a Trump.
Internazionale.it
- Thomas Legrand, Libération, Francia – (23-1-2025) - ci dice:
I
sostenitori europei di Donald Trump – Giorgia Meloni, Viktor Orbán, Alice
Weidel, Eric Zemmour e, in modo più prudente, Marine Le Pen – hanno in comune con il presidente
statunitense un mix di populismo e nazionalismo.
Il
problema è che il nazionalismo di Trump, basato sulla potenza degli Stati Uniti
e del loro esercito industriale e tecnologico, ha come obiettivo il
vassallaggio o almeno la mercificazione del resto del mondo, unicamente a
vantaggio del suo paese (“America first!”).
Il
nazionalismo degli europei, invece, è circoscritto a ogni singolo paese del
continente.
In Europa la base delle nostre legittimità
resta la nazione.
Siamo
francesi, tedeschi, ungheresi o polacchi prima di essere europei.
Il
problema è che nel mondo del 2025 per affrontare i grandi temi che determinano
la vita degli europei – ambiente, commercio internazionale,
industrializzazione, immigrazione – la dimensione degli stati europei è
insufficiente.
All’epoca in cui è emerso il concetto di
stato-nazione, tra il settecento e l’ottocento, i confini dei paesi
rappresentavano spazi lontani per popolazioni che conoscevano solo il loro
ambiente immediatamente circostante.
Oggi,
invece, le nazioni europee sono spazi dall’orizzonte troppo ravvicinato e
chiuso.
Le
soluzioni dei grandi problemi possono arrivare (a cominciare dalla questione
climatica) solo in una prospettiva o molto locale o molto allargata,
sicuramente non nel quadro limitato delle nazioni europee.
Eppure
i nazionalisti hanno il vento in poppa in quasi tutti i paesi del continente.
È uno strano paradosso.
La
tragica necessità dell’Europa si fa sentire soprattutto oggi, in un momento in
cui gli imperi di Russia, Cina e Stati Uniti decidono di attaccare
contemporaneamente quello che abbiamo l’abitudine di chiamare “modello
europeo”.
Ma
questo concetto, che indica un certo modo contrattuale di gestire il rapporto
tra le economie, gli stati e le società, sta declinando.
La
Comunità europea (e poi l’Unione) e i suoi promotori non sono mai riusciti a
convincere né i governi né i popoli d’Europa a costruire il quadro di una nuova
legittimità continentale.
Questo
è il momento in cui tutti i sovranisti (un modo gentile di chiamare i
nazionalisti) dovrebbero farsi da parte.
E
invece – utili idioti di Trump, Xi Jinping e Putin – sfilano orgogliosamente in
ognuna delle loro piccole nazioni impotenti.
Le
promesse oscure
del
ritorno di Trump.
Internazionale.it - M.Gessen - (21 -11 – 2024) – ci dice:
Le
promesse oscure del ritorno di Trump
Per
chi si chiede come mai tanti statunitensi il 5 novembre sembrano aver votato
contro i valori della democrazia liberale,” Bálint Magyar” ha una
considerazione utile:
“La
democrazia liberale offre dei vincoli morali senza la soluzione dei problemi”,
cioè tante regole e poco cambiamento, mentre “il populismo offre una soluzione
ai problemi ma senza vincoli morali”.
A “Magyar”,
ricercatore ungherese esperto di autoritarismo, non interessa definire Trump un
fascista.
Il fascino del presidente eletto, sostiene, è
l’espressione di qualcosa di più primordiale:
“Trump ti promette che non dovrai pensare agli
altri”.
In
tutto il mondo i populisti autoritari hanno sfruttato il potere di questa
promessa per trasformare i loro paesi in strumenti della loro volontà personale.
Vladimir Putin e Viktor Orbán hanno promesso
la restaurazione di un passato semplice, in cui gli uomini erano uomini e
stavano al comando.
Hanno
permesso di stravolgere la convivenza civile e di seminare l’odio tra i gruppi
sociali.
Magyar
lo definisce un “egoismo collettivo senza vincoli morali”.
Probabilmente
il nuovo presidente statunitense comincerà sbarazzandosi di esperti e altri
dipendenti della pubblica amministrazione che considera superflui.
Il
primo mandato di Trump aveva seguito sotto alcuni aspetti le orme dell’operato
iniziale di Putin e Orbán.
Osservare
le loro traiettorie attraverso la lente delle teorie di Magyar ci offre
un’indicazione chiara e agghiacciante di quale direzione potrebbe prendere il
secondo mandato di Trump.
Nell’inverno
del 2021, quando mi era diventato chiaro che Trump si sarebbe ricandidato, ho
chiamato Magyar, che ha studiato a fondo l’autoritarismo di Orbán.
Come
Trump, Orbán era stato rimosso dal suo incarico nel 2002 con un voto che i suoi
sostenitori avevano definito fraudolento, per poi tornare al potere otto anni
più tardi.
Nel
frattempo aveva consolidato l’immagine di sé e del suo partito come unici
rappresentanti del popolo ungherese.
Quando è stato rieletto ha intrapreso quella
che Magyar definisce una “svolta autoritaria”, cambiando leggi e prassi in modo
da non poter essere rimosso di nuovo.
A questo ha contribuito il fatto di avere
un’ampia maggioranza in parlamento.
In
modo simile, Trump ha passato quattro anni ad attaccare l’amministrazione di
Biden e il voto che l’aveva portato alla Casa Bianca, denunciando brogli e
ponendosi come unica voce del popolo.
Anche
lui è tornato con una tripletta di poteri: la presidenza ed entrambe le camere
del congresso.
Anche
lui potrebbe in breve tempo rimodellare a sua immagine il sistema di governo
statunitense.
Trump
e i suoi sostenitori hanno dimostrato una forte ostilità verso le istituzioni
civili – la magistratura, i mezzi d’informazione, le università, molte
organizzazioni non profit, alcuni gruppi religiosi – che tendono a far
rispettare i nostri obblighi reciproci.
Leader
autoritari come Orbán e Putin rivendicano per sé il diritto esclusivo di
definire questi obblighi.
Se in
qualche modo possiamo usare come indicatori questi due leader e il primo
mandato di Trump, probabilmente il nuovo presidente comincerà sbarazzandosi di
esperti e altri dipendenti della pubblica amministrazione che considera
superflui.
Aspettiamoci di trovare i funzionari addetti a gestire le domande di asilo in
cima a questa lista.
Uno
dei principali bersagli al di fuori delle istituzioni di governo saranno le
università.
In Ungheria la “Central european university”, un’accademia
d’avanguardia per la ricerca e l’istruzione, è stata costretta all’esilio.
Per capire cosa può succedere alle università
pubbliche negli Stati Uniti basta guardare la Florida, dove il governatore “Ron
De Santis” ha di fatto trasformato il sistema universitario in un braccio del
suo governo.
L’assalto del “movimento trumpiano Maga” (Make
America great again) alle università private è in atto da tempo;
questo
ha portato in tempi recenti alle audizioni del congresso sull’antisemitismo, e
alle dimissioni di alcune rettrici.
Prepariamoci
a delle iniziative che toglieranno alle università private i finanziamenti
federali.
Questo
genere di pressioni costringerà anche le università più grandi a tagliare posti
di lavoro: i college umanistici dovranno chiudere.
Se
Trump fosse stato rieletto nel 2020, forse avrebbe cercato di abrogare
l’emendamento che stabilisce il limite di due mandati per i presidenti.
Credo che possa ancora provarci.
Le
organizzazioni della società civile – soprattutto quelle che assistono
migranti, ex detenuti, persone lgbt, donne e gruppi vulnerabili – saranno prese
di mira.
Poi
potrebbe essere il turno dei sindacati.
Come
Orbán, inoltre, Trump ricompenserà i mezzi d’informazione a lui fedeli e
attaccherà quelli che lo criticano colpendo le altre aziende dei loro
proprietari.
È una
tattica efficace, che forse abbiamo già visto all’opera ancor prima della sua
rielezione, quando i miliardari proprietari del” Los Angeles Times” e del “Washington
Post” hanno deciso di bloccare la pubblicazione sulle loro testate di articoli
che esprimevano sostegno ai candidati presidenziali.
La
campagna elettorale di “Kamala Harris”, naturalmente, ha cercato di mettere in
guardia su questo e altro, definendo Trump un fascista.
Ma “Magyar” descrive i movimenti fascisti come
“guidati dall’ideologia”, cosa che non vale per Trump.
Prendiamo” Jarosław Kaczyński”, l’ex primo
ministro polacco, che ha limitato il diritto all’aborto anche se i sondaggi
indicavano che poteva costargli caro.
Trump,
invece, ha fatto campagna contro il diritto all’aborto quando gli conveniva, e
poi si è posto come paladino dei diritti riproduttivi quando il contesto è
cambiato.
Questa
distinzione non mi convince.
Per
usare l’espressione di “George Orwell”, il volto di un politico si modifica per
adattarsi alla sua maschera ideologica.
Forse l’esempio migliore è “Vladimir Putin”,
un tempo un cinico senza convinzioni politiche, che oggi sta conducendo una
guerra costosa e disastrosa nel nome di un’ideologia (per quanto incoerente) di
sua invenzione.
E solo
con il senno di poi i fascisti del novecento appaiono guidati da un’ideologia
coerente:
i contemporanei descrivevano le loro visioni
come un guazzabuglio d’idee.
“Jason
Stanley”, filosofo di Yale e autore del libro” Noi contro loro”.
Come
funziona il fascismo (Solferino 2019) ha affermato che i fascisti non sono
definiti tanto dalle loro convinzioni quanto dal loro agire politico:
manipolano la paura e l’odio contro l’altro,
affermano la propria supremazia sull’altro.
Tutte
cose che descrivono Trump, non è vero?
Ho
presentato questa tesi a “Magyar,” ma senza successo.
Lui mi
ha detto: “guarda la propensione della famiglia Trump a trarre profitti dal suo
incarico politico”.
Questa
non è una cosa tipica dei fascisti.
I nazisti “quando espropriavano gli ebrei dei loro
averi, non se li intascavano.
Li
mettevano nel bilancio dello stato”, mi ha detto.
Molti nazisti trassero vantaggio dal
saccheggio, ma l’arricchimento personale non era lo scopo principale del
movimento.
Per
diventare il più ricco d’America Trump dovrebbe accumulare un capitale maggiore
di quello di “Elon Musk”, cosa che appare impossibile.
Putin
ha risolto il problema, ricattando gli alleati e derubando gli avversari.
“Orbán”
ha usato la paura e l’odio verso i migranti per dichiarare uno stato
d’emergenza quando nel 2015 i rifugiati dal Medio Oriente hanno cominciato ad
arrivare in Europa.
Poi ha usato la pandemia e la guerra in
Ucraina come pretesti per adottare poteri speciali.
Allo
stesso modo, Trump nel suo primo mandato ha dichiarato un’emergenza nazionale
legata all’arrivo dei richiedenti asilo alla frontiera meridionale.
Il presidente Biden l’ha revocata nel 2021.
Ma gli Stati Uniti si trovano in uno stato di
emergenza permanente dal 14 settembre 2001, quando George W. Bush la dichiarò
in risposta agli attacchi dell’11 settembre 2001.
Tutti
i presidenti successivi, compresi Barack Obama e Joe Biden, l’hanno rinnovata.
I
poteri speciali hanno dato a “Orbán” un controllo più ampio sulle forze armate,
compresa l’opzione di mobilitare l’esercito per questioni interne al paese.
Negli
Stati Uniti il presidente, in alcune circostanze, ha già questo potere.
Ma uno
stato d’emergenza offre altri poteri straordinari.
Compresa
la possibilità di reindirizzare i fondi federali, come ha fatto Trump per
finanziare la costruzione del muro al confine.
E l’arsenale dei poteri arriva a limitare le
comunicazioni elettroniche ed esercitare pressioni sulle aziende private.
Orbán
ha usato norme simili per controllare le aziende private.
In
Ungheria Orbán è lo stato.
“Magyar”
descrive la svolta autoritaria come una transizione dallo stato di diritto alla
legge del governo.
Nel
2000 lo slogan di Putin nella campagna per le presidenziali era “Dittatura
della legge”.
Putin
ha cominciato a governare per decreti, come fa Orbán oggi e come Trump ha fatto
nel suo primo mandato e come ha detto che intende fare nel secondo.
Leggendo
l’opera di “Magyar” su quel periodo, mi ha colpito lo stato d’animo suscitato
dalle azioni di Orbán.
Durante
il primo mandato di Trump era diffusa la sensazione che stesse succedendo tutto
nello stesso momento, che fosse impossibile concentrarsi su eventuali minacce
gravi o distinguerle da ciò che invece era irrilevante, ammesso che una tale
distinzione esista.
Non si tratta solo di quello che fanno i
leader autoritari, ma di come lo fanno:
far
passare leggi (o firmare ordini esecutivi) velocemente, senza alcuna
discussione, a volte di notte, sempre continuando a delegittimare qualsiasi
opposizione.
Per
quanto riguarda i dettagli, sappiamo meno di quello che pensiamo.
Secondo
“Magyar” se Trump fosse stato eletto per un secondo mandato nel 2020 avrebbe
cercato di abrogare il ventiduesimo emendamento della costituzione, quello che
stabilisce il limite di due mandati per i presidenti.
Credo che possa ancora provarci, aprendo la
strada a una sua futura ricandidatura all’età di 82 anni.
Il
Project 2025 è stato descritto come una sorta di piano legislativo per la seconda
presidenza Trump.
Lo storico “Rick Gerstein “in una serie di
articoli sulla rivista “The American Prospect “dice che se ne è parlato in modo
fuorviante.
Il
Project 2025 è un documento ampio e complesso, pieno di raccomandazioni
contraddittorie all’apparenza suggerite da persone con idee e obiettivi
differenti. In linea con la teoria di Magyar sui governi autoritari,
rappresenta non tanto un documento ideologico quanto uno specchio del clan che
dà forza a Trump, e che da lui è rafforzato.
Non è un programma coerente di riforma
legislative, ma è pur sempre un programma:
un
piano per travolgere il sistema di governo com’è oggi, un piano di distruzione.
Vance,
Musk e gli
equivoci
sulla libertà.
Euroctiv.it - Antonio Nicita – (18 feb.- 2025) – ci dice:
Elon
Musk, Donald Trump, JD Vance presenti a rapporto.
Con un
discorso duro e provocatorio a Monaco di Baviera, il vice presidente “Vance” ha
bacchettato l’Unione Europea e i suoi Stati membri per quella che considera una
frattura crescente nei valori condivisi, in particolare sulla libertà di
espressione e su come tutelarla, tra Stati Uniti ed Europa.
Antonio
Nicita, Senatore della Repubblica Italiana, è autore de “Il mercato delle
verità.
Come
la disinformazione minaccia la democrazia” (2021, Il Mulino) e “Nell’età
dell’odio.
Sfera
pubblica, intolleranza e democrazia” (2025, Il Mulino).
L’ironia?
Vance
non ha tutti i torti, ma è proprio il suo intervento a segnare la distanza tra
l’Europa e la nuova America sul concetto di libertà di parola.
La
visione difesa da Trump, Vance e Musk si allontana dalla tradizione di “Oliver
Wendell Holmes”, “John Stuart Mill” e persino dal conservatore “Antonin Scalia”.
Il
Primo Emendamento garantisce protezione dall’interferenza del governo sulla
libertà di espressione, ma la storia della Corte Suprema statunitense non ha
mai sostenuto che questo diritto fosse assoluto.
L’esempio classico di “Holmes “– vietare di
gridare “al fuoco!” in un teatro affollato – richiama il pensiero di “Mill”:
la
libertà finisce dove inizia un danno imminente.
Anche “Voltaire”
fissava un limite nel mantenimento dell’ordine sociale e della pace pubblica.
E Scalia, nella sentenza “R.A.V. v. City of
St. Paul”, chiariva che atti come bruciare la bandiera americana o una croce di
legno sono ammissibili solo se inseriti in una protesta politica pubblica.
Per
oltre un secolo, la “Corte Suprema” ha legato la libertà di espressione alla
ricerca della verità, nella speranza ottimistica di “Mill” che il confronto
aperto smascherasse, col tempo, le menzogne.
Ma se
il fine della libertà di parola è avvicinare la società alla verità, non
riguarda solo chi parla, ma anche chi ascolta, senza interferenze o secondi
fini.
In
Europa ci siamo posti una domanda semplice:
la
selezione algoritmica dei contenuti e le bolle di filtraggio delle piattaforme
online garantiscono davvero libertà di parola e di ascolto?
Spingere
certe notizie – vere o false – verso pubblici selezionati crea davvero uno
spazio informativo equo e neutrale?
E la
creazione, manipolazione e diffusione di “fake news e discorsi d’odio “ci
avvicina al dialogo aperto immaginato da “Mill e Popper”?
Il
free speech non è free spin.
Manipolare non significa esprimersi,
soprattutto quando sono gli algoritmi a decidere cosa vediamo online.
Non
tutti vediamo le stesse cose.
Non
sappiamo cosa vedono gli altri né perché certi contenuti ci vengono mostrati. E
spesso dimentichiamo che molte voci online, apparentemente genuine, sono in
realtà propaganda pagata, amplificata da eserciti di micro-influencer
retribuiti a visualizzazione.
In
Europa, difendere la libertà di espressione significa proteggerla dalla
disinformazione.
Il
diritto a informare e a essere informati include anche il diritto a non essere
ingannati.
Un
ambiente digitale neutrale o almeno trasparente è essenziale:
è
questo l’obiettivo del “Digital Services Act”, che ha messo sotto inchiesta la
piattaforma “X” di Elon Musk.
Chi
vince elezioni grazie a manipolazioni algoritmiche, “hate speech” e “spin
online” difficilmente appoggerà regole che vogliono difendere la libertà di
espressione dalla disinformazione.
Ma
risparmiateci lezioni sul “free speech”.
Vance
dice che chi ha paura delle opinioni non può garantire sicurezza.
La
nostra risposta?
Se
l’internazionale dell’estrema destra e dei suprematisti fosse davvero sicura
delle proprie idee, non avrebbe bisogno di odio, bugie e algoritmi per vincere.
I
valori europei condivisi si chiamano stato di diritto. E noi, a questo, non
rinunciamo.
La
Sapienza celebra
il centenario
della
Facoltà di Scienze Politiche.
Lospecialegiornale.it – (19 Febbraio 2025) – Adnkronos
– Redazione - ci dice:
(Adnkronos)
– Il
preside Pierpaolo D’Urso:
“Un luogo dove la conoscenza politica ha
plasmato generazioni di pensatori, studiosi, accademici, leader politici e
della società civile, donne e uomini delle istituzioni e cittadini
consapevoli”.
Roma,
19 febbraio 2025.
Si
sono tenute ieri e oggi le celebrazioni per il centenario dell’istituzione
della Facoltà di Scienze Politiche della Sapienza Università di Roma.
Dopo la cerimonia di inaugurazione che si è
tenuta presso l’Aula magna del Rettorato, la Sala lauree di Scienze Politiche
ha ospitato il Convegno di studi “Scienze politiche: le sfide di oggi, il
sapere di domani”.
“Celebriamo
oggi un traguardo importante – ha dichiarato ieri nel suo intervento il
professor “Pierpaolo D’Urso”, preside della Facoltà di Scienze Politiche,
Sociologia, Comunicazione -:
i 100
anni della Facoltà di Scienze Politiche, un luogo dove la conoscenza politica
ha plasmato generazioni di pensatori, studiosi, accademici, leader politici e
della società civile, donne e uomini delle istituzioni e cittadini
consapevoli”.
“La
Facoltà di Scienze Politiche – ha ricordato D’Urso – è stata istituita il 4
settembre 1925 e l’economista “Alberto De Stefani” ne fu il primo Preside.
La Facoltà rappresentava il compimento di un progetto
che affondava le sue radici nel pensiero di “Angelo Messedaglia”, professore di
Economia e Statistica del nostro Ateneo, che sottolineava la necessità di
affiancare allo studio del diritto una formazione multidisciplinare che
includesse economia, statistica, storia, sociologia e geopolitica”.
“Cento
anni non sono solo un simbolo di longevità, ma un testamento di dedizione,
impegno e visione – ha aggiunto il preside -.
Questa
Facoltà, con le sue radici salde nella tradizione e lo sguardo sempre rivolto
al futuro, è stata ed è una fucinai di idee, dove si coltiva la speranza per
una società migliore e più giusta.
Dopo
la riforma del 2010 la nostra Facoltà ha ampliato la portata della sua visione
con l’unione di altre anime altre anto preziose: Sociologia e Comunicazione.
Il
nuovo assetto della Facoltà è costituito oggi da tre dipartimenti in due dei
quali è confluita, in diversa misura, l’eredità della storica Facoltà.
Questa integrazione – che rappresenta la
naturale evoluzione della visione innovativa e lungimirante di “Messedaglia” –
ha rafforzato ulteriormente il ruolo della nuova Facoltà come colonna portante
del più grande Ateneo d’Europa.
Grazie
a questa fusione, oggi siamo un polo multidisciplinare unico – che accoglie
oltre 12.000 studentesse e studenti, dimensioni di un Ateneo medio – capace di
affrontare le sfide della contemporaneità con uno sguardo ampio e inclusivo”.
“In
questi cento anni, la Facoltà ha avuto un ruolo cruciale nella politica
italiana e internazionale – ha sottolineato D’Urso -.
Dal
dopoguerra alla costruzione della democrazia, dalla partecipazione ai grandi
processi di integrazione europea fino alle missioni per la pace, questa Facoltà
è stata protagonista della storia del nostro Paese.
La
nostra missione, come comunità accademica, è stata e continuerà a essere quella
di formare giovani capaci di navigare la complessità del mondo contemporaneo,
con una mente critica e un cuore aperto affinché la realtà non sia solo subìta,
ma compresa e trasformata.
La
ricerca, il dubbio, il confronto sono i pilastri di questa Facoltà, che da
cento anni coltiva il coraggio di porre domande per trovare risposte
autentiche.
Oggi guardiamo ai giovani, a voi studentesse e
studenti, con grande fiducia.
Siete
voi gli eredi di questo immenso patrimonio, ma anche i costruttori del domani.
È
attraverso il sapere che si conquista l’autonomia per affrontare le sfide del
presente e del futuro. “
Tra i
laureati della nostra Facoltà vi sono numerose personalità illustri, come “Paolo
Gentiloni” – già commissario europeo per gli affari economici e monetari e
Presidente del Consiglio dei ministri, e “Rosanna Oliva de Conciliis “– che con
coraggio e determinazione ha aperto in Italia la strada verso la parità di
genere nelle carriere della Pubblica Amministrazione.
Da
entrambi sentiremo tra poco una testimonianza come ex studenti della nostra
Facoltà.
Tra i
suoi più illustri docenti, la nostra Facoltà ha avuto anche alcuni martiri
della Repubblica, vittime del terrorismo, che hanno sacrificato la propria vita
al servizio delle istituzioni e della democrazia: Aldo Moro, Vittorio Bachelet e
Massimo D’Antona.
Nella
celebrazione dei 100 anni della nostra Facoltà, il ricordo di questi illustri Servitori
dello Stato è un doveroso a o di memoria e gratitudine.
Come comunità accademica abbiamo la
responsabilità di tramandare alle nuove generazioni il loro esempio di impegno
e servizio, riaffermando i valori che hanno difeso fino all’ultimo:
il dialogo, la giustizia e la dignità del
lavoro, fondamenta irrinunciabili di una società libera e democratica”.
“Oggi
– ha evidenziato il preside – la Facoltà è chiamata a confrontarsi con le
drammatiche sfide dell’attualità:
dai
conflitti che continuano a segnare il nostro tempo alla necessità di risposte
globali alle disuguaglianze e alle migrazioni.
Ma è
nelle sfide che troviamo la nostra forza: siamo pronti a costruire ponti dove
altri alzano muri.
La
multidisciplinarità è il cuore pulsante della Facoltà:
diritto,
storia, scienza della politica, economia, statistica, sociologia, lingue e
comunicazione convivono e interagiscono tra loro, offrendo un panorama
formativo unico nel suo genere.
Questo
approccio ci ha permesso di affrontare le grandi trasformazioni sociali e
culturali degli ultimi cento anni, contribuendo alla vita politica e
all’amministrazione della cosa pubblica con un impatto profondo e duraturo.
Nel
celebrare i cento anni della Facoltà di Scienze Politiche, non possiamo
ignorare le profonde trasformazioni che stanno investendo le democrazie
contemporanee.
Crescente
sfiducia nelle istituzioni, polarizzazione politica, crisi della rappresentanza
e nuove forme di autoritarismo stanno mettendo alla prova i modelli democratici
tradizionali, richiedendo una riflessione critica e la ricerca di nuovi
paradigmi di governance.
In
questo scenario, la nostra Facoltà è chiamata a svolgere un ruolo centrale
nell’analisi e nella proposta di modelli innovativi, capaci di rispondere alle
sfide della contemporaneità.
Studiare
e comprendere le trasformazioni della democrazia significa non solo analizzarne
le fragilità, ma anche individuare nuove prospettive capaci di rafforzarne i
principi fondamentali, adattandoli alle esigenze di una società sempre più
interconnessa e complessa.
In
un’epoca di transizione, la ricerca scientifica e il confronto accademico sono
strumenti essenziali per immaginare il futuro della democrazia e della
politica:
la politica non è solo gestione del potere, ma
è il tessuto connettivo della democrazia, il respiro che anima le società
libere.
A tal
proposito, il 12 e 13 giugno organizzeremo il “Convegno di Facoltà “dal titolo
‘Democrazia, Autorità, Processi Globali. Cent’anni di Facoltà’.
Viviamo
un’epoca di sfide determinanti, che ci impongono di ripensare il concetto
stesso di società.
Ma
ogni sfida è anche un’opportunità:
quella
di reinventarci, di osare di immaginare un mondo più giusto, inclusivo e
sostenibile.
Come
ci ricorda Hegel ‘La storia del mondo è il progresso nella coscienza della
libertà’.
La
nostra Facoltà, in cento anni di storia, ha contribuito proprio a questo
progresso, costruendo un sapere che è insieme radicato nel passato e proiettato
verso il futuro, sempre al servizio della libertà e della giustizia.
“In
questo centenario, onoriamo il passato, ma soprattutto ci impegniamo per il
futuro – ha affermato D’Urso -.
E
allora, lasciamo che questo centenario non sia solo un momento di celebrazione,
ma un grido di speranza.
Immaginiamo insieme i prossimi cento anni:
un
mondo dove la conoscenza politica non sia esclusiva, ma condivisa;
dove la democrazia non sia solo un ideale, ma
una pratica quotidiana vissuta da ciascuno di noi;
dove
sapere e amore si uniscono per creare una società più umana.
Il
Centenario della nostra Facoltà cade nell’anno del Giubileo, occasione
straordinaria per riflettere sul valore della solidarietà, della pace e
dell’inclusione, opportunità in cui la nostra Facoltà si pone come protagonista
attiva, ossia come motore di cambiamento sociale al fine di promuovere valori
universali e come luogo dove la conoscenza si pone al servizio del bene comune.
La
Facoltà guarda al futuro con visione e determinazione, pronta a cogliere le
sfide dell’internazionalizzazione, delle trasformazioni geopolitiche e sociali,
della innovazione tecnologica e delle rivoluzioni digitali, come l’intelligenza
artificiale, che sta cambiando il modo in cui impariamo, lavoriamo e viviamo.
Ma la
sfida più bella sarà insegnare a realizzare una società più inclusiva,
accogliente, che garantisca il rispetto dei diritti umani, che insegni il
valore del confronto come mezzo di risoluzione delle controversie, nelle quali
devono trovare ruolo dominante la dialettica, il dialogo, il buon senso, la
bontà.
Una
Facoltà che insegni a costruire e a vivere la pace.
Come ci ha ricordato il nostro Presidente
della Repubblica Mattarella, nel suo intervento in occasione della Giornata del
laureato qui in Sapienza, ‘La libertà, la pace e i diritti umani passano
attraverso il dialogo […] e l’Università deve educare alla libertà e al
confronto”.
“Grazie
a tutti voi che avete contribuito a rendere questa Facoltà un pilastro della
cultura e della società.
E grazie a voi, giovani, che siete la nostra
speranza e la nostra promessa.
Andate avanti con coraggio, con la
consapevolezza che ogni piccolo passo verso il cambiamento è un a o d’amore per
l’umanità.
E ricordate, questa Facoltà non è solo un
luogo di studio, ma un faro di speranza, un crocevia di sogni e ambizioni, un
laboratorio dove si forgiano le menti e i cuori di chi cambierà il mondo.
È qui,
tra queste aule, che il passato incontra il futuro, che le idee si trasformano
in azioni, che la passione diventa forza per costruire una società migliore.
Ognuno
di voi è una scintilla di questa grande storia, una promessa di ciò che
possiamo diventare insieme.
Non
dimenticate mai che il sapere è potere, che il coraggio di credere in un ideale
può illuminare il cammino dell’umanità. Auguri alla Facoltà di Scienze
Politiche – oggi Facoltà di Scienze Politiche, Sociologia, Comunicazione – affinché – ha concluso D’Urso – possa
continuare a essere un punto di riferimento per la conoscenza, la democrazia e
la crescita delle nuove generazioni e della società”.
I
limiti della democrazia nella società aperta.
Riflessione
sui sistemi democratici.
Sociologiaonweb.it - Rosario Fittante – (1°
settembre 2023) – ci dice:
“Con
il termine politica intendiamo piuttosto riferirci soltanto alla direzione o
all’influenza esercitata sulla direzione di un gruppo politico, vale a dire
oggi di uno Stato” (Max Weber).
“Pur nella sua imperfezione, la democrazia
rimane l’unico sistema praticabile contro il pensiero unico;
l’alternativa è un buco nero che preclude ogni
libertà, i cittadini pensanti precipiteranno nell’oblio più profondo, e quando
comprenderanno che la loro autostrada è diventata una mulattiera buia senza una
via d’uscita, sarà troppo tardi e invertire la rotta sarà arduo”.
L’inizio
del XXI secolo, ha visto profondi cambiamenti sociali, prodotti in gran parte
dall’eredità del passato ed in parte da eventi nuovi che ne hanno
caratterizzato le trasformazioni globali.
Nelle
democrazie occidentali sono diversi i modelli costituzionali, la loro
architettura definisce certamente la separazione dei poteri e dei sistemi
nell’elezione delle cariche istituzionali.
In Francia vige un sistema di repubblica
semipresidenziale dove il potere esecutivo è condiviso dal presidente della
Repubblica e dal primo ministro.
Il
Presidente viene eletto a suffragio universale diretto a doppio turno, e ha il
potere di nomina del primo ministro.
In Germania vi è il cancellierato, una
repubblica federale dove il cancelliere viene eletto dal Bundestag (parlamento)
su proposta del presidente federale che lo nomina ed ha il potere di nomina e
revoca dei ministri, e può sciogliere nei casi previsti, il parlamento.
Nel
sistema tedesco vi è la sfiducia costruttiva (il Bundestag può sfiduciare il
cancelliere solo avendo la certezza di poter eleggere il successore a
maggioranza dei suoi membri).
In Gran Bretagna dove non vi è una carta
costituzionale codificata, ma un sistema di norme e statuti che fanno
riferimento ad una organizzazione consolidata dello Stato, vi è una monarchia
costituzionale parlamentare che si fonda su tre ordini:
La
Corona, l’esecutivo e il parlamento.
La Corona nomina il primo ministro sulla base
dei risultati elettorali della Camera dei Comuni.
Il premier nomina e revoca i ministri e può
chiedere lo scioglimento anticipato delle Camere.
In Spagna vi è una monarchia costituzionale
con a capo il re ed è fondata sulla divisione dei poteri, il potere legislativo
è esercitato dalle due camere, con il congresso dei deputati che danno fiducia
al capo del governo e può esercitare la sfiducia costruttiva.
Il
potere esecutivo spetta al premier che è proposto dal re.
Negli
Stati Uniti d’America vige una repubblica federale formata da 50 stati e un
distretto federale ed è fondata sul presidenzialismo.
Il
potere politico è diviso tra il presidente degli Stati Uniti, il Congresso
(Parlamento) e le corti giudiziarie federali.
Il
presidente è capo dello Stato e guida dell’esecutivo.
La sua
elezione passa attraverso il voto dei singoli stati poi conteggiato con il
sistema dei grandi elettori, su base nazionale;
non può essere rimosso tranne che nel caso di
Impeachment.
L’esempio
fatto di alcune democrazie occidentali, ci porta ad una riflessione sul
significato etimologico della parola democrazia,
“governo
del popolo, ovvero sistema di governo e di valori sociali, in cui la sovranità
è esercitata direttamente o indirettamente dal popolo, ovvero l’insieme dei
cittadini che attraverso una consultazione popolare, eleggono i propri
rappresentanti”.
“Karl
Popper”, (1902 Vienna- 1994 Regno Unito) uno dei più importanti filosofi della
scienza del ‘900, nella sua opera, “La società aperta e i suoi nemici”, fa una netta
distinzione nella descrizione dei valori tra una società aperta “democratica” e
una società chiusa, “autocrazia/dittatura”, portatrice di valori presunti
assoluti, da imporre con ogni mezzo agli individui subalterni e devoti.
La
società aperta è una società di valori, con più visioni del mondo, essa può
introdurre proposte politiche, ed è aperta ai partiti politici che la
compongono e si sottopone alle critiche più severe facendone tesoro.
Karl
Popper nella definizione di società aperta sosteneva:
“La
società aperta, è aperta alla fallibilità della conoscenza umana”.
La
società chiusa, è chiusa dalla pretesa di essere possessori di verità ultime,
totali e razionali, addirittura incontrovertibili, e portatori di valori
presunti assoluti razionalmente dimostrati e comunque da imporre agli altri,
legittimando il consenso con ogni mezzo, anche con la violenza, reprimendo
qualsiasi forma di dissenso.
Nella società chiusa l’individuo non esiste
come soggetto pensante.
“La
società aperta e i suoi nemici” è la risposta di Popper, principalmente per
affrontare quelli che pensava fossero le ideologie più pericolose del suo
tempo, principalmente “Fascismo a destra e Comunismo a sinistra”, quelli
peggiori però secondo Popper sono gli irrazionalisti, cioè, sono quelli che non
danno nessun valore alla ragione nella convinzione che non debba essere il
principale valore sia individuale che sociale.
Le
democrazie, si distinguono tra loro per vari aspetti, di carattere sociale,
storico e culturale, ma hanno un unico denominatore comune, la libertà di agire
degli individui, la possibilità di cambiare, di dissentire, di avere giustizia.
Questi
sistemi democratici, come è stato ribadito in precedenza, non sono perfetti, la
richiesta di cambiamento deve essere fatta sempre mettendo le libertà al primo
posto, perché a volte l’irrazionale ricerca di un cambiamento a tutti i costi,
può rivelarsi fatale, il pericolo di derive non democratiche è sempre in
agguato, pronto con le sue ricette avvelenate di demagogia.
Come è
noto, la storia ci ricorda che le libertà conquistate, sono quasi sempre frutto
di guerre, di rivoluzioni che hanno causato milioni di morti;
quindi,
nulla può essere dato per scontato, anche nel tempo dell’iper-velocità e
dell’intelligenza artificiale.
L’insoddisfazione
che l’individuo subisce, spesso causata dal senso di abbandono delle democrazie
post-moderne che a causa dell’eccessiva burocrazia, e dei sistemi di potere
fatto dalle Caste, e dalle lobby dimenticano le sofferenze e le disuguaglianze
del mondo esterno ad essi.
Questo
fenomeno sociale può indurre gli individui in modo inconsapevole a cercare un
cambiamento che può rivelarsi fatale.
Il
populismo, e le fake news, sono i nemici della società aperta, ma hanno il loro
fascino nella società di oggi;
l’antidoto
è quello di educare socialmente l’individuo ad una maggiore consapevolezza del
proprio pensiero, della propria ragione.
In
Italia si sta discutendo da tempo di una modifica dell’architettura
costituzionale, per dare avvio ad una nuova forma di governo, per arrivare ad
un sistema presidenziale o un premierato forte, le motivazioni date sono
certamente valide, per fornire al sistema Paese le riforme necessarie per
renderlo efficiente e competitivo.
Riforme
certamente da fare, in funzione di una società che cambia e si evolve, il punto
è, come farle, con chi farle, e nell’interesse di chi?
Dal 1970 al 2018, quasi tutti i partiti che ci
hanno governato, hanno tentato di fare alcune riforme, in parte realizzate con
qualche modesto risultato, in parte rimaste sulla carta, altre ancora hanno
addirittura de-potenziato economicamente il sistema Paese.
Il debito pubblico italiano, che nel 1970 era
il 37,1 %, è arrivato al 131,5% nel 2018 (dati Fondazione Einaudi).
Questa
abnorme crescita ha portato l’Italia ad essere l’anello debole tra le economie
avanzate.
La
politica senza una visione a lungo termine non può dare le risposte che i
cittadini si aspettano, guardare solo al prossimo turno elettorale
esclusivamente per tenere saldo il potere, con il tempo si troverà senza
elettori, queste debolezze rischiano di fare il gioco dei populisti e dei
propagatori di fake news che potranno prendere il potere nel nome del “Popolo”.
Questa
debolezza democratica, accomuna non solo l’Italia, ma anche molte democrazie
occidentali, basta osservare i dati sulla bassa percentuale di elettori che si
reca alle urne, un fenomeno che aumenta ad ogni elezione, arrivando in alcuni
casi sotto la soglia pericolosa del 50%.
Questo
dato molto preoccupante, purtroppo è trattato con disinvoltura dai leader
politici sia quando governano che, quando sono all’opposizione;
il
perché di questa scarsa attenzione verso il fenomeno potrebbe essere spiegato
con il paradosso che meno persone votano, più aumentano i consensi per i
monopolisti della politica, questo perché controllando una consolidata fetta di
elettori ottengono risultati affidabili che garantiscono al 99% la possibilità
di essere eletto
. Chi
sono gli elettori che favoriscono questo processo e che consentono con il loro
voto una performance elettorale di tutto rispetto nell’elezione di uno o più
candidati?
Sempre
indicati dal gruppo politico di riferimento e mai dagli elettori.
Alcuni
fattori condizionanti potrebbero essere:
il
disagio sociale legato alla mancanza di lavoro, o alla condizione
socioculturale delle persone meno istruite, o ancora a fattori psicosociali
(Carl Hovland 1912-1961), ma sono i social media l’arma più potente che molto
spesso persuadono gli elettori, ad identificarsi con i loro leader veri o
presunti.
La
globalizzazione, l’immigrazione, l’invecchiamento, l’insicurezza della
popolazione senza più solidi riferimenti sociali e istituzionali,
contribuiscono a rendere l’individuo sempre più dipendente, dal medium digitale
nella “società dell’indifferenza”.
Questa
moltitudine di elettori sempre più numerosa, oggi si informa esclusivamente
attraverso la piazza virtuale e, come un moltiplicatore si auto-manipolano,
metabolizzano fatti, notizie, e quant’altro propinati dai social media senza
verificarne l’attendibilità, diffondendo a loro volta notizie mai verificate.
Questi
soldatini della rete, armati di tastiera e smartphone, saranno sempre lì pronti
a diffondere all’infinito le nuove fake news, nella spensierata convinzione di
essere stati utili ad una giusta causa.
Nell’ultimo decennio della post-modernità, vi
è stata una forte accelerazione della comunicazione nella piazza virtuale, gli
algoritmi, i medium digitale (siti web, chat room, posta elettronica, forum,
ecc…) hanno completamente modificato la struttura sociale e la vita degli
individui, completamente assorbiti dalla web society, dove discernere il reale
dall’irreale diventa sempre più complicato.
Il cambiamento sociale è irreversibile, le
società cambiano e si adeguano ai processi sociali sulla base delle nuove
scoperte scientifiche.
Nuovi
paradigmi rimoduleranno la società proiettandola nel nuovo mondo degli avatar:
sarà progresso oppure no?
La
risposta la darà il tempo, il pericolo però è dietro l’angolo e si chiama:
“cattivo utilizzo delle tecnologie” che può far precipitare l’individuo in un
buco nero, dove l’attrazione gravitazionale è così forte da catturare anche il
futuro.
La
sfida dei governi eletti democraticamente, sarà quella di sconfiggere questo
moltiplicatore di fake news, per evitare che la nuova frontiera
dell’intelligenza artificiale possa diventare “stupidità artificialmente
costruita”.
(Il
Potere e la Potenza- Max Weber)
(Erfurt
1864- Monaco 1920).
In
politica la differenza tra potenza e potere è sostanziale, sono due concetti
antitetici che segnano la differenza tra la libertà e la sua negazione, questi
due concetti e il suo seguito descritti da Max Weber, ci portano a definire
meglio limiti e debolezze dei sistemi democratici moderni.
La
“Potenza” è la possibilità di imporre a un altro individuo la propria volontà,
a prescindere dalla volontà che questo individuo ha di obbedire o meno, questo
concetto è quasi come un brutale rapporto di forza.
Il “Potere” è la possibilità di trovare
obbedienza ad un proprio comando.
Una relazione di potere è quando colui che
obbedisce assume il contenuto del comando come massima del proprio agire.
Vi
sono molti modi che portano all’obbedienza di alcuni individui verso altri
individui, per esempio per paura, per convenienza, per interesse ecc…
Ma ce
n’è uno che rende davvero stabili le relazioni di potere, questo elemento è la
credenza nella legittimità di chi esercita il comando, questa legittimità del
potere può durare nel tempo.
Il
potere per Weber è l’elemento centrale sul quale si fonda il rapporto
dell’individuo cittadino elettore con lo stato, egli elenca tre forme di potere
legittimo:
Potere
tradizionale – Potere razionale/ legale -Potere carismatico.
Il
potere tradizionale si basa sulla credenza e sulla fede, nell’autorità
dell’eterno ieri, è una forma di potere in cui noi obbediamo ad una persona,
perché essa incarna una tradizione valida da sempre.
Non si
obbedisce al comando di una persona, ma alla tradizione che essa rappresenta ed
è valida da sempre.
Il potere razionale /legale è una forma di potere che si basa
sulla credenza nella legittimità, cioè un insieme di regole razionalmente
stabilite, si obbedisce ad un bene superiore, perché agisce sulla base di
regole definite razionalmente leggi, che non sono frutto di una tradizione, e
preesistono alla persona alla quale si obbedisce, potere impersonale di natura
ordinaria che è routine nella vita sociale.
Il
potere carismatico è una forma di potere in cui si obbedisce alla persona in
quanto tale, perché si ha fiducia nella persona che impartisce il comando per
le sue doti straordinarie;
secondo
Weber questo potere si manifesta in tempi di crisi e non rispecchia nel suo
agire norme tradizionali o regole razionali.
La sua legittimità è condizionata da un
meccanismo di prova e di riconoscimento, il capo carismatico è l’uomo che deve
risolvere la crisi e deve dimostrare di essere in grado con il suo successo,
con la sua gloria, di risolvere una situazione eccezionale.
Ma come tutti i poteri carismatici nella
storia se questa prova non c’è, le cose vanno male, il potere carismatico del
capo inizia a dissolversi lentamente fino a perdere ogni consistenza, (Il
potere carismatico per Weber non ha durata) qui è il punto in cui avviene il
ripudio.
Max Weber specifica che il riconoscimento dei
dominati nei confronti del capo carismatico, non configura in nessun modo un
processo democratico, ma esso ne pretende il riconoscimento.
Nel
saggio del 1919 “La politica come professione”, Weber precisa che il luogo
della politica come professione è nei partiti politici, e quando arriva la
democrazia succedono 4 cose:
1)
arrivano i partiti politici e la politica deve organizzarsi;
2) Chi
controlla il partito controlla tutto: nasce una nuova oligarchia.
3)
Arriva il cesarismo e i partiti si sottomettono al leader che li fa vincere.
4) I
parlamentari diventano un branco di votanti ben disciplinati che segnano la
fine del parlamentarismo: tutto si sposta nelle segreterie dei partiti.
Nei
periodi di cambiamento, “le ideologie non devono vincere”.
La
politica può essere fatta in due modi, si può vivere per la politica, o vivere
di politica, nel primo caso la politica è fatta per passione ed è alimentata da
un fuoco anteriore che anima quella persona;
vivere
della politica invece vuol dire trovare quei mezzi che permettano di occuparsi
di politica costantemente.
Qui
Weber differenzia i due concetti, quello dell’etica dei principi o
dell’intenzione e l’etica della responsabilità, sostenendo che questi due
concetti apparentemente antitetici possano convivere.
Per
comprendere la relazione dei due concetti Weber traccia le tre caratteristiche
che contraddistinguono l’uomo politico e sono:
la
passione, il senso di responsabilità e la lungimiranza.
Quindi
vivere di politica, perché si hanno dei temi da proporre (passione, valori
ecc…), ma chi si occupa di politica solo per passione è destinato a perdere,
poiché per Weber la sola passione non crea l’uomo politico, può però farcela se
nella causa che vuole portare avanti, non fa anche della responsabilità, nei
confronti di essa la sua stella polare dell’agire.
Quindi
la qualità principale del politico deve essere la sintesi dei due concetti e
cioè avere la capacità di coniugare la passione con la lungimiranza, con la
responsabilità, essere spinti da una causa ispiratrice, prevedendo le
conseguenze del proprio agire, mettendo una sorta di barriera tra sé e il mondo
circostante senza farsi coinvolgere eccessivamente (passione e freddezza).
Il pericolo maggiore del politico però è
rappresentato dalla vanità, essa è un vizio radicato in ogni uomo e in ogni
professione, e comporta il pericolo dell’auto compiacimento, che mette il
proprio ego di fronte a qualsiasi cosa, in politica questo vizio è fatale
perché viene meno la causa del proprio intervento, e in preda alla vanità
tenderà ad agire nel vuoto, senza vedere ciò che accade intorno a lui.
La
politica deve essere fatta con la testa, ma non solo con essa, etica della
responsabilità, etica dei principi e buon senso possono aiutare a commettere
meno errori.
(Dott.
Rosario Fittante, sociologo).
Il CTO
di Meta ai dipendenti: se non siete
d'accordo
con il nuovo corso, andatevene.
Hwupgrade.it
– (14-2-2025) - Manolo De Agostini – ci dice:
Clima
teso in casa Meta dopo i cambiamenti alla policy interna sui programmi di
diversità, equità e inclusione (DEI) e la gestione del dibattito interno.
Il CTO
Bosworth avrebbe risposto ai dipendenti sugli ultimi sviluppi senza troppi giri
di parole.
La
decisione di Meta di cessare con effetto immediato i suoi programmi di
diversità, equità e inclusione (DEI) ha suscitato malumori all'interno della
società guidata da Mark Zuckerberg.
I
dipendenti hanno espresso preoccupazione per i recenti cambiamenti di policy
introdotti dopo l'insediamento del presidente degli Stati Uniti Donald Trump.
Secondo
loro, le nuove politiche prendono di mira la comunità “LGBTQ,” sostengono
ideologie di estrema destra e limitano la libertà di espressione.
Secondo
quanto riportato da” Business Insider”, durante una discussione su una chat
interna, il
direttore tecnologico “Andrew Bosworth” avrebbe dichiarato chiaramente che chi
non è d'accordo è libero di andarsene.
L'articolo
fa riferimento a un post condiviso il 30 gennaio in un “thread” intitolato
"Let's Fix Meta", all'interno di un gruppo aperto sul forum interno
“Work place”.
In
quel contesto, un dipendente criticava Meta per aver tagliato i programmi DEI e
per aver, a suo dire, messo a tacere il dissenso interno.
Bosworth
ha risposto che i dipendenti che ritengono giusto divulgare informazioni
interne ai media a causa di disaccordi politici "dovrebbero prendere in
considerazione l'idea di lavorare altrove".
“Bosworth”
ha citato il problema delle fughe di notizie, facendo riferimento a un recente
memo di Mark Zuckerberg, in cui il CEO lamentava il ripetersi di “leak alla
stampa “prima di ogni annuncio o cambiamento interno.
Da qui
la decisione della dirigenza di non rispondere più a sessioni di domande e
risposte in tempo reale nei meeting interni, optando per un sistema in cui i
dipendenti propongono le domande in anticipo, con le più votate che vengono
affrontate.
Nella
chat, un dipendente ha replicato a Bosworth sostenendo che incolpare i
lavoratori per le fughe di notizie non fosse la risposta giusta e che i
dipendenti di Meta si sono sentiti non rispettati.
Bosworth
ha risposto: "Dovresti licenziarti se ti senti così, dico sul serio".
Nel
suo post, il CTO ha aggiunto: "Come previsto, l'intero Q&A di oggi è trapelato.
Sembra
che qualcuno abbia dato l'intero audio a un giornalista.
Ho
visto tutte le reazioni arrabbiate e tristi sul cambiamento del formato e
condivido un senso di smarrimento, ma credo che quanto accaduto chiarisca che è
stata la decisione giusta".
Commentando
il post, un dipendente ha giustificato quanto avvenuto come la conseguenza dei
cambiamenti in atto:
"1. L'azienda cambia le politiche per
colpire specificamente la comunità LGBTQ,
2. Taglia i propri programmi DEI
, 3.
La leadership va su un podcast di estrema destra per spiegare i cambiamenti
invece di rivolgersi ai dipendenti,
4.
Limita la libertà di parola internamente... e c'è da sorprendersi?".
In
risposta, Bosworth ha scritto: "Se il vostro punto di vista è 'tutti
devono gradire tutte le politiche che abbiamo e se non lo fanno è appropriato
farle trapelare', allora penso che dovreste considerare di lavorare
altrove".
Un
dipendente ha aggiunto: "Incolparci per le fughe di notizie per il fatto
che le decisioni politiche di Mark non possono nemmeno essere discusse, tanto
meno appellate, è uno schiaffo in faccia.
Siamo tutti qui perché quando siamo stati
assunti eravamo i migliori candidati per il lavoro".
Il dipendente ha sostenuto che i lavoratori
sono stati trattati male.
Bosworth
ha espresso turbamento per l'insinuazione che i dipendenti venissero
maltrattati:
"A
meno che tu non ti riferisca ai cambiamenti di politica, nel qual caso Mark ha
passato un bel po' di tempo a parlarne, sembra che tu non sia d'accordo. In
questo caso puoi andartene o non essere d'accordo e impegnarti".
Un
dipendente ha chiesto dove fosse possibile esprimere critiche, dato che le
discussioni interne vengono scoraggiate, mentre un altro ha parlato di un clima
che sta rendendo Meta un "luogo di lavoro più ostile".
Vance
umilia la UE woke:
una
lezione di libertà.
Lavocedelpatriota.it – (15 Febbraio 2025) -
Cecilia Carapellese – ci dice:
JAMES
DAVID VANCE, un patriota.
Avete
mai provato a sporgervi da una finestra, in punta di piedi, cercando di
osservare cosa c’è fuori? Ecco.
Esattamente quella sensazione di precarietà,
tra ciò che sta dentro e ciò che c’è fuori, quella sensazione che con una sola
mossa si può tornare con i piedi ben per terra o precipitare nel vuoto.
Ecco, questa è la condizione in cui si trova
adesso l’Unione Europa.
Una
Unione che sta vivendo in un equilibrio fragile, fragile che rischia, se fa il
minimo movimento sbagliato, di cadere giù.
Questa
condizione l’ha ben rappresentata il vicepresidente USA, JD Vance, nel suo
intervento alla Conferenza sulla sicurezza a Monaco.
Il
repubblicano ha evidenziato come il Vecchio Continente stia passando un momento
di forte squilibrio interno, più precisamente dal punto di vista valoriale.
Uno
squilibrio che, drammaticamente, non deriva da fattori esterni, quanto
piuttosto da scombussolamenti che muovono dalla pancia degli stessi paesi
europei.
“La
minaccia che mi preoccupa di più nei confronti dell’Europa non è la Russia, non
è la Cina, non è nessun altro attore esterno.
Ciò
che mi preoccupa è la minaccia dall’interno.
L’allontanamento dell’Europa da alcuni dei
suoi valori più fondamentali, valori condivisi con gli Stati Uniti d’America”
ha infatti dichiarato, aggiungendo che “Quando guardo oggi all’Europa, non è
chiaro cosa sia accaduto ad alcuni dei vincitori di quel conflitto.
Hanno
paura della libertà di espressione e scappano di fronte ai loro elettori”.
Ma non
si può e non si deve avere paura di quelle “opinioni che non sono d’accordo con la leadership”.
Perché,
e qui Vance ha aperto il vaso di Pandora da troppo tempo chiuso:
“La democrazia poggia sul sacro principio che
la voce del popolo conta.” Centrato.
E poi,
ancora, altro attacco all’Unione europea, e in subordine alla cultura woke:
“Non potete
costringere le persone a pensarla in un certo modo, a sentire o credere in un
certo modo.
Chiudere
le serrande di fronte a punti di vista non ortodossi”.
Colpito di nuovo, e stavolta affondato.
Dalla
Gran Bretagna alla Svezia fino alla Germania.
Tutti
i casi in cui il pensiero imposto ha avuto la meglio sulla libertà di
espressione.
Vance
per far comprendere meglio questo agghiacciante stato di cose ha portato alla
luce diversi esempi, calcando la mano su come le autorità sia a livello unione
europea che nazionale stiano sostanzialmente reprimendo la libertà di
espressione da parte di quei cittadini che non si allineano al pensiero unico
dominante.
Ma
anche in termini di democrazia generale, secondo il Vicepresidente Usa, c’è una
forte crisi in Ue:
“Quando vediamo tribunali europei annullare
elezioni e alti funzionari minacciare di annullarne altre, dovremmo chiederci
se stiamo rispettando standard sufficientemente elevati di democrazia”, ha
infatti commentato.
Ha
raccontato poi di come la “Commissione europea” intenda chiudere i social media
durante i periodi di disordini civili nel momento in cui individuano “ciò che
hanno giudicato essere, tra virgolette, un contenuto odioso.”
Ha
ricordato anche che in Germania la polizia ha effettuato retate contro
cittadini sospettati di aver postato commenti anti-femministi online, “come
parte della lotta alla misoginia su internet”.
E,
ancora, in Svezia, dove due settimane il governo ha condannato un attivista
cristiano per aver partecipato al rogo del corano che ha provocato l’omicidio
di un suo amico.
Infine,
“forse, cosa più preoccupante”, ha menzionato il Regno Unito con il caso di “Adam
Smith,” fisioterapista cinquantunenne che poco più di due anni fa è stato
condannato per aver ‘osato’ pregare a meno di duecento metri da una clinica
abortista, in virtù di quelle leggi che “criminalizzano la preghiera e altre
azioni che potrebbero influenzare la decisione di una persona entro 200 metri
da una struttura abortiva”.
Un
caso, però, che non è isolato, ma anzi è rappresentativo di una legislazione
avvilente nei confronti delle libertà di espressione e opinione, anche quelle
più private e personali.
“Temo che la libertà di parola sia in
ritirata in tutta Europa”, ha chiosato, ammonendo la platea presente e, in
generale, tutti gli ‘allineati’ al mainstream, che tanto millantano libertà e
uguaglianza e poi sono i primi a invocare la censura se qualcosa non va loro a
genio.
Focus
migranti. Per Vance “Serve un cambio di rotta.”
Il
patriota americano si è infine focalizzato sul tema migranti, tra gli argomenti
più caldi dell’agenda mondiale.
“Credo che non ci sia nulla di più
urgente della migrazione di massa”, ha sottolineato, aggiungendo che connessa a
questo c’è una grande “immigrazione di criminali”.
Un problema evidente e che è necessario da
affrontare.
Ma non
come ha fatto e sta proseguendo a fare l’establishment europeo.
“Oggi
una persona su 5 viene dall’estero, è simile negli Usa, il numero dei migranti
entrati nella Ue sono raddoppiati nel 2021.
L’Europa
deve cambiare rotta sull’immigrazione”, ha detto Vance.
L’Europa
rappresenta un mondo alla deriva, stretto tra le maglie della cultura woke.
Quello
che ha raccontato ieri Vance, e che è stato accolto con un silenzio assordante
– tra un misto di stupore e incredulità- è un mondo alla deriva.
Un
mondo, o meglio, una Europa, che ha dimenticato i suoi valori fondanti e
fondamentali per inseguire un universo nel quale ad esistere deve essere un
solo ed unico pensiero, incontrovertibile.
Una
Europa che, tristemente, non si allontana da quella realtà raccontata quasi un
secolo fa da “George Orwell “nel suo romanzo ‘1984’.
Una
realtà, che, se prima solamente immaginata e narrata, ad oggi non appare più
così lontana, e rischia di divenire sempre più vera e reale, a meno che non si
agisca subito, cambiando rotta e ristabilendo l’equilibrio necessario.
Affinché nessuno tema più per la propria
sicurezza e la propria incolumità, e affinché ognuno torni ad essere libero di
poter esprimere la propria opinione e di poter parlare e pregare senza venire
accusato di essere un criminale.
E
dunque, per evitare di arrivare davvero a vivere in un mondo senza più sogni e
speranza, è necessario che vengano ritrovati i principi che una volta
condussero alla creazione della bella Europa, sconfiggendo una volta e per
tutte quelle derive “wokiste” e della “cancel culture” che nient’altro fanno se
non avvilire e sminuire l’uomo.
Gli
Stati Uniti, rieleggendo Trump, lo hanno capito forte e chiaro e lo stanno
gridando a gran voce.
Ed è ora che anche l’Europa si risvegli dal
suo torpore e torni a combattere per la propria libertà e per la propria
sicurezza.
Cattolici
e politica. Mons. Renna:
no al partito unico, sì al
processo
di inclusione trasversale.
Portalecce.it
- Alberto Baviera – (16 Febbraio 2025) - ci dice:
“La
‘Rete di Trieste’ - che ho definito ‘una sorpresa dello Spirito’ - non
costituisce l’avvio di un processo per la costituzione di un movimento
politico, né vuole escludere qualcuno”.
“Ma coltiva l’intento di includere in maniera
trasversale quanti amministrano la cosa pubblica avendo chiaro il riferimento
per le loro scelte i principi della Dottrina sociale della Chiesa”.
Lo ha
affermato mons. “Luigi Renna, arcivescovo metropolita di Catania e presidente
del Comitato scientifico e organizzatore delle Settimane sociali, in video
collegamento nella giornata conclusiva della costituente “La rete di Trieste.
(Perfino) più di un partito” che si è svolta fino a ieri al “Th Hotel Carpegna”
di Roma.
Nella
sua riflessione, il presule si è soffermato sui “veri e falsi profeti” di cui
si parla nel Vangelo di Matteo.
I “profeti coltivano la speranza” ma bisogna stare
attenti e saperli distinguere - attraverso un “discernimento” non sempre
“facile” - “tra coloro che illudono e hanno secondi fini e chi invece lascia
avanzare il regno di Dio”.
“Ciascuno
di voi incarna la profezia nel suo impegno per il bene comune”, il tributo di
mons. Renna che ha invitato a “misurare il proprio impegno sulle attese più
importanti, che per noi credenti sono quelle delle Beatitudini”, e a
“rispondere alle esigenze che vengono dal grido dei poveri che è un tutt’uno
con il grido della terra”.
“Il
frutto - ha evidenziato - non è la politica ma il bene della polis, e la
politica è lo strumento” per raggiungerlo.
“A Trieste - ha rilevato - abbiamo visto che
la democrazia è sostanziale”; e, “atterriti dall’astensionismo”, ha richiamato
la necessità di “rigenerare la partecipazione”.
L’arcivescovo
si è poi soffermato sul “pluralismo di scelte partitiche da parte dei cattolici
che non vogliamo piegare ad un progetto univoco ma accompagnare a realizzare
opere di giustizia e carità”.
“Ognuno
di voi - ha aggiunto Renna - è impegnato nel proprio territorio, ha le sue
radici nella formazione cristiana.
La
prospettiva più ampia che ci accumuna è il bene del Paese, dell’Europa, del
mondo.
A
questa ampiezza ci richiama la Dottrina sociale della Chiesa” a cui hanno
attinto diversi “uomini e donne che hanno dato il loro prezioso apporto di
pensiero e impegno, con sacrificio e alle volte martirio”.
Nella
sua riflessione il presule ha richiamato il “modello del poliedro” per
affrontare una situazione nella quale “le polarizzazioni non aiutano.
Ma crediamo - ha sottolineato - che la forza
di impegno e idee” nella “dinamica del poliedro” aiutino a superarle, anche
perché “se le polarizzazioni diventano assolute ci immiseriscono”.
Dall’arcivescovo
l’invito a “tornare a formare a tutti i livelli” perché “solo chi ha una
coscienza ricca di valori potrà servire l’uomo”.
E “se voi siete qui, è perché non avete
gettato la spugna nell’impegno a formarvi”, ha proseguito, prima di
sottolineare che “il recente richiamo di Mattarella a Marsiglia è evidentemente
molto scomodo per chi non vuole leggere in maniera sapienziale la storia”.
Bisogna
portare avanti il “sogno di un’Europa che ha garantito pace e sviluppo, dove
non si possono creare muri.
Il
sogno dell’Europa non può tramontare o fare passi indietro”, il monito di mons.
Renna.
L’arcivescovo
ha esortato a “condividere in luoghi di confronto e dialogo”, anche perché in
passato “ci siamo feriti tra credenti, dando spazio più alle nostre
appartenenze partitiche e politiche e meno alla nostra comune appartenenza al
Vangelo”.
Il
presule ha anche evidenziato come “siamo chiamati a far maturare la pagine
sull’impegno laicale del Concilio Vaticano II”.
Serve
“un militare non ideologico ma critico” e “non possiamo divederci su valori -
la difesa dell’embrione, della vita, del lavoro, dei migranti - che sono un
tutto”.
Nella
convinzione che “questo dialogo” avviato a Trieste “farà bene non solo ai
credenti ma al nostro Paese”, mons. Renna ha invitato i presenti a “camminare
insieme” e a “non cedere a chi vorrebbe vederci divisi anche nel dialogo fuori
dai partiti”.
L'INEVITABILE
RITORNO
DEL
MACCARTHYSMO.
Nuovogiornalenazionale.com
- Marco Della Luna – Opinioni – (17 Febbraio 2025) – ci dice:
Il
nucleo al vertice del potere occidentale, col suo modello economico incentrato
sulla speculazione finanziaria e sulla rendita in pratica senza limite, che nei
fatti concentra la ricchezza e diffonde la povertà, è oggi discreditato e
battuto sul piano sia economico che militare da un modello di sviluppo
alternativo, russo, cinese (ma non solo), basato sul finanziare l'economia
reale e gli investimenti utili.
Perciò,
al fine di distrarre l’attenzione dell’opinione pubblica dal proprio
fallimento, essa si difende lanciando una nuova caccia alle streghe e una
istigazione al riarmo e al confronto militare contro la supposta minaccia russa
e cinese.
Fino
forse alla metà degli anni ‘80, fino ai disastri di Chernobyl e
dell'Afghanistan, l'Unione Sovietica comunista era presente come possibile
modello alternativo di società ed economia rispetto a quello capitalistico
occidentale.
Almeno
sul piano politico, ideale, aspirazionale, psicologico, il comunismo costituiva
una concorrenza per il capitalismo a trazione egemonica statunitense.
Una
concorrenza e un'alternativa concrete e temibili soprattutto negli anni ‘50,
nel periodo di grande sviluppo economico, tecnologico, scientifico e militare,
che coincideva con una importante fase di decolonizzazione e di contestazione
dell'imperialismo occidentale.
Logico quindi che si sviluppasse, come difesa anche in
forma di inibizione e repressione culturali, il fenomeno del maccartismo, della
caccia alle streghe contro il comunismo e dei suoi simpatizzanti veri e
supposti.
Ma a
quei tempi anche il modello capitalista andava forte e assicurava occupazione,
benessere, stabilità in Occidente.
Prometteva
un buon futuro.
Cosa
che non è più.
Oggi
dalla Russia e dalla Cina, sebbene divenute capitalistiche, ritorna una
minaccia all'egemonia e al pensiero unico socio-economico neoliberale che
domina il declinante Occidente.
Ritorna
in forma di modello alternativo e palesemente più efficace, più sostenibile, e
anche più amico della società civile, anziché al puro servizio dell’oligarchia
bancaria.
Meno
predatorio.
L'intero
Occidente infatti da quasi tre anni è impegnato contro la Russia in una lotta
economica (con le sanzioni) e altresì militare (con imponenti forniture
belliche), nel contesto della “proxy war” dell'Ucraina.
L’UE
ha speso ad oggi 145 miliardi – con che risultato?
L’Europa si è svenata, gli USA si prendono le
risorse minerarie ucraine, l’Ucraina perde i territori più ricchi, non entra
nella NATO e la “pace” viene negoziata sopra la sua testa (come è naturale, in
una “proxy war”).
Il Pil dei paesi Nato è 20 volte quello della
Russia, e così pure il suo budget militare, e la sua popolazione è ottupla.
I suoi governanti e i suoi media non proprio
oggettivi avevano preannunciato il tracollo economico e militare della Russia
entro poche settimane o mesi, per effetto delle sanzioni, e (mentendo)
affermavano che i soldati russi stessero già combattendo con le vanghe, avendo
esaurito le munizioni.
Al
contrario, la Russia non solo tiene testa in termini di produzione e di
spiegamento di armi, e fa continui progressi sul terreno, ma sta godendo di una
notevole crescita economica, la borsa sale, il rublo è ai massimi dalla scorsa
estate, e Mosca è leader di una nascente e crescente coalizione detta dei “BRICS”,
che si sta dotando di un suo sistema bancario alternativo all’angloamericano”
SWIFT” e di un sistema monetario alternativo al Dollaro, che ne minaccia il
ruolo di moneta di riserva.
L’industria russa produce armi e munizioni a un ritmo
adeguato e a costi sostenibili, che sono (pare) circa un decimo, o meno, di
quelli occidentali.
La Cina, dal canto suo, negli ultimi 40 anni,
mentre l'Occidente, e soprattutto l'Europa, e ancora di più l'area comunitaria,
hanno percorso un cammino di stagnazione, indebitamento, demolizione
dell’industria primaria (l’auto motive), perdita di posizioni nella dimensione
mondiale - la Cina, dicevo, è balzata da paese sotto sviluppato a potenza
leader dello sviluppo mondiale, con gigantesche realizzazioni infrastrutturali
e militari, e diventando la manifattura del mondo occidentale.
È
riuscita a far ciò perché ha stampato soldi e li ha investiti nell’economia
reale, aumentando la produzione e la produttività e la domanda interna, mentre
la FED, la BCE etc. stampano moneta e la mettono nei mercati speculativi e
improduttivi togliendola dagli investimenti e dai redditi per prevenire
un’esplosione inflattiva.
E
l’India? L'India, dal 2008 al 2024, ha avuto un incremento medio del PIL del
6,4.
Ma, se
tutto questo è vero, allora la dottrina economica che ci viene propinata in
Occidente come giustificazione e legittimazione di tutte le scelte recessive di
fondo, con la sua virtuosità di bilancio e i suoi vincoli, è tutta una balla, è
distruttiva, i nostri statisti e governanti, i nostri banchieri centrali, sono
un branco di inadeguati, che alla fine danneggiano il proprio ambito interno,
al servizio di soggetti che non si assumono le responsabilità.
Per di
più a tutto questo si aggiunge la loro narrazione in materia di tutela
ecologica, con ciò che ne consegue come ulteriori danni che si vanno a creare.
Di
fronte a tale conclusione, l’attuale maccartismo russofobo è pertanto una
inevitabile reazione difensiva della cricca di potere che governa l'Occidente
imponendogli un modello economico finanziario costruito esclusivamente a tutela
delle rendite e del mantenimento del controllo di questa medesima élite, con il
sacrificio dell'economia reale, dello sviluppo, degli investimenti, dei
servizi, dell'occupazione, sostanzialmente della popolazione generale, di tutti coloro che non beneficiano
direttamente della macchina stampa soldi, e che vedono il loro redditi e
patrimoni taglieggiati da inflazione e da una crescente tassazione che
rincorre, e
a cui si prescrive di prepararsi a un mutamento profondo del tenor di vita per
salvare l’ecosistema.
Mutamento
che si annuncia con la recessione e le chiusure aziendali.
(Green
Transition, Net Zero, C40 etc.).
Le
nazioni occidentali sono sottoposte a stati, ad apparati pubblici, tanto
indebitati, da obbedire ciecamente ai loro finanziatori e da non lasciare alcuno spazio alla
tutela degli interessi della popolazione né alla rappresentanza della medesima
negli organi istituzionali, né a uno spazio di autonomia decisionale rispetto ai Diktat
del rating, dei mercati, dei banchieri centrali.
Praticamente,
è la fine del settore pubblico, dello spazio per una politica pubblica.
I mass
media interamente controllati e strategicamente sovvenzionati dalla cricca non
propongono alcuna critica a questo sistema, al massimo ne contestano isolate
applicazioni e alcune conseguenze, di cui però non individuano le radici
eziologiche profonde.
Plutocrazia
totale, democrazia zero.
Non si tratta di essere filorussi o filocinesi
o filo indiani – Russia, Cina e India curano i loro interessi, non i nostri –
ma di individuare il nostro nemico interno e i suoi kapò.
La
trasformazione socio economica che la "cricca" porta avanti è
chiaramente verso un sistema di proletarizzazione generale e livellamento al
basso del corpo sociale, e sua sottoposizione a un controllo totale e univoco,
senza possibilità di resistenza, da parte di essa, grazie anche ai mezzi
tecnologici di cui dispone.
Sul
piano della realtà tangibile, l'Europa occidentale è in recessione, e se togliamo l’1,5% circa di PIL dovuto ai
soldi a debito del PNRR, è una recessione grave.
La
narrazione ideologica e moralistica di amicizia e unità atlantica, fondamentale
pilastro dello storytelling occidentale, è messa in discussione dal sabotaggio
del gasdotto Nord stream eseguito per volontà della NATO, da l 'appropriazione
energetica di Washington ai danni dell’economia europea, e, adesso, dai dazi
punitivi contro gli alleati subalterni e dal fatto che Washington si prende i
tesori minerari dell’Ucraina lasciando all’Europa il costo della sua difesa.
Peraltro
anche gli USA sono in grave crisi economica e sociale, con una povertà
dilagante.
Logico
quindi, anzi inevitabile, che il potere occidentale reagisca in modo rabbioso,
attraverso i suoi "sottoposti" ai vertici dell'Unione Europea, della
NATO, dei singoli paesi, chiamando a una corsa agli armamenti contro la Russia,
scatenando una campagna russofoba, bandendo persino compositori, poeti e
novellisti del passato, colpevoli di appartenere a quella nazione.
Il
concorrente che ha successo sul piano pratico e che quindi minaccia di
smascherare gli scellerati e antisociali intenti della cricca occidentale, deve
essere demonizzato sul piano morale e oscurato su quello culturale.
La
questione va spostata dal piano della realtà socio-economica, in cui la cricca
rimane inevitabilmente sputtanata, al piano ideologico e moralistico, sul quale
la cricca si difende bene perché controlla completamente il clero mediatico e
intellettuale, clero che dipende interamente dai soldi che essa elargisce.
Un
piano per Gaza che
ha già
fatto danni.
Internazionale.it
- Meron Rapoport, +972 Magazine-Sikha Mekomit, Israele – (13-2-2025) – ci dice:
La
proposta di Donald Trump di trasferire gli abitanti del territorio palestinese
avvelenerà la società israeliana e metterà a rischio il futuro della regione.
Nel
settembre 2020, verso la fine del suo primo mandato presidenziale, Donald Trump
aveva patrocinato la firma degli accordi di Abramo tra Israele, Emirati Arabi
Uniti e Bahrein sul prato della Casa Bianca.
Gli
accordi, a cui nei mesi successivi avrebbero aderito anche Sudan e Marocco,
furono presentati come “accordi di pace”, ma sarebbe stato più corretto
definirli “accordi per emarginare il popolo palestinese”.
Il loro obiettivo non era creare la pace –
quegli stati non erano in guerra – ma piuttosto stabilire una nuova realtà
regionale in cui la lotta di liberazione palestinese sarebbe stata
marginalizzata e infine dimenticata.
I
successivi quattro anni e mezzo sono stati i più sanguinosi nella storia del
conflitto israelo-palestinese.
Sei mesi dopo la firma degli accordi, durante
il Ramadan, le forze israeliane hanno attaccato i fedeli alla moschea di Al
Aqsa e hanno cercato di sfrattare le famiglie palestinesi dal quartiere Sheikh
Jarrah di Gerusalemme, scatenando una raffica di razzi di Hamas da Gaza e
un’esplosione di violenza intercomunitaria tra ebrei (sostenuti da soldati e
polizia israeliani) e palestinesi, che ha travolto l’intero territorio tra il
mar Mediterraneo e il fiume Giordano per la prima volta dal 1948.
Nel
2022 e nel 2023 i soldati e i coloni israeliani hanno ucciso un numero senza
precedenti di palestinesi e c’è stata un’impennata di attacchi agli israeliani.
Poi è
arrivato il 7 ottobre, la prova definitiva che cercare di mettere da parte la
lotta palestinese è come ignorare uno spartitraffico: il risultato è una
collisione fatale.
Corrente
sotterranea.
Che
Trump lo capisca o meno, la sua nuova proposta dice essenzialmente: se non
possiamo aggirare i palestinesi, espelliamoli.
“Ho
sentito che Gaza è stata una grande sventura per loro”, ha detto in conferenza
stampa insieme al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu il 4 febbraio,
aggiungendo che sarebbe quindi meglio se l’intera popolazione della Striscia si
trasferisse in un “pezzo di terra buono, fresco e bello”.
Come
prima cosa è stata esaminata la fattibilità dell’idea.
Da questo punto di vista, ovviamente non
regge.
Le
possibilità che più di due milioni di palestinesi accettino di andarsene ora
sono prossime allo zero.
In gran parte sono rifugiati o discendenti di
rifugiati della Nakba del 1948, rimasti nei campi profughi di Gaza per 75 anni
pur di non lasciare la loro patria.
La
probabilità che paesi come la Giordania o l’Egitto accettino anche solo una
frazione di quella popolazione è altrettanto scarsa, dato che una simile mossa
potrebbe destabilizzare i loro regimi.
E
l’idea che gli Stati Uniti, dopo aver messo fine alle lunghe, costose e mortali
occupazioni in Iraq e Afghanistan, siano ora disposti a “possedere” Gaza, a
governarla e a svilupparla sembra altrettanto inverosimile.
Ma
questo piano è peggiore della somma delle sue parti.
Anche
se non dovesse avanzare nemmeno di un centimetro, ha già avuto un profondo
impatto sul discorso politico ebraico-israeliano.
Anzi,
sarebbe forse più corretto dire che la proposta di Trump ha attinto a una
profonda corrente sotterranea della società israeliana.
Netanyahu
è stato il primo a congratularsi per l’iniziativa del presidente.
“Questo è il tipo di pensiero che può
rimodellare il Medio Oriente e portare la pace”, ha dichiarato.
Com’era
prevedibile, anche i leader della destra messianica israeliana si sono
affrettati a esprimere la loro gioia per la proposta, osannando le parole di
Trump. Ma non sono stati gli unici.
“Benny Gantz”, che ha lasciato il
governo in polemica per la conduzione della guerra a Gaza, ha descritto il
piano di trasferimento di Trump come “creativo, originale e interessante”.
Secondo “Yair Lapid”, capo del partito centrista “Yesh
acid”, la conferenza stampa è stata positiva per Israele.
“Yair
Golan”, leader del Partito democratico di sinistra sionista, si è limitato a
commentare l’impraticabilità dell’idea.
È
stato come se i politici di tutto lo spettro sionista avessero semplicemente
aspettato il momento in cui la pulizia etnica avrebbe ricevuto il timbro di
approvazione “made in America” prima di appoggiarla.
Questo
veleno della propaganda a favore del trasferimento non sparirà presto da
Israele.
E le
conseguenze potrebbero essere catastrofiche per l’intera regione.
Anche
senza l’intervento statunitense sul terreno, la sensazione che Israele si sia
imbattuto in un’opportunità storica per svuotare la Striscia di Gaza dai suoi
abitanti palestinesi darà un enorme impulso alle richieste dei leader di
estrema destra “Bezalel Smotrich” e” Itamar Ben Gvir”, che esortano Netanyahu a
far saltare il cessate il fuoco prima che raggiunga la sua seconda fase, a
conquistare Gaza e a ricostruire gli insediamenti ebraici nella Striscia.
Lo
stesso Netanyahu è favorevole all’idea di “sfoltire” la popolazione di Gaza e
potrebbe cedere a queste richieste, soprattutto nel timore di perdere la sua
coalizione.
Nessun
compromesso.
Per
quanto riguarda l’esercito israeliano, un alto ufficiale citato dal sito
israeliano “Ynet” ha definito l’iniziativa di Trump “un’idea eccellente”.
Nel
frattempo, il “Coordinatore delle attività governative nei territori” (Cogat),
l’organismo dell’esercito responsabile della supervisione degli affari
umanitari a Gaza e in Cisgiordania, ha già cominciato a mettere a punto i
piani.
Se, per esempio, l’Egitto si rifiuta di
consentire l’uso del valico di Rafah per facilitare la pulizia etnica di Gaza,
l’esercito può aprire altre rotte “dal mare o dalla terra e verso un aeroporto
per trasferire i palestinesi nei paesi di destinazione”.
Anche
se il cessate il fuoco procedesse nelle fasi due e tre, gli ostaggi fossero
tutti rilasciati, l’esercito si ritirasse da Gaza e si raggiungesse una tregua
permanente, il piano di Trump non scomparirà dalla politica israeliana.
Quale
incentivo avrebbe un governo o un partito a spingere per un accordo politico
con i palestinesi se l’opinione pubblica ebraica vede la loro espulsione come
una valida alternativa?
Ogni
accordo, ogni cessate il fuoco, potrebbe essere considerato come nient’altro
che un passo temporaneo verso l’obiettivo finale del trasferimento di massa.
Le possibilità di un’efficace cooperazione
politica israelo-palestinese si ridurranno notevolmente.
E
perché fermarsi a Gaza?
Non c’è un motivo particolare per cui la
proposta di Trump non possa essere estesa ai palestinesi della Cisgiordania –
un’altra area che probabilmente lui considera “una grande sventura” per loro –
o a Gerusalemme Est, o perfino a Nazareth.
Dal
lato palestinese, il piano di Trump non farà altro che logorare ulteriormente
qualsiasi idea di riconciliazione con Israele.
Con
entusiasmo o a malincuore, fin dagli accordi di Oslo del 1993 (e anche prima),
la leadership politica palestinese ha accettato la possibilità di vivere
accanto a uno stato nato sulle rovine del proprio popolo cacciato nel 1948.
Certo, questo non è mai stato lineare; ci sono
stati ostacoli, ipocrisia e opposizione violenta – in particolare da Hamas – ma
questo approccio è rimasto dominante per decenni.
Una
volta che il presidente statunitense propone il trasferimento come soluzione al
“problema palestinese”, e una volta che tutto Israele – dalla destra
religioso-fascista al centro liberale e perfino alla sinistra sionista – lo
accoglie, il messaggio per i palestinesi è chiaro:
non
c’è possibilità di compromesso con Israele e il suo alleato statunitense,
almeno nella sua forma attuale, perché sono determinati a eliminare il popolo
palestinese.
Ciò
non significa per forza che masse di palestinesi cominceranno subito la lotta
armata, anche se è un esito possibile.
Ma di sicuro qualsiasi leader palestinese che
cerchi di raggiungere un accordo con Israele non riuscirà a mantenere il
sostegno popolare.
La legittimità dell’Autorità nazionale
palestinese (Anp) è già al suo punto più basso; entrando in un processo
politico con Israele all’ombra del piano di Trump, non potrà che deteriorarsi
ulteriormente.
La
stessa conclusione.
E il
pericolo non finisce qui.
Trump, nella sua totale ignoranza della realtà
mediorientale, ha “regionalizzato” la questione palestinese:
invece
di cercare una soluzione che coinvolga gli ebrei e i palestinesi tra il fiume e
il mare, ha scaricato la responsabilità sugli stati circostanti.
Non
solo pretende che Egitto, Giordania, Arabia Saudita e altri paesi accettino
centinaia di migliaia di palestinesi nei loro territori, ma gli chiede anche di
autorizzare la sepoltura della causa palestinese.
Questa
richiesta è una minaccia diretta ai regimi del mondo arabo.
Il
governo giordano teme che un flusso significativo di palestinesi nel suo regno
possa provocarne la caduta, alterando il delicato equilibrio demografico del
paese, che già pende fortemente a favore dei palestinesi.
Ma
anche dove il legame con la Palestina è meno diretto, la situazione è
altrettanto fragile.
Bastava
guardare i canali di informazione sauditi il giorno dell’annuncio di Trump per
cogliere il senso di shock, di minaccia e di paura.
Quindici
anni prima che l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp)
raggiungesse uno storico compromesso con lo stato di Israele, l’Egitto era
arrivato alla conclusione che poteva non solo accettare l’esistenza di Israele
nella regione, ma anche trarne beneficio, e aveva firmato il trattato di pace
del 1979.
La
Giordania ha seguito l’esempio e quattro anni e mezzo fa gli Emirati Arabi
Uniti, il Bahrein, il Sudan e il Marocco hanno adottato la stessa linea di
pensiero.
Pur
senza aver normalizzato ufficialmente le relazioni con Israele, il peso massimo
della regione, l’Arabia Saudita, sembra aver raggiunto una conclusione simile.
Ma la
mossa sconvolgente di Trump, e l’approvazione istintiva di Israele, potrebbero
segnalare ai regimi mediorientali –compresi quelli etichettati come “moderati”
(in realtà spesso più autoritari degli altri) – che il compromesso è inutile.
Suggerisce
che Israele, grazie alla sua potenza militare e al sostegno degli Stati Uniti,
crede di poter imporre alla regione qualsiasi soluzione desideri, compreso
l’allontanamento forzato di milioni di persone dalla loro patria e la negazione
del loro diritto quasi universalmente riconosciuto all’autodeterminazione.
Nell’ultimo
anno e mezzo, Israele non si è accontentato delle uccisioni di massa a Gaza e
della distruzione delle infrastrutture necessarie alla vita umana.
Ha
anche occupato parti del Libano, rifiutando di ritirarsi in violazione
dell’accordo di tregua, e si è impadronito di parti della Siria senza
intenzione di andarsene presto.
Questa
realtà rafforza l’impressione che Israele abbia deciso di stabilire un nuovo
ordine in Medio Oriente con la sola forza, senza accordi né negoziati.
La
guerra del 1973 è stata l’ultima occasione in cui Israele ha combattuto contro
gli eserciti di stati sovrani invece che contro organizzazioni militanti non
statali, storicamente molto più deboli.
Anche
se i libri di testo di storia israeliani oggi affermano che Israele non ebbe
alcuna responsabilità per quella guerra, non c’è dubbio che Egitto e Siria la
lanciarono perché si resero conto dell’impossibilità di recuperare
pacificamente i territori occupati da Israele nel 1967.
Il
percorso attuale, seguito sotto l’influenza di Trump, potrebbe sfociare nello
stesso risultato, cioè far concludere ai suoi vicini che Israele capisce solo
la forza.
“Middle East Eye” ha citato fonti di Amman
secondo cui la Giordania è pronta a dichiarare guerra se Netanyahu tenterà di
trasferire con la forza i rifugiati palestinesi nel suo territorio.
Tutto
questo non è inevitabile.
Molto
dipende da Trump e dalla sua determinazione a mettere in pratica i suoi
propositi nonostante le critiche internazionali.
La
resistenza deve venire non solo dai palestinesi, ma anche da quegli ebrei in
Israele consapevoli di non avere futuro se non si troverà il modo di vivere in
condizioni di parità con gli abitanti nativi della terra.
Potrebbe
anche nascere una nuova coalizione in Medio Oriente e non solo, che si rifiuti
di accettare i dettami statunitensi.
Per
ora è chiaro che i piani bellicosi di Trump e il patetico tentativo di Israele
di cavalcare l’onda rischiano di ricevere una risposta basata sulla forza.
E
questo sarebbe disastroso per tutti.
(Meron Rapoport è un giornalista e
scrittore israeliano.)
(Lavora
per “Sikha Mekomit”, un sito in ebraico che si occupa di democrazia, pace,
uguaglianza, giustizia sociale e lotta contro l’occupazione. Il sito spesso condivide
gli articoli con +972 Magazine, dove sono pubblicati in inglese.)
Ultime
notizie.
Tregua
in bilico.
◆ Il cessate il fuoco tra Israele e
Hamas è
in bilico dopo che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump l’11 febbraio 2025 ha minacciato “l’inferno” se il movimento estremista
palestinese non rilascerà tutti gli ostaggi israeliani entro il 15 febbraio.
Il
giorno prima Hamas aveva minacciato di rinviare la liberazione degli ostaggi
prevista il 15 febbraio nell’ambito dell’accordo, accusando Israele di averlo
violato.
Il
primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha ordinato all’esercito di prepararsi a “tutti gli
scenari” e ha inviato rinforzi intorno alla Striscia di Gaza.
La prima fase dell’accordo di cessate il fuoco
prevede la liberazione di 33 ostaggi israeliani in cambio di 1.900 palestinesi
prigionieri in Israele.
Nelle mani di Hamas ci sono ancora 73
israeliani, di loro almeno trentacinque sono stati dichiarati morti
dall’esercito di Tel Aviv.
◆ L’11 febbraio il re di Giordania “Abdallah
II” è
stato ricevuto da Trump alla Casa Bianca per esprimere la sua opposizione al
piano del presidente statunitense per Gaza.
◆ Il 9 febbraio la polizia israeliana
ha perquisito due librerie della catena Educational bookshop, punti di
riferimento culturali di Gerusalemme Est, e ha arrestato i due gestori, “Mahmoud
Muna” e suo nipote Ahmad, con l’accusa di vendere libri contenenti “appelli all’odio”.
I due sono stati scarcerati l’11 febbraio, ma dovranno restare agli
arresti domiciliari per cinque giorni e non potranno tornare a lavorare per
venti giorni.
Le due
librerie hanno riaperto il 10 febbraio.
L’operazione israeliana ha suscitato
un’ondata di indignazione locale e internazionale.
(Afp,
Haaretz).
Democrazia
ed efficienza
nell’Era
digitale.
Mentiinfuga.com - Mauro Sorrecchia – (20
Febbraio 2025) – ci dice:
Il
ruolo delle élites tra Intelligenza Artificiale, populismo e crisi della
rappresentanza è questo di cui proviamo ad occuparci in questo articolo.
Sia nella brevità del testo esploreremo un
paradosso del nostro tempo:
mentre
l’intelligenza artificiale (IA) e il capitalismo della sorveglianza promettono soluzioni rapide e
personalizzate, la democrazia sembra arrancare, vittima di una crescente sfiducia nei
confronti delle élites e del dilagare di fenomeni populisti che sfruttano la
disintermediazione digitale per polarizzare l’opinione pubblica.
Introduzione.
La
democrazia è lenta, faticosa, imperfetta.
L’efficienza
è rapida, lineare, implacabile.
Ma la
velocità può essere democratica? E, soprattutto, una decisione rapida è sempre
una buona decisione?
In
un’epoca dominata dalle tecnologie digitali e dall’intelligenza artificiale, la
tensione tra democrazia ed efficienza non è più solo un dibattito teorico per
politologi e filosofi.
È una
sfida concreta che riguarda la nostra vita quotidiana, le istituzioni che ci
governano e il futuro stesso della sovranità popolare.
Da un lato, assistiamo al trionfo di modelli
decisionali basati su dati, algoritmi e automazione, capaci di analizzare e
risolvere problemi con una velocità impensabile per le istituzioni democratiche
tradizionali.
Dall’altro, cresce la consapevolezza che la
democrazia non può essere ridotta a una questione di mera efficienza: è un
processo complesso, fatto di confronto, partecipazione e, talvolta, di sana
lentezza.
Partendo
dalle riflessioni di “Norberto Bobbio” e “Giovanni Sartori”, pensatori
contemporanei che hanno condiviso un dialogo critico sul destino della
democrazia, e proseguendo con le analisi di “Jan-Werner Müller” sul “tradimento
delle élites” e la crisi del populismo, fino ad arrivare alla critica radicale
di “Shoshana Zubov “sul capitalismo della sorveglianza, cercheremo di
rispondere a tre domande fondamentali:
– È
possibile conciliare l’efficienza delle tecnologie digitali con i principi
della democrazia?
–
Quale ruolo spetta alle élites nella difesa degli ordinamenti democratici in un
mondo governato dagli algoritmi?
– In
che modo i fenomeni populisti rappresentano una reazione, o forse una
conseguenza, di questa nuova tensione tra efficienza e partecipazione?
In
fondo, la posta in gioco non è solo la qualità del nostro sistema politico, ma
la natura stessa della nostra libertà in un mondo sempre più interconnesso e
controllato.
Democrazia
ed efficienza: Un conflitto storico?
Sin
dalle origini del pensiero politico moderno, la democrazia è stata percepita
come un sistema intrinsecamente lento e complesso.
“Norberto
Bobbio”, nel suo celebre “Il futuro della democrazia”, sottolineava come il
processo decisionale democratico richieda tempo, confronto e mediazione,
elementi spesso in contrasto con l’esigenza di efficienza che caratterizza le
società contemporanee.
Bobbio
evidenziava il rischio che, di fronte alle crisi o alle emergenze, la
tentazione di aggirare la lentezza democratica per favorire decisioni rapide
possa erodere le fondamenta stesse della partecipazione e della rappresentanza.
Egli
definisce la democrazia come «il regime del potere pubblico in pubblico»,
sottolineando l’importanza della trasparenza e della responsabilità come
pilastri fondamentali.
Questo
principio entra in forte contrasto con l’opacità delle decisioni algoritmiche e
con la governance predittiva basata sull’intelligenza artificiale, che
rischiano di ridurre il controllo pubblico e democratico sui processi
decisionali.
Inoltre,
Bobbio distingue tra democrazia formale e democrazia sostanziale:
la
prima si concentra sulle regole procedurali, mentre la seconda mira a garantire
l’effettiva uguaglianza e partecipazione.
Nell’era
digitale, questa distinzione diventa cruciale:
un
sistema può rispettare formalmente le regole democratiche, ma fallire sul piano
sostanziale se la partecipazione è svuotata da meccanismi di controllo
tecnologico e manipolazione dell’informazione.
“Giovanni
Sartori”, anch’egli acuto osservatore delle dinamiche democratiche, dialoga
implicitamente con Bobbio su questi temi, pur condividendo la stessa epoca e preoccupazioni.
Sartori ci invita a non confondere la democrazia con
la sua forma ideale.
La democrazia reale, afferma, è un sistema
imperfetto che deve costantemente bilanciare la partecipazione dei cittadini
con l’efficienza governativa.
Per Sartori, il vero problema non è la
lentezza, ma la capacità del sistema di adattarsi alle trasformazioni sociali
senza perdere di vista i suoi principi fondamentali.
Il
concetto di efficienza, tuttavia, è ambiguo:
ovviamente,
vuole indicare la capacità di raggiungere obiettivi nel modo più rapido e meno
dispendioso possibile;
ma, nella sfera politica, implica anche la
qualità delle decisioni prese, la loro legittimità e il loro impatto sul
tessuto sociale.
In
questo senso, un sistema può essere tecnicamente efficiente, ma politicamente
disastroso se sacrifica la rappresentanza e il pluralismo.
“Jan-Werner
Müller”, nel suo lavoro sul “populismo e la crisi della democrazia liberale”,
evidenzia come le crisi della rappresentanza e la sfiducia nelle élites siano
esiti di queste tensioni irrisolte.
I
fenomeni populisti, sostiene Müller, emergono proprio là dove l’efficienza
decisionale si trasforma in un’arma per escludere il confronto democratico.
In questo senso, la riflessione di Bobbio
sulla necessità di garantire spazi pubblici di discussione e quella di Sartori
sulla resilienza delle istituzioni democratiche si completano, offrendo chiavi
di lettura per comprendere le dinamiche contemporanee.
La
sfida dell’era digitale: IA, algoritmi e democrazia.
L’avvento
delle tecnologie digitali e, in particolare, dell’intelligenza artificiale ha
radicalmente trasformato la nostra idea di efficienza.
Oggi,
algoritmi sofisticati analizzano enormi quantità di dati, prendendo decisioni
in frazioni di secondo.
Questa
capacità di elaborazione supera di gran lunga quella delle istituzioni
democratiche tradizionali, sollevando interrogativi fondamentali:
Chi
decide? Su quali basi vengono prese le decisioni? È possibile controllare il
“cervello” invisibile che governa processi cruciali per la nostra società?
L’IA
promette una “governance predittiva”, capace di anticipare bisogni e risolvere
problemi prima ancora che emergano.
Tuttavia,
questa efficienza ha un costo: riduce lo spazio per il dibattito pubblico e per
la deliberazione democratica.
Le
decisioni automatizzate, se non opportunamente regolate, rischiano di diventare
opache e incontestabili.
Le
istituzioni democratiche si trovano così di fronte a una doppia sfida:
–
Integrare l’IA nei processi decisionali senza perdere il controllo politico e
democratico.
–
Garantire che gli algoritmi rispettino i principi fondamentali della
democrazia, come la trasparenza, l’equità e la responsabilità.
Il
dilemma è evidente:
come conciliare la rapidità delle macchine con
la lentezza necessaria del dibattito democratico?
La risposta, probabilmente, non sta nel
rifiutare la tecnologia, ma nel costruire meccanismi di accountability
algoritmica.
In questo senso, le recenti iniziative
normative, come il “Digital Services Act” e il “Digital Markets Act “dell’Unione
Europea, rappresentano tentativi di riaffermare la sovranità democratica
nell’ambito digitale.
Il
Capitalismo della sorveglianza: efficienza senza democrazia?
Nel
suo libro “Il
capitalismo della sorveglianza”, Shoshana Zubov descrive un nuovo modello economico basato
sull’estrazione e l’analisi dei dati personali con l’obiettivo di prevedere e
influenzare i comportamenti umani.
Questo
sistema, che poggia su piattaforme digitali come Google, Facebook e Amazon, non
mira semplicemente a soddisfare i bisogni esistenti, ma a plasmarli in funzione
di logiche di profitto.
Come
scrive la Zubov “Il capitalismo della sorveglianza non è il futuro che volevamo, ma il
futuro che ci è stato imposto da coloro che hanno il potere di decidere cosa
conta come futuro.”
Il capitalismo
della sorveglianza rappresenta la forma estrema di un’efficienza disancorata da
qualsiasi vincolo democratico.
L’algoritmo decide cosa vediamo, cosa
compriamo, persino cosa pensiamo di desiderare.
Questo
potere predittivo, apparentemente neutrale, ha un impatto devastante sulla
democrazia:
–
Riduce l’autonomia individuale, trasformando le persone in meri “oggetti” di
calcolo.
–
Concentra il potere nelle mani di poche corporation tecnologiche, al di fuori
di qualsiasi controllo democratico.
–
Alimenta la disinformazione e la polarizzazione, sfruttando la logica della
viralità per massimizzare l’engagement.
“Bobbio”
parlava della necessità di «trasparenza delle decisioni pubbliche» come
fondamento della democrazia.
Oggi,
paradossalmente, la trasparenza si è invertita: i cittadini sono costantemente
sorvegliati, mentre i meccanismi decisionali delle piattaforme restano opachi e
inaccessibili.
Populismo
e disintermediazione: figli dell’efficienza digitale.
Il
populismo contemporaneo si nutre proprio di questo nuovo ecosistema
informativo.
Leader carismatici utilizzano i social media
per eludere le istituzioni tradizionali, stabilendo un rapporto diretto e non
mediato con il “popolo”.
Questa
dinamica, che “Jan-Werner Müller “definisce «disintermediazione populista»,
sfrutta la velocità e l’emotività delle piattaforme digitali per costruire
narrazioni semplificate e polarizzanti.
Gli
algoritmi, ottimizzati per massimizzare l’engagement, favoriscono contenuti che
suscitano emozioni forti, come rabbia, indignazione e paura.
Questo meccanismo crea una spirale di
radicalizzazione che mina la qualità del dibattito pubblico e rafforza la
logica amico/nemico tipica del discorso populista.
Il
paradosso è evidente:
mentre le tecnologie digitali promettono di
ampliare la partecipazione democratica, finiscono per favorire una forma di
“partecipazione tossica”, basata sulla reattività immediata piuttosto che sulla
riflessione critica.
Efficienza
versus democrazia: il caso Italia.
Particolarmente
importanti appaiono queste riflessioni nel confronto politico e sociale che
l’Italia e l’Europa si trovano ad attraversare.
Da
molte parti, non solo politiche, ma anche imprenditoriali, si addebita infatti
proprio alla “lentezza della democrazia” una buona parte dei problemi del
Paese, e si propone (o forse, per meglio dire, si ripropone…) l’idea dell’uomo o della donna soli
al comando.
Analogamente
accade per quanto riguarda il giudizio sul valore di quelle istituzioni
sovranazionali, dall’ONU alla Corte
Penale Internazionale – definite come “figlie di un’altra epoca” – e ormai
dipinte come “continue produttrici di inutili ostacoli” al dispiegarsi di una
politica che appare sempre più tornare a basarsi sulla forza e che vede in ogni
organismo di controllo e finanche in ogni organismo di tutela – da quella
sanitaria a quella umanitaria, per non parlare di quella climatica – un
avversario da ridurre al silenzio.
Magari
affidando tale compito proprio a chi ha costruito la propria fortuna sul mito
populistico della «possibilità di ciascuno di connettersi con il mondo intero,
gratuitamente, nel modo e con lo strumento tecnologico più semplici».
Ma
dove si è più operato per far crescere nell’opinione pubblica, l’idea
dell’inaccettabilità del contrasto tra lentezza della democrazia e necessità
dell’efficienza, appare essere, in questi anni, il tema dell’integrazione
europea.
Non
c’è stata, infatti, solo la Brexit, a fianco ad essa e con gli stessi obiettivi
(quando addirittura non anche con gli stessi slogan), è stata fatta crescere,
in modo scientifico, la convinzione che Bruxelles, la Commissione e l’intera
Unione Europea costituiscano un’inutile soma anziché un patrimonio costruito sulle
tragedie di due guerre mondiali e di una Cortina di ferro che ha tagliato in
due, per decenni, Paesi e città con storia, lingua e tradizioni comuni, ha
diviso parenti da parenti, ha reso nemici i propri vicini di casa ed ha
riportato nel cuore dell’Europa, il fragore delle bombe e il sangue dei
massacri.
L’erosione
del consenso intorno all’idea di un’Europa forte perché unita e la rinascita
dell’idea che “ci si possa salvare da soli” è figlia dello stesso contrasto che
in questo articolo stiamo esaminando e si nutre delle stesse modalità per
crescere e rafforzarsi:
mascheramento
delle vere cause delle crisi – da quella climatica a quella migratoria,
riproposizione, via via più edulcorata se non addirittura giustificatoria, di
un orribile passato fatto di bandiere nere e saluti romani, fino alla crescita
di un moderno “populismo di Stato”.
Allora,
discutere come questo articolo cerca di fare, vuole contribuire a mantenere
ferma l’idea che la democrazia non sia un ostacolo all’efficienza, ma un modo
per rendere le decisioni più robuste, giuste e legittime.
La
sfida è trasformare la lentezza democratica in una risorsa, non in un difetto,
e costruire istituzioni capaci di affrontare la complessità senza rinunciare ai
principi di partecipazione, trasparenza e giustizia sociale.
Nell’Italia
contemporanea, tra coloro che più hanno riflettuto su questi argomenti, vanno
citati, da un lato “Massimo Cacciari”, dall’altro il gruppo di intellettuali
raccoltosi nell’”Associazione Libertà e Giustizia”, tra i quali “Tomaso
Montanari”, “Sandra Bonsanti”, “Nadia Urbinati e “Gustavo Zagrebelsky”.
L’Associazione
Libertà e Giustizia, in particolare, è stata fondata appunto con l’obiettivo di
difendere i principi costituzionali e promuovere la cultura della legalità.
Le riflessioni ed i documenti prodotti
dall’Associazione offrono un contributo prezioso al dibattito sulla tensione
tra democrazia ed efficienza, non limitandosi a una visione critica ma
proponendo anche visioni costruttive per rafforzare e garantire il futuro della
democrazia.
Le
campagne e i manifesti promossi dall’Associazione si sono spesso concentrati
sulla difesa della Costituzione, sulla trasparenza delle istituzioni e sulla
necessità di una cittadinanza attiva e consapevole, argine alla possibilità che
la democrazia venga svuotata della sua linfa vitale.
Proprio
la “cittadinanza attiva”, oltre che esercitare una funzione di permanente
controllo sull’operato dei governanti, può infatti trasferire alle Istituzioni
– anche attraverso strumenti quali le
proposte di referendum propositivo e le leggi di iniziativa popolare – quelle
istanze che finirebbero invariabilmente
per essere ignorate da un sistema che vede pochi, ma potentissimi gruppi finanziari e tecnologici che, grazie alla proprietà di grandi network
mediatici e attraverso l’uso pervasivo dei social, impongono la propria visione
del mondo e “delle sue esigenze” all’opinione pubblica.
Montanari, in particolare, sottolinea
l’importanza della cultura e della memoria storica come strumenti di resistenza
alla riduzione della politica a gestione tecnica. Per lui, l’educazione civica,
la difesa del patrimonio culturale e la partecipazione dal basso sono
fondamentali per mantenere viva la democrazia.
La sua visione costruttiva si concentra sulla
necessità di rafforzare la cittadinanza attiva, promuovendo spazi di
discussione e deliberazione pubblica come antidoto alla logica dell’efficienza
cieca.
Attraverso
l’”Associazione Libertà e Giustizia”, Montanari ha sostenuto iniziative contro la
deriva autoritaria e per la tutela dei beni comuni, ribadendo il ruolo centrale
della cultura nella formazione del pensiero critico.
Bonsanti ha promosso battaglie per la libertà
di stampa e la trasparenza, mentre Urbinati ha approfondito il tema del populismo come rischio
per la democrazia rappresentativa, ponendo l’accento sulla necessità di un
rinnovato impegno civico.
Il
grande costituzionalista Zagrebelsky, infine, insiste sull’idea di “diritto mite”, ovvero un
diritto che non si impone con la forza, ma che persuade attraverso la ragione e
la giustizia.
La
democrazia efficiente – ci ha più volte ricordato – non è quella che decide più
in fretta, ma quella che garantisce decisioni giuste e condivise, rispettando
la pluralità delle opinioni e dei valori.
Propone
quindi un modello di democrazia “lenta”, che valorizza il processo deliberativo
come momento di crescita collettiva.
Con Libertà e Giustizia, Zagrebelsky ha partecipato a manifesti e campagne
per la difesa della Costituzione e contro le riforme che rischiano di
indebolire la separazione dei poteri.
Da
ultimo mi piace ricordare il contributo di analisi, ma soprattutto di stimolo
alla più larga opinione pubblica, rappresentato dagli articoli di Ezio Mauro, l’ex Direttore del quotidiano la
Repubblica.
Proprio
sui rischi del populismo, che in Italia si nutrono di una tradizione
particolarmente pericolosa, e sul “tradimento delle élites”, di quella struttura sempre
incombente ma sovente irresponsabile.
«Un
vero establishment avrebbe la coscienza di ciò che si perde in questa
trasformazione, e diventerebbe classe generale nel senso moderno del termine
proprio tutelando quei valori e quelle regole nelle quali ha costruito il suo
successo, e il Paese ha prosperato:
dimostrando di custodire in sé il seme della
democrazia come bene comune.
Ma in
realtà la classe dirigente è condizionata perché avverte la propria
delegittimazione costante a opera del” populismo antipolitico” che fa
precipitare tutti i membri dell’élite dentro un atto d’accusa generale non per
come hanno esercitato il potere, ma per averlo fatto». […].
«La
scommessa è rompere il nesso tra Stato e democrazia, fonte della civiltà
occidentale per tutti gli ottant’anni del dopoguerra.
Quindi
sterilizzare il concetto di democrazia liberandola dai vincoli con le procedure
liberal-democratiche, dalle eredità storiche come l’antifascismo,
dall’equilibrio e dalla separazione dei poteri […]
Ora, com’è possibile che questa prospettiva non generi
un rifiuto, una ribellione o almeno un’obiezione universale?
Con la fine dell’opinione pubblica,
spezzettata in tante opinioni private spese a vuoto sui social dove non fanno
“causa”, noi consumiamo il progetto trumpiano di democrazia autoritaria in
singoli episodi che riducono in pillole il disegno reazionario, impediscono di
leggerne la portata, e anzi sfilando a turno sullo schermo spettacolarizzano
l’eversione, trasformando ogni frase e qualsiasi gesto in un numero isolato da
circo, mentre invece sono la realtà».
Mi
sembra che all’analisi ci sia poco da aggiungere, ma allora tutto è perduto?
«Se
l’algoritmo sa già cosa voteremo, che senso ha ancora la democrazia?».
La
risposta è semplice: la democrazia ha senso perché ci ricorda che non siamo
dati da prevedere, ma cittadini da ascoltare.
Conclusioni:
difendere
la democrazia senza rallentare il progresso.
In un
mondo dove la tecnologia promette efficienza assoluta, la democrazia può
sembrare obsoleta.
Ma è
proprio in questa apparente debolezza che risiede la sua forza.
La democrazia non è il sistema più veloce né il più
semplice, ma è l’unico che garantisce la libertà e la dignità di ogni individuo.
Di
fronte a queste sfide, la domanda cruciale è:
come
difendere la democrazia senza sacrificare i benefici dell’innovazione
tecnologica?
La
risposta richiede un ripensamento profondo del rapporto tra tecnologia e
politica:
–
Riconoscere il valore della lentezza democratica:
La democrazia non deve competere con la
velocità degli algoritmi, ma riaffermare l’importanza della deliberazione e del
confronto.
–
Regolare il potere delle piattaforme:
Le
democrazie devono dotarsi di strumenti normativi efficaci per garantire la
trasparenza degli algoritmi e la protezione dei diritti fondamentali.
–
Promuovere una cittadinanza digitale consapevole:
L’educazione civica deve includere la
comprensione dei meccanismi digitali che influenzano le opinioni e le scelte
politiche.
Naturale,
allora, sembra essere concludere l’articolo con un richiamo al “Manifesto di
Ventotene”:
«la
lotta per la democrazia oggi non è contro regimi autoritari visibili, ma contro
forme più sottili di controllo e manipolazione.
La democrazia non è solo un sistema di regole,
ma un’idea di libertà che va difesa e rinnovata continuamente».
(Mauro
Sorrecchia).
Democrazia,
democratura
e
nonviolenza.
Istitutoeuroarabo.it – (1° gennaio 2024) -
Comitato di Redazione - Andrea Cozzo -ci dice:
«Molte
delle cose che sembrano democratiche mandano in rovina le democrazie, (…)
poiché ignorano che, come c’è un naso che, benché sia deviato (rispetto alla linea
diritta, che è la più bella) verso una forma aquilina o schiacciata, tuttavia è
ancora bello e gradevole alla vista,
però, nel caso che uno lo tenda ancora di più verso l’eccesso, dapprima perderà
la proporzione della parte e alla fine non sembrerà più nemmeno un naso, (…)
allo stesso modo stanno le cose per le diverse forme costituzionali» (Aristotele, Politica 1309b 20
sgg.).
Democrazia
o Democratura?
Le
dittature sono regimi politici inaccettabili. Nessuno di noi ha dubbi su
questo. Forse, però, è il caso di averli sulla qualità da attribuire alle forme
politiche ‘nostre’, del cosiddetto mondo libero, che chiamiamo democrazie.
Nel 1940, Gandhi definiva la democrazia
occidentale «una forma diluita di nazismo o di fascismo», e aggiungeva,
pensando in particolare al modo in cui l’Inghilterra si era impadronita
dell’India, che «al più è un paravento per mascherare le tendenze naziste e
fasciste dell’imperialismo» (Gandhi 1996; 140-141).
E già
nel 1938 il Mahatma aveva scritto:
«Gli Stati che oggi sono formalmente
democratici, o sono destinati a divenire apertamente totalitari, oppure, se
vogliono divenire veramente democratici, devono avere il coraggio di divenire
nonviolenti» (Gandhi 1996: 270-271).
Certamente
dal 1938 ad oggi la teoria e la pratica della non violenza si sono diffuse e
lotte portate avanti con paziente determinazione, con la non collaborazione e
la disobbedienza civile – una per tutte, che è sotto gli occhi di chiunque e
che forse non siamo abituati a mettere dentro il contenitore «nonviolenza» ma
che di fatto vi rientra a pieno titolo, quella delle donne contro la violenza
del patriarcato – hanno prodotto risultati straordinari.
Al
contempo, non è certo possibile dire che le democrazie siano divenute
nonviolente, e anzi esse hanno seguito esattamente la traiettoria alternativa
che il “Mahatma£ aveva previsto.
“Lombardi
Vallauri” (1989: 26) ha scritto che la ‘normale’ quotidianità della cultura
moderna, «contiene, in atto o in potenza, delle componenti criminogene, o in
ogni caso crimine-compatibili, intrinseche, strutturali, non accidentali, su
una scala molto grande».
Bisogna dire di più: essa contiene, in potenza
o in atto, componenti intrinseche, strutturali, non accidentali, di violenza e
generatrici di violenza – o, come diceva Gandhi, di totalitarismo.
La
questione esula dagli specifici colori politici dei vari Governi.
Parole e atti appartenenti all’ambito della
Destra, che dell’autoritarismo in politica interna e dell’idea che la violenza
sia legittima nella risoluzione dei conflitti internazionali non ha mai fatto
mistero, sono diventati da un pezzo, in barba a qualsiasi Costituzione (da noi
l’art. 11 che sancisce il ripudio della guerra «come strumento di offesa alla
libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie
internazionali»), lessico (cioè mentalità) e pratica diffusa trasversalmente nell’arco
parlamentare e negli strati sociali di qualsiasi orientamento politico.
Per
questo motivo l’attuale Parlamento (mi riferisco in particolare all’Italia, ma
la considerazione si può estendere a tutto l’Occidente) andrebbe considerato,
direi, come costituito da una Destra-destra, una Destra-centro e un
Centro-destra.
Tutte
le parti ormai da tempo danno per scontata la liceità del ricorso alla forza
militare nei rapporti internazionali.
E non è questione di attacco o di difesa, di
invasione o di liberazione, perché le “cose” vengono fatte dalle parole:
per
esempio, i Russi, entrando con le armi in Ucraina, l’hanno invasa e attaccata,
ma la ‘nostra’ Nato, entrando con le armi in Iraq e in Afghanistan, ci ha
difeso – per non parlare del fatto che praticamente non c’è stato nessuno dei
nostri politici e dei nostri giornalisti che non abbia serenamente preteso che
la violenza russa in Ucraina aveva portato la guerra in Europa dopo settanta
anni che il nostro continente ne era stato lontano obliterando del tutto con la
più grande spudoratezza la guerra nell’ex-Jugoslavia, con i bombardamenti della
Nato, nel 1999, e che non abbia sostenuto l’invio delle armi all’Ucraina.
D’altronde, il rapporto non solo tra
democrazia e belligeranza ma anche tra democrazia e bellicismo è ampiamente
attestato:
dal fatto di garantire formalmente libere
elezioni, di rispettare i diritti umani, di avere la pace interna «deriva anche
l’autocompiacimento delle democrazie, il sentimento di appartenere a un
“Commonwealth di democrazie” col diritto, e il dovere, di belligeranza»
(Galtung 2000: 106).
Si
ricordi la nozione di guerra umanitaria; anzi, poiché ‘i buoni’ non fanno mai
guerre, di intervento umanitario.
Credo
pertanto che non sbaglieremmo affatto a considerare i nostri regimi politici
occidentali come «democrature», parola con cui si indica una varietà di regimi
politici che, formalmente democrazie, presentano nella sostanza più o meno
forti caratteristiche di dittatura (con un correlato consistente tasso di
corruzione).
Innanzitutto,
con quelle che, situate ovviamente fuori dall’Occidente in senso stretto, si è
soliti denominare in tale modo – come il regime di Putin o quello di Erdogan,
con cui rispettivamente abbiamo fatto affari fino a prima del 24 febbraio 2022
o stiamo continuando a farli – abbiamo in comune il concetto di pace intesa
come assenza di guerra e salvaguardia della libertà rispetto ad un Paese
straniero.
Alla
luce di tale nozione di pace appiattita sull’idea che la guerra sia
semplicemente una violenza diretta, fisica, che mira a soggiogare uno Stato con
la forza delle armi, basta che ciò non avvenga e ci si considera in un regime
di pace.
In
questo caso, non importa occuparsi preventivamente della costruzione di
rapporti pacifici duraturi, si chiude tranquillamente un occhio sui conflitti
armati che restino limitati e non ci ‘disturbino’ (come quelli tra Russia e
Ucraina esistenti già dal 2014, e tra Israele e Palestina dal 1948 ad oggi), e
si ignorano del tutto i conflitti latenti per la soluzione dei quali invece
bisognerebbe adoperarsi da subito senza attendere che deflagrino apertamente
quando risulta più difficile (più difficile ma non impossibile) intervenire
senza fare ricorso alle armi.
Dal
punto di vista non violento, invece, la pace è concepita dinamicamente e
consiste nella risoluzione dei conflitti non distruttiva lavorando appunto
anche sui conflitti latenti in modo da evitare che poi giungano allo stadio di
violenza esplicita o di rischio di allargamento
Di più, la pace nonviolenta non si limita a
considerare i rapporti interstatali ma guarda anche ai rapporti intra statali
(perché vi sia giustizia), ai rapporti tra le persone e tra le persone e la
natura (perché siano quanto più possibili armonici ed ecologici), e a quelli
intrapersonali (perché vi sia benessere psico-fisico individuale):
per questo, lavora anche per l’eliminazione
della violenza strutturale e culturale (nell’ambito dell’economia, della
religione, della scienza, del linguaggio, dell’educazione, dell’istruzione…).
«Se
vuoi la pace, prepara la pace in ogni campo» è la sua regola.
Democratura
e (apparenza di) libertà.
Certamente,
sul fronte interno il nostro regime politico ci appare diverso da quello
dell’attuale “nemico” Putin (che è capo di una Repubblica semipresidenziale) e
da quello dell’attuale “amico” Erdogan (anch’egli a capo di una Repubblica
presidenziale) che non esitano troppo a reprimere il dissenso popolare con la
forza poliziesca.
In realtà, di tale esibizione di forza la
nostra democratura, che come quella della Repubblica presidenziale
statunitense, è fondata sulla connessione e sulla comunicazione, semplicemente
non ha bisogno.
Tale
suo carattere infocratico (o mediacratico)
«rende
obsolete tecniche disciplinari come l’isolamento spaziale, la rigida
regolamentazione del lavoro o l’addestramento fisico.
La
docilità (docilité), che significa anche arrendevolezza e remissività, non è
l’ideale del regime dell’informazione. Il soggetto sottomesso nel regime
dell’informazione non è docile né ubbidiente.
Piuttosto
si crede libero, autentico e creativo: produce e performa sé stesso» (Han 2023:
3-4).
La
nostra democratura si basa sulla parola d’ordine «libertà» non solo nei
rapporti internazionali ma anche in quelli interni ai singoli Stati.
È dunque sufficiente che ognuno si creda
libero perché tutto funzioni senza troppi intoppi.
La libertà è innanzitutto libertà di
espressione, tendenzialmente assicurata in quanto nei confronti dell’opinione
pubblica eventualmente dissidente le nostre democrature tendono ad adottare la
tecnica del «muro di gomma» (cioè semplicemente a ignorarne le proteste), e,
più o meno, a lasciarle il ruolo decisionale al momento del voto.
A tutti i livelli, il mondo dei partiti – la Partitica – ha coltivato il solo valore della
libertà.
La
pressoché esclusiva dedizione a questo non è stata casuale, dato che esso è
appannaggio del “liberalismo politico e del liberismo economico”, insomma del”
laissez fair” in generale.
Effettivamente,
mentre è dato ampio spazio alla «libertà», sono trascurati totalmente o
relegati in posizione del tutto marginale gli altri due valori del trittico che
aveva dato vita alla democrazia moderna, cioè uguaglianza e fraternità.
Quest’ultima
poteva essere declinata almeno nei termini della solidarietà – di una politica
della solidarietà – ma è stata abbandonata alla libera volontà della beneficenza.
Provo
a spiegare come mi sembra che il dominio unico del valore della libertà ci
abbia condotto sulla strada della democratura sia sul piano economico e
istituzionale (violenza strutturale) sia su quello simbolico (violenza
culturale).
Come
sapeva già Platone, da sé sola, la libertà diventa presto oppressiva e
selvaggia: «i cittadini sono liberi, la città è piena di libertà e di diritto
di dire qualsiasi cosa, e c’è licenza di fare ciò che si vuole? (…) Ma è
evidente che, dove c’è licenza, ciascuno potrà organizzare la propria vita come
gli piace» (Repubblica 557b)
«Organizzare (si intende, interamente) la
propria vita come piace», sia chiaro, non è un valore, perché significa mirare
al proprio piacere, indipendentemente dal rispetto e dalla solidarietà.
Per Platone, che non conosce i social odierni,
si tratta di un atteggiamento che si ritrova, causato dal vino,
nell’ubriachezza, quando ognuno si mette a «parlare e ad agire in qualsiasi
modo senza alcun indugio» (Leggi 649b).
Si
tratta, in sostanza, di una libertà sfrenata e anarchica, priva di regole, al
di fuori di un ordinamento, cioè di quello che i Greci, mettendo insieme valore
politico, valore etico e valore estetico, chiamavano (kósmos).
Tale
regime di libertà ‘secondo proprio piacere’, trova la sua espressione
nell’edonismo, nell’estetismo, nell’individualismo, nell’insensibilità verso le
differenze: «la democrazia (…) avrà dunque queste e altri analoghi caratteri, e a
quanto pare sarà una forma di governo piacevole, anarchica e variopinta, che
distribuisce una certa uguaglianza a ciò che è uguale e a ciò che non è uguale» (Platone, Repubblica 558c).
È questa una libertà che non conosce vincoli
di relazione:
essa è
quel valore democratico che, tirato all’eccesso e non accompagnato da altri
principi, come diceva Aristotele nell’esergo all’inizio di queste pagine, manda
in rovina le democrazie.
Sulla
base di queste considerazioni, torniamo a noi.
L’Italia,
che non brilla per libertà di stampa essendo al 41° posto, dopo il Montenegro e
l’Argentina, nell’Index 2023 di Reporter Senza Frontiere sulla libertà di
stampa in 180 Paesi del mondo (rsf.org/en/index), sembra brillare in compenso
per ‘libertinaggio’
di stampa, fondato sulla ‘libertà’ di espressione di odio e di vittimismo.
Tra le
«libertà» recentemente sdoganate anche in un libro delirante dell’ormai noto
generale Vannacci, c’è appunto anche «il diritto all’odio».
La
connessione social, che ha preso il sopravvento su quella sociale, è un’opzione
individuale e in ogni caso una relazione astratta, fatta di individui virtuali
di cui possiamo benissimo ignorare tutto, sia prima sia dopo avere dato loro
l’amicizia. Più in generale, la libertà si definisce egocentricamente e trova
il suo limite, solo teorico e mal tollerato, nell’osservanza delle leggi.
Tuttavia,
per l’oligarchia politica e/o finanziaria (aggettivi che sempre più tendono a
coincidere), che può redigersi leggi ad personam, o ‘ad partitum’ o pagarsi una
pletora di avvocati o corrompere, il limite è, appunto, soltanto teorico.
Dell’immenso
potere della ricchezza, poi, è prova eclatante, per fare un solo esempio,
l’incontro alla pari, nella sede istituzionale di Palazzo Chigi, tra
l’imprenditore multimiliardario Elon Musk (il cui patrimonio è valutato 251
miliardi di dollari) e la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni il 15 giugno
2023.
Inoltre,
il 27 novembre 2023 Elon Musk si è recato in Israele, dove ha visitato con
Benjamin Netanyahu il kibbutz di Kfar Azza attaccato da Hamas il 7 ottobre, e
il 29 novembre è stato invitato da Osama Hamdan, leader di quest’ultima, a
visitare la striscia di Gaza.
Il
fatto che i plutocrati detengano risorse finanziarie, mezzi di informazione o
addirittura, come appunto Musk non a caso ‘tirato per la giacca’ da tutti,
satelliti attraverso cui è possibile gestire la connessione Internet in tutto
il pianeta, rivela il loro straordinario potere sia di far credere alla gente
ciò che vogliono o anche solo di gettarla nella confusione più totale con
notizie di tutti i tipi, sia di influire direttamente sulle sorti delle
relazioni internazionali.
Democratura
e presidenzialismo.
La
riforma costituzionale in senso presidenzialista che si profila all’orizzonte
in Italia va nella direzione della piena legittimazione costituzionale della
democratura, e non a caso, come ho ricordato sopra, anche in Russia e in
Turchia sono in vigore forme di Governo analoghe.
Il
presidenzialismo è la parodia della democrazia, il culmine della democrazia
ridotta a pura vuotezza formale del voto degli individui, la forma
costituzionale adeguata al dominio assoluto degli imprenditori plutocrati,
meglio se già parte del mondo dello spettacolo
– e, da questo punto di vista come anche da molti altri (l’idea che la
Politica sia Amministrazione tecnico-economica, che la Sanità e l’Istruzione
siano privatizzabili etc.), gli Usa sono pienamente esemplari.
Il
presidenzialismo è l’ovvia prosecuzione del sistema elettorale maggioritario
che indirizzava verso il bipolarismo di cui, appunto, i vari tipi di
presidenzialismo sono espressione.
Il
motivo introdotto per il passaggio al presidenzialismo è, come era per il
passaggio al sistema elettorale maggioritario, la stabilità dei Governi non più
basati sulle alleanze tra Partiti bensì scelti tra due unici fronti
precostituiti, che naturalmente vanno a tendere verso il Centro fino al punto
da fare risultare pressoché nulle le differenze tra loro.
Motivo
paradossale per una democrazia, che dovrebbe favorire il pluralismo e volere che la tenuta
di un Governo derivi non da ingegnerie costituzionali volte a permetterla
tecnicamente a prescindere dal coinvolgimento nel voto dalla totalità dei
cittadini e dall’astensionismo di massa ma da modalità politiche che inneschino
almeno nella maggioranza del popolo la partecipazione politica in generale e al
voto in particolare.
Motivo
paradossale in una democrazia ma non in una democratura, in cui ciò che conta è la libertà
formale del voto, indipendentemente dal fatto che questo sia realmente
rappresentativo della volontà popolare.
È sufficiente che anche pochi vadano a votare:
l’eterodirezione
del voto attraverso la manipolazione attuata con le stesse precise tecniche
dello spettacolo e del mercato pubblicitario farà il resto.
La “democratura
infocratica”, infatti, non è solo un regime politico.
È anche, e innanzitutto, un regime culturale
fondato appunto sullo spettacolo: figura rilevante è quella dello “spin doctor”,
l’esperto di comunicazione consigliere e curatore, attraverso metodi di
marketing, dell’immagine pubblica – dall’aspetto fisico all’abito ai discorsi –
dell’uomo politico, sempre più coincidente con uno “showman”.
Fa parte del sistema, dunque, non solo la
disponibilità finanziaria di chi ne sarà il capo ma anche la complicità,
consapevole o meno, dei giornalisti e degli intellettuali.
Così,
il premierato, una variante della concentrazione del potere rivendicata dal
presidenzialismo, benché possa essere avversato da qualcuno per questioni
abbastanza di dettaglio, è stato fatto ‘digerire’ già da anni all’opinione
pubblica parlando disinvoltamente di ogni Presidente del Consiglio come del
«Premier» – carica fino ad oggi inesistente nel nostro Paese!
Tutti
i media, dai Tg di qualsiasi rete televisiva ai giornalisti di qualsiasi
orientamento, hanno ammannito – e continuano ad ammannire – quotidianamente
questa vera e propria menzogna abituando ad essa l’orecchio dell’opinione
pubblica.
Quindi, non stupisce affatto che si è arrivati
alla proposta governativa attuale: tanto tuonò che piovve.
Altre
parole-chiave: Nazione, Patria.
Di
recente, sull’onda del vocabolario della nostra Presidente del Consiglio, si è
affermata anche nei nostri Tg la parola «Nazione».
La
Nazione è il luogo concettuale in cui è riposto il valore cieco della Fedeltà,
o della Lealtà al proprio Paese – «che abbia torto o ragione» – che postula «la
materia del sangue e del suolo, ma più ancora (dopo tutto viviamo in tempi
consapevoli della propria contingenza) la materia della storia condivisa»
(Bauman 2003, cap. 3, par. Tribù, nazione e repubblica).
O meglio: che postula la materia di una certa
narrazione – quella volta a creare un ben preciso senso di identità – di storia
condivisa.
Il
nazionalismo, ‘cappello’ politico del liberalismo individualistico e
‘atomizzante’, fornisce il collante spirituale minimo tra gli individui nella
propaganda del Patriottismo.
In
quest’ultimo si coagula appunto quell’ideale ottuso di Fedeltà al proprio
Paese, «che abbia torto o ragione».
Come
ciò possa anche giustificare la guerra di difesa, da anni peraltro affidata
all’esercito professionale che ha messo in soffitta il «sacro dovere» di
difendere la Patria (art. 52 della Costituzione Italiana) dopo il
riconoscimento che tale dovere poteva essere assolto non solo mediante il
servizio di leva ma anche tramite il servizio civile ad esso alternativo, mi
pare evidente.
La
violenza bellica, infatti, è legittimata proprio per la difesa della Patria (e
ho già ricordato, più sopra, come la nostra democratura abbia provveduto a
chiamare con tale espressione anche i suoi attacchi ad altri Paesi).
Ma,
per l’arroganza della democratura, il Patriottismo è stato tirato in ballo, per
esempio in occasione del 25 aprile scorso, anche per legittimare il contributo
dato dall’Italia alla difesa armata della Patria altrui!
L’invio di armi in Ucraina, a dispetto e a
oltraggio dell’art. 11 della Costituzione, sancisce di fatto la scelta della
guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti internazionali.
Il
Patriottismo è un tutt’uno con il senso di appartenenza e di identità – altre parole
che risuonano oggi sempre più spesso sulla bocca di chi è al Governo.
La nozione di identità serve ad includere qualcuno per
escludere qualcun altro e si delinea in realtà come di volta in volta si
desidera a seconda chi si vuole mettere nel «Noi».
Così, ci identifichiamo ora come Occidente, ora come
Europa (una appartenenza spirituale
sostanzialmente mai percepita prima del trattato di Maastricht), ora come Italia, ora come la tale Regione o la tale
Città o il tale Quartiere o la tale Famiglia, ora come Io o la mia Razionalità,
la mia Emotività, la mia Pancia…
Politicamente,
il patriottismo e l’identità sotterrano, inoltre, ogni diritto, fatto apparire
come un tradimento, alla disobbedienza civile e alla scelta di valori
sovraordinati rispetto a quelli detti.
Ma,
poi, nella realtà, l’identità esiste?
Non mi
pare. Esiste, piuttosto, la (in)cultura identitaria, il cui funzionamento è
stato ben descritto, nel 1936, dall’antropologo “Ralph Linton” (1973: 359-360),
in questo modo:
«Il
cittadino americano medio si sveglia in un letto costruito secondo un modello
che ebbe origine nel vicino Oriente ma che venne poi modificato nel Nord Europa
prima di essere importato in America.
Egli
scosta le lenzuola e le coperte che possono essere di cotone, pianta originaria
del vicino Oriente; o di lana di pecora, animale originariamente addomesticato
nel vicino Oriente; o di seta, il cui uso fu scoperto in Cina.
Tutti
questi materiali sono stati filati e tessuti secondo procedimenti inventati nel
vicino Oriente.
Si
infila i mocassini, inventati dagli indiani delle contrade boscose dell’Est, e
va nel bagno, i cui accessori sono un misto di invenzioni europee ed americane,
entrambe di data recente.
Si
leva il pigiama, indumento inventato in India, e si lava con il sapone,
inventato dalle antiche popolazioni galliche.
Poi si
fa la barba, rito masochistico che sembra sia derivato da sumeri o dagli
antichi egiziani (…).
Andando
a fare colazione si ferma a comprare il giornale, pagando con delle monete che
sono un’antica invenzione della Lidia.
Al
ristorante viene a contatto con tutta una serie di elementi presi da altre
culture: il suo piatto è fatto di un tipo di terraglia inventato in Cina;
il suo
coltello è d’acciaio, lega fatta per la prima volta nell’India del Sud, la sua
forchetta ha origini medievali italiane, il cucchiaio è un derivato
dell’originale romano (…).
Quando
il nostro amico ha finito di mangiare si appoggia alla spalliera della sedia e
fuma, secondo un’abitudine degli indiani d’America (…).
Mentre
fuma legge le notizie del giorno, stampate in un carattere inventato dagli
antichi semiti, su di un materiale inventato in Cina e secondo un procedimento
inventato in Germania.
Mentre
legge i resoconti dei problemi che s’agitano all’estero, se è un buon
conservatore, con un linguaggio indo-europeo, ringrazierà una divinità ebraica
di averlo fatto al cento per cento americano».
Potrebbe
anche essere sufficiente, forse, ricordarsi che il capo d’abbigliamento più
rappresentativo dell’odierno mondo occidentale, indossato da uomini e donne,
cioè i pantaloni, provengono dall’antica Persia, … dunque dall’Oriente.
La
contemporaneità guardata dagli antichi.
O cosa farsene della comparazione col passato.
Infine,
le nostre idee apologetiche della sola libertà, non troppo diversamente che ai
tempi di Platone, spazzano via non solo le anti egalitarie gerarchie
tradizionali (che vogliono la superiorità degli anziani rispetto ai giovani,
dei nobili rispetto ai plebei, dei genitori rispetto ai figli, dei maschi
rispetto alle femmine etc.) ma anche ogni rapporto che non sia quello giuridico
o economico-giuridico.
Potremmo
dire, con le parole dello stesso Platone, che esse «mandano via
disonorevolmente, in esilio, il riguardo (aidós) dandogli il nome di
dabbenaggine, scacciano la moderazione chiamandola viltà e infangandola, e
persuadendo che la misura e le spese ordinate sono rozzezza e meschinità (…):
chiamano
buona educazione la tracotanza, libertà l’anarchia, magnificenza la
dissolutezza, coraggio l’impudenza» (Repubblica 560d-e).
Una
società del genere era, secondo il filosofo, una teatrocrazia (Leggi 701a): a
legare il popolo al suo interno, qui, sono lo spettacolo e il divertimento
consumistico.
In un
altro passo, Platone attribuisce a” Protagora” il pensiero secondo cui uno
Stato non sussiste in presenza di un certo livello di divisione del lavoro e di
rapporti di scambio ma solo quando si danno, oltre a questa complementarità
economica tra gli individui, anche la giustizia e, appunto, l’aidós, il
riguardo, o addirittura la philía, l’amicizia.
Non erano idee soltanto di Protagora e di Platone. Per
gli antichi Greci in generale questa è praticamente un’ovvietà.
Aristotele
scrive che uno Stato (polis, dice egli in realtà) che si preoccupi della
giustizia, cioè dell’astensione dal danneggiare gli altri, ma non della virtù –
possiamo dire più chiaramente: della relazione costruttiva di fiducia e di
solidarietà – non garantisce un legame comunitario tra i cittadini ma
semplicemente una loro «alleanza» sul piano giuridico o un loro «contratto» sul
piano economico:
esso finisce per garantire, insomma, solo un
vincolo ‘tecnico’ tra i cittadini.
In base a tale vincolo, l’unica cosa
importante è «che essi non commettano alcuna ingiustizia l’uno contro l’altro»;
ma lo
Stato ha uno scopo molto diverso:
«è
chiaro che lo Stato che merita veramente questo nome e non è tale solo a parole
deve avere a cuore la virtù»;
difatti,
«quanti si curano del buon governo prendono in considerazione la virtù e la
cattiveria presenti nello Stato» (Politica 1280a 34-b 8);
e
ancora: «i legislatori rendono buoni i cittadini attraverso l’abitudine: questa
è l’intenzione propria di ogni legislatore» (Etica Nicomachea 1103b 3-5).
Anche
Isocrate criticava la democrazia dei suoi tempi perché lascia che ognuno, dopo
il periodo dell’educazione, «faccia ciò che vuole», ed esalta invece quella dei
tempi antichi che si curava che i cittadini, anche da adulti, perseguissero la
moderazione;
infatti, bisogna avere il senso di giustizia
nell’animo, perché «non con i decreti si amministrano bene le città ma con i
costumi» (Areopagitico 37 e 41).
Oltre
alla virtù ‘negativa’ della giustizia, che è un non fare qualche danno ad
altri, c’è bisogno di una virtù ‘positiva’, cioè che un fare il bene agli altri.
Dunque,
non tutto ciò che il codice penale non punisce è anche raccomandabile fare.
In
Senofonte (Memorabili 4, 4, 19-20), Socrate richiama, ad esempio di ciò, il fatto che la
legge non prescrive che i figli onorino i genitori ma, lo stesso, è legge non
scritta, da rispettare, che si faccia così.
La libertà e la giustizia non garantiscono la coesione
sociale: entrambe sono soltanto manifestazioni dell’individualismo che pone nel
diritto il suo unico limite, la sua unica regolamentazione.
Ora,
tutto ciò non descrive esattamente quanto avviene, anche a livello popolare,
nella nostra società, in cui «lo spettacolo si presenta nello stesso tempo come
la società stessa, come parte della società, e come strumento di unificazione»
(Debord 2002, tesi 3)?
Le
urla sguaiate e volgari di uno Sgarbi che ha fatto dell’insulto la sua cifra
espressiva e che ancora viene invitato nei talk show, trasmissioni-spazzatura
come Il grande fratello o L’isola dei famosi, giornali pieni di odio, come
Libero o Il Giornale (parere mio), pubblicità maschiliste (ci ricordiamo, per
esempio, di “Fatti il capo” di un noto amaro?
O
della ancora più ignobile scena di un uomo sopra una donna supina con accanto a
lui altri tre uomini di una casa stilistica?
O di quel marchio di una collezione di abiti
in cui due poliziotti abusano del loro potere su due donne?),
il Governo delle Olgettine, la monetizzazione di
qualsiasi cosa e il diritto di accumulare ricchezza senza limiti (e senza che
passi per la testa a nessuno l’opportunità di leggi che ne fissino una soglia
massima), la mercificazione dello sport, la normalità dello spot pubblicitario
che interrompe un film o una trasmissione televisiva, la logica dello
spettacolo ovunque e sempre (basti ricordare la ‘maratona’ tv su funerali di
regine e pregiudicati – per i quali si propongono perfino intitolazioni di
strade – che, se si fosse trattato di Kim Jong-un, sarebbe stata considerata
prova di culto della personalità), la competizione nell’economia, nella scuola,
nell’università, nei comportamenti quotidiani: tutto assomiglia
all’individualismo, alla spudoratezza e alla teatrocrazia oggetto della critica
di Platone.
L’idea
del solo valore della libertà coincidente con “il diritto di fare tutto ciò che
non è espressamente vietato “– dalla libertà di offesa verso chi dissente dalle
nostre idee a quella di dire ciò che si pensa su qualsiasi tema indipendente
dal livello di informazione posseduta, da quella di non cedere il posto
all’anziano sui mezzi pubblici a quella di inveire contro chi si vuole, da
quella di tirare dritto davanti al clochard steso sul marciapiede non si sa se
vivo o morto o davanti a una rissa e così via – fa venir meno il riguardo, e
con esso qualsiasi legame comunitario ‘non tecnico’.
Di
più, la cultura della sola libertà ha garantito lo scioglimento della relazione
dell’individuo non solo con la società (e con la natura) ma anche con sé stesso.
Come è
avvenuta la frammentazione dei film in televisione attraverso l’inserzione di
pubblicità, è avvenuta anche quella dell’individuo stesso.
La
velocizzazione dei tempi della vita – la società «sincrona», come è stata detta
, che troviamo rappresentata, per esempio, nella pratica quotidiana, dal “fast
food alla fast science” – ha operato la separazione del presente dal passato e
l’appiattimento sul primo, in un eterno presentismo.
L’alienazione
è alienazione non più ‘solo’ dal lavoro e dalla società ma anche da se stessi
nel senso più stretto del termine, nel senso della schizofrenia, della malattia
mentale, della depressione, del burnout e, più banalmente,
dell’inconsapevolezza totale di ciò che si sta facendo e dicendo –
compulsivamente venendo agiti invece di agire, venendo parlati invece di
parlare.
L’individuo
perde il rapporto con la sua stessa continuità di vita e con il suo stesso
corpo.
La
vita diventa una vita nell’istante vissuto senza legame col passato e con un
progetto di futuro, consumisticamente:
il
presentismo diventa la cifra dominante tanto per l’individuo quanto per la
cultura generale che eleva a valore supremo l’efficienza, la tecnologia, la
rimozione della Storia e della possibilità di comparare il «momento attuale»
con qualche «momento altro» e di creare archivi di esperienze per stabilire
connessioni, complessità, possibilità di confronto e di scelta.
Ci
sono alternative!
Nell’Introduzione
al suo “La solitudine del cittadino globale”, “Zygmunt Bauman” (2003) ricorda
le «orge di compassione e carità» con cui i popoli occidentali oggi manifestano
la loro socialità in specifiche occasioni dolorose come la tragica morte della
principessa Diana.
Potremmo ricordare, in Italia, eventi più
recenti come i ben noti «Ce la faremo» e «Andrà tutto bene» che campeggiavano
su moltissimi profili Facebook e sui balconi delle case, con tanto di
accompagnamento di canti, durante la pandemia, o gli sdegni di massa per
femminicidi o stupri particolarmente efferati, non di rado tra l’altro
condannati con un atteggiamento giustizialista, anzi forcaiolo, e non meno
crudele di quello che si intende stigmatizzare nel criminale («pena di morte»,
«castrazione chimica» etc.: è, ancora una volta, la violenza dei sedicenti
‘buoni’).
Ciò
che mi interessa, comunque, è la notazione seguente di Bauman:
«Priva di sfoghi regolari, la nostra
socialità viene tendenzialmente scaricata in esplosioni sporadiche e
spettacolari, dalla vita breve, come tutte le esplosioni. (…) una volta tornati
alle nostre faccende quotidiane, tutto riprende a funzionare come prima, come
se nulla fosse successo. E quando la fiammata di fratellanza si esaurisce, chi
viveva in solitudine si ritrova di nuovo solo» (cors. mio).
La
relazione, insomma, ridotta a sprazzi momentanei e scenografici, come eccezione
rispetto alla normalità della vita interamente ‘normale’, spesa nella libertà
individualista e consumista.
La
socialità può apparire anche nella forma alienata del (solo) divertimento
sussunto all’economia consumistica: «aperitivo et circenses».
Abbiamo
bisogno, invece, di relazione che vada oltre il diritto allo spritz con gli
amici e sia progettazione politica comune, partecipata , in uno spazio d’azione
micro legato ad una forma di pensiero macro («pensare globale/agire locale,
pensare locale/agire globale», secondo il suggerimento circolare di Morin e
Kern 1994: 170) – come potrebbe fare forse un federalismo politico,
cooperativo, non isolazionista (come era invece quello proposto da qualche
politico nemico della democrazia, che è veramente democrazia solo se è anche
solidale).
Per
superare la democratura, che avvolge la nostra vita intera, non è possibile far
nulla?
Sì, ritengo, se ci muoviamo sulla via della
nonviolenza proposta da Gandhi e purché sia chiaro che questa prevede un’azione
a vari livelli – economico, politico, sociale, individuale – nessuno dei quali
è più importante degli altri.
Tutti
sono fondamentali, anche se hanno tempi di attuazione diversi.
Allora,
secondo me, bisogna lottare:
in
economia, per un modo di produzione e di consumo ecologico e giusto, fondato
sulla riduzione dei bisogni, sull’uso di fonti energetiche non inquinanti, su
una limitazione dell’arricchimento massimo possibile;
in
politica, per un’organizzazione federale a cerchi concentrici (mondiale,
internazionale, nazionale, regionale, comunale) che permetta e solleciti la
partecipazione attiva alla cosa pubblica di tutti e tutte e preveda la gestione
pacifica dei conflitti, a partire da quelli internazionali, attraverso una
difesa nonviolenta, l’istruzione alle tecniche la quale va assicurata alla cittadinanza da brevi
periodi di servizio civile regolato da un Ministero della Pace:
perché ciò non sia un sogno utopistico, è
fondamentale che l’esercito venga smantellato gradualmente ma a partire da
subito;
nella
società, per la diffusione di una cultura (giornalistica, mediatica,
scolastica, universitaria) pensosa, in ascolto, con tempi non da competizione
ma da riflessione:
è ora
di fermare la caduta nell’abisso della «sempre maggiore rapidità» e di
«rallentare le scienze» e di mirare a delle università «di eccellenza», come suggerisce” Isabelle
Stengers” (2013), e in generale a una «scienza con coscienza» (Morin 1988), a una scienza «utile» non nel senso
economico del termine ma in quello sociale, che guardi alla ricerca scientifica
come ad un lavoro non solo di “problem solving” ma, ancor prima, di “problem
making” («a che tipi di problema è opportuno rispondere?»);
in
ambito individuale – per chi si lamentasse che quanto proposto nei punti
precedenti riguarda solo alcune specifiche persone e non tutte –, per portare
nella propria vita quotidiana, per quanto si è capaci, uno sconvolgimento, in
quanto
«è un
errore credere che la nonviolenza sia pace, ordine, lavoro e sonno tranquillo,
matrimoni e figli in grande abbondanza, nulla di spezzato nelle case, nessuna
ammaccatura nel proprio corpo. La nonviolenza non è l’antitesi letterale e
simmetrica della guerra: qui tutto infranto, lì tutto intatto.
La nonviolenza è guerra anch’essa o, per dir
meglio, lotta, una lotta continua contro le situazioni circostanti, le leggi
esistenti, le abitudini altrui e proprie, contro il proprio animo e il
subcosciente, contro i propri sogni, che sono pieni, insieme, di paura e di
violenza disperata.
La nonviolenza significa esser preparati a
vedere il caos intorno, il disordine sociale, la prepotenza dei malvagi,
significa prospettarsi una situazione tormentosa» (Capitini 1977: 221).
Così
era già per Gandhi, il quale riteneva necessario – e praticava – quello che
chiamava «programma costruttivo», cioè un modo di vivere immediatamente
inverante la società auspicata.
È in
ogni caso un programma di azione che comincia già nel riflettere al di là delle
mode e in una lotta continua anche con sé.
Non
diversamente da “Capitini”, l’appello di “Virgina Woolf” invita a questo sforzo
continuo di auto-sorveglianza contro la guerra e il patriarcato:
«Pensare,
pensare dobbiamo.
In
ufficio; sull’autobus; mentre tra la folla osserviamo l’Incoronazione e
l’investitura del sindaco di Londra, mentre passiamo accanto al Monumento ai
Caduti;
mentre
percorriamo Whitehall;
mentre
sediamo nella tribuna riservata al pubblico della Camera dei Comuni;
nei tribunali; ai battesimi, ai matrimoni, ai
funerali.
Non dobbiamo mai smettere di pensare: che
‘civiltà’ è questa in cui ci troviamo a vivere?
Cosa
significano queste cerimonie, e perché dovremmo prendervi parte?
Cosa
sono queste professioni, e perché dovremmo diventare ricche esercitandole?
Dove, in breve, ci conduce il corteo dei figli degli uomini colti?» (1992:
92-93).
Sarebbe
il caso di citare per esteso altri brani di “Woolf”, che l’avvicinano
moltissimo al pensiero della nonviolenza;
per
esempio, quelli relativi: all’opportunità di guadagnare semplicemente «per
vivere […] ma nulla di più»;
al
rifiuto di lavorare intellettualmente per avere di più «oppure farlo solo per
amore della ricerca (…) oppure gratuitamente per fornire a chi ne ha bisogno le
conoscenze da voi acquisite professionalmente;
all’impegno
a liberarsi dei «fittizi legami di fedeltà» cioè «in primo luogo dell’orgoglio
per la vostra patria: e anche dell’orgoglio per la vostra religione, per la
vostra università, scuola, famiglia, sesso (…).
Non
appena i tentatori si presentano per sedurvi, stracciate le pergamene;
rifiutatevi di compilare i moduli» (199: 113-114). Ma questo articolo è diventato ormai
troppo lungo.
Aggiungo
solo, alla rinfusa, qualche altra azione ancora più concreta che possiamo
compiere anche individualmente per trasformare la società in senso nonviolento:
1.
istruirsi alla nonviolenza (perché essa non è, come si è visto, tranquillità e
bonarietà ma una forma di lotta), per conoscerne il funzionamento e applicarla;
2.
praticare anche un’amicizia ‘politica’, costruttiva di trasformazione sociale
attraverso mezzi pacifici;
3. appendere
alla finestra o al balcone, e lì lasciarla perennemente, una bandiera della
pace;
4.
contestare, il 4 novembre, singolarmente, silenziosamente e senza disturbare
nessuno, semplicemente esibendo un cartello che ricordi che gli eserciti
servono ad uccidere e non a portare la pace, le cerimonie di celebrazione delle
Forze Armate;
5.
chiedere ai Dirigenti Scolastici delle Scuole o ai Rettori delle Università –
lo possono fare coloro che le frequentano o i genitori di coloro che le
frequentano o chi vi insegna – di “non istituire Percorsi per le Competenze
Trasversali e per l’Orientamento (PCTO, cioè l’ex Alternanza Scuola-Lavoro) o
altri rapporti di collaborazione con rappresentati dell’Esercito”;
6.
avere il coraggio di dire in pubblico (non semplicemente social) la nostra
opinione a favore della pace, il nostro sdegno per le mancate dimissioni di un politico
corrotto etc., e tentare di innescare così un’abitudine alla non rassegnazione
e alla partecipazione sociale;
7.
praticare nella vita quotidiana, e in particolare sui social, un’assertività
gentile e, come suggeriva Virginia Woolf, una lentezza riflessiva in ogni cosa
che si sta facendo e dicendo.
8. … e
naturalmente scoprire da sé, creativamente, cos’altro sia possibile fare.
Non so
quando e su chi tali piccoli gesti avranno effetto.
Ma so
che in ogni caso, come nella teoria del caos la famosa farfalla, essi avranno
un effetto e
so pure che l’effetto contribuirà alla costruzione di una società migliore.
(Dialoghi
Mediterranei, n. 65, gennaio 2024).
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