La guerra perpetua.

 La guerra perpetua.

 

 

Il legame inscindibile del capitalismo con la guerra.

 Lantidiplomatico.it – Domenico Moro – (21 Maggio 2025) – ci dice:

 

 La guerra diventa un’attività caratteristica dell’umanità da quando questa si è divisa in classi sociali.

Da sempre, infatti, le cause economiche stanno alla base della guerra.

 Ma solo con il capitalismo pienamente sviluppato si sono determinate le guerre mondiali, collegate alla mondializzazione del capitale, e la creazione di armi di distruzione di massa, dovuta all’enorme spesa per la ricerca e per le nuove tecnologie.

La guerra è soprattutto un elemento propulsivo dell’economia capitalistica nei suoi momenti di crisi strutturale e quando la gerarchia di potenza su cui si basa a livello internazionale viene messa in discussione.

Nei momenti di crisi la spesa militare e le immani distruzioni dovute all’uso delle armi moderne arrivano puntuali in soccorso dei profitti.

 

Non è, infatti, un caso che nel momento attuale, caratterizzato da una crisi che riguarda le aree di tradizionale maggiore sviluppo del capitalismo, gli Usa, l’Europa occidentale e il Giappone, si assista ad un incremento della spesa militare.

Negli Usa i tagli alle spese dell’amministrazione federale, che hanno già portato al licenziamento di migliaia di impiegati pubblici, si sarebbero dovuti estendere alla spesa militare, che in cinque anni si sarebbe ridotta di circa un terzo:

dai 968 miliardi di dollari del 2024 ai 600 miliardi del 2030.

Tuttavia, l’amministrazione Trump ha fatto marcia indietro e la spesa militare prevista per il 2026 crescerà a 1.010 miliardi, comprendendo la modernizzazione del nucleare, il “Golden Dome”, lo scudo spaziale e missilistico, e l’ampliamento delle forze navali.

 

Anche in Europa la spesa militare sta crescendo.

La Commissione europea ha varato un piano di riarmo da 800 miliardi di euro spalmati su quattro anni.

La Nato fino a qualche tempo fa chiedeva ai suoi stati membri di arrivare a una spesa di almeno il 2% del Pil, sebbene alcuni importanti stati non raggiungessero tale livello, comprese l’Italia e la Germania.

Oggi, mentre l’Italia ha dichiarato che nel 2025 raggiungerà il 2%, il segretario generale della Nato, l’olandese Mark Rutte, propone di portare il livello minimo di spesa al 5% del Pil (3,5% di spesa militare vera e propria e 1,5% destinato alla cybersicurezza).

 

 

Un aumento al 3,5% significa per l’Italia 33 miliardi di spesa aggiuntivi.

A riarmarsi è soprattutto la Germania, che, in recessione da due anni e con il suo apparato industriale in difficoltà, ha portato il budget della difesa dai 52 miliardi di euro del 2024 ai 60 miliardi del 2025 e progetta di spendere centinaia di miliardi nei prossimi anni.

Il cancelliere tedesco, Friedrich Merz, ha dichiarato che farà del proprio esercito “la più potente forza armata convenzionale d’Europa”.

Intanto, tra il 10 e l’11 luglio è prevista a Roma la conferenza per la ricostruzione dell’Ucraina, che porterà ingenti profitti alle imprese europee che vi si impegneranno.

 

Ma torniamo al nesso che c’è tra capitale, spese militari e guerra.

 Il modo di produzione capitalistico si caratterizza per l’accumulazione allargata, cioè per l’accumulazione sempre maggiore, a ogni ciclo economico, di capitale sotto forma di mezzi di produzione e forza lavoro.

Il problema è che in questa accumulazione continua si verifica il cosiddetto aumento della composizione organica del capitale.

Ciò vuol dire che aumenta proporzionalmente di più la parte di capitale investita in mezzi di produzione rispetto a quella investita in forza lavoro, perché il capitalista tende a sostituire lavoratori con macchine sempre più efficienti.

 

Dal momento che solo la forza lavoro determina la creazione di plusvalore, cioè di profitto, e che il saggio di profitto si calcola mettendo al numeratore il plusvalore ricavato e al denominatore il capitale totale investito, si ingenera una diminuzione del saggio di profitto.

Marx chiama questa tendenza, propria del capitale, legge della caduta tendenziale del saggio di profitto.

Dal momento che la produzione capitalistica è guidata dal perseguimento del massimo profitto, la caduta del saggio di profitto determina la contrazione degli investimenti, la sottoutilizzazione degli impianti e quindi le crisi che ciclicamente affliggono il capitalismo.

 

Marx dice anche che tale legge è contrastata da alcuni fattori antagonistici che ne determinano la natura tendenziale.

Tra questi fattori ci sono: l’aumento del grado di sfruttamento del lavoro, la riduzione del salario, l’esistenza di una riserva di disoccupati cui attingere, e soprattutto l’espansione estera del capitale.

Quest’ultima consiste nella tendenza a conquistare nuovi mercati per l’esportazione delle merci e soprattutto dei capitali eccedenti, che vengono investiti in paesi dove l’accumulazione è meno progredita e i salari sono più bassi e dove, pertanto, il saggio di profitto è più alto. 

Da questa tendenza derivano due conseguenze:

la creazione del mercato mondiale e l’affermazione dell’imperialismo come tendenza degli stati capitalistici più avanzati e come fattore di sviluppo del militarismo e della guerra.

La globalizzazione, sia quella che si verificò tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo sia quella che si è sviluppata dagli anni ’90 del secolo scorso fino ad oggi, è quindi un risultato, come dice David Harvey, dello “spatial fix”, cioè dell’aggiustamento nello spazio dell’accumulazione capitalistica.

 

Tuttavia, come si è visto nel corso del XX secolo e in questa prima parte del XXI, la globalizzazione non è stata in grado di risolvere la sovraccumulazione di capitale, cioè l’eccesso di capitale investito in mezzi di produzione.

Si ha sovraccumulazione quando c’è troppo capitale investito, che è “troppo” nel senso che il nuovo investimento non dà il profitto atteso dai capitalisti.

 In questo caso, gli investimenti si riducono dando luogo alla crisi.

È, quindi, la sovraccumulazione di capitale che sta alla base della crisi cicliche e della sovrapproduzione di merci.

 A questo punto, l’unico modo che permette al capitale di risolvere la sovraccumulazione e di riprendere il ciclo di accumulazione è la distruzione di capitale stesso.

 

Solo la distruzione fisica del capitale accumulato sotto forma di merci, di mezzi di produzione e di infrastrutture permette di risolvere il problema.

In parte questa distruzione fisica si realizza con la morte delle imprese più deboli o con il loro assorbimento da parte di quelle più forti, la cosiddetta centralizzazione dei capitali.

Ma, quando la sovraccumulazione è davvero eccessiva e permane, sebbene tutti i fattori antagonistici alla caduta del saggio di profitto siano stati utilizzati, c’è un unico modo per risolverla: la guerra.

È la guerra moderna con le ingenti spese militari a fornire un mercato aggiuntivo e redditizio per le imprese capitalistiche e, soprattutto, con le immani distruzioni che produce, a eliminare il capitale eccedente e, grazie alla ricostruzione, a ristabilire le condizioni per il riavvio dell’accumulazione.

 

Come scrissero due economisti statunitensi, “Paul A. Baran” e “Paul M. Sweezy”, nel loro Il capitale monopolistico, le guerre rappresentano un potente stimolo esterno per superare le depressioni economiche:

“Nessuna persona in possesso delle sue piene facoltà mentali sosterrebbe che senza le guerre la storia economica del secolo XX sarebbe stata quella che è stata effettivamente.

Perciò noi dobbiamo incorporare le guerre nel nostro schema esplicativo;

per fare questo noi ci proponiamo di considerare le guerre, insieme con le innovazioni rivoluzionarie, come stimoli esterni di fondamentale importanza.”

 

 

Possiamo vedere come l’azione rigeneratrice della guerra e delle spese militari ha agito nel corso dell’ultimo secolo e agisce tutt’ora sull’economia dello Stato più importante a livello mondiale, gli Usa, sebbene nel loro territorio non siano state combattute le due guerre più devastanti che l’umanità abbia conosciuto.

 Sempre “Baran” e “Sweezy” dicono che “senza la prima guerra mondiale, il decennio 1910-20 sarebbe passato alla storia degli Stati Uniti come un periodo di straordinaria depressione.”

 Ma, dopo il periodo di sviluppo degli anni ‘20, a partire dal 1929 si produsse in tutto il mondo avanzato quella che è stata chiamata la “Grande depressione”, la più importante crisi del modo di produzione capitalistico.

Negli Stati uniti il presidente Roosvelt varò il “New Deal”, un piano di spese pubbliche per incentivare la domanda aggregata e la produzione.

 

L’uscita dalla crisi, però, non fu dovuta al New Deal, dal momento che, dopo una breve ripresa, nel 1938 l’economia statunitense ripiombò nella recessione.

La “Grande depressione” fu risolta solo dalle enormi spese dovute al riarmo militare e allo scoppio della seconda guerra mondiale.

Furono queste spese e le immani distruzioni di capitale a risolvere definitivamente la crisi e a determinare lo sviluppo post-bellico trentennale del modo di produzione capitalistico.

 Infatti, la ricostruzione, finanziata dai capitali eccedenti degli Stati Uniti tramite il “piano Marshall”, diede una spinta poderosa all’accumulazione, soprattutto nei paesi che avevano perso la guerra, la Germania, l’Italia ed il Giappone, sul cui territorio si erano concentrate le maggiori distruzioni.

 

Negli Stati Uniti, diventati la potenza egemone mondiale e pertanto avendo la necessità di ampie Forze Armate, la spesa militare non diminuì dopo la fine della seconda guerra mondiale.

La maggior parte dell’aumento della spesa pubblica fu dovuto alla spesa militare che passò dall’1% al 10% del Prodotto nazionale lordo.

 “Circa sei o sette milioni di operai – scrivono “Baran e Sweezy” – più del 9% della forza-lavoro dipendono per l’occupazione dalle spese militari.

 

Se queste fossero nuovamente riportate alle proporzioni che avevano anteriormente alla seconda guerra mondiale, l’economia nazionale ritornerebbe nelle condizioni di profonda depressione, prevalenti nel decennio 1930-40, con saggi di disoccupazione superiori al 15%.”

 E ancora: “Nel 1939 il 17,9% della forza lavoro era disoccupata e circa l’1,4% della rimanente si può presumere che sia stata occupata nella produzione di beni e servizi per la difesa.

Un buon 18% della forza-lavoro, in altri termini, era disoccupata oppure occupata in attività dipendenti dalla spesa militare.

Nel 1961 (…) le cifre corrispondenti furono il 6,7% di disoccupati e il 9,4% di occupati dipendenti dalla spesa militare, vale a dire un totale di circa il 16%. (…)

Da questo consegue che una riduzione del bilancio militare alle proporzioni del 1939, riporterebbe la disoccupazione alle proporzioni di tale anno.”

 

A questo punto sorge la domanda:

 la spesa pubblica civile potrebbe essere altrettanto efficace della spesa pubblica militare nel contrastare le crisi?

E, se sì, perché la spesa militare non viene sostituita da quella civile?

La risposta è che ciò non è possibile nella società del capitalismo monopolistico, dove l’oligarchia dominante si oppone a un ulteriore aumento della spesa civile, come accadde durante il “New Deal “nel momento in cui la disoccupazione colpiva ancora il 15% della forza lavoro.

 La ragione è che l’aumento della spesa pubblica civile tocca gli interessi dell’oligarchia capitalistica.

 Infatti, la spesa pubblica civile è contrastata “ogni volta in cui determina una situazione di concorrenza nei confronti dell’iniziativa privata”.

 

Ciò appare evidente, ad esempio, nella spesa sanitaria pubblica che toglie clienti alla sanità privata e nell’edilizia a scopo abitativo, dove la massiccia costruzione di alloggi pubblici toglierebbe occasioni di profitto ai costruttori privati.

Al contrario, non esiste una concorrenza con i privati nel campo militare e anzi le spese militari vanno direttamente alle imprese private del settore, che spesso hanno anche una branca civile che può beneficiare dei finanziamenti erogati alla branca militare, come nel caso della “Boeing”, che produce aerei sia militari sia civili.

 

La particolare funzione delle spese militari e della guerra nella economia degli Usa ha continuato a manifestarsi anche dopo il 1961, anno cui fanno riferimento i dati citati da “Sweezy e Baran”.

Infatti, se andiamo a vedere l’andamento dei profitti delle imprese non finanziarie statunitensi tra 1929 e 2008, ci accorgiamo che i picchi della crescita del profitto al netto delle tasse come percentuale dei costi dello stock netto del capitale fisso si presentano in concomitanza con le guerre che gli Stati Uniti hanno combattuto, dalla Seconda guerra mondiale alla guerra di Corea, a quella del Vietnam, e a quella contro l’Iraq e l’Afghanistan.

Ma anche in periodi di relativa pace si verifica l’aumento della spesa militare, come sta accadendo ora.

Infatti, nell’economia e nella struttura sociale di classe degli Usa si è formato il “complesso militare-industriale”, come fu definito nel 1961 dal presidente “Eisenhower” l’intreccio di interessi tra l’industria bellica, le alte gerarchie delle Forze Armate e i deputati del Congresso, che influenza le scelte economiche e politiche del Paese.

A recente riprova della “influenza del complesso militare-industriale” c’è l’aumento della spesa militare per il 2026 a 1.010 miliardi di dollari nonostante in precedenza Trump avesse annunciato una riduzione di un terzo della spesa entro il 2030.

Del resto, negli ultimi dieci anni, tra 2014 e 2024, la spesa militare a prezzi costanti degli Usa è passata da 833,7 miliardi di dollari a 968,3 miliardi, con un aumento del 16,1%. 

 

 

L’influenza dello Stato, tramite la guerra e le spese belliche, sull’accumulazione capitalistica non è fatto recente, ma è anche la causa dell’accumulazione originaria del capitale, come la definisce Marx nel primo libro de Il capitale.

L’accumulazione originaria, da cui, tra la fine del medioevo e l’inizio dell’epoca moderna, parte il modo di produzione capitalistico si basa sul sistema coloniale e sul debito pubblico.

Attraverso l’espansione coloniale, fondata sulla violenza e quindi sulla guerra armi, vengono razziate le ricchezze americane che vengono portate in Europa, dove formano la base dell’accumulazione.

 

Il debito pubblico, che determina l’ulteriore possibilità di profittevole investimento del denaro e di crescita del capitale bancario, rappresenta un’invenzione italiana, dovuta alla necessità di finanziare la guerra permanente in cui le città-stato italiane erano impegnate.

 Il debito pubblico diverrà sempre più importante e necessario per i primi stati nazionali europei a causa delle guerre e del colonialismo, che condussero all’aumento esponenziale della spesa militare, dovuto anche all’invenzione della polvere da sparo e quindi all’introduzione di costose artiglierie e fortificazioni moderne.

 

Il debito pubblico, attraverso la guerra e la spesa militare, è ancora oggi legato all’accumulazione del capitale.

 Lo vediamo in Europa oggi, quando la Commissione europea ha deciso di sospendere i vincoli di bilancio che, in base ai trattati europei, impongono di limitare il deficit pubblico al 3%, garantendo la possibilità di espanderlo di un ulteriore 1,5% annuo per le spese militari.

 Ciò è soprattutto vero in Germania, il paese che era stato l’alfiere più deciso dell’austerità di bilancio e che aveva impedito qualsiasi deroga ai vincoli di bilancio durante la devastante crisi del debito greca.

 In Germania, la norma che imponeva in costituzione il limite allo 0,35% del Pil, per quanto riguarda il deficit strutturale dello Stato federale, è stata recentemente abrogata in tutta fretta con una maggioranza di due terzi del parlamento uscente visto che il nuovo parlamento, con una folta presenza di deputati di “Afd” e “Die linke”, si sarebbe opposto.

 

Quindi, mentre per la sanità, la scuola, le pensioni e per la spesa sociale in genere non si può fare debito aggiuntivo, per la spesa militare si può.

 Si tratta, quindi, dell’ulteriore conferma di quanto dicevamo sopra:

la spesa militare è l’ideale per il capitale.

 Da una parte, perché in questo campo l’iniziativa pubblica non è concorrenziale rispetto all’iniziativa privata e, dall’altra parte, perché sovvenziona l’industria bellica che opera in condizioni di quasi monopolio e con prezzi alti che vengono facilmente accettati da ufficiali delle Forze Armate che poi trovano collocamento, al momento del loro pensionamento, in quella stessa industria bellica.

 

Come scrivevano “Baran e Sweezy”, alla base di tutto questo c’è lo stato di perenne stagnazione in cui versa l’economia moderna:

 il capitale monopolistico non è in grado di tirarsi fuori da situazioni di ristagno senza stimoli esterni.

Ed il più importante stimolo esterno è rappresentato dalla spesa militare e dalla guerra con le distruzioni che comporta.

Per questa ragione l’unico modo per farla finita con la guerra è il superamento del modo di produzione capitalistico con un nuovo modo di produzione che non metta al centro il perseguimento del massimo profitto, ma la soddisfazione dei bisogni individuali e sociali.

 

 

 

Confini che sanguinano, sovranità che si esibisce:

ripensare l’ordine regionale alla luce

dell’escalation tra Thailandia e Cambogia.

Geopolitica.info - Aniello Iannone – (29/07/2025) – ci dice:

 

Il recente confronto armato tra Thailandia e Cambogia rappresenta molto più di una semplice riemersione di dispute territoriali di lungo corso,

  esso esemplifica una trasformazione più ampia nel modo in cui la sovranità viene messa in scena, contestata e legittimata nel contesto del Sud-est asiatico contemporaneo.

 La violenza che si dispiega lungo il confine, in particolare intorno al “tempio di Preah Vihear” e in altre aree storicamente sensibili, non dovrebbe essere letta solo attraverso la lente dell’inimicizia storica o della cattiva comunicazione tra stati vicini.

Al contrario, essa riflette una modalità di espressione politica in cui il confine funziona non solo come linea di controllo, ma come palcoscenico sul quale gli stati mettono in scena potere, identità e legittimità in risposta a fragilità interne e pressioni esterne.

 In questo caso, la sovranità si manifesta non tanto come autorità giuridica o controllo territoriale, quanto come performance strategica, profondamente intrecciata con crisi politiche domestiche e ansie regionali.

Il dispiegamento militare di jet F-16 da parte della Thailandia e l’uso di razzi da parte della Cambogia non sono semplici decisioni tattiche:

sono atti simbolici che riaffermano la presenza e la determinazione dello stato di fronte alla propria cittadinanza.

 In tal senso, il confine si trasforma in un luogo di visibilità, uno spazio in cui la sovranità diventa leggibile attraverso la violenza, lo spettacolo e la diffusione mediatica.

 Uno stato d’eccezione dove il confine emerge come zona liminale dove le regole ordinarie della governance vengono sospese, consentendo allo stato di riaffermarsi in momenti di percepita fragilità istituzionale.

 

In Thailandia, la tempistica dell’escalation coincide con un’ampia incertezza politica e un declino della legittimità popolare, dove l’esternalizzazione del conflitto serve a riaffermare la coesione interna in particolare da parte dei militari. In Cambogia, il primo ministro “Hun Manet “sembra utilizzare la crisi di confine come strumento per consolidare la lealtà dell’apparato militare e deviare l’attenzione da pressioni socioeconomiche interne.

In entrambi i casi, la politica del confronto è calibrata più per il pubblico domestico che per una risoluzione strategica.

Questa strumentalizzazione del conflitto colloca la disputa thai-cambogiana all’interno di un pattern globale più ampio, in cui le “piccole guerre”, scontri militari localizzati e di breve durata, non servono tanto alla conquista quanto alla visibilità, non alla ristrutturazione del potere regionale ma all’affermazione della presenza.

 

Quando l’ordine globale si fa instabile, gli attori periferici o semiperiferici ricorrono alla violenza performativa come mezzo per negoziare posizione e proiettare rilevanza.

 Questa teatralità della sovranità trova un riflesso nell’incapacità delle istituzioni regionali di rispondere in modo significativo.

L’approccio dell’ASEAN al conflitto si è limitato, ancora una volta, a gesti retorici e appelli diplomatici privi di forza coercitiva o capacità di mediazione effettiva.

I fondamenti normativi dell’Associazione, il consenso, la non interferenza, la diplomazia informale, un tempo celebrati come pragmatici e culturalmente sensibili, appaiono oggi insufficienti per affrontare confronti armati tra stati membri.

 Ciò che emerge non è solo il fallimento di un meccanismo specifico, ma la rivelazione di una contraddizione strutturale più profonda, l’ASEAN mette in scena l’unità, ma non possiede gli strumenti per sostenerla o farla valere.

 Le sue dichiarazioni funzionano come rituali diplomatici piuttosto che come strumenti di politica concreta, segnando una forma di esaurimento istituzionale sempre più evidente, dai casi della “crisi in Myanmar” a quelli nel “Mar Cinese Meridionale”.

 La coesione dell’ASEAN si è storicamente basata su narrazioni condivise di armonia e resilienza, più che su solidità istituzionale.

 Tuttavia, nei momenti di tensione acuta, queste narrazioni risultano incapaci di produrre risultati materiali.

Il caso thailandese-cambogiano sottolinea dunque i limiti di un regionalismo simbolico in un’epoca in cui la sovranità si fa sempre più militarizzata e caricata affettivamente.

Il problema non è solo strategico, ma epistemologico, il concetto stesso di regionalismo richiede una riconcettualizzatine teorica, alla luce del suo scollamento dalla prassi politica.

 

Asimmetrie epistemiche e necessità di “pluralizzazione teorica.”

Il conflitto impone anche una riflessione su come la conoscenza dei processi regionali venga prodotta, circolata e legittimata.

La copertura mediatica degli scontri di confine, in particolare da parte delle agenzie internazionali, ha ampiamente aderito a cornici interpretative convenzionali, sovranità, escalation, diplomazia bilaterale, senza cogliere adeguatamente le dimensioni culturali, simboliche ed emozionali degli eventi.

 Le prospettive locali, le continuità storiche, le nozioni indigene di autorità sono frequentemente marginalizzate.

 Questa asimmetria epistemica riflette un modello più ampio nelle relazioni internazionali, in cui il Sud globale viene reso intelligibile solo attraverso l’apparato concettuale del Nord globale.

Gli scambi di conoscenza transnazionali siano spesso strutturati da gerarchie che privilegiano certe voci, istituzioni ed epistemologie.

Nel contesto dei conflitti del Sud-est asiatico, ciò si traduce in una dipendenza persistente da cornici teoriche occidentali, inadeguate a cogliere la specificità ontologica e normativa della regione.

La sfida, dunque, non è solo localizzare la teoria, ma pluralizzarla, riconoscere la validità di modi alternativi di conoscere e spiegare i fenomeni politici.

Tali interventi non mirano a sostituire le teorie esistenti, ma ad ampliare l’orizzonte epistemico delle relazioni internazionali.

Essi sollecitano un passaggio da un universalismo rigido a una forma di teorizzazione più riflessiva e situata.

Nel caso dell’ASEAN, ciò significa riconoscere che l’ordine regionale non è costruito solo attraverso istituzioni e norme, ma anche attraverso memoria storica, performance simboliche e investimenti affettivi.

Il conflitto tra Thailandia e Cambogia non è un’anomalia da spiegare, ma un episodio paradigmatico che rivela le crepe nei modelli dominanti di governance regionale e l’urgenza di un rinnovamento teorico.

 

La dimensione affettiva del conflitto, svolge un ruolo centrale nella formazione della percezione pubblica e delle strategie delle élite.

Nazionalismo, risentimento, memoria storica e indignazione morale non sono epifenomeni, ma elementi costitutivi della politica estera nella regione.

La proliferazione del discorso digitale, la mobilitazione emotiva e la simbolizzazione online intensificano ulteriormente questa dinamica, trasformando i confini in spazi di governo affettivo oltre che di contesa geopolitica.

 Il concetto di” hate spin” elaborato da “Cherian George” descrive con precisione il modo in cui l’emozione viene coltivata e strumentalizzata all’interno del discorso politico, rafforzando la logica performativa che sottende la sovranità contemporanea.

 

In questo contesto, il dilemma dell’ASEAN non consiste semplicemente nell’essere inefficace, ma nel rimanere teoricamente sotto esaminata.

La sua oscillazione costante tra coesione simbolica e impotenza strategica richiede un ripensamento concettuale che vada oltre la dicotomia successo-fallimento.

Anziché misurare l’ASEAN attraverso metriche istituzionali derivate da esperienze euro-atlantiche, si potrebbe esplorare la sua natura ibrida, in parte comunità normativa, in parte teatro diplomatico, come oggetto teorico a sé stante.

 Una tale ri-concettualizzazione non ne eluderebbe i limiti, ma consentirebbe una comprensione più sfumata e sensibile al contesto del suo ruolo in un ordine regionale in rapida trasformazione.

L’escalation tra Thailandia e Cambogia si configura così come più di una disputa di confine.

È un crocevia attraverso cui si intrecciano crisi multiple, la fragilità della legittimità statale, l’esaurimento delle narrazioni regionali, il ritorno della politica militarizzata e le asimmetrie nella produzione globale di conoscenza.

Affrontare queste crisi richiede non solo ingegnosità diplomatica, ma anche coraggio epistemologico.

 

 

 

Netanyahu: ‘La Cisgiordania è la terra

dei nostri antenati. Qui è cristallizzata

la nostra identità’.

 Infopal.it – (08/06/2012) – Infopal - Pubblicato in Evidenza – Redazione – ci dice:

 

Betlemme – InfoPal.

Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha deciso di “proseguire nel processo di costruzione” delle colonie ebraiche sulla terra palestinese occupata.

 

Tale decisione rappresenta un tentativo di contenere le reazioni rabbiose da parte dei coloni e dei partiti di estrema destra nei confronti del disegno di legge respinto dalla Knesset, il parlamento israeliano, in materia di terre palestinesi private in Cisgiordania.

 

In un comunicato diffuso dal suo ufficio a commento della decisione della Knesset, Netanyahu ha affermato:

“La Cisgiordania è la terra dei nostri antenati, e in questo luogo è cristallizzata la nostra identità.

Gerusalemme è la capitale di Israele, e lo affermo in qualsiasi parte del mondo”.

 

Egli ha sottolineato che al suo governo non è piaciuto prendere la decisione di trasferire le unità coloniali nell’insediamento illegale di Ulpana, costruite su terreni di proprietà privata palestinese, nel nord di Betlemme, e che la popolazione di queste colonie sarà trasferita nell’insediamento di Beitel, con 300 famiglie di nuovi coloni.

 

Il capo del governo israeliano ha informato della decisione di istituire un comitato ministeriale che si occupi degli Affari coloniali, per garantire “l’attuazione delle politiche israeliane per la promozione e il rafforzamento degli insediamenti”.

 

Mercoledì 6 giugno, la Knesset ha respinto il disegno di legge noto come degli “insediamenti”, che avrebbe permesso ai coloni di costruire su terreni privati palestinesi nella Cisgiordania occupata: 69 parlamentari hanno votato contro e 22 a favore.

 

 

 

 

Israele accusato di aver deliberatamente

 infettato i prigionieri palestinesi e di

 aver negato loro cure mediche.

Infopal.it – (29/07/2025) – Redazione - News Prigionieri palestinesi – ci dice:

 

Ramallah – PIC.

La “Commissione per gli Affari dei Detenuti ed Ex Detenuti palestinesi” ha accusato il “Servizio Penitenziario israeliano” (IPS) di diffondere intenzionalmente malattie tra i prigionieri palestinesi e di negare loro cure mediche, nell’ambito di un più ampio schema di abusi all’interno delle carceri israeliane.

 

In un comunicato stampa diffuso domenica, la Commissione ha confermato che l’IPS continua a commettere gravi violazioni contro circa 10.000 detenuti palestinesi, tra cui donne e bambini.

 Tali accuse sono supportate da recenti testimonianze raccolte da avvocati e difensori dei diritti umani.

 

Una di queste testimonianze riguarda “Hassan Imad Abu Hassan”, un prigioniero originario della cittadina di Yamun, a ovest di Jenin, che soffre di scabbia da oltre tre mesi.

Secondo quanto riportato, le guardie israeliane lo avrebbero costretto a dormire sul letto di un prigioniero già infetto il primo giorno di detenzione, provocandone il contagio.

Un altro detenuto,” Alaa Al-Adham”, di Beit Ula, nei pressi di al-Khalil/Hebron, avrebbe sviluppato gravi problemi cutanei, tra cui prurito intenso e sensibilità alle cosce, senza ricevere alcun tipo di assistenza medica.

 

“Bilal Amr”, recluso a Ofer – vicino a Ramallah – e originario di Dura, a sud di al-Khalil/Hebron, soffre di dolori cronici alla schiena e al piede a causa di aste di platino impiantate per stabilizzare fratture pregresse.

Nonostante le numerose richieste, non gli è mai stato somministrato un antidolorifico adeguato.

Soffre, inoltre, di una grave compromissione della vista.

 

In una dichiarazione congiunta diffusa pochi giorni fa, la Commissione e la Società per i Prigionieri Palestinesi hanno denunciato testimonianze di torture fisiche e psicologiche, tra cui casi di detenuti costretti a bere alcolici e ustionati con acqua bollente.

 

Dall’inizio del genocidio israeliano nella Striscia di Gaza, il 7 ottobre 2023, diversi detenuti palestinesi sono morti nelle carceri israeliane a causa di torture, fame e abbandono medico.

Questi resoconti sono stati confermati da organizzazioni palestinesi e internazionali per i diritti umani.

 

Secondo i dati ufficiali palestinesi, oltre 10.800 palestinesi si trovano attualmente reclusi nelle carceri israeliane, tra cui circa 450 minorenni, 50 donne e 3.629 prigionieri amministrativi, rinchiusi senza accusa né processo.

Tali cifre non includono le migliaia di palestinesi di Gaza sottoposti a sparizione forzata.

Questi abusi medici si inseriscono nel contesto della guerra genocida in corso contro Gaza, che ha provocato più di 204.000 morti o feriti palestinesi, in maggioranza donne e bambini.

 Oltre 9.000 persone risultano disperse e centinaia di migliaia sono state sfollate. In vaste aree della Striscia si registrano condizioni di carestia, con decine di bambini tra le vittime.

 

Parallelamente al genocidio a Gaza, le forze di occupazione israeliane e i coloni in Cisgiordania e Gerusalemme Est hanno ucciso almeno 1.008 palestinesi, ne hanno feriti circa 7.000 e arrestato oltre 18.000, secondo i dati palestinesi.

 

Israele prosegue la sua occupazione pluridecennale dei territori palestinesi e di parti della Siria e del Libano, in violazione del diritto internazionale e continuando a rifiutare il riconoscimento di uno Stato palestinese sovrano con Gerusalemme Est come capitale, secondo i confini precedenti al 1967.

 

 

 

 

Guerra perpetua.

 Corriere.it - Antonio Polito – (21 luglio 2025) – ci dice:

 

Il leader israeliano non usa più il conflitto armato come mezzo per ottenere un giorno la pace, ma come un fine in sé.

 

Sul finire del Settecento, il secolo della Ragione, Kant scrisse un “Progetto per la pace perpetua”. Redatto sotto forma di un vero e proprio “Trattato internazionale tra Stati”, fu ovviamente un tentativo utopico;

 ma profetico di fronte al carattere assoluto, totale, ideologico, di quel nuovo modo di fare la guerra che la Rivoluzione Francese aveva introdotto nella storia d’Europa.

Se oggi avesse un momento libero, tra un’invasione e un bombardamento, Benjamin Netanyahu potrebbe invece scrivere, peraltro senza fare alcun ricorso all’utopia, un “Progetto per la guerra perpetua”.

 È a questo che assomiglia infatti la politica che Israele sta perseguendo dopo il progrom anti-ebraico di Hamas del 7 ottobre del 2023.

Con geometrica potenza, il governo di Gerusalemme sta infatti colpendo tutti i suoi vicini, anche quelli attualmente o potenzialmente non ostili.

L’attacco ai palazzi del potere di Damasco, compiuto sei giorni fa in nome della minoranza drusa della Siria, ne è stato il sorprendente epilogo:

ha preso infatti di mira un Paese in corso di stabilizzazione, sul quale gli stessi Stati Uniti puntano per «normalizzare» il Medioriente.

Al punto da far sbottare qualche consigliere di Trump: «Ma questo Netanyahu è un matto…».

 

È come se Israele avesse deciso che è meglio avere come vicini solo stati falliti (Gaza a Sud, Libano e Siria a Nord), segnati dal caos e dalla paura, nella convinzione che così li possa controllare meglio e temere meno.

Una cortina di instabilità perenne, su cui comandare appunto con il metodo della «guerra perpetua».

Non sembra contemplata alcuna strategia finale di pace, alcun progetto di convivenza.

 E infatti ormai al massimo si discute di «tregue»:

brevi attimi di pausa in conflitti definiti «esistenziali», e perciò destinati a durare per sempre.

 

Se questo è il disegno, tutto è permesso.

Gli spostamenti forzati di civili, altrimenti dette «deportazioni», per esempio.

 Un conclamato crimine di guerra immaginato ormai su scala sempre più vasta; con l’idea di trasferire il popolo di Gaza, se non nell’Egitto che non lo vuole, allora in Libia, in Etiopia o in Indonesia, e fargli vivere così l’equivalente della «cattività babilonese» per la storia ebraica.

Tutto è permesso.

È perciò anche lecito dubitare, come ha fatto per la Santa Sede il cardinale Parolin, che il cannoneggiamento dell’unica chiesa cattolica di Gaza sia stato un semplice errore di mira.

È molto doloroso riconoscere tutto ciò per chi in Occidente è amico di Israele, e lo è da sempre perché ha sempre riconosciuto nello Stato Ebraico una democrazia ansiosa di ottenere finalmente la pace e la sicurezza per il suo popolo;

 magari anche con l’uso della forza militare quando è stato necessario, ma giustificato dall’obbligo di doversi costantemente proteggere da chi da sempre lo vuole sopprimere.

Non avremmo mai pensato di dover difendere Israele dall’accusa di «genocidio», dopo la prova genocidaria del massacro di vecchi, donne e bambini da parte di Hamas; eppure, ogni giorno che passa, un amico di Israele se ne va e dice: adesso basta!

 

È purtroppo un fatto che il principio «territori in cambio di pace», ispiratore degli accordi di “Camp David” con l’Egitto e di Oslo con i palestinesi, si sia ormai capovolto nella «guerra in cambio di territori»:

ogni attacco serve infatti anche a svuotare e a occupare un’altra striscia di terra, da usare come cuscinetto protettivo in una logica di perenne conflitto armato. Invece che piantare semi, ora si costruiscono trincee.

Seppure in contesti e su scala del tutto diversa, la guerra di Netanyahu ha assunto così numerose analogie con quella di Putin in Ucraina.

Una sorta di «espansionismo difensivo», come nella logica antica e paranoica di ogni impero russo, che contempla anche operazioni di pulizia etnica (il rapimento dei bambini ucraini è una forma di spostamento forzato di civili).

 

Non è dunque solo per il numero spropositato delle vittime a Gaza, o per i metodi disumani con cui vengono trattati esseri umani affamati e in cerca di cibo, che l’Occidente non può più tollerare la guerra di Netanyahu.

È certo importante ma non decisivo stabilire se sulle persone in fila per il pane si spari deliberatamente o per errore, o se addirittura non siano affatto i soldati israeliani a sparare.

 Perché quella terra è comunque occupata e controllata dalle forze armate di Gerusalemme, ed è impedito l’accesso indipendente ai media; dunque tutto ciò che vi accade, il disordine che vi regna, è oggi in ogni caso responsabilità politica di Israele.

Ciò che è invece decisivo per definire un giudizio etico-politico è che con la pratica della «guerra perpetua» il governo di Israele sta divorziando dai valori delle democrazie occidentali.

 Perché non usa più il conflitto armato come mezzo per ottenere un giorno la pace, ma come un fine in sé, come un metodo abituale di politica: l’unico su cui crede di poter contare per scongiurare un altro 7 ottobre.

Paradossalmente è proprio questa disperazione di Israele sul suo stesso destino, questa assuefazione alla «guerra perpetua», che noi europei, colpevoli, complici o spettatori ignavi dell’Olocausto, non possiamo accettare.

 

 

 

 

La guerra perpetua.

 Vocerepubblicana.it - Riccardo Bruno – (25 Settembre 2024) - L'editoriale – ci dice:

 

La ricetta per la pace perpetua la scrisse” Immanuel Kant” già nel 1795 ed era quasi elementare nella sua preparazione.

Delle repubbliche sorelle sul continente che condividessero gli stessi principi e la stessa forma di governo.

Quell’illuminista disgraziato di “Napoleone Bonaparte” aveva un disegno per l’Europa che seguiva lo stesso modello, non fosse che la repubblica si rivelava all’epoca forma di governo troppo instabile e alla mercè delle peggiori pretese, indi per cui meglio fare dei regni governati da suoi consanguinei, promotori delle idee di eguaglianza francesi.

Fra mille difficoltà in questo suo progetto, non c’era verso di piegare l’Austria e la Prussia, per non parlare dell’Inghilterra, costrinse ad un accordo la Russia, che non era un paese civilizzato.

Al di là del fiume Nema sarebbero stati affari loro, al di qua, suoi.

Nemmeno a dirlo, tempo tre anni i russi avevano varcato la Nema e tornato a minacciare la Polonia con duecentomila uomini in armi.

 

L’idea di pace che si sarebbe realizzata in Europa dal 1815 al 1870, fu l’esatto contrario, un equilibrio di ducati e principati di ogni genere e grado per impedire l’espansionismo dei grandi regni continentali e per quanto la realizzazione fosse una schifezza, benedetta dalla chiesa e dal ritorno dei vecchi privilegi, per lo meno funzionò per quasi quarant’anni, fino a quando la Russia pensò bene di riaffacciarsi con le sue cannoniere sul mediterraneo, ovviamente per difendere i luoghi sacri.

 Le sue alleate le diedero addosso, guarda il caso, proprio in Crimea.

A quella guerra rimasero estranei gli stati tedeschi.

L’Austria perché in fondo legata allo Zar e quelli germanici perché troppo deboli per misurarsi.

Con la Crimea tornò a galla il problema dell’unificazione tedesca che si realizzò nell’unico modo possibile su un presupposto militare ed una prima guerra con l’Austria, poi con la Francia ed infine con l’Inghilterra e fu la prima guerra mondiale.

 L’anomalia di quella guerra è che Russia e Germania nonostante i loro legami di sangue si trovarono dalla parte opposta della barricata e questo fu talmente insopportabile per il Kaiser da fargli avere un’idea geniale, facciamo un colpo di Stato in Russia, deponiamo lo zar e almeno riavremo la pace.

 

Non ci fu fenomeno più straordinario al mondo della Rivoluzione russa.

 Mentre tutti i governi europei avevano odiato la Rivoluzione francese, verso quella russa furono compiacenti persino gli americani, infatti il nuovo regime, con la pace, aveva il suo bel da fare.

Doveva costruire una società completamente nuova.

Ministri ed intellettuali andavano in Russia e vi tornavano entusiasti, tanto da pubblicare libri e riviste per decantare le lodi di questo popolo giovane e appassionato, che si era ripromesso di cambiare l’umanità.

John Reed, André Malraux, André Gide, Joseph Roth.

 Schumpeter, che vedeva lungo, scrisse persino che il loro modello economico, quello dei soviet, avrebbe soppiantato il capitalismo.

Alphonse Adular, della Sorbone si commosse pensando di vedere in Lenin un secondo Danton.

 Giusto Keynes si mostrò scettico, ma Keynes all’epoca non se lo filava nessuno. Nel 1928 arrivò a Mosca “Stephan Zweig”.

l’autore più letto al mondo.

 Zweig venne accolto con tutti gli onori e anche lui si sarebbe convinto di dover scrivere un commento per celebrare questa realtà tanto slanciata sulla via del progresso.

 Non fosse che una sera si trovò un biglietto nella tasca dove leggeva di non credere ad una parola di quanto gli veniva detto e fatto mostrare, che tutto era un inganno e di bruciare il biglietto, non di strapparlo, perché altrimenti sarebbe stato ritrovato e ricomposto.

 Si deve a Zweig se cambiò almeno parzialmente la valutazione sulla Russia sovietica.

E con delle ragioni, dato che la seconda guerra mondiale fu possibile perché Stalin si era alleato con Hitler che ammirava profondamente.

Al Cremlino Stalin era rimasto abbagliato dalla notte dei lunghi coltelli.

 

Da allora mai il mondo era stato affacciato su un abisso più profondo di quello su cui si è riunito l’Onu in questi giorni.

Non solo perché la Russia ha lo stesso volto di sempre, ma anche per l’attacco ad Israele dietro cui c’è il principale alleato della Russia, l’Iran.

La situazione di Israele e dell’Ucraina, sono le stesse, non fosse che Israele ha più capacità di difesa tali da sembrare l’aggressore.

Erdogan che si lamenta che nessuno la ferma, non scorge la cosa più semplice, ovvero, chiedere ai suoi amici di Hamas di liberare gli ultimi ostaggi e questo servirebbe.

Più concreti cinesi e brasiliani che avrebbero predisposto un piano di pace in sei punti per l’Ucraina e l’indiano Modi vorrebbe contribuire.

Disgraziatamente non si capisce quale possa essere il punto di incontro, tanto che Biden ha semplicemente rilanciato l’unità della Nato.

 In questa dimostrazione sconcertante di assoluta impotenza, l’Italia ha fatto un figurone, con premi e promozioni.

 L’onorevole Meloni ha sventolato niente di meno che il suo cavallo di battaglia, il leggendario piano Mattei, un approccio diverso per l’intero continente africano, dove ci si possa confrontare “ad armi pari”.

Al che viene spontaneo chiedere se il presidente del Consiglio italiano ha mai fatto un giro per le miniere dell’ex Congo belga, o se l’Africa che conosce, è quella dei club Mediterranee in cui sbarcano Briatore e la Santanchè.

(Riccardo Bruno).

 

 

 

La guerra perpetua

di Israele.

 

Starmag.it – (28 ottobre 2024) – Giuseppe Gagliano – ci dice:

 

Azioni e strategie di Israele in campo militare. Fatti, analisi e scenari.

Il punto di Gagliano.

 

Israele sembra ormai intrappolato in una realtà di guerra perpetua, un elemento che, piuttosto che essere un’emergenza temporanea, è divenuto parte integrante della sua identità nazionale.

La narrazione ufficiale giustifica la guerra come una necessità esistenziale, evocando riferimenti biblici e un “nemico archetipico” costantemente presente. Attualmente, questo ruolo è incarnato dall’Iran e dai suoi affiliati, percepiti come rappresentanti di un male irredimibile.

Questa concezione del conflitto, con il nemico visto come un’entità malvagia per natura, rende pressoché impossibile qualsiasi tentativo di riconciliazione e stabilisce la guerra come una costante dell’esistenza israeliana.

 

L’identità nazionale sembra costruirsi in opposizione a un “altro” nemico, elemento che unisce diversi gruppi interni in Israele.

Tuttavia, questa coesione è solo apparente poiché la costante conflittualità finisce per esacerbare le divisioni tra settori laici e ultraortodossi, trasformando la guerra in un elemento di divisione sociale e politica.

Inoltre, l’orientamento israeliano verso l’aggressività politica e militare rischia di compromettere il sostegno internazionale, in particolare quello degli Stati Uniti.

 

Gli alleati storici iniziano a manifestare segnali di insofferenza verso la volontà di Israele di intraprendere azioni unilaterali e rischiose, come l’operazione contro Gaza, che ha suscitato non poche preoccupazioni.

Questo atteggiamento potrebbe portare a un crescente isolamento internazionale, minacciando la capacità di Israele di manovrare diplomaticamente e di mantenere gli Accordi di Abramo.

 

L’approccio di Israele verso le alleanze con i paesi del Golfo, motivato dalla comune ostilità verso l’Iran, appare oggi in bilico.

L’apertura di molteplici fronti di conflitto non solo mette a rischio questi accordi, ma potrebbe portare alla formazione di una coalizione di nemici regionali, intensificando il rischio di una guerra multi-arena.

 Tale escalation spinge il paese in una situazione dove la definizione di “nemico” si estende a vari attori, aumentando la tensione su più fronti e complicando la strategia difensiva.

 

Dal punto di vista strategico-militare, Israele basa la sua tattica su una deterrenza illimitata, nota come “strategia del cane pazzo”.

 Questa tattica prevede risposte aggressive e imprevedibili per scoraggiare i nemici, ma comporta anche rischi elevati.

La dispersione di Israele su fronti multipli – Gaza, Libano, Siria, e indirettamente Iran – rischia di sovraccaricare le sue risorse operative, con difficoltà nel mantenere una difesa efficace su tutti i fronti.

 Una strategia di deterrenza illimitata su più fronti, senza un piano chiaro, potrebbe rivelarsi insostenibile e alienare i possibili alleati.

 

L’indipendenza operativa di Israele, che spesso ignora i consigli di Washington, ha portato tensioni nelle relazioni con gli Stati Uniti, fondamentali per la sicurezza israeliana.

 L’evoluzione del conflitto in altre aree strategiche, come l’Ucraina, sta distogliendo l’attenzione degli Stati Uniti, e se Israele continuerà ad agire unilateralmente, potrebbe trovarsi a perdere una parte del sostegno americano.

A questo si aggiunge l’effetto boomerang del conflitto perpetuo, che genera un ciclo di violenza continua, rafforzando il nemico e radicalizzando nuove generazioni di palestinesi e arabi, minando l’efficacia delle operazioni israeliane e creando le basi per un conflitto senza fine.

 

Infine, il conflitto con gruppi come Hamas e Hezbollah evidenzia i limiti della deterrenza tradizionale.

 La natura asimmetrica di questa guerra, fatta di attentati e incursioni mirate, sfida la capacità di controllo di Israele e rende inefficace la deterrenza in un contesto di estrema radicalizzazione, dove i nemici mostrano resilienza e volontà di sacrificio.

 

In conclusione, Israele si trova in un contesto di guerra prolungata, sostenuta da superiorità tecnologica e appoggio americano.

Tuttavia, l’approccio basato sulla deterrenza illimitata e l’apertura di fronti multipli rischiano di alienare gli alleati, esaurire le risorse, e rendere la sua stessa esistenza più fragile.

 La politica israeliana sembra ormai orientata verso il conflitto come unica opzione, abbandonando l’idea di una soluzione pacifica, e mirando a un predominio militare che, però, non garantisce una sicurezza duratura.

 

 

 

 

 

I tanti falchi e i pochi diplomatici

di un mondo in guerra perpetua.

Ilbolive.unipd.it – (15 -5 -2025) - Andrea Gaiardoni – ci dice:

 

 È questa l’epoca dei “falchi”, degli intransigenti, degli interventisti.

Di quei capi di governo che privilegiano l’uso della forza militare come strumento maestro per raggiungere i propri obiettivi, spesso anteponendo la giustificazione della “sicurezza nazionale”, senza che la comunità internazionale riesca in alcun modo a intervenire per prevenire, per disinnescare.

 Mai come oggi, ottant’anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, le fragilità del sistema diplomatico globale sono state così evidenti:

risoluzioni ignorate, organismi disconosciuti (anche i più autorevoli) e attaccati politicamente da una parte o dall’altra, come se la “sovranazionalità” non fosse più un dogma, come se la definizione di ciò che è giusto e cosa sbagliato non fosse più una questione di regole morali condivise (per dirne una: è ancora vietato bombardare civili inermi), ma di competenza dei singoli governi che, a seconda delle stagioni politiche, guidano le varie nazioni.

E se la diplomazia ha le armi spuntate, gli eserciti dimostrano invece di averle ben affilate: e di dettare nuove (in realtà secolari) regole per risolvere le questioni tra Stati, gettando al vento quelle stabilite, di comune accordo, nel 1945, quando l’orrore per quanto accaduto era ancora vivo.

 “Negli ultimi tre anni l’idea che i paesi non vadano in guerra è scomparsa,“ sostiene “Samir Puri”, direttore del “Centro per la Governance Globale e la Sicurezza” del centro studi britannico Chatham House.

 “L’invasione su vasta scala dell’Ucraina da parte della Russia è iniziata nel 2022 e continua con attacchi quotidiani di missili e droni in mezzo a sforzi di mediazione non convincenti da parte degli Stati Uniti.

Israele sta ora pianificando di impadronirsi di Gaza nella sua rinnovata offensiva contro Hamas, poiché Donald Trump sembra aver perso interesse nel cercare di porre fine a una guerra in cui sono stati uccisi più di 50mila palestinesi.

 

Paesi distanti migliaia di chilometri si sono attaccati a vicenda.

 L’Iran ha lanciato due volte complessi attacchi a lungo raggio contro Israele nel 2024: siamo in un mondo in cui rivali e nemici sono sempre più disposti a lanciarsi missili l’uno contro l’altro”.

 

Attualmente nel mondo sono attivi più di 50 conflitti armati (le stime sul punto divergono, ma è comunque il numero più alto registrato dalla fine della Seconda Guerra Mondiale) che coinvolgono direttamente o indirettamente oltre 90 Paesi.

L’ultimo è deflagrato improvvisamente la settimana scorsa e ha visto coinvolti India e Pakistan (entrambe potenze nucleari, dunque con un coefficiente di pericolosità altissimo), lungo il confine storicamente conteso, non soltanto per questioni identitarie e religiose, nella regione del Kashmir (l’area è cruciale per il controllo delle risorse idriche).

Quattro giorni di scontri e di tensioni, con lancio di missili e droni, interrotti domenica scorsa da un improvviso “cessate il fuoco”:

 con il presidente americano Donald Trump che si è subito intestato il merito di aver convinto i leader dei due paesi a “usare il buon senso”.

L’ultimo report “Conflict Index”, pubblicato alla fine dello scorso anno dall’”Armed Conflict Location & Events Dataset” (ACLED), ha rilevato un aumento del 12% degli scontri armati nel 2023 rispetto al 2022 e di oltre il 40% negli ultimi quattro anni.

“La violenza internazionale e di stato rappresenta una quota crescente dei tassi di conflitto complessivi”, è scritto nel report.

“I tassi di eventi di conflitto sono cresciuti di oltre il 25% nel 2024 rispetto al 2023, e gran parte di ciò è dovuto al conflitto emergente tra gli Stati e gli stretti affiliati degli Stati in tutto il Medio Oriente”.

Le situazioni più drammatiche, stando al solo conteggio delle vittime stimate nel 2024, sono in Ucraina e a Gaza;

 ma ci sono anche le guerre civili in Myanmar, in Sudan, in Etiopia;

ci sono i gruppi terroristici che seminano terrore e morte in Nigeria e in Burkina Faso, come in Mali, nella Repubblica Democratica del Congo, in Camerun, nel Niger.

E la piaga di Haiti, con gli scontri senza fine tra bande criminali.

Esistono le foto delle violenze ad Haiti.

 

Le tragiche conseguenze dei conflitti.

Ma queste guerre non producono soltanto vittime e feriti:

portano sofferenze, sfollamenti, crisi alimentari e sanitarie, che si sommano a quelle ambientali derivanti dal cambiamento climatico.

Provocano shock economici (chiusura di attività, blocco degli investimenti, fuga di capitali) che spesso si traducono in crisi a lungo termine che possono ostacolare lo sviluppo per generazioni.

Un altro istituto di ricerca, l’”Emergency Watchlist dell’International Rescue Committee” (IRC), ha stilato una classifica delle 10 nazioni che nel 2025 avranno maggiori probabilità di affrontare un’escalation delle crisi umanitarie: “Nonostante rappresentino soltanto l’11% della popolazione mondiale - scrive l’IRC -, questi paesi rappresentano uno sproporzionato 82% delle persone che necessitano di aiuti umanitari”.

 In cima alla classifica c’è il Sudan, definita “la più grande crisi umanitaria mai registrata e la più grande e veloce crisi di sfollamento del mondo”, con oltre 30 milioni di persone che hanno, o meglio avrebbero, bisogno di assistenza.

Poi la devastazione di Gaza ad opera dell’esercito di Israele, che oltre a insistere con il devastante bombardamento della Striscia si ostina a mantenere un blocco quasi totale sulla consegna degli aiuti (cibo, acqua, cure mediche) “contravvenendo al rispetto dei principi umanitari fondamentali”, come rimarca l’Onu.

Un tempo il “faro” era il diritto internazionale umanitario, sancito dalle convenzioni di Ginevra, che valeva come controllo sui conflitti armati:

con le parti in guerra tenute ad aderire al principio di distinzione tra militari e civili e al principio di proporzionalità (gli attacchi contro obiettivi militari che causano un numero eccessivo di vittime civili rispetto al vantaggio ottenuto sono considerati, in teoria, un crimine di guerra).

Sembra preistoria alla luce di quanto sta accadendo quotidianamente, davanti ai nostri occhi.

 

Al terzo posto, in questa classifica delle tragedie umanitarie, c’è il letale mix tra guerra civile e disastri naturali in Myanmar:

il solo terremoto del 28 marzo scorso ha provocato quasi 4mila morti, con 55.000 case distrutte in diverse regioni, ma questo non ha fermato gli attacchi contro i civili.

Ma c’è anche un drammatico problema di disponibilità finanziarie: secondo il “Global Humanitarian Overview “(GHO), stilato dall’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari (OCHA), il fabbisogno di finanziamento globale per il 2025 dovrebbe essere di oltre 46 miliardi di dollari per assistere, concretamente, 188 milioni di persone bisognose in 72 nazioni.

Ma i finanziamenti effettivi superano di poco i 4 miliardi di dollari, pari al 9% del necessario: il che porta a un drastico ridimensionamento delle operazioni umanitarie.

Anche esuli del Sudan sono scappati dai conflitti.

La nuova prevalenza del disordine globale.

Dunque a questo siamo: a una forsennata corsa al riarmo (anche in Europa, come se fosse “normale”) perché “così fan tutti” in un fiorire di sfide tecnologiche e ibride sempre più sofisticate, tra aggressioni e minacce di annessioni, perché “viviamo in un momento così importante e pericoloso”, per usare le parole della presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen.

 Ma è l’attuale disordine globale ad aver stravolto i rapporti internazionali, ribaltando la grammatica della diplomazia, togliendo spazi e parole ai “mediatori”.

Spingendo anche l’attuale Papa Leone XIV a riprendere le parole del suo predecessore, Francesco, parlando di “terza guerra mondiale a pezzi” e lanciando un appello ai potenti del mondo: “Mai più guerra”.

Non sarà ascoltato, come il suo predecessore: ma questo non toglie forza al gesto, al messaggio.

Disarmiamo le parole per disarmare la Terra.

Papa Leone XIV.

Scriveva pochi giorni fa” Othon A. Leon”, direttore del “Canadian Centre for Strategic Studies” di Montreal, in un intervento pubblicato dall’autorevole rivista “Modern Diplomacy”:

 “L’8 maggio 1945 segnò non solo la sconfitta della Germania nazista, ma anche la nascita di un nuovo ordine internazionale”, ricorda Leon.

“Nella loro incessante ricerca per prevenire il ripetersi di tale devastazione, le potenze alleate vittoriose cercarono di costruire un'architettura diplomatica radicata nella cooperazione, nell'interdipendenza economica e nella sicurezza collettiva.

Tuttavia, dopo ottant’anni di riflessione, l’ordine del dopoguerra non è riuscito ad affrontare le profonde tensioni strutturali che continuavano a plasmare gli affari globali.

Mentre ha impedito un’altra guerra mondiale, non è riuscito a contenere o risolvere le numerose piccole guerre e le crisi di lunga data che sono scoppiate sulla sua scia.

 La cattiva gestione del processo di decolonizzazione, l’ostinazione delle ostilità della Guerra Fredda, l’escalation dei conflitti per procura nel Sud del mondo e l’incapacità di prevenire o mitigare la frammentazione del mondo post-sovietico evidenziano i limiti di questo ordine.

 Il mondo di oggi, caratterizzato da disuguaglianze radicate, sfiducia strategica, arretramento democratico e violenza persistente, è il risultato di questi fallimenti diplomatici”.

 

La questione diventa ancor più complessa se si tiene conto dell’aspetto economico della vicenda, della guerra intesa come “straordinario business” per l’industria bellica (a puro titolo di esempio: secondo uno studio del 2024 di Greenpeace Italia i profitti delle prime 10 imprese esportatrici di armamenti dall’Italia si sono moltiplicati in due anni, sia in termini di utile netto, con un aumento del 45%, sia come flusso di cassa disponibile, con un balzo del 175%).

Scriveva pochi mesi fa l’”associazione Massachusetts Peace Action” (MAPA):

 “Cosa dovremmo pensare di questa apparente normalizzazione della guerra e del suo rapporto con la redditività delle imprese?

Gli interessi economici sia della Russia sia degli Stati Uniti, ad esempio, entrambi importanti fornitori di armi, hanno beneficiato del conflitto in corso nella guerra in Ucraina.

È assurdo suggerire che, finché questo conflitto continuerà, le entità aziendali di entrambi i paesi continueranno a godere di una miniera d'oro per gli affari non solo in termini di costruzione e fornitura di armi, ma anche di ricostruzione delle infrastrutture gravemente danneggiate del paese?

 L’applicazione di questo modello alla nozione di guerre eterne in generale, e all’Ucraina in particolare, si collega facilmente a possibili secondi fini geopolitici. Se questo conflitto dovesse essere risolto diplomaticamente, gli appaltatori della difesa di entrambe le parti perderebbero il loro “gravy train” (treno della cuccagna).

Negli Stati Uniti, data la smisurata influenza lobbystica a Washington, non sorprende che la guerra sia continuata così a lungo”.

 

 

 

Dalle leggi della robotica

alle “leggi dell’AI.”

Ilbolive.unipd.it - Mattia Soppelsa – (23 luglio 2025) – ci dice:

 

 Sì: il titolo è volutamente provocatorio.

 E no: almeno in Europa non ci sono automi dotati di intelligenza artificiale, in stile Asimov, che si apprestano a scrivere e a dettare legge.

 È inutile negare, però, che molti Paesi – tra cui l’Italia – stanno ampiamente sperimentando (e non solo) sistemi di AI che permettano, a vari livelli, di semplificare, migliorare, gestire il grandissimo spettro del sistema legislativo.

D’altra parte, era solo questione di tempo: l’intelligenza artificiale permea, ormai, qualsiasi livello della nostra società.

 Le chatbots sono ampiamente usate, le implementazioni nella vita di tutti i giorni sono più che visibili.

Viene da sé che l’AI sbarcasse anche nella politica e nella sua complessa gestione. Si tratta soprattutto di sperimentazioni, grandi o piccole con un caso eclatante: quello degli Emirati Arabi Uniti, ma ci arriveremo.

 

L’Italia e il Parlamento.

L’annuncio è arrivato nel luglio del 2025:

 il Parlamento italiano avvierà una fase di sperimentazione sull’utilizzo dell’intelligenza artificiale nel processo legislativo.

Il progetto, condiviso tra Camera e Senato, è stato illustrato con l’obiettivo di valutare in modo concreto le potenzialità dell’ “IA generativa come strumento di supporto all’attività normativa.

 

La sperimentazione italiana si concentra su tre ambiti:

 la generazione di bozze legislative, la produzione automatica di sintesi e comparazioni normative, e la risposta a quesiti giuridici tecnici da parte degli uffici legislativi.

A essere coinvolte sono alcune delle principali AI generative disponibili sul mercato, selezionate sulla base di criteri tecnici, ma anche in relazione alle linee guida europee in materia di affidabilità, sicurezza e trasparenza.

 Il progetto è sotto la supervisione di un comitato tecnico-scientifico, incaricato di monitorarne l’implementazione e gli effetti, ed è previsto un costante aggiornamento verso i presidenti delle due Camere.

 

Il primo obiettivo dichiarato non è quello di sostituire il lavoro dei funzionari o dei parlamentari, ma di fornire uno strumento di ausilio alla produzione normativa e alla sua valutazione preliminare.

In pratica, l’intelligenza artificiale verrà impiegata per fornire versioni iniziali di testi legislativi o di emendamenti, aiutando gli uffici a identificare incoerenze, sovrapposizioni normative e potenziali conflitti con leggi esistenti.

 

A differenza di quanto si sta sperimentando in altri contesti, il Parlamento italiano ha scelto un modello prudente e graduale.

Ogni output prodotto dall’IA è validato da personale umano, e non è prevista – almeno per ora – alcuna forma di autonomia decisionale. Inoltre, i dati utilizzati per l’addestramento o la consultazione dei modelli devono essere trattati nel rispetto della normativa europea sulla privacy e con attenzione alla riservatezza dei contenuti parlamentari.

 

Il progetto si inserisce nel più ampio quadro normativo dell’”AI Act”, il regolamento europeo approvato nel 2024 che l’Italia recepirà con l’approvazione del “Disegno di legge sull’Intelligenza artificiale” che attende l’ultima lettura del Senato.

 

Emirati Arabi Uniti: IA al centro del sistema normativo.

Diverso è il quadro negli Emirati Arabi Uniti, dove l’intelligenza artificiale è già utilizzata in modo strutturato dal 2023 come supporto diretto alla produzione normativa a livello federale.

Il progetto, sviluppato sotto l’egida dell’UAE Government Development and the Future Office, prevede un’integrazione continua tra algoritmi e funzionari pubblici, in un sistema centralizzato che mira all’efficienza legislativa.

 

A livello operativo, le funzioni dell’intelligenza artificiale vanno dalla redazione delle proposte di legge alla simulazione d’impatto sociale, fino all’aggiornamento automatico dei testi normativi sulla base di nuovi dati o modifiche internazionali.

Il cuore tecnico del sistema è gestito dal “Regulatory Intelligence Office” (RIO), una struttura che combina capacità predittive, elaborazione semantica multilingue e analisi automatizzata delle norme.

 

Il modello emiratino, a differenza di quello italiano, non prevede una fase sperimentale limitata.

L’intelligenza artificiale è già entrata a far parte dell’intero ciclo legislativo e viene utilizzata con regolarità in tutti i ministeri e negli uffici legali.

La supervisione avviene tramite un comitato governativo misto, che comprende rappresentanti tecnici, legali e religiosi.

Tuttavia, manca una forma di controllo indipendente sull’intero processo.

 

Nel quadro giuridico emiratino, l’impiego dell’IA nel diritto non è accompagnato da una normativa specifica paragonabile all’AI Act europeo.

Le decisioni vengono prese con un approccio centralizzato, e le tecnologie vengono aggiornate in modo flessibile, sulla base delle esigenze del governo.

 Le questioni legate alla privacy e all’etica vengono gestite a livello ministeriale, secondo standard interni piuttosto che regolamenti sovranazionali.

 

Uno degli aspetti centrali è la creazione di un database normativo digitale unificato, da cui l’intelligenza artificiale attinge per elaborare i testi.

Questo permette una visione d’insieme più coerente, ma comporta anche un forte accentramento delle fonti informative.

L’uso dell’IA è inoltre esteso all’interazione con il pubblico:

alcune chatbot istituzionali sono in grado di spiegare ai cittadini, in arabo e inglese, il contenuto delle leggi e le procedure amministrative collegate. Rimangono i problemi di fondo:

mancanza di trasparenza e centralizzazione del processo decisionale per quanto riguarda gli aspetti democratici e sociali;

evidenti problemi etici e di probabilità di bias nel caso l’AI interpretasse male dei dati e non ci fosse un sufficiente controllo (o fosse del tutto assente) umano sul processo.

 

Infografica sulle sperimentazioni legislative AI.

Le sperimentazioni in corso.

 

Altri paesi: tra ricerca e applicazione concreta.

Oltre all’Italia e agli Emirati Arabi Uniti, sono in corso sperimentazioni simili in altri paesi europei.

 In Francia, l’Assemblea Nazionale sta testando un modello per la valutazione dell’impatto normativo delle leggi tramite IA, mentre in Germania sono attivi progetti pilota in collaborazione con istituti universitari e think tank per l’analisi dei testi legislativi.

 

In Spagna, il Senato ha avviato una riflessione istituzionale sull’uso dell’IA nel monitoraggio dell’applicazione delle norme.

Il Portogallo ha integrato strumenti di IA nella redazione di regolamenti amministrativi, ma non ancora nel Parlamento.

 

Al di fuori dell’Europa, si segnalano le attività del Parlamento del Canada, dove alcuni software AI sono utilizzati per la semplificazione del linguaggio normativo, e del governo del Cile, che ha lanciato un programma pubblico di consultazione algoritmica sulle riforme fiscali.

 

Tuttavia, in quasi tutti questi casi, l’impiego dell’IA è ancora oggetto di valutazione etica e sperimentazione limitata.

Gli unici paesi ad aver introdotto un’architettura normativo-legislativa con l’IA già attiva e operativa a regime sono, al momento, proprio gli Emirati Arabi Uniti e – in modo parziale – la Cina.

Non a caso, due Paesi in cui la prudenza, lo spirito democratico e l’etica non sono al primo posto in quanto a tutela.

 

 

Netanyahu gioca di astuzia,

Hamas non può che rifiutare

la proposta.

Ilmanifesto.it - Sabato Angieri -Redazione – (24 gennaio 2024) – ci dice:

 

Israele/Palestina Qualcosa sul piano diplomatico si muove, ma a Gaza non è ancora tempo di tregua.

Secondo «funzionari anonimi» egiziani sentiti dall’Ap, il governo israeliano avrebbe proposto una pausa di due mesi.

Esiste la foto della protesta dei familiari degli ostaggi davanti alla Knesset.

 

Qualcosa sul piano diplomatico si muove, ma a Gaza non è ancora tempo di tregua.

 Secondo «funzionari anonimi» egiziani sentiti dall’Ap, il governo israeliano avrebbe proposto una pausa di due mesi nella Striscia, la liberazione di alcuni prigionieri palestinesi nelle carceri israeliani e la possibilità per i leader di Hamas a Gaza di trasferirsi in altri paesi.

 In cambio Tel Aviv chiede la liberazione di tutti e 130 gli ostaggi rapiti il 7 ottobre. Stando agli stessi funzionari, tuttavia, i rappresentanti di Hamas hanno rifiutato la proposta.

 

LA NOTIZIA sembra inaspettata.

Da un lato, per alcuni significherebbe che il governo Netanyahu non sta considerando soltanto l’opzione tabula rasa, come ripetono continuamente i rappresentanti dell’esecutivo.

Ieri il ministro della difesa di Israele, Yoav Gallant, ha dichiarato: «Questa è una guerra che determinerà il futuro di Israele per i decenni a venire: la caduta dei combattenti ci costringe a raggiungere gli obiettivi della guerra».

Anche se Gallant si riferiva specificatamente ai 21 militari israeliani caduti nelle scorse ore, le sue parole non si sono discostate di un millimetro dalla linea dei vertici israeliani.

«Sradicare Hamas da Gaza e mettere in sicurezza la Striscia» è il mantra di Netanyahu e del suo governo fin dal giorno seguente agli attacchi terroristici di Hamas.

 

Tra l’altro il premier ieri ha dichiarato: «La mia aspirazione principale è la vittoria totale, niente di meno».

Dall’altro, indicherebbe che forse le pressioni internazionali degli Usa e della comunità internazionale e quelle interne starebbero mettendo in difficoltà Bibi.

 

LE IMMAGINI dei familiari delle vittime che fanno irruzione in una riunione di commissione al parlamento a Gerusalemme hanno fatto in fretta il giro del mondo.

Così come la testimonianza di Aviva Siegel, una degli ostaggi liberati da Hamas che ha raccontato di fronte alla Knesset di aver assistito ad abusi e atrocità subiti dagli ostaggi.

 

«I terroristi portano vestiti che non vanno bene per le ragazze, le vestono come le bambole. Hanno trasformato le ragazze nelle loro bambole, con cui possono fare quello che vogliono», si legge sulle colonne del Times of Israel.

 Secondo Siegel gli stupri «toccano anche i ragazzi».

E intanto le grandi città israeliane compaiono spesso cartelli con il volto di Netanyahu insanguinato e la scritta «dimettiti».

 

Le stesse fonti anonime egiziane sostengono che Hamas avrebbe rilanciato con la sua nota richiesta: non verranno rilasciati altri ostaggi finché Israele non metterà fine alla sua offensiva e si ritirerà da Gaza.

 Il motivo è pratico: la proposta israeliana sarebbe per Hamas un suicidio e Tel Aviv, quando l’ha avanzata con un’astuta mossa politica, sapeva già che era irricevibile.

Perché senza ostaggi la forza ai tavoli diplomatici del gruppo sarebbe ridotta a zero.

Hamas punta a un cessate il fuoco permanente, altrimenti tra due mesi l’offensiva non avrà limite alcuno.

 

IN OGNI CASO Israele non commenta le indiscrezioni sulle trattative.

Ma due conferme indirette ci sono.

Secondo la CN, il capo del Mossad (i servizi segreti israeliani), David Barena, avrebbe proposto che i leader di Hamas vengano esiliati dalla Striscia come parte di un più ampio accordo di cessate il fuoco.

 

Il portavoce del ministero degli esteri del Qatar, Majed al-Ansari, in serata ha aggiunto:

«Non posso dare dettagli specifici sulla mediazione in corso ma posso dire che siamo impegnati in discussioni serie con entrambe le parti.

 Stiamo ricevendo un flusso costante di risposte da entrambe le parti e questo è motivo di ottimismo».

Anche se, per ora, l’ottimismo è soltanto il suo.

 

Trump, la Nazionalizzazione della FED

e il Colpo di Grazia all’Euro.

Conoscenzealconfine.it – (29 Luglio 2025 )- Cesare Sacchetti – ci dice:

 

La visita non è stata affatto gradita. L’attuale governatore della Federal Reserve Bank, “Jerome Powell”, non voleva che lo staff della Casa Bianca venisse in visita alla sede della banca centrale americana, e allora è venuto direttamente il comandante in capo, Donald Trump, che ha avuto in passato non pochi screzi contro l’attuale governatore.

 

Nei giorni scorsi se ne è avuto un altro esempio quando il presidente degli Stati Uniti, dopo che Powell ha negato che il conto della ristrutturazione della FED fosse lievitato oltre il budget previsto, ha tirato fuori dalla tasca il conto con i numeri che smentivano il governatore della FED.

 

Si potrebbe dire che quello di giovedì è stato un avviso di sfratto a Powell perché Donald Trump da un po’ di tempo a questa parte ha mostrato molta insoddisfazione nei confronti di un governatore che continua a tenere alti i tassi e ad essere disallineato dalla politica economica dell’amministrazione Trump.

L’operazione che il presidente degli Stati Uniti sta portando avanti però sembra andare ben oltre la semplice nomina del governatore della più importante banca centrale al mondo.

 

Trump vuole mettere fine ad una policy che marcava una rigida linea di separazione tra il potere politico e quello monetario, una soglia che nessun altro presidente prima di lui aveva osato superare, salvo il compianto presidente Kennedy che aveva firmato un ordine esecutivo per consentire la creazione di dollari emessi direttamente dal Tesoro.

 

La Guerra dei Presidenti Contro le Banche.

Si tratta di un conflitto che è parte della storia degli Stati Uniti sin dagli albori, quando i vari presidenti si sono dovuti tutti ritrovati a combattere delle guerre costanti con il “grande” potere delle banche e della finanza che hanno sempre cercato di controllare la creazione della moneta in America.

 

A scontrarsi per primo con tali poteri è stato il presidente Jackson che nel 1832 decise di mettere fuori legge la First United States Bank che si era arrogata il diritto di stampare moneta.

Il presidente americano era così fiero di essere riuscito a sconfiggere il cartello bancario che decise di far scrivere sulla sua lapide la frase “I beat the bank”, ovvero “ho sconfitto la banca”.

 

Stessa guerra si trovò a combattere un altro grande presidente americano quale Abraham Lincoln, che aveva deciso di creare una moneta puramente statale, il cosiddetto “greenback”, emesso direttamente dal Tesoro, e che doveva essere stampata per consentire allo Stato di poter crescere e di creare così quei posti di lavoro necessari per il benessere di una nazione.

A distanza di più di un secolo, il presidente Trump si trova ancora una volta a combattere con il “potere dell’alta finanza” che nel 1913 ha partorito la creazione della “Federal Reserve Bank.”

Se si dà uno sguardo alla struttura organizzativa della FED si vedrà che essa non è direttamente nelle mani del governo americano, ma dalle varie filiali che la compongono, quale, ad esempio, la FED di New York, partecipata a sua volta dalle banche del settore privato.

 

Sono i “grandi” banchieri di Wall Street quali i Rockefeller, gli Schiff, i Kuhn & Loeb, i Vanderbilt, i veri proprietari di tale banca e tali verità sono persino contenute negli atti ufficiali del Congresso americano che discusse l’assetto proprietario della banca centrale americana.

 

Una nazione per poter essere realmente indipendente, deve avere la facoltà di stampare la sua moneta e deve poter controllare la sua banca centrale, senza la quale è impossibile fare una politica economica rivolta verso l’interesse nazionale.

 

Si spiega così, ad esempio, la crisi permanente che affligge l’eurozona ormai da più di 15 anni perché i Paesi che hanno adottato la moneta unica hanno rimesso la facoltà di stampare moneta alla BCE, un istituto di Francoforte partecipato dalle banche centrali nazionali dei vari Paesi europei, partecipate a loro volta da banche private che di fatto sono le vere proprietarie dell’Eurotower.

 

Donald Trump aveva molto bene chiaro tale concetto.

Sapeva sin dal primo istante che per restituire la piena sovranità al suo Paese avrebbe dovuto liberare la FED e mettere fine al “dogma” partorito verso la fine degli anni’70 dai “Chicago Boys” di Milton Friedman, economista padre del neoliberismo, che ha stabilito la separazione tra il governo e la banca centrale.

 

Se ne sa qualcosa di tale politica proprio in Italia, laddove nel lontano 1981, l’allora governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, e l’ex ministro del Tesoro, Beniamino Andreatta, decisero arbitrariamente di attuare il famigerato “divorzio”, privando così il governo della facoltà di monetizzare il proprio debito pubblico e abbassare i tassi di interesse.

 

Chi ha vissuto negli anni’80 ricorderà che in quel periodo storico i tassi sui titoli di Stato erano particolarmente alti, e ciò avvenne proprio perché il ministero del Tesoro non poteva più ordinare a Bankitalia di comprare i bot al tasso indicato dal governo.

 

A decidere in quel preciso istante i tassi di interesse non era più lo Stato, ma il mercato, e il passaggio che si è verificato in quella fase ha di fatto finanziarizzato l’economia e provocato la cosiddetta impennata del debito pubblico, che non è schizzato in alto per le tangenti o per Bettino Craxi, come vuole la vulgata di Marco Travaglio, ma per una decisione scellerata di Andreatta e Ciampi, entrambi membri del gruppo Bilderberg.

 

Il presidente Trump conosce bene tali meccanismi e tali politiche monetarie.

Trump vuole arrivare alla fine del precedente status quo, e per poterlo fare ha già sfruttato alcune situazioni quali la “farsa pandemica “che era state concepita espressamente per restringere la sovranità dei governi nazionali e giungere al successivo “Grande Reset di Davos”.

 

Nel 2020 infatti, all’alba dell’inizio della “pandemia”, il presidente ricorse a degli strumenti legislativi noti come” Special Purpose Vehicle” (SPV), che in pratica consentono al governo di controllare la Federal Reserve Bank alla quale venne ordinato di stampare moneta per dare ossigeno alle piccole e medie imprese americane, il cuore pulsante della classe media americana, schierata in larghissima parte con Trump.

 

Il presidente allora non fece altro che creare un precedente.

 Il governo degli Stati Uniti per la prima volta da molti anni ordinava di stampare moneta per sostenere l’economia reale del Paese, piuttosto che fornire liquidità illimitata ai vari finanzieri di Wall Street, che nel 2008 trascinarono gli Stati Uniti e il mondo verso la famigerata crisi dei mutui subprime.

 

Trump oggi sembra intenzionato a chiudere il cerchio.

 A farlo capire è stato proprio il suo segretario al Tesoro,” Scott Besson”, che apparso sugli schermi televisivi della CNBC, ha detto esplicitamente che l’amministrazione Trump vuole esaminare a fondo la Federal Reserve Bank, una dichiarazione che sembra celare l’intenzione di andare verso il completo controllo della FED da parte del governo americano.

 

A intuire che il presidente Trump è intenzionato a mettere fine all’indipendenza della Federal Reserve Bank sono stati già i vari apparati da sempre nemici del presidente, quali, ad esempio, il “Council on Foreign Relations”, che, allarmato, scrisse l’anno scorso che Donald Trump aveva a disposizione uno stratagemma legale per controllare il “Comitato federale del mercato aperto” (FOMC) della FED, ovvero l’organismo della banca centrale americana che controlla sia i tassi di interesse, sia l’offerta di moneta da immettere sul mercato.

 

A comporre il FOMC sono 12 membri, 7 di nomina presidenziale, 1 che è il presidente della FED di New York, e altri 4 membri che appartengono invece alle altre 11 succursali regionali della Federal Reserve. A presiedere tale comitato è Jerome Powell, che detiene anche la carica di governatore della FED.

 

Secondo alcune interpretazioni giuridiche, Trump potrebbe licenziare Powell, privandolo della carica di governatore, ma Powell resterebbe però presidente del citato FOMC, anche se dal 1935 in poi il presidente della FED è stato il presidente del FOMC, e non c’è mai stata una separazione dei due ruoli, cumulati nella stessa persona.

 

Se quindi Trump decidesse di mettere fine anticipatamente al mandato di Powell, che scade a maggio del 2026, appare improbabile che questi possa conservare l’altra carica di presidente del FOMC, rendendolo di fatto un membro zoppo della FED, senza i pieni poteri di cui disponeva in precedenza.

 

Appare chiaro che Trump proprio con la sua visita alla sede della FED si stia muovendo per aumentare la pressione su Powell e indurlo a dimettersi. Il presidente degli Stati Uniti sembra avere un obiettivo molto chiaro e ben definito.

Vuole mettere fine alla stagione della indipendenza della banca centrale americana e vuole far sì che sia il governo degli Stati Uniti a decidere i tassi di interesse e quanta moneta immettere nel sistema.

Si può vedere quindi come il presidente americano sia lontano anni luce dai dettami del neoliberismo che invece vogliono togliere al governo la facoltà di controllare e gestire la banca centrale.

 

Le banche centrali sono state di fatto privatizzate per una ragione precisa.

I vari economisti della scuola di Chicago, come Milton Friedman, che hanno partorito tali idee volevano togliere agli Stati la facoltà di stampare moneta e assegnare così ai mercati il controllo dell’economia e di nazioni intere.

 

Trump e il Colpo di Grazia all’Euro.

Nell’agenda di Trump non c’è però solo la nazionalizzazione della FED.

 A Francoforte, la sede della BCE, nelle varie banche europee inizia a manifestarsi una certa preoccupazione perché il presidente degli Stati Uniti vuole cambiare rotta anche per ciò che riguarda il prestito di dollari erogati a favore della stessa BCE e delle varie banche dei Paesi europei.

 

In passato, negli anni dell’amministrazione Obama, ad esempio, o dell’amministrazione Bush, il problema nemmeno si poneva.

 Se c’era da finanziare la BCE, la Federal Reserve Bank non esitava a prestare dollari all’istituto di Francoforte e alle banche europee che avevano bisogno della moneta americana per onorare determinate obbligazioni e debiti garantiti in quella moneta.

 

L’era di Donald Trump ha messo fine alle certezze del passato, e adesso i vari analisti della BCE stanno già iniziando ad eseguire i cosiddetti stress test che prevedono uno scenario di chiusura dei rubinetti da parte della FED nei prossimi mesi. Gli Stati Uniti sono chiaramente intenzionati a recidere ogni legame con l’Unione europea.

 

Se è fuori di dubbio che l’UE è stata voluta e finanziata sin dal principio dai vari ambienti dello stato profondo americano nell’ottica della costruzione di una governance globale, il presidente Trump, oggi, non ha più alcuna intenzione di fornire liquidità illimitata all’Unione europea, una organizzazione da lui giudicata ostile e che gode di un forte surplus commerciale verso gli Stati Uniti.

 

I dazi sono dunque soltanto la prima parte della strategia di Trump, che, nel “migliore” dei casi porterebbe ad un 15% di tassazione sulle esportazioni europee negli Stati Uniti, e, nel peggiore, una tassazione del 30%.

Trump agisce chiaramente per togliere a Bruxelles l’ossigeno americano di cui ha bisogno per poter esistere da un punto di vista commerciale e monetario.

Le dichiarazioni dei vari “leader” europei che vagheggiano, o delirano, di eserciti comuni europei si scontrano con la realtà dei fatti, che ribadisce ancora una volta una semplice evidenza.

 L’Unione europea non ha la struttura per poter esistere senza il sostegno economico, monetario e militare di Washington.

La nuova politica estera di Washington ha messo a nudo tutte le fragilità e velleità di Bruxelles, che in autunno rischia di trovarsi di fronte ad una grave crisi commerciale e monetaria.

Se si chiude il mercato di sbocco americano, e se si chiude il rubinetto della FED, le pressioni sull’Unione europea e sulla moneta unica saranno fortissime.

 L’euro resta una moneta forte nel cambio ma intrinsecamente debole nella sua struttura.

 

Nonostante il dollaro continui a perdere lo status di moneta di riserva globale, l’euro non riesce a guadagnare terreno.

I mercati sono in attesa.

 Sanno che l’euro è una moneta privata non garantita da uno Stato che non può resistere a lungo, soprattutto senza il supporto degli Stati Uniti.

 

Sin dal principio l’euro è stato costruito così, ovvero come un castello senza fondamenta. A Maastricht, nell’infausto 1992, crearono una banca centrale che non garantiva il debito pubblico degli Stati e che non finanziava il deficit dei vari governi, perché si voleva creare una austerità permanente che avrebbe a poco a poco spogliato completamente le nazioni delle loro ricchezze per consegnarle nelle mani della finanza privata.

 

Tale crisi permanente sarebbe dovuta servire in un secondo momento per fare il passo successivo, quale quello della costruzione degli Stati Uniti d’Europa, dotati di una vera banca centrale, ma i sogni di gloria degli eurocrati sono andati in fumo una volta che gli Stati Uniti hanno iniziato a tagliare i ponti con l’Unione europea. Donald Trump ha messo infatti fine a 80 anni di politica estera Euro-Atlantica.

 

Ad oggi, l’ordine liberale internazionale partorito dalla seconda guerra mondiale è già finito. Non esiste più “Bretton Woods” che assegnava al dollaro lo status di valuta di riserva globale, poiché Washington non è affatto interessata ad avere in tasca una valuta pesante che la costringe ad avere un enorme deficit commerciale con il resto del mondo.

 

Non esiste nemmeno più la NATO il cui bluff di promettere a Trump il contributo del 5% del PIL a favore del Patto Atlantico verrà presto smascherato una volta che i parlamenti nazionali saranno chiamati a discutere i bilanci da approvare, senza dimenticare che i Paesi della NATO non riuscivano a onorare nemmeno il precedente impegno del 2%, figurarsi quindi quello del 5%.

 

Gli Stati Uniti stanno, in altre parole, staccando la spina all’Unione europea che nel prossimo autunno si troverà praticamente soffocata dalle pressioni americane e alle prese con delle gravi crisi interne politiche ed economiche.

 

Non si può quindi non giungere ad una conclusione logica e scontata. L’apparato comunitario non può farcela. Non può sopravvivere a questa fase della storia e non può sopravvivere nello scontro con Washington.

 

Il trattato di Maastricht quest’anno ha compiuto 33 anni di vita, un numero alquanto caro alle massonerie parte integrante di questo sistema.

Di questo passo, non c’è alcuna certezza che arrivi a compierne 34.

(Cesare Sacchetti).

(lacrunadellago.net/trump-la-nazionalizzazione-della-fed-e-il-colpo-di-grazia-alleuro/).

 

 

Cambogia-Thailandia, i motivi

della nuova guerra in Asia.

Pagineesteri.it - Marco Santopadre – Redazione - (25 Lug. 2025) – ci dice:  

 

Pagine Esteri – Proseguono gli scontri armati al confine tra Thailandia e Cambogia, con diversi colpi di artiglieria sparati da entrambi gli eserciti in ben 12 punti della frontiera. Ieri il bilancio degli scontri e dei bombardamenti più intensi dal 2011 era stato di 12 morti thailandesi e centinaia di feriti.

Finora oltre 120 mila persone sono state evacuate dalle zone interessate dai combattimenti.

Oggi il conteggio è salito a 19 morti thailandesi – di cui 13 civili e 6 militari – ed uno cambogiano.

 

L’esercito thailandese ha riferito di scontri avvenuti prima dell’alba nelle province di “Ubon Ratchathani” e “Surin”.

 La Cambogia avrebbe utilizzato artiglieria e sistemi missilistici BM-21 di fabbricazione russa, e la Thailandia avrebbe risposto al fuoco.

 

Le versioni dei due governi sulla scintilla che ha scatenato la nuova fiammata di violenza ovviamente sono opposte.

Stando a quella di Bangkok, sei soldati cambogiani, uno dei quali armato di lanciarazzi, si sarebbero avvicinati alla frontiera e avrebbero aperto il fuoco dando il via a una sparatoria che poi è degenerata in scontro aperto.

Phnom Penh afferma invece che i militari cambogiani avrebbero agito per “autodifesa”, in risposta a un’incursione “ingiustificata” dei thailandesi.

 

In seguito le forze cambogiane avrebbero sparato una raffica di razzi, uno dei quali ha colpito una stazione di rifornimento in territorio thailandese.

 Bangkok avrebbe a quel punto fatto decollare sei caccia F-16 allo scopo di colpire vari obiettivi militari in Cambogia, due dei quali sarebbero stati abbattuti dall’anti-aerea di Phnom Penh che ha risposto con vari colpi di artiglieria contro una base militare oltreconfine.

 Il bombardamento avrebbe però colpito un ospedale e varie abitazioni, uccidendo 11 civili e un militare.

 

Dopo alcuni anni di relativa calma, il conflitto per il controllo di una porzione contesa di frontiera, contigua al cosiddetto “triangolo dello smeraldo”, era già esploso a maggio quando un breve scontro a fuoco tra i rispettivi militari aveva provocato la morte di un soldato cambogiano.

 

Lo scontro tra Phnom Penh e Bangkok risale all’epoca del tracciamento dei confini da parte dei colonizzatori francesi che creò una contesa sul possesso di alcune aree di un confine lungo 820 km.

La prima divisione avvenne nel 1907 quando la Francia, che occupava la Cambogia, tracciò un confine mai accettato dalla Thailandia.

 Alcune delle aree rivendicate da entrambi i paesi sono piene di templi di grande valore storico, artistico e religioso, ed ovviamente simbolico.

 

Dopo il ritiro della Francia dall’area, nel 1953, la Cambogia si rivolse alla Corte di giustizia internazionale, che nel 1963 e di nuovo nel 2013 le diede ragione.

 Ma la decisione non fu accettata dalla Thailandia che non riconosce la giurisdizione dell’organismo internazionale.

 Nel 2008 la tensione sfociò in un violento scontro armato, che si protrasse per tre anni e causò la morte di 28 persone.

 

Ma dietro la nuova guerra ci sono anche motivazioni di altro tipo oltre a quelle legate all’annosa disputa territoriale:

interessi economici legati allo sfruttamento di giacimenti di petrolio e di gas ancora inesplorati, ma anche ai casinò dislocati lungo la frontiera;

 l’intreccio di relazioni politiche e d’affari tra due famiglie storicamente alleate, gli Hun e gli Shinawatra; i rapporti di potere all’interno delle forze armate.

 

A Bangkok il potere è stato per un anno in mano alla 38enne Paetongtarn Shinawatra, figlia dell’ex primo ministro e tycoon delle telecomunicazioni Thaksin, che dopo essere stato deposto da un colpo di stato militare nel 2006 trovò asilo proprio nella confinante Cambogia.

Ad accoglierlo fu Hun Sen, padre dell’attuale premier Hun Manet, che poi nominò il politico thailandese suo consigliere economico causando una crisi diplomatica con il regime militare insediatosi a Bangkok.

 

Un nuovo conflitto politico e diplomatico è esploso nelle scorse settimane a causa della diffusione dell’audio di una telefonata tra la premier Paetongtarn Shinawatra e Hun Sen, realizzata per abbassare la tensione tra i due paesi dopo lo scontro a fuoco di maggio.

 Nella registrazione di sente l’allora premier thailandese rivolgersi in maniera deferente al politico cambogiano con l’appellativo di “zio” e pronunciare delle critiche alla condotta dei propri militari, in particolare al capo del Comando nordorientale dell’Esercito Thailandese Boonsin Phadklang, responsabile delle truppe che avevano aperto il fuoco contro una pattuglia cambogiana al confine.

L’audio della chiamata fu però diffuso via social proprio da Hun Sen, che evidentemente voleva utilizzarla per indebolire la giunta militare thailandese.

A Bangkok si scatena un terremoto politico:

prima il partito di destra “Orgoglio Thai” esce dalla maggioranza di governo, poi 36 senatori denunciano la premier Shinawatra che viene sospesa in attesa del pronunciamento della Corte Costituzionale.

 

Secondo vari analisti, Hun Sen avrebbe diffuso la registrazione della compromettente telefonata per vendicarsi nei confronti della famiglia Shinawatra, inadempiente rispetto alla promessa di accelerare i negoziati sulla definizione della cosiddetta “Area di rivendicazioni sovrapposte”, una zona di 26 mila km quadrati nel Golfo della Thailandia che secondo le stime ospita giacimenti di gas e petrolio finora non sfruttati del valore di 300 miliardi.

 

Il cambogiano Hun Sen, inoltre, sarebbe stato fortemente irritato da una legge, approvata dal governo di Bangkok a marzo, che legalizza i casinò e consente la realizzazione di alcune case da gioco anche nella regione del “Corridoio economico orientale”, al confine con il vicino. In Cambogia il gioco d’azzardo è legale da tempo solo per i turisti stranieri ma è vietato ai residenti locali, e i casinò cambogiani sono frequentati quindi soprattutto da visitatori cinesi e thailandesi che a questo punto però avranno a disposizione anche quelli aperti nel territorio di Bangkok.

La concorrenza thailandese danneggerà un settore economico che rappresenta addirittura, secondo le stime, una quota tra il 5 e il 10% del Pil nazionale cambogiano.

 

Al centro della contesa tra i due paesi ci sono anche i “centri truffa”, strutture illegali gestite da gruppi criminali che operano in vari paesi del Sud-est asiatico per condurre frodi online, scommesse clandestine, falsi investimenti, furti di criptovalute ecc.

 Negli ultimi anni, anche a causa della repressione operata dalla giunta militare thailandese in collaborazione con Pechino, molte di queste attività si sono spostate in Cambogia grazie alla tolleranza del governo locale.

 Nei mesi scorsi, dopo il rapimento di un attore cinese da parte di una gang, le autorità thailandesi hanno preso di mira anche i centri truffa insediati in territorio cambogiano, tagliando ad esempio le connessioni verso la provincia cambogiana di Sa Kaeo.

 

Insomma i motivi di attrito tra Phnom Penh e Bangkok sono numerosi e si sovrappongono alla contesa territoriale che già in passato è sfociata in scontro armato, anche a causa del protagonismo di alcuni comandanti dell’esercito che tentano di utilizzare l’escalation per farsi strada nelle rispettive nomenklature militari o di accrescere il proprio ruolo per contestare i rispettivi governi.

 

Ad esempio in Cambogia alcuni generali della vecchia guardia, protagonisti della guerra contro i “khmer rossi”, sarebbero insoddisfatti delle riforme promesse dal premier Hun Manet, e starebbero cercando di indebolirlo proprio aumentando la tensione con la Thailandia.

 

Nelle ultime ore i governi dei due regni stanno apparentemente tentando di contenere gli scontri e di bloccare l’escalation.

Uno scontro frontale avvantaggerebbe sicuramente Bangkok, che dispone di un esercito più numeroso e meglio equipaggiato.

 

Mentre oggi il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha indetto una riunione d’emergenza per affrontare la crisi gli Stati Uniti, da lungo tempo alleati della Thailandia, hanno chiesto la cessazione immediata delle ostilità.

Anche la Cina, stretto alleato della Cambogia, ha dichiarato di essere profondamente preoccupata per il conflitto in corso e di sperare che entrambi i Paesi «risolvano adeguatamente la loro controversia attraverso il dialogo». –

(Pagine Esteri).

 

 

 

GAZA. “È genocidio”:

 B’Tselem e Physicians for Human Rights accusano Israele.

  Pagineesteri.it - Redazione – (30 Lug. 2025) – ci dice:

 

In uno dei momenti più tesi e significativi dell’offensiva israeliana in corso a Gaza, due tra le più note organizzazioni per i diritti umani israeliane hanno compiuto un passo di grande significato:

accusare apertamente lo Stato di Israele di genocidio.

Lunedì, in una conferenza stampa tenuta a Gerusalemme,” B’Tselem” e “Physicians for Human Rights” hanno presentato rapporti che delineano – nei dati, nelle testimonianze e nell’analisi giuridica – ciò che definiscono “un’azione coordinata e deliberata per distruggere la società palestinese nella Striscia di Gaza”.

 

Un’accusa che scuote le fondamenta stesse della narrazione pubblica israeliana.

«Abbiamo esaminato tutti i rischi:

 legali, reputazionali, sociali.

Sapevamo che questa affermazione avrebbe avuto un costo, ma non potevamo più tacere», ha dichiarato “Sarit Michaeli”, direttore internazionale di B’Tselem.

L’organizzazione, pur marginalizzata nella politica interna, gode di rispetto e riconoscimento a livello internazionale.

 

Il rapporto accusa Israele non solo di aver condotto bombardamenti indiscriminati, ma di aver adottato una strategia sistematica per disintegrare la società palestinese, attraverso la distruzione di infrastrutture civili, l’assedio totale e il blocco degli aiuti umanitari, che ha spinto l’intera popolazione verso una carestia annunciata.

 

Nelle stesse ore in cui veniva presentata la denuncia delle due Ong, un osservatorio internazionale sulla fame nel mondo confermava che nella Striscia di Gaza c’è la fame:

bambini sotto i cinque anni muoiono per malnutrizione, l’accesso umanitario è pressoché nullo, e il collasso sanitario è già realtà.

 

Il bilancio, secondo stime delle Nazioni Unite e di fonti palestinesi, supera ormai le 60.000 vittime, la maggior parte delle quali civili.

Un numero enorme certo non compatibile con l’argomentazione israeliana della “guerra mirata contro Hamas”.

 

Ma in Israele, le parole “genocidio” e “crimine contro l’umanità” restano anatemi.

 Il governo ha risposto con veemenza alle accuse.

Il portavoce dell’esecutivo, “David Mencer”, ha liquidato i rapporti delle ONG come “un uso distorto della libertà di parola” e ha sostenuto che dichiarazioni di questo tipo “alimentano l’antisemitismo nel mondo”.

Anche il ministero degli Esteri e l’ufficio del primo ministro Benjamin Netanyahu, già sotto pressione per il caso aperto alla Corte internazionale di giustizia dell’Aia su iniziativa del Sudafrica, si sono trincerati dietro il rifiuto: “Israele non commette genocidio. Ci difendiamo da Hamas, che usa i civili come scudi umani”, è il mantra ribadito da mesi.

Israele resta fermo sulla sua “guerra difensiva” dopo l’attacco di Hamas nel sud del paese il 7 ottobre 2023.

In questo contesto, il dibattito interno resta ancorato sulla vendetta e la legittimazione della forza.

 

“Yuli Novak”, direttrice esecutiva di “B’Tselem”, ha parlato con tono commosso:

 «È una realtà che la mente fatica ad accettare.  Ma è proprio questa sofferenza che ci impone di dire la verità».

 

Un’analoga determinazione traspare dalle parole di “Guy Shalev,” direttore di “Physicians for Human Rights Israel,” che denuncia un progressivo strangolamento amministrativo e finanziario:

«Conti congelati, ostacoli burocratici, pressioni legali: la macchina della repressione si è già messa in moto, e sappiamo che peggiorerà».

 

La società israeliana, nel suo insieme, resta ostile a queste denunce.

La parola “genocidio” continua a essere vista come un attacco all’identità e alla legittimità dello Stato.

 Ma l’isolamento interno non ha fermato le due Ong, che hanno scelto di allinearsi a un crescente coro internazionale che chiede giustizia e responsabilità per ciò che accade ogni giorno a Gaza.

 

 

 

Il Sud-Est asiatico

da che parte sta?

 Cittanuova.it - Ravida Cheta – (28 Luglio 2025) – ci dice:

 

Nel panorama geopolitico, spesso caotico, l’Occidente (e soprattutto l’Europa), sembra aver perso di vista l’importanza nevralgica di una parte di mondo: il Sud-est asiatico.

Che si troverà presto ad avere un ruolo centrale negli equilibri globali.

 

Il periodo che stiamo vivendo è caratterizzato da un vero e proprio caos geopolitico.

Non si sa che cosa può succedere da un giorno all’altro, mentre si continua ad assistere – ed è assurdo che non si possa fare nulla – alla strage sistematica di palestinesi a Gaza e a quella reciproca della guerra Russo-Ucraina, altrettanto assurda.

 Ma la presenza di altre tensioni, come quella fra Thailandia e Cambogia, ci aiuta a capire come gli equilibri geopolitici stiano cambiando a livello mondiale, in un clima dove, fra l’altro, la finanza continua ad essere padrona della situazione. Basta vedere quanto tempo, spazio, energie sta prendendo la politica dei dazi imposti dagli Stati Uniti, senza considerare i rischi per la stabilità economica a livello mondiale già di per sé precaria.

 

In questo panorama, spesso, soprattutto da parte occidentale (e mi riferisco all’Europa), si perde di vista l’importanza nevralgica di una parte di mondo – il Sud-est asiatico – che si troverà ad avere un ruolo centrale in alcuni equilibri globali.

 Infatti, come fanno osservare due analisti in un attento articolo pubblicato sulla rivista “Foreign Affairs”, più di altre parti del mondo, in tempi recenti, il Sud-est asiatico si è ritrovato al centro della crescente rivalità tra Stati Uniti e Cina.

 Non si tratta, come spesso si crede, di una regione marginale.

In quanto a popolazione, per esempio, in questi Paesi vivono circa 700 milioni di persone.

Attualmente, gli equilibri dei principali Paesi dell’Asia sembrano ben definiti: Giappone, Corea del Sud e Taiwan sono tutti saldamente dalla parte degli Stati Uniti;

l’India sembra allinearsi con gli Stati Uniti, ma ha una lunga amicizia con la Russia e una tradizionale tensione con la Cina;

 il Pakistan sta ovviamente con la Cina;

e anche i paesi dell’Asia centrale stanno stringendo legami sempre più stretti con Pechino.

 A fronte di questo quadro che appare abbastanza stabile, gran parte del Sud-est asiatico sembra rimanere incerta.

 La superpotenza che riuscirà a convincere i Paesi chiave del Sud-est asiatico – Indonesia, Malesia, Filippine, Singapore, Thailandia e Vietnam – a rimanere fedeli alla propria linea avrà maggiori possibilità di realizzare i propri obiettivi in Asia.

 

Per ora, molti di questi Paesi hanno avuto la tendenza a cercare di essere amici di tutti, di ritardare il più possibile il momento di fare una scelta precisa, che significherebbe sposare la linea politica ed economica di una delle grandi potenze e, allo stesso tempo, escluderne altre.

 La cultura di questa parte di mondo è disponibile alla mediazione inclusiva piuttosto che all’esclusione tout court.

Ovviamente, Pechino e Washington hanno fatto della loro rivalità il fatto dominante della geopolitica globale e, dunque, anche di questa parte di mondo.

 I tentativi a ripetizione di conquistarsi le simpatie di uno o l’altro di questi Paesi, non sono finora andati a buon fine.

 La partita resta aperta, come già in un recente passato affermava il primo ministro di Singapore, “Lee Hsien Loon”:

 «Penso che sia molto auspicabile per noi non doverci schierare, ma potrebbero presentarsi circostanze in cui l’Asean [l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico] potrebbe dover scegliere l’una o l’altra.

Spero che non accada presto».

 

Non dobbiamo dimenticare che la stessa Singapore ha prosperato nell’era della globalizzazione, presentandosi come un polo industriale con le porte aperte al mondo.

Il Vietnam, in cui sopravvive una dittatura solo apparentemente comunista, si è trasformato in un importante polo manifatturiero globale, collegato sia alle catene di approvvigionamento cinesi che a quelle occidentali.

 Le vaste nazioni-arcipelago di Indonesia e Filippine, un tempo dilaniate da conflitti interni, hanno visto il loro Pil crescere significativamente dal 2000.

 

In generale, negli ultimi 30 anni, i 10 Paesi del Sud-est asiatico si sono gradualmente ma sensibilmente allontanati dagli Stati Uniti, orientandosi verso la Cina.

Tuttavia, alcuni cambiamenti mostrano come proprio quegli stessi Paesi siano impegnati a fare scelte per restare il più a lungo possibile fuori dalla mischia.

Di fatto, molti non hanno ancora scelto tra Pechino e Washington e preferiscono non scegliere affatto o si affidano agli Stati Uniti per la sicurezza e alla Cina per il commercio, gli investimenti e la crescita economica.

Tuttavia, Pechino e Washington cercano di esercitare sempre più pressione nei confronti di queste nazioni al fine di ottenere una scelta totale e definitiva a favore della propria politica.

Ma non possiamo dimenticare che “definitivo” è un termine pericoloso in Asia:

 i Paesi possono cambiare il loro orientamento piuttosto rapidamente.

Ad esempio, sotto la presidenza di “Gloria Macapagal Arroyo” dal 2001 al 2010, le Filippine si sono orientate verso la Cina.

 Con il successore, Benigno Aquino III, fra il 2010 e il 2016, le Filippine si sono riavvicinate agli Stati Uniti, per orientarsi ancora a Pechino con Rodrigo Duterte, e tornare a Washington con l’attuale presidente Ferdinand Marcos jr.

Tra gli Stati del Sud-est asiatico a maggioranza musulmana, tra cui Indonesia e Malesia, la rabbia per il sostegno di Washington alla guerra di Israele a Gaza ha portato i governi a prendere le distanze dagli Stati Uniti, mettendo in dubbio il ricorso americano al cosiddetto ordine internazionale basato sulle regole.

 

In questo panorama, permane l’assenza dell’Ue che è presente in ordine sparso nella regione, come sempre in ogni sua manifestazione.

Esistono, cioè, contratti di singoli Paesi europei, soprattutto a livello economico, con le nazioni del Sud-est asiatico.

Eppure, si tratta di una regione che avrà un’importanza fondamentale nel futuro prossimo della geopolitica mondiale.

 

 

 

Che cosa c’è dietro le nuove

 regole sul lavoro in Cina.

Formiche.net - Rossana Miranda – (27-08-2021) – ci dice:

 

La Suprema corte del popolo della Repubblica Popolare Cinese ha dichiarato che l’orario di lavoro dalle 9 del mattino alle 9 di sera per 6 giorni alla settimana viola gravemente le normative sul lavoro del Paese.

Per “Jack Ma”, invece, era una benedizione per il settore delle nuove tecnologie

Pechino contro il lavoro illegale.

 Il Supremo Tribunale Popolare della Repubblica popolare di Cina ha dichiarato che gli orari “996”, cioè, dalle 9 del mattino alle 9 di sera per 6 giorni alla settimana, violano gravemente le normative sul lavoro del Paese.

In un documento pubblicato in maniera congiunta con il “ministero delle Risorse Umane e la Sicurezza Sociale”, il tribunale ha illustrato 10 casi giudiziali, alcuni del settore tecnologico, in cui le imprese hanno costretto ai lavoratori ad eseguire questi orari.

 Tra questi casi è emblematico quello di un corriere, che è stato licenziato dopo essersi rifiutato di lavorare con gli straordinari.

 

Il “996” fa parte di una cultura del lavoro applicata specialmente nel settore delle nuove tecnologie.

Eccede di circa il 35% il massimo di ore di lavoro mensili stabilito dalle leggi cinesi (196 ore), con un massimo di 36 ore di straordinari al mese.

 Ma con il “996” i lavoratori possono raggiungere fino a 128 ore di straordinari al mese.

 

Il tribunale cinese sostiene che questa pratica potrebbe danneggiare l’armonia dei rapporti di lavoro e la stabilità sociale, per cui ha pubblicato una guida con le linee che imprese e lavoratori dovrebbero seguire per risolvere i conflitti organizzativi.

 

I lavoratori hanno diritto ad un compenso che corrisponda al loro lavoro, al riposo e alle vacanze, conforme alla legge – si legge nel documento -. È un obbligo legale degli impiegati rispettare le norme nazionali degli orari sul lavoro”.

 

Nel 2019, l’imprenditore “Jack Ma”, fondatore del colosso di e-commerce Alibaba, si era detto difensore dell’orario di lavoro “996”.

 Per lui il sistema è una “benedizione” sulla quale si regge lo sviluppo dell’economia cinese.

 Senza, la crescita economica perderebbe probabilmente la spinta e la vitalità.

Le polemiche sono partite dopo la morte di due lavoratori dell’azienda di commercio elettronico, “Pinduoduo”, per presunto stress ed eccesso di lavoro.

In seguito, la maggior parte delle aziende cinesi del settore tech hanno ridotto gli orari degli straordinari.

 Sebbene queste norme esistano da anni, sono pochi i settori dove sono state rispettate.

Alla fine dell’anno scorso, il governo cinese ha cominciato una campagna per regolare il settore tecnologico, con multe antimonopolio e minacce di ulteriori controlli statali per le acquisizioni in Borsa.

 

Molti analisti ed esperti considerano che Pechino sta cercando di limitare la libertà dei leader delle nuove tecnologie, a causa dell’importanza che hanno nella crescita economica del Paese.

 

 

 

Come assumere a Pechino

facilmente nel 2025.

Ins-globalconsulting.com – Redazione – Ins global – (10 aprile 2025) – ci dice:

 

Employer of Record, Guida sulla Cina.

Key Takeaways.

 

Pechino è la principale città cinese di ricerca e sviluppo, con massicci investimenti in AI, semiconduttori e tecnologia verde.

Le aspettative salariali di Pechino sono tra le più alte della Cina, seconda solo a Shanghai.

Assumere a Pechino significa navigare in alcune delle più severe leggi sul lavoro e procedure burocratiche in Cina.

Summary.

Pechino, capitale politica e cuore culturale della Cina, è anche una potenza per l’istruzione, l’innovazione e l’industria.

Sede di importanti istituzioni governative, imprese globali e alcune delle migliori università asiatiche, Pechino offre immense opportunità per le aziende in cerca di talenti qualificati e ambiziosi.

 

Tuttavia, nonostante il suo fascino, navigare nel panorama delle assunzioni di Pechino comporta più che pubblicare un annuncio di lavoro o firmare un contratto. Tra le severe leggi locali sul lavoro, le prospettive culturali, i requisiti di conformità delle aziende, le restrizioni hukou, l’intensa concorrenza e un numero infinito di ostacoli burocratici in evoluzione, assumere a Pechino è complesso, soprattutto per le aziende straniere.

 

Per fortuna, oltre ad essere completamente aggiornate su tutte le informazioni rilevanti, le aziende possono bypassare molte di queste sfide del tutto, come ad esempio lavorando con un affidabile servizio di Employer of Record (EOR) come quello di INS Global.

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Perché assumere a Pechino? Vantaggi chiave dell’assunzione nella capitale cinese.

 

Pechino non è solo il centro politico della Cina, è anche una potenza economica e tecnologica, che offre diversi vantaggi distinti per le imprese che cercano di espandersi:

Accesso ad un Pool di talenti d’élite.

 

Pechino è la sede di università di altissimo livello tra cui la Tsinghua University, la Peking University, e il Beijing Institute of Technology.

 Il sistema accademico locale produce costantemente una schiera di laureati altamente qualificati in settori quali l’AI, l’ingegneria, l’economia e il commercio.

 

In particolare, la concentrazione di centri di ricerca e sviluppo e sedi multinazionali della città significa che non solo si assumono lavoratori, ma si assumono professionisti di livello mondiale direttamente dal cancello principale.

Industrie leader e sostegno governativo.

 

Settori chiave come l’AI, fintech, biotech, l’industria aerospaziale e le energie rinnovabili fioriscono qui grazie a supporti governativi specifici e ad un ambiente con politiche favorevoli.

 Il portale ufficiale del governo municipale di Pechino descrive una varietà di incentivi fiscali, programmi di finanziamento della R&S e incubatori startup che sostengono le pratiche innovative e attirano imprese straniere in città.

Infrastrutture forti e connettività internazionale.

 

Con due aeroporti internazionali, reti in espansione di treni ad alta velocità e un sistema di infrastrutture digitali in crescita, Pechino è una delle città cinesi più globalmente connessa.

Fornisce un launchpad completamente attrezzato per le imprese che mirano ad espandere le operazioni in tutta la Cina e l’Asia.

Requisiti legali per le assunzioni a Pechino.

 

Assumere a Pechino comporta diversi requisiti di regolamenti, molti dei quali sono simili nel resto della Cina ma con sfumature locali degne di nota.

Contratti di lavoro.

In Cina, tutti i rapporti di lavoro devono essere regolati da contratti scritti entro un mese dalla data di inizio del rapporto di lavoro del dipendente.

Tali documenti, la cui copia prevalente è redatta in cinese, devono specificare le responsabilità lavorative, lo stipendio, le condizioni di lavoro, i periodi di prova e le clausole di risoluzione.

Orario di lavoro e straordinari.

 

L’orario di lavoro standard segue il modello nazionale della settimana lavorativa di “5 giorni, 40 ore”.

 

Il limite massimo di lavoro straordinario è di 36 ore al mese e la retribuzione deve essere aumentata a seconda che si tratti di lavoro nei giorni feriali, nei fine settimana o nei giorni festivi.

 

Tuttavia, va notato che in Cina si segnalano orari di lavoro estesi, con una cultura del 996 (turni di 12 ore per 6 giorni a settimana), cosa non rara in molti settori, nonostante sia illegale.

Con le limitazioni legali spesso applicate in modo più rigoroso a Pechino, è fondamentale che le aziende comprendano i propri limiti e responsabilità per evitare eccessi di lavoro e problemi di conformità in futuro.

Periodi di prova.

La libertà vigilata è consentita in Cina e varia in base alla durata del contratto:

1 mese per contratti <1 anno

2 mesi per contratti da 1 a 3 anni

6 mesi massimo per contratti >3 anni.

 

Regole di risoluzione.

 

Il licenziamento in Cina può essere giuridicamente insidioso. Sebbene la Cina non riconosca il rapporto di lavoro a volontà, il licenziamento unilaterale da parte del datore di lavoro è consentito in condizioni specifiche e rigorose e generalmente prevede un’indennità di buonuscita calcolata in base al numero di anni di lavoro.

 

Previdenza sociale e tassazione a Pechino.

 

Come tutte le città della Cina, i datori di lavoro di Pechino devono rispettare il sistema di previdenza sociale 5+1 e le norme relative all’imposta sul reddito delle persone fisiche (IIT).

Tipo di assicurazione       Contributo del datore di lavoro           Contributo dei dipendenti

Assicurazione pensionistica      16%   8%

Assicurazione medica     10%   2% + ¥3 RMB/mese

Assicurazione contro la disoccupazione       0,8%  0,2%

infortunio sul lavoro       0,2% – 1,9% (in base al settore)          0%

Assicurazione maternità 0,8%  0%

Fondo per l’edilizia abitativa   12%   12%

 

Il tasso dell’Housing Provident Fund (HPF), che fornisce ai lavoratori supporto per l’acquisto di immobili, a Pechino è tra i più alti in Cina.

Questo può aumentare significativamente i costi del lavoro, ma significa anche che i dipendenti ottengono migliori sussidi abitativi, il che può rappresentare un forte incentivo per attrarre talenti cinesi.

Sfide dell’Hukou e dinamiche dei talenti locali.

 

Il sistema hukou di Pechino è uno dei più rigidi in Cina.

Poiché il sistema hukou determina dove i cittadini possono accedere alle prestazioni di previdenza sociale locali, i lavoratori senza registrazione locale potrebbero incontrare difficoltà nell’accesso ad alloggi, istruzione e assistenza sanitaria.

Di conseguenza, molti migranti altamente istruiti finiscono per trasferirsi in città di seconda fascia, sebbene recenti tentativi di allentare il sistema abbiano lasciato intendere il desiderio di aumentare la mobilità interna e le opportunità economiche in grandi città come Pechino.

 

Di conseguenza, la fidelizzazione dei talenti rappresenta una sfida unica a Pechino. Per contrastare le crescenti difficoltà causate da queste restrizioni, i datori di lavoro dovrebbero offrire benefit competitivi e percorsi di carriera a lungo termine per attrarre e trattenere i talenti di alto livello senza l’hukou di Pechino.

Assunzione di dipendenti stranieri a Pechino

 

Pechino è una delle città più internazionali della Cina, ma assumere lavoratori stranieri richiede comunque di superare un processo di approvazione articolato in più fasi.

Permessi di lavoro e visti.

 

Per assumere legalmente un dipendente straniero:

Richiedere un permesso di lavoro al Ministero delle Risorse Umane.

Richiedi un visto Z tramite il canale governativo ufficiale online o tramite l’ambasciata cinese più vicina, che consente la residenza e il lavoro legali.

Sottoporsi a un controllo medico e registrarsi presso la polizia .

Per qualificarsi, gli stranieri devono rientrare nella Categoria A (talenti di alto livello) o nella Categoria B (talenti professionisti). I requisiti variano in base all’età, all’esperienza e allo stipendio offerto.

 

Fortunatamente, INS Global può semplificare questo processo tramite il nostro EOR in Cina, gestendo la conformità e garantendo al contempo un processo di assunzione fluido.

Tendenze e strategie di assunzione a Pechino per il 2025.

 

Con l’aumento del lavoro da remoto e una forza lavoro sempre più esperta in tecnologia, le assunzioni a Pechino si stanno evolvendo. Secondo i recenti dati sul mercato del lavoro pubblicati dal China Labor Bulletin, i datori di lavoro di Pechino si trovano ad affrontare crescenti difficoltà nella ricerca di talenti per ruoli nei settori della tecnologia, della sanità e dei servizi professionali, il che sottolinea l’importanza di strategie di assunzione digitali e modelli di lavoro flessibili.

Enfasi su innovazione e ricerca e sviluppo.

 

Pechino è la principale città cinese per la ricerca e sviluppo, con ingenti investimenti in intelligenza artificiale, semiconduttori e tecnologie verdi.

Oggi, le aziende che offrono maggiori opportunità per progetti di innovazione e ricerca, con possibilità di sviluppo personale e di carriera, possono distinguersi al meglio agli occhi dei candidati più promettenti.

Assunzioni multilingue e transfrontaliere.

 

Data la natura internazionale di molte aziende a Pechino, il bilinguismo (mandarino + inglese) è molto apprezzato, anche se non è ancora abbastanza diffuso da fornire lavoratori qualificati per ogni ruolo aperto.

Piattaforme di assunzione digitali.

 

Piattaforme online come Zhipin, Liepin e BOSS直聘 dominano il mercato del lavoro locale, con sezioni specifiche per le assunzioni a Pechino.

Inoltre, sta crescendo anche il networking professionale su piattaforme come WeChat, Maimai e LinkedIn China.

 

Per le aziende straniere, il supporto alle assunzioni locali o le partnership di reclutamento possono essere essenziali per muoversi efficacemente su queste piattaforme, poiché la conoscenza della lingua cinese e una conoscenza approfondita di culture e pratiche di assunzione specifiche possono essere fattori decisivi per un’assunzione di successo.

Talenti entry-level vs. talenti esperti a Pechino.

 

Talento entry-level.

 

I laureati delle università di Pechino sono altamente motivati ​​e con ottimi risultati accademici, ma potrebbero non avere esperienza pratica . Per compensare, le aziende possono fidelizzare i propri dipendenti e accrescere le loro competenze offrendo programmi di formazione strutturati, tutoraggio e opportunità di sviluppo di carriera.

Professionisti esperti.

I professionisti senior a Pechino si aspettano spesso stipendi competitivi, opportunità di mobilità internazionale e una solida reputazione aziendale. Offrire bonus di rendimento, percorsi di leadership e benefit flessibili può fare una differenza significativa in un mercato del lavoro che richiede stipendi superiori alla media nazionale, come punto di partenza.

Stipendi medi a Pechino per settore (stime del 2025).

 

Industria      Livello base Livello medio          Livello senior

Tecnologia  ¥8.000 – ¥15.000  ¥20.000 – ¥40.000 ¥45.000 – ¥80.000

Finanza        ¥10.000 – ¥18.000 ¥25.000 – ¥45.000 ¥60.000+

Assistenza sanitaria        ¥9.000 – ¥14.000  ¥18.000 – ¥35.000 ¥40.000+

Legale/Conformità          ¥12.000 – ¥20.000 ¥30.000 – ¥50.000 ¥60.000 – ¥90.000

 

Le aspettative salariali di Pechino sono tra le più alte della Cina, seconde solo a quelle di Shanghai.

 

Vantaggi e benefit comuni offerti dai migliori datori di lavoro a Pechino.

Per rimanere competitivi nel mercato del lavoro di Pechino, che è altamente rischioso, i datori di lavoro devono in genere andare oltre lo stipendio per attrarre e trattenere i talenti di alto livello

. Soprattutto in settori come la finanza, la tecnologia e i servizi professionali, pacchetti di benefit completi sono considerati standard, non opzionali.

Indennità di alloggio – A causa dell’elevato costo della vita e dei prezzi immobiliari a Pechino, le indennità di alloggio sono uno dei benefit più apprezzati dalle aziende locali e straniere.

Sono particolarmente importanti per i dipendenti che non possiedono un hukou locale di Pechino, in quanto potrebbero non avere diritto a alloggi sovvenzionati o a opzioni di affitto pubblico.

Anche i lavoratori più giovani o meno qualificati potrebbero apprezzare le aziende che offrono alloggi o dormitori.

Sussidi per pasti e trasporti – Molte aziende, in particolare quelle del settore manifatturiero, dell’istruzione o dei servizi pubblici, offrono buoni pasto, mense aziendali o assegni giornalieri per alleviare l’onere del costo della vita. Anche i sussidi per i trasporti o i servizi di autobus sono più comuni a Pechino, soprattutto per i dipendenti che si prevede debbano percorrere lunghe distanze all’interno dell’area metropolitana della città.

Supporto all’istruzione dei bambini – Per gli expat e i dipendenti cinesi di alto livello, il supporto all’istruzione dei bambini è un vantaggio fondamentale. Questo può includere la copertura delle tasse universitarie presso scuole internazionali, l’offerta di borse di studio o l’assistenza nella complessa procedura di iscrizione scolastica in Cina.

Piani sanitari internazionali –

Sebbene il sistema sanitario pubblico cinese copra l’assistenza sanitaria di base, molti importanti datori di lavoro a Pechino si rendono più appetibili offrendo piani sanitari privati ​​o internazionali 

Questi offrono accesso a cliniche di alta qualità, tempi di attesa più brevi e medici che parlano inglese, un aspetto particolarmente importante per personale e dirigenti stranieri .

Bonus annuali e basati sulle performance – I bonus rimangono una parte importante del pacchetto retributivo complessivo a Pechino.

 È consuetudine ricevere un bonus annuale in occasione del Capodanno lunare (spesso chiamato “tredicesima mensilità”), sebbene il valore medio di questi bonus sia diminuito negli ultimi anni.

Questi bonus sono in genere legati a KPI e possono fungere da validi strumenti di fidelizzazione in un mercato sempre più competitivo.

 

Altri vantaggi emergenti.

 

Poiché il benessere dei dipendenti sta diventando un’attenzione sempre maggiore, le aziende progressiste stanno iniziando a offrire:

Modalità di lavoro flessibili (ad esempio, configurazioni remote o ibride).

Sostegno alla salute mentale e sussidi per il benessere.

Budget per lo sviluppo professionale per l’aggiornamento professionale.

Giornate di volontariato retribuite per migliorare gli sforzi di responsabilità sociale delle imprese.

Sfide comuni nelle assunzioni a Pechino.

Complessità normativa.

Assumere personale a Pechino significa destreggiarsi tra alcune delle leggi sul lavoro e delle procedure burocratiche più severe della Cina.

 Gli uffici del lavoro locali di Pechino applicano rigorosamente le normative nazionali e le aziende devono rispettare requisiti dettagliati relativi a contratti, previdenza sociale e procedure di licenziamento.

Per i datori di lavoro stranieri, la sfida è ancora più grande.

Ottenere permessi di lavoro per cittadini non cinesi può essere un processo lungo e frustrante, che spesso richiede la prova che il ruolo non può essere ricoperto localmente e che il candidato straniero soddisfi determinati requisiti di stipendio, qualifica ed esperienza.

Concorso di talenti.

 

Capitale politica e culturale della Cina, nonché polo tecnologico e finanziario in crescita, Pechino attrae alcuni dei professionisti più qualificati del Paese.

Ma questo significa anche che molte aziende competono per gli stessi talenti. I lavoratori altamente qualificati, soprattutto nei settori dell’intelligenza artificiale, dello sviluppo software e del diritto internazionale, spesso si aspettano più offerte contemporaneamente.

Per avere successo, i datori di lavoro devono agire rapidamente, offrire una chiara progressione di carriera e sviluppare una Employer Value Proposition (EVP) chiara che li differenzi agli occhi dei candidati di alto livello.

Per questo motivo, decisioni lente o pacchetti di lavoro poco chiari possono rapidamente portare a opportunità mancate.

Problemi di conservazione.

Sebbene Pechino offra un ambiente professionale senza pari, presenta anche degli svantaggi che incidono sulla fidelizzazione dei dipendenti, ovvero l’elevato costo della vita, la forte concorrenza e gli ambienti di lavoro ad alta pressione.

 

I dipendenti potrebbero cercare un migliore equilibrio tra lavoro e vita privata o un costo della vita più basso nelle città di Livello 2 come Chengdu, Hangzhou o Qingdao.

Queste città offrono sempre più opportunità di lavoro attraenti, con meno ostacoli burocratici o finanziari. Senza solidi programmi di sviluppo di carriera o benefit interessanti, le aziende di Pechino potrebbero ritrovarsi a perdere talenti a favore di queste alternative emergenti.

Assumi a Pechino.

Assunzioni senza personalità giuridica a Pechino: perché EOR è la scelta intelligente.

 

Costituire un’impresa interamente di proprietà straniera (WFOE) o una joint venture da assumere a Pechino può richiedere mesi e necessita di un notevole investimento di tempo e denaro.

Per le aziende che vogliono testare il mercato o espandersi in modo flessibile, un Employer of Record (EOR) è un’opzione più rapida, semplice e pienamente conforme.

Un EOR come INS Global ti consente di:

Assumere e pagare dipendenti a Pechino legalmente senza costituire un’entità locale.

Gestire stipendi, previdenza sociale e conformità fiscale.

Offrire vantaggi e tutele competitive ai dipendenti.

Concentrarsi sulla strategia aziendale principale invece che sull’amministrazione delle risorse umane.

 

Perché scegliere INS Global come partner per le assunzioni a Pechino?

Fondata in Cina nel 2006, INS Global vanta la competenza e l’esperienza necessarie per supportare le aziende che desiderano espandersi in Cina . Grazie alla profonda conoscenza delle leggi locali e delle procedure di assunzione a Pechino, vi aiutiamo a:

Evitare le insidie ​​legali.

Risparmia tempo e denaro.

Reclutare i migliori talenti locali o stranieri.

Garantire la totale conformità delle risorse umane e delle buste paga.

Assumi entro pochi giorni, non mesi.

Che tu stia assumendo un singolo ingegnere o creando un intero team locale, INS Global semplifica il processo e riduce al minimo i rischi.

 

 

 

 

L’Intelligenza Artificiale

ha Imparato a Mentire!

 Conoscenzealconfine.it – (30 Luglio 2025) - Massimo Mazzucco – ci dice:

 

Esattamente come gli umani, anche l’intelligenza artificiale ha imparato a mentire.

Si inventa cose che non esistono.

Il problema è sorto di recente, da quando il sistema sanitario nazionale americano (HHS) ha introdotto un modello di intelligenza artificiale chiamato ELSA (Efficient Language System for Analysis).

Lo scopo di ELSA doveva essere quello di sveltire le pratiche di approvazione dei nuovi medicinali, conducendo ricerche su larga scala su tutta la documentazione scientifica già esistente.

 

Ma, finché si tratta di fare il riassunto di migliaia di ricerche scientifiche già pubblicate, l’Intelligenza Artificiale è sicuramente uno strumento molto efficace.

 Il problema nasce quando le si chiede di dare una sua valutazione sulla eventuale efficacia e sicurezza di un nuovo farmaco, perché a quel punto si è scoperto che ELSA, molto disinvoltamente, si inventa anche ricerche scientifiche che non sono mai esistite.

 

In gergo, si chiamano “allucinazioni”.

Ma sono vere e proprie bugie.

Dall’articolo della “CNN” leggiamo:

 “Sei attuali ed ex funzionari della FDA hanno dichiarato alla CNN che Elsa può essere utile per generare appunti e riepiloghi di riunioni, o modelli di email e comunicati.

Ma ha anche inventato studi inesistenti, noti come ‘allucinazioni’ o ricerche travisate dall’IA. Questo la rende inaffidabile per il loro lavoro più critico, hanno affermato i dipendenti.”

 

“Tutto ciò che non si ha il tempo di ricontrollare è inaffidabile.

 Si inventa cose con grande tranquillità” ha detto un dipendente, “ben lontano da quanto promesso pubblicamente”.

 

“L’IA dovrebbe farci risparmiare tempo, ma vi garantisco che spreco un sacco di tempo extra solo a causa della maggiore vigilanza che devo avere per verificare la presenza di studi falsi o travisati”, ha affermato un secondo dipendente della FDA.

 

Bisogna dire che in questo la IA mostra anche un aspetto umano, nel senso che sta imparando a mentire, esattamente come lo facciamo noi. In fondo, non c’è molta differenza fra le “invenzioni” di ELSA e un” Burioni” qualunque, che parlando in televisione si inventa serenamente “migliaia di studi scientifici che confermano la sicurezza” di un certo farmaco, quando noi sappiamo benissimo che quelle migliaia di studi esistono solo nel suo cervello.

Alla fine, gira e rigira, a furia di voler imitare il cervello umano, i creatori della intelligenza artificiale sono riusciti a replicare solo quello di “Burioni”:

 ovvero, la “deficienza naturale”.

(Massimo Mazzucco).

(edition.cnn.com/2025/07/23/politics/fda-ai-elsa-drug-regulation-makary).

(luogocomune.net/scienza-e-tecnologia/l%E2%80%99intelligenza-artificiale-ha-imparato-a-mentire).

 

 

 

 

L’ex ministro degli esteri” Borrell”

 denuncia i Paesi dell’UE per il doppio

 standard sulla fornitura di armi micidiali

 a Israele per annientare Gaza

 (Irina Smirnova).

  Farodiroma.it - Redazione – Irina Smirnova - (22/05/2025) – ci dice:

 

L’ex Alto Rappresentante dell’Unione Europea per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza, Josep Borrell, ha apertamente criticato diversi Stati membri dell’UE per aver continuato a fornire armi a Israele.

La sua condanna giunge nel mezzo delle operazioni militari in corso a Gaza e dell’escalation della crisi umanitaria nei territori palestinesi, sollevando interrogativi sull’impegno del blocco a favore dei diritti umani e del diritto internazionale.

 

La dichiarazione di Borrell, rilasciata durante una conferenza stampa a Bruxelles, ha sottolineato una crescente frattura all’interno dell’UE riguardo alla sua posizione sul conflitto israelo-palestinese.

 Mentre l’UE sostiene ufficialmente una soluzione a due Stati e ha ripetutamente chiesto una de-escalation della violenza, le azioni dei singoli Stati membri nel continuare le vendite di armi a Israele sembrano contraddire questa posizione unitaria.

 

“Se credete che il bilancio delle vittime sia troppo alto, forse dovreste fornire meno armi per evitare che così tante persone vengano uccise”, ha affermato Borrell, le sue parole portano un messaggio chiaro a quelle nazioni dell’UE che sono i principali esportatori di armi verso Israele.

 Non ha nominato paesi specifici, ma le sue osservazioni sono ampiamente interpretate come dirette a nazioni come Germania, Francia e Italia, che hanno industrie della difesa significative e contratti militari esistenti con Israele.

 

La denuncia di Borrell evidenzia la natura complessa e spesso contraddittoria della politica estera dell’UE.

Mentre la Commissione Europea e il Servizio Europeo per l’Azione Esterna (SEAE) si sforzano di adottare un approccio coerente e basato su principi negli affari globali, gli interessi nazionali e le relazioni bilaterali spesso hanno la precedenza per i singoli Stati membri.

Questa divergenza diventa particolarmente evidente in contesti geopolitici sensibili come il Medio Oriente.

 

I commenti dell’ex Alto Rappresentante riflettono la crescente pressione internazionale e la preoccupazione per la situazione umanitaria a Gaza, dove migliaia di civili sono stati uccisi e le infrastrutture sono state devastate.

 Le organizzazioni per i diritti umani e gli organismi internazionali hanno sempre più esaminato il ruolo dei fornitori di armi nei conflitti in cui le vittime civili sono elevate, sottolineando il potenziale di complicità nelle violazioni del diritto internazionale umanitario.

 

L’intervento di Borrell può essere visto come un tentativo di riaffermare la necessità di una politica estera dell’UE più etica e unificata, esortando gli Stati membri ad allineare le loro azioni ai valori e ai principi dichiarati dal blocco.

 

La sua forte critica chiede anche maggiore trasparenza riguardo alle esportazioni di armi e un’applicazione più rigorosa della posizione comune dell’UE sulle esportazioni di armi, che stabilisce criteri rigorosi per l’autorizzazione di tali vendite, incluso il rispetto dei diritti umani nel paese di destinazione finale.

 

Tuttavia, l’impatto della denuncia di Borrell resta sul piano morale sia perché si tratta di un ex responsabile della UE, per quanto autorevole, sia perché le politiche di esportazione di armi sono principalmente una competenza nazionale, e gli Stati membri mantengono una significativa autonomia in questo settore. Sebbene l’ex Alto Rappresentante possa esercitare pressione politica e autorità morale, gli manca infatti il potere esecutivo per fermare unilateralmente le vendite di armi da parte delle singole nazioni.

 

Il dibattito in corso all’interno dell’UE sulle forniture di armi a Israele è indicativo di una più ampia lotta per bilanciare gli interessi strategici con le preoccupazioni umanitarie e per forgiare una politica estera veramente unificata e basata su principi in un mondo volatile. Mentre il conflitto a Gaza continua, la schietta critica di Borrell serve come un duro promemoria dei dilemmi etici che affrontano le nazioni europee e dell’urgente necessità di un approccio più coeso e responsabile al commercio di armi.

(Irina Smirnova).

 

 

 

 

 

Quale futuro per la sicurezza degli

europei con il ritorno di Trump? 

 

Analisidifesa.it – (22 Febbraio 2025) - Antonio Li Gobbi - Opinioni – ci dice:

 

 

 C’è un nuovo sceriffo a Washington?

Certo, ma lo sapevamo già e lo conoscevamo bene!

Stupiscono in questi giorni soprattutto le dichiarazioni di sorpresa da parte di leader politici sinora considerati (forse con eccessiva benevolenza) “statisti” e di alcuni rodati commentatori politici.

 

Chi scrive non vede cosa ci potesse essere di imprevisto in relazione alle recenti decisioni del Presidente Trump.

Cosa Trump pensasse della NATO e dell’UE lo ha ripetutamente detto e dimostrato in maniera tutt’altro che diplomatica già durante il suo primo mandato.

Cosa pensasse del conflitto russo–ucraino lo ha ripetuto costantemente durante gli ultimi tre anni, così come ci ha sempre detto quali fossero le sue priorità.

 Era chiaro che né l’Ucraina né la sicurezza europea rientrassero tra queste. Intendiamoci, Trump non è certamente un amico né dell’Europa né dell’Italia (ma non lo era neanche Biden, solo che era meno diretto nell’esprimere le proprie posizioni) come non lo sono né Xi Jinping né Putin.

Facciamocene una ragione.

 

Trump ha una visione imperiale della geopolitica.

È più che cosciente che l’unico vero contendente a livello planetario degli USA sia oggi la Cina.

Al fine di poter dedicare appieno la sua attenzione al confronto con la Cina, Trump ha bisogno prima di stabilizzare i due conflitti irrisolti ereditati dall’amministrazione precedente:

Medio Oriente e Ucraina.

Il “come” vengano stabilizzati gli interessa forse meno di “quando” vengano stabilizzati.

Per confrontarsi a livello globale Trump, come era prevedibile, vuole trattare esclusivamente con i “grandi”.

 Ha già dimostrato che per lui gli alleati non contano e devono adattarsi alle sue decisioni (anche durante il suo primo mandato, il ritiro NATO dall’Afghanistan venne concordato a Doha tra gli USA e i Talebani senza coinvolgere né  gli Alleati  NATO né  il Governo di Kabul (vedi Da Doha al confine greco-turco la NATO scricchiola pericolosamente – Analisi Difesa).

 

Inoltre, non ritiene che accordi e promesse fatti dall’amministrazione precedente meritino di essere rispettati.

Ciò gli consente anche di rimarcare quella che lui sembra ritenere l’illegittimità di tale amministrazione.

Appare chiaro che per Trump contino solo i rapporti di forze (economica, politica e militare): un ritorno alla realpolitik! 

Peraltro, non lo si sapeva già? Allora perché farsi ora prendere dal panico?

Questione ucraina.

 

In relazione all’Ucraina, appare evidente che gli USA considerino quello in corso un confronto tra Washington e Mosca.

Un confronto, iniziato da una precedente amministrazione, che si ritiene avrebbe dovuto essere evitato.

Ne consegue che una volta che tra Washington e Mosca ci si metta d’accordo sui confini russo-ucraini e sullo sfruttamento delle risorse economiche ucraine, per i due “grandi” la guerra sia da considerarsi finita.

 

Il punto di vista di Trump sembra essere che se gli ucraini e gli europei volessero poi continuare a combattere, beh lo facciano pure, ma con le loro risorse umane e finanziarie e senza avvalersi del sostegno né politico né militare statunitense.

In quest’ottica, anche sulla base degli esiti deludenti dell’incontro di Parigi organizzato il 17 febbraio da Macron, appare evidente che i leader dell’UE e dei paesi europei che per tre anni hanno fatto la spola tra le loro capitali e Kiev  (chi per intima convinzione e  chi nella speranza di acquisire meriti con l’amministrazione Biden), anziché lamentarsi oggi  di non venir considerati da Trump e da Putin, dovrebbero decidere se assumersi la responsabilità e i costi umani ed economici necessari a  tener fede alle promesse fatte all’Ucraina  o  se girarsi dall’altra parte, come l’Occidente ha già fatto molteplici volte.

 

Ad esempio, l’accordo di assistenza bilaterale tra l’Italia e l’Ucraina sottoscritto il 24 febbraio 2024 all’art 1 comma 3 prevede che “I Partecipanti (ovvero l’Italia e l’Ucraina) lavoreranno insieme, e con altri partner dell’Ucraina, per garantire che le forze di sicurezza e di difesa dell’Ucraina siano in grado di ripristinare pienamente l’integrità territoriale dell’Ucraina all’interno dei suoi confini riconosciuti a livello internazionale, nonché di aumentare la capacità di resistenza dell’Ucraina in modo che sia sufficiente a dissuadere e a difendersi da futuri attacchi e coercizioni”.

 

Probabilmente sia Ucraina che UE (inclusa la Gran Bretagna che non ne fa più parte) protesteranno in maniera vibrante, si stracceranno le vesti, si esibiranno nell’antica arte genovese del mugugno, ma nella sostanza accetteranno supinamente le decisioni di Washington.

Né, verosimilmente, potrebbero fare diversamente se privati della copertura nucleare e convenzionale USA.

 

Indipendentemente dalle lamentele di Kiev e delle capitali europee, Trump verosimilmente porrà fine drasticamente e rapidamente alla guerra in Ucraina.

La pace (o almeno il cessate il fuoco) sarà negoziato con il solo Putin e probabilmente imposto a Zelensky. 

Negoziato che attribuisce un riconoscimento internazionale a Putin che gli europei e gli ucraini non gradiranno, ma che probabilmente Trump ritiene urgente al fine di evitare che la Russia si renda ancor più dipendente dalla Cina.

Per Trump, infatti, può essere meno pericoloso che la Russia si confermi come una “grande potenza”, sì ma di secondo livello e non in grado di competere con il gigante americano, piuttosto che vederne confluire in toto le enormi risorse naturali nell’orbita di Pechino.

 

Per quanto riguarda l’Ucraina, che sia o meno d’accordo, Trump ritiene che basti semplicemente tagliarle i finanziamenti per indurla ad accettare qualsiasi pace che Washington negozierà.

Comunque, una volta che gli USA si siano disimpegnati, gli europei non sarebbero in alcun modo in grado di sostituirli nel sostegno all’Ucraina ove questa decidesse di continuare a combattere.

 

Ciò indipendentemente dal fatto che i paesi europei, nel loro insieme, abbiano fornito in termini economici un sostegno a Kiev superiore a quello fornito dagli USA.

 Però, manca agli europei la capacità di deterrenza (politica, militare e nucleare) che gli USA anche senza schierare uomini sul terreno erano in grado di garantire.

 

Inoltre, anche nel semplice ruolo di fornitori di armamenti e munizionamento, al momento gli europei sono terribilmente scarsi sia di scorte sia di capacità produttive.

Certo, potrebbero comprare dagli USA per donare all’Ucraina, opzione che a Trump non dispiacerebbe, ma si tratterebbe di un’opzione finanziariamente insostenibile e politicamente vergognosa.

Comunque, anche il recente mini vertice di Parigi ha dimostrato che non vi sarebbe alcuna volontà politica per un impegno militare UE, come a suo tempo proposto da Macron e da Starmer.

Pertanto, è probabile che anche gli europei accetteranno l’arbitrato americano perché sarà l’unica opzione per prevenire il totale collasso dell’Ucraina e le permetterà di mantenere, almeno temporaneamente, una parvenza di entità statuale.

 

 Il deterioramento del rapporto transatlantico.

 

Nel 2019 il presidente Macron affermò che la NATO aveva l’elettroencefalogramma piatto.

 I fatti sembrano dargli oggi ragione sotto molti punti di vista.

 

L’architettura dell’Alleanza appare sempre più pericolante ed è urgente incominciare seriamente a chiedersi che cosa farne.

Occorre chiedersi senza remore se la NATO oggi, con Trump alla Casa Bianca, sia un’organizzazione che mostra delle crepe strutturali serie, ma riparabili, oppure se, a 76 anni il prossimo aprile, non meriti di andare definitivamente in pensione e traslocare, con tutti gli onori del caso, inni e bandiere spiegate, nei musei e nei testi di storia.

 

L’Alleanza, almeno nelle intenzioni nobili dei suoi fondatori, si basava sulla comunità valoriale e la coesione politico-militare tra le due sponde dell’Atlantico. Appare evidente che sia a comunità valoriale sia la coesione politico-militare ormai non ci sono più.

 

Intendiamoci, la saldezza del legame transatlantico è in crisi da quasi un quarto di secolo.

 Già all’indomani dell’attacco dell’11 settembre 2001 fu chiaro che gli USA, colpiti direttamente sul loro territorio nazionale, abbiano considerato la NATO una organizzazione troppo burocratica e lenta per difendere gli interessi statunitensi, ovvero che il suo multilateralismo andava bene se si doveva discutere con gli europei della sicurezza della Germania o dei Balcani.

 

Ma non quando erano in ballo la sicurezza stessa degli USA!

 Washington incominciò a ricercare soluzioni più agili e soprattutto partner più ubbidienti, ovvero le cosiddette “coalizioni di volenterosi”.

 

All’epoca, gli alleati europei, terrificati dall’allentamento del legame transatlantico, fecero di tutto per mantenerlo in vita, accettando di partecipare anche a interventi militari non propriamente di loro interesse (quale il quasi ventennale impegno in Afghanistan) pur di dimostrare all’alleato americano il loro attaccamento e la loro fedeltà.

 

Il tutto assunse un tono quasi patetico, come quello di una coppia in crisi dove uno dei due (in questo caso gli europei) pareva disposto ad accettare qualsiasi compromesso pur di evitare la fine di un matrimonio ormai solo formale.

 

Nonostante vari scossoni, che per brevità non si ritiene di ricordare in questa sede, si riuscì comunque a mantenere le due sponde dell’Atlantico unite sotto la bandiera dell’Alleanza, pur riconoscendo sempre la leadership di Washington.

 Il rapporto transatlantico venne di nuovo messo pesantemente in crisi durante il primo mandato presidenziale di Trump (2016-20).

Noi europei ricordiamo bene i Vertici NATO del 2018 e del 2019 (vedi Dopo un summit da incubo, cosa sarà della NATO? – Analisi Difesa), durante i quali il POTUS (President Of The United States) non si preoccupò minimamente di nascondere la sua scarsa considerazione per l’Alleanza e gli alleati, ribadendo ad ogni occasione che se gli Alleati volevano continuare a beneficiare della protezione USA avrebbero dovuto fare sforzi estremamente significativi in termini di incremento dei rispettivi bilanci della difesa.

 

Trump, infatti, già all’epoca aveva accusato ripetutamente alcuni paesi europei di beneficiare delle garanzie di sicurezza USA senza, da parte loro, dedicare una quota sufficiente del proprio PIL alla difesa.

 

In realtà, più che all’efficienza degli apparati militari degli alleati, pareva che il POTUS fosse interessato soprattutto al fatto che gli alleati europei comprassero “Made in USA”.

 

Come già ricordato, il ritiro dall’Afghanistan (dove la NATO in quanto alleanza aveva operato senza soluzione di continuità sin dal 2003 e alcuni paesi alleati sin dal 2001 nel quadro della coalizione di volenterosi “Operation Enduring Freedom”) fu negoziata in splendido isolamento nel 2019-20 dall’amministrazione Trump e poi condotta in maniera disastrosa nel 2021 da quella Biden, senza mai coinvolgere gli Alleati che fornivano i loro soldati sul terreno in tali processi decisionali.

 

Questo non poteva non compromettere ulteriormente la credibilità del link transatlantico.

Ciò nonostante e probabilmente anche per l’acuirsi della crisi ucraina, durante la presidenza Biden gli europei hanno di nuovo fatto di tutto per rinforzare quel già debole legame transatlantico che era stato ulteriormente danneggiato durante la prima presidenza Trump e dalle modalità di ritiro dall’Afghanistan.

 

In quest’ottica, deve essere inteso anche il supporto, forse insufficiente ma comunque molto generoso, che gli europei hanno fornito all’Ucraina negli ultimi tre anni anche se per molti (tranne i paesi che per posizione geografica e storia recente sono più timorosi di un’aggressione russa) il sostegno economico e militare fornito è stato forse motivato più dal desiderio di acquisire meriti con Washington e Bruxelles che dalla convinzione che fosse necessario aiutare militarmente Kiev.

 

 Il sostegno NATO all’Ucraina: molte parole e pochi fatti.

 

Peraltro, in relazione al conflitto in Ucraina, in questi tre anni, occorre rimarcare che il ruolo della NATO nel conflitto è stato limitato, nonostante le pompose dichiarazioni autoreferenziali del precedente segretario generale, Jens Stoltenberg.

Ovviamente c’è stato il rinforzo della frontiera orientale dell’Alleanza, attuato esclusivamente all’interno del territorio dei paesi membri, senza alcuno sconfinamento.

Si è trattato di schieramento di assetti (aerei, terrestri e navali) aventi l’obiettivo di dissuadere ed eventualmente contrastare possibili sconfinamenti di forze russe/bielorusse in paesi NATO e di dimostrare la coesione militare dell’Alleanza in caso di aggressioni.

 

Attività questa in piena coerenza con i compiti di “difesa e deterrenza” che sin dal 1949 hanno rappresentato il “core business” dell’Alleanza.

Per il resto, il segretario generale si è di fatto prodigato per convincere le singole nazioni a fare di più in termini di aiuti militari diretti all’Ucraina, sanzioni economiche contro la Russia, sostegno economico all’Ucraina, ecc.

 

Decisioni, però, assunte altrove (a Washington, in ambito UE o nelle singole capitali europee).

 La NATO in questo processo ha avuto al massimo il ruolo di monitorare e possibilmente coordinare l’afflusso di quanto reso disponibile dai paesi membri. Tutto, comunque, sempre in base alle autonome decisioni dei paesi donatori, tra i quali non solo membri NATO.

Trump e gli “alleati-sudditi.”

 

Adesso che si è insediata una seconda amministrazione Trump (opzione che era da considerarsi decisamente possibile da più di un anno e molto probabile da almeno sei mesi) era prevedibile che il legame transatlantico su cui si basa l’Alleanza sarebbe stato di nuovo sottoposto a stress e messo in dubbio.

 

Peraltro, pare che da parte europea poco sia stato fatto per prepararsi a questa prevedibilissima evenienza.

La scorsa settimana, sia dall’intervento del segretario alla difesa “Pete Hegseth” durante la riunione dei ministri della difesa NATO che dall’intervento del vice presidente” JD Vance a Monaco”, è emerso chiaramente che Trump intende dare completa e rapida attuazione a quanto promesso in campagna elettorale in materia di posizionamento geopolitico e rapporti con gli alleati.

 

Doveva essere già evidente, ma in quelle sedi è stato chiaramente ribadito, che:

 

la sicurezza dell’Europa non è più un primario interesse di Washington,

gli interessi USA sono rivolti prioritariamente all’Indo-Pacifico e alla Cina,

la Russia non è più considerato un nemico, da contrastare militarmente, bensì un competitor con cui gli USA possono arrivare a patti,

la sicurezza e l’integrità territoriale dell’Ucraina è un problema dell’Ucraina e, eventualmente, degli europei.

Qualsiasi sostegno politico, militare, economico USA fornito a paesi alleati ha un costo che deve essere pagato comprando gas o armi USA o cedendo il controllo sulle proprie materie prime di valore.

Inoltre, non giova all’armonia interna alla NATO il fatto che alcuni alleati di vecchia data (Canada e Danimarca) devono fare i conti anche con esplicite minacce di annessioni territoriali da parte degli USA.

 

Non può non essere chiaro, a questo punto, che gli europei devono al più presto prendere atto di questo mutamento nei rapporti transatlantici e fare scelte impegnative che, al momento, non appaiono ancora pronti ad affrontare.

Per fortuna o purtroppo (dipende dai punti di vista), Trump non deciderà di uscire dall’Alleanza Atlantica, come ha più volte minacciato di fare.

Scelta che lascerebbe da un giorno all’altro gli alleati europei privi del supporto militare strategico e della copertura nucleare statunitense, ma che li metterebbe anche drasticamente di fronte all’esigenza di scelte coraggiose ed immediate.

 

Scelte che potrebbero prevedere eventualmente di riorganizzare le esistenti strutture politiche e soprattutto militari dell’Alleanza per far fronte al ritiro USA.

Trump probabilmente non lo farà, perché non ne avrebbe alcuna convenienza per vari motivi.

In primis, restando all’interno dell’Alleanza gli Stati Uniti possono continuare a condizionare la politica di sicurezza europea, prevenendo o almeno rendendo molto difficile che gli alleati europei, sotto bandiera UE, possano acquisire quella autonoma dimensione militare che sarebbe indispensabile per giocare un ruolo geopolitico significativo autonomo.

 

Inoltre, da anni gli USA tentano di indirizzare la NATO verso l’Indo-Pacifico (che dal 2000 a oggi ha rappresentato la maggior preoccupazione di tutti gli inquilini della Casa Bianca, democratici o repubblicani che fossero).

Già in passato, ripetutamente, gli USA non hanno fatto mistero di voler fare della NATO un loro strumento nel confronto con la Cina.

 

Ciò per Washington sarebbe sempre più importante anche perché ormai, grazie alla forza di attrazione politica ed economica del Dragone nella regione, sono rimasti ben pochi i possibili alleati degli USA nell’Indo-Pacifico militarmente credibili (Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Australia e Nuova Zelanda).

Appare invece prevedibile che Trump, come più volte dichiarato, ridurrà in tempi brevi la presenza militare USA in Europa, sia perché vorrà in prospettiva ridurre il volume organico delle forze armate statunitensi (che anche in termini di costi per il personale rappresentano un esborso non indifferente per il bilancio federale) sia per poter gravitare, anche militarmente, sull’Indo-Pacifico.

 

Probabile anche che, sulla base di una lettura letterale dell’”Articolo 5 del Trattato Atlantico” (troppo spesso citato a sproposito da molti commentatori), l’Amministrazione Trump metta in discussione l’obbligatorietà di un’azione militare statunitense in risposta a un’aggressione militare a un paese NATO confinante con Russia o Bielorussia (Finlandia, Repubbliche Baltiche, Polonia).

L’articolo 5 infatti prescrive che in tale evenienza “si adotterà l’azione che si giudicherà necessaria, ivi compreso l’uso della forza armata” (pertanto, non necessariamente la forza armata).

Ovviamente, con un occhio più agli introiti dell’industria USA che all’efficienza degli apparati militari europei, pretenderà una più accentuata condivisione degli oneri con gli europei.

 

 Quale futuro per la NATO?

 

La NATO, dopo il grave colpo inferto alla sua credibilità dal caotico ritiro da Kabul, potrà reggere anche alla irrilevanza nella gestione della crisi ucraina e agli atteggiamenti da “marchese del grillo” che il nuovo “padrone del vapore” ha adottato non solo nei confronti sia dell’ex-proxi ucraino che degli alleati-sudditi europei?

 

Difficile credere che possa reggere anche se altrettanto difficile è credere che se ne vorrà prendere atto!

Innanzitutto perché, come già scritto, gli Stati Uniti hanno interesse a evitare che l’Europa possa assumere un ruolo geopolitico autonomo.

Quindi è possibile che la NATO sopravviva procedendo per inerzia e col rischio di essere sempre più screditata, percepita come “parente povero” dagli USA, come inutile dalle nazioni europee e come “traditore” da coloro (ucraini, georgiani, moldavi) ai quali l’Alleanza, in maniera azzardata, si era presentata sin dal 2008 con promesse che non aveva forse la volontà né la capacità di onorare.

 

 E l’Unione Europea?

 

Gli europei danno spesso l’impressione di una certa confusione nel tentare di metterci d’accordo tra di noi su quali siano i nostri interessi e ci comportiamo molto spesso come i capponi che Renzo portava in dono all’Azzeccagarbugli.

 Le reazioni stupite e offese delle leadership politiche europee all’infelice, ma assolutamente prevedibile, evoluzione del conflitto in Ucraina, ne costituisce solo una delle tante dimostrazioni.

 

Molti parlano di rinforzare l’UE attribuendole una capacità militare addirittura costituendo “forze armate europee”.

 Opzione priva di senso a meno di una “politica estera e di sicurezza comune” che potrebbe essere ottenuta solo attribuendo alla UE la struttura costituzionale di Confederazione, con tutte le limitazioni alle autonomie degli attuali Stati membri che una simile scelta comporterebbe.

Oggi la UE non dispone di un proprio strumento militare adeguato alla situazione, essendosi sempre appoggiata sulle capacità della NATO.

 

Occorre tener presente che l’UE sarà, insieme all’Ucraina, la grande sconfitta dell’accordo di pace negoziato da Trump.

 

Vale la pena di ricordare che, più per assecondare Washington che per salvare Kiev, i paesi UE hanno interrotto le loro relazioni commerciali con la Russia, avviandosi sulla strada delle sanzioni commerciali autolesioniste, degli aiuti economici e dei prestiti all’Ucraina (che non saranno mai ripagati) e dello svuotamento dei propri già miseri arsenali militari.

 

Ora, dopo aver tagliato i ponti con il loro principale fornitore di energia, per seguire la via indicata dall’alleato a “stelle e strisce”, gli europei vengono da questi abbandonati e sbeffeggiati.  Ciò nonostante e nonostante la ferma posizione USA contraria all’accesso dell’Ucraina nella NATO, le leadership UE continuano a insistere sull’accesso immediato dell’Ucraina nell’UE.

 

Penso che non sia necessario rimarcare il peso economico per i paesi membri che ciò comporterebbe, stante anche l’esigenza di ricostruire un paese che neanche prima della guerra aveva i requisiti economici ed istituzionali per l’accesso.

 

Peraltro, più preoccupante mi pare che chi caldeggia il rapido accesso dell’Ucraina nell’UE sembra trascurare che in termini di obblighi di “difesa comune”, il comma 7 dell’Articolo 42 del Trattato di Lisbona (trattato istitutivo della UE) è molto più vincolante del già citato Articolo 5 del Trattato dei Washington (trattato istitutivo della NATO).

 

Trattato di Lisbona Art 42 comma 7 “Qualora uno Stato membro subisca un’aggressione armata nel suo territorio, gli altri Stati membri sono tenuti a prestargli aiuto e assistenza con tutti i mezzi in loro possesso, in conformità dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite. Ciò non pregiudica il carattere specifico della politica di sicurezza e di difesa di taluni Stati membri.”

 

 

 

L’UE, pertanto, potrebbe tra alcuni anni trovarsi da sola a difendere l’Ucraina dalla Russia dopo solo alcuni anni di tregua.

 

Un tale oneroso impegno potrebbe annientare sul nascere qualsiasi aspirazione alla tanto decantata autonomia strategica europea e a un ruolo UE quale attore geopolitico indipendente a livello mondiale. Tutto ciò, ovviamente, con gioia dei nostri alleati d’oltreoceano che hanno sempre chiesto all’Europa di fare di più per garantire la propria sicurezza, ma sono sempre stati restii a riconoscerle un ruolo geopolitico autonomo.

 

 Quale futuro per i paesi europei della NATO?

 

Appare evidente che, come ribadito dall’amministrazione Trump, gli interessi geopolitici americani siano ormai lontani dal nostro continente e comunque spesso in concorrenza con gli interessi europei.

Rendiamoci conto che non possiamo più affidarci allo Zio Sam per minacce che non lo coinvolgano.

 

Pertanto l’UE, associata eventualmente ad alcuni paesi europei non UE (Gran Bretagna, Norvegia, Paesi dei Balcani occidentali), dovrà rapidamente dotarsi degli strumenti militari per garantire sia la sua difesa a Est (dal Mar Glaciale Artico al Mar Nero) da una minaccia russa/bielorussa,  che  la sua sicurezza  Sud  verso il Mediterraneo, il Medio Oriente e il Nord Africa, contrastando gli interessi di Cina, Russia e Turchia, oltre all’espansione del fondamentalismo islamista e, non dimentichiamolo, alle verosimili iniziative pericolose statunitensi.

 

Non si tratta qui di essere europeisti o sovranisti, intendiamoci. Si tratta solo di essere realisti.

 

È pertanto, necessario incominciare da subito a dotare l’UE di una struttura di comando militare permanente analoga a quella della NATO, che possa essere impiegata in autonomia per operazioni UE e che, in caso di interventi NATO in Europa, sia integrabile in quella NATO.

Per seguire questo percorso è necessario abbandonare esplicitamente il vincolo (voluto dagli USA) di evitare duplicazioni NATO-UE, perché solo dotandosi di una struttura di comando militare permanente l’UE potrà acquisire reale capacità operativa autonoma.

 

Ciò ovviamente non richiede un fantomatico e poco realistico “esercito europeo”, bensì solo una chiara visione da parte dell’UE delle sue esigenze di difesa e sicurezza e l’adozione di procedure finanziarie che garantiscano un’equa ripartizione degli oneri finanziari tra i paesi membri.

Tutto ciò ovviamente avrà costi che bisogna accettare di sobbarcarsi!

  Si tenga conto che altre soluzioni organizzative, tendenti a evitare le inevitabili duplicazioni, come quelle previste dagli Accordi NATO-UE “Berlin Plus” del 16 dicembre 2002, non hanno in realtà mai funzionato perché mal sopportate dagli USA e ostentatamente contrastate da alcuni paesi NATO non UE, in primis la Turchia.

 

Resta inoltre il problema dell’acquisizione di una comune capacità di deterrenza nucleare di cui l’UE non dispone e che andrebbe realizzata con fondi comuni.

L’ipotesi di rendere disponibile le capacità nucleari francesi è poco realistica. Proprio la riluttanza di De Gaulle a mettere a disposizione la Force de Frappe transalpina fu il motivo principale del fallimento dell’ambizioso progetto della CED (Comunità Europea di Difesa) nel 1954.

 

In effetti neppure la NATO dispone di un proprio deterrente nucleare, in quanto in fondo la decisione dell’eventuale ricorso all’armamento atomico, anche solo in risposta ad attacco nucleare nemico, resta di fatto soggetto alle decisioni finali delle nazioni NATO che possiedono tali capacità (USA, Regno Unito e Francia).

 

Resta il problema anche dell’integrazione nel sistema di sicurezza europea e nei relativi processi decisionali delle nazioni NATO del continente che non sono membri UE o non lo sono ancora o che non intendono al momento farne parte: Gran Bretagna e Norvegia e i paesi NATO dei Balcani Occidentali, tutti in lista d’attesa per entrare nell’Unione.

 

Un’evoluzione nel senso indicato è costosa e dovrebbe essere perseguita con coraggio e determinazione, nonostante le sicure opposizioni che tale processo incontrerà da parte in primis degli USA, ma anche della Turchia, paese NATO che per l’Europa rappresenta più un fattore di rischio che di sicurezza, come abbiamo più volte evidenziato.

 

Restano tanti problemi e tutti di difficile soluzione, certo, ma Trump ci sta dicendo che dobbiamo affrontarli non domani, ma oggi stesso.

 In questo senso, forse Trump, a sua insaputa, sta facendo per la realizzazione di “un’Europa della difesa” molto più di quanto abbiano fatto i grandi padri dell’europeismo

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