La guerra perpetua.
La guerra perpetua.
Il
legame inscindibile del capitalismo con la guerra.
Lantidiplomatico.it – Domenico Moro – (21 Maggio 2025)
– ci dice:
La guerra diventa un’attività caratteristica
dell’umanità da quando questa si è divisa in classi sociali.
Da
sempre, infatti, le cause economiche stanno alla base della guerra.
Ma solo con il capitalismo pienamente
sviluppato si sono determinate le guerre mondiali, collegate alla
mondializzazione del capitale, e la creazione di armi di distruzione di massa,
dovuta all’enorme spesa per la ricerca e per le nuove tecnologie.
La
guerra è soprattutto un elemento propulsivo dell’economia capitalistica nei
suoi momenti di crisi strutturale e quando la gerarchia di potenza su cui si
basa a livello internazionale viene messa in discussione.
Nei
momenti di crisi la spesa militare e le immani distruzioni dovute all’uso delle
armi moderne arrivano puntuali in soccorso dei profitti.
Non è,
infatti, un caso che nel momento attuale, caratterizzato da una crisi che
riguarda le aree di tradizionale maggiore sviluppo del capitalismo, gli Usa,
l’Europa occidentale e il Giappone, si assista ad un incremento della spesa
militare.
Negli
Usa i tagli alle spese dell’amministrazione federale, che hanno già portato al
licenziamento di migliaia di impiegati pubblici, si sarebbero dovuti estendere
alla spesa militare, che in cinque anni si sarebbe ridotta di circa un terzo:
dai
968 miliardi di dollari del 2024 ai 600 miliardi del 2030.
Tuttavia,
l’amministrazione Trump ha fatto marcia indietro e la spesa militare prevista
per il 2026 crescerà a 1.010 miliardi, comprendendo la modernizzazione del
nucleare, il “Golden Dome”, lo scudo spaziale e missilistico, e l’ampliamento
delle forze navali.
Anche
in Europa la spesa militare sta crescendo.
La
Commissione europea ha varato un piano di riarmo da 800 miliardi di euro
spalmati su quattro anni.
La
Nato fino a qualche tempo fa chiedeva ai suoi stati membri di arrivare a una
spesa di almeno il 2% del Pil, sebbene alcuni importanti stati non
raggiungessero tale livello, comprese l’Italia e la Germania.
Oggi,
mentre l’Italia ha dichiarato che nel 2025 raggiungerà il 2%, il segretario
generale della Nato, l’olandese Mark Rutte, propone di portare il livello
minimo di spesa al 5% del Pil (3,5% di spesa militare vera e propria e 1,5%
destinato alla cybersicurezza).
Un
aumento al 3,5% significa per l’Italia 33 miliardi di spesa aggiuntivi.
A
riarmarsi è soprattutto la Germania, che, in recessione da due anni e con il
suo apparato industriale in difficoltà, ha portato il budget della difesa dai
52 miliardi di euro del 2024 ai 60 miliardi del 2025 e progetta di spendere
centinaia di miliardi nei prossimi anni.
Il
cancelliere tedesco, Friedrich Merz, ha dichiarato che farà del proprio
esercito “la più potente forza armata convenzionale d’Europa”.
Intanto,
tra il 10 e l’11 luglio è prevista a Roma la conferenza per la ricostruzione
dell’Ucraina, che porterà ingenti profitti alle imprese europee che vi si
impegneranno.
Ma
torniamo al nesso che c’è tra capitale, spese militari e guerra.
Il modo di produzione capitalistico si
caratterizza per l’accumulazione allargata, cioè per l’accumulazione sempre
maggiore, a ogni ciclo economico, di capitale sotto forma di mezzi di
produzione e forza lavoro.
Il
problema è che in questa accumulazione continua si verifica il cosiddetto
aumento della composizione organica del capitale.
Ciò
vuol dire che aumenta proporzionalmente di più la parte di capitale investita
in mezzi di produzione rispetto a quella investita in forza lavoro, perché il
capitalista tende a sostituire lavoratori con macchine sempre più efficienti.
Dal
momento che solo la forza lavoro determina la creazione di plusvalore, cioè di
profitto, e che il saggio di profitto si calcola mettendo al numeratore il
plusvalore ricavato e al denominatore il capitale totale investito, si ingenera
una diminuzione del saggio di profitto.
Marx
chiama questa tendenza, propria del capitale, legge della caduta tendenziale
del saggio di profitto.
Dal
momento che la produzione capitalistica è guidata dal perseguimento del massimo
profitto, la caduta del saggio di profitto determina la contrazione degli
investimenti, la sottoutilizzazione degli impianti e quindi le crisi che
ciclicamente affliggono il capitalismo.
Marx
dice anche che tale legge è contrastata da alcuni fattori antagonistici che ne
determinano la natura tendenziale.
Tra
questi fattori ci sono: l’aumento del grado di sfruttamento del lavoro, la
riduzione del salario, l’esistenza di una riserva di disoccupati cui attingere,
e soprattutto l’espansione estera del capitale.
Quest’ultima
consiste nella tendenza a conquistare nuovi mercati per l’esportazione delle
merci e soprattutto dei capitali eccedenti, che vengono investiti in paesi dove
l’accumulazione è meno progredita e i salari sono più bassi e dove, pertanto,
il saggio di profitto è più alto.
Da
questa tendenza derivano due conseguenze:
la
creazione del mercato mondiale e l’affermazione dell’imperialismo come tendenza
degli stati capitalistici più avanzati e come fattore di sviluppo del
militarismo e della guerra.
La
globalizzazione, sia quella che si verificò tra la fine del XIX e l’inizio del
XX secolo sia quella che si è sviluppata dagli anni ’90 del secolo scorso fino
ad oggi, è quindi un risultato, come dice David Harvey, dello “spatial fix”,
cioè dell’aggiustamento nello spazio dell’accumulazione capitalistica.
Tuttavia,
come si è visto nel corso del XX secolo e in questa prima parte del XXI, la
globalizzazione non è stata in grado di risolvere la sovraccumulazione di
capitale, cioè l’eccesso di capitale investito in mezzi di produzione.
Si ha
sovraccumulazione quando c’è troppo capitale investito, che è “troppo” nel
senso che il nuovo investimento non dà il profitto atteso dai capitalisti.
In questo caso, gli investimenti si riducono
dando luogo alla crisi.
È,
quindi, la sovraccumulazione di capitale che sta alla base della crisi cicliche
e della sovrapproduzione di merci.
A questo punto, l’unico modo che permette al
capitale di risolvere la sovraccumulazione e di riprendere il ciclo di
accumulazione è la distruzione di capitale stesso.
Solo
la distruzione fisica del capitale accumulato sotto forma di merci, di mezzi di
produzione e di infrastrutture permette di risolvere il problema.
In
parte questa distruzione fisica si realizza con la morte delle imprese più
deboli o con il loro assorbimento da parte di quelle più forti, la cosiddetta
centralizzazione dei capitali.
Ma,
quando la sovraccumulazione è davvero eccessiva e permane, sebbene tutti i
fattori antagonistici alla caduta del saggio di profitto siano stati
utilizzati, c’è un unico modo per risolverla: la guerra.
È la
guerra moderna con le ingenti spese militari a fornire un mercato aggiuntivo e
redditizio per le imprese capitalistiche e, soprattutto, con le immani
distruzioni che produce, a eliminare il capitale eccedente e, grazie alla
ricostruzione, a ristabilire le condizioni per il riavvio dell’accumulazione.
Come
scrissero due economisti statunitensi, “Paul A. Baran” e “Paul M. Sweezy”, nel
loro Il capitale monopolistico, le guerre rappresentano un potente stimolo
esterno per superare le depressioni economiche:
“Nessuna
persona in possesso delle sue piene facoltà mentali sosterrebbe che senza le
guerre la storia economica del secolo XX sarebbe stata quella che è stata
effettivamente.
Perciò
noi dobbiamo incorporare le guerre nel nostro schema esplicativo;
per
fare questo noi ci proponiamo di considerare le guerre, insieme con le
innovazioni rivoluzionarie, come stimoli esterni di fondamentale importanza.”
Possiamo
vedere come l’azione rigeneratrice della guerra e delle spese militari ha agito
nel corso dell’ultimo secolo e agisce tutt’ora sull’economia dello Stato più
importante a livello mondiale, gli Usa, sebbene nel loro territorio non siano
state combattute le due guerre più devastanti che l’umanità abbia conosciuto.
Sempre “Baran” e “Sweezy” dicono che “senza la
prima guerra mondiale, il decennio 1910-20 sarebbe passato alla storia degli
Stati Uniti come un periodo di straordinaria depressione.”
Ma, dopo il periodo di sviluppo degli anni
‘20, a partire dal 1929 si produsse in tutto il mondo avanzato quella che è
stata chiamata la “Grande depressione”, la più importante crisi del modo di
produzione capitalistico.
Negli
Stati uniti il presidente Roosvelt varò il “New Deal”, un piano di spese
pubbliche per incentivare la domanda aggregata e la produzione.
L’uscita
dalla crisi, però, non fu dovuta al New Deal, dal momento che, dopo una breve
ripresa, nel 1938 l’economia statunitense ripiombò nella recessione.
La “Grande
depressione” fu risolta solo dalle enormi spese dovute al riarmo militare e
allo scoppio della seconda guerra mondiale.
Furono
queste spese e le immani distruzioni di capitale a risolvere definitivamente la
crisi e a determinare lo sviluppo post-bellico trentennale del modo di
produzione capitalistico.
Infatti, la ricostruzione, finanziata dai
capitali eccedenti degli Stati Uniti tramite il “piano Marshall”, diede una
spinta poderosa all’accumulazione, soprattutto nei paesi che avevano perso la
guerra, la Germania, l’Italia ed il Giappone, sul cui territorio si erano
concentrate le maggiori distruzioni.
Negli
Stati Uniti, diventati la potenza egemone mondiale e pertanto avendo la
necessità di ampie Forze Armate, la spesa militare non diminuì dopo la fine
della seconda guerra mondiale.
La
maggior parte dell’aumento della spesa pubblica fu dovuto alla spesa militare
che passò dall’1% al 10% del Prodotto nazionale lordo.
“Circa sei o sette milioni di operai –
scrivono “Baran e Sweezy” – più del 9% della forza-lavoro dipendono per
l’occupazione dalle spese militari.
Se
queste fossero nuovamente riportate alle proporzioni che avevano anteriormente
alla seconda guerra mondiale, l’economia nazionale ritornerebbe nelle
condizioni di profonda depressione, prevalenti nel decennio 1930-40, con saggi
di disoccupazione superiori al 15%.”
E ancora: “Nel 1939 il 17,9% della forza
lavoro era disoccupata e circa l’1,4% della rimanente si può presumere che sia
stata occupata nella produzione di beni e servizi per la difesa.
Un
buon 18% della forza-lavoro, in altri termini, era disoccupata oppure occupata
in attività dipendenti dalla spesa militare.
Nel
1961 (…) le cifre corrispondenti furono il 6,7% di disoccupati e il 9,4% di
occupati dipendenti dalla spesa militare, vale a dire un totale di circa il
16%. (…)
Da
questo consegue che una riduzione del bilancio militare alle proporzioni del
1939, riporterebbe la disoccupazione alle proporzioni di tale anno.”
A
questo punto sorge la domanda:
la spesa pubblica civile potrebbe essere
altrettanto efficace della spesa pubblica militare nel contrastare le crisi?
E, se
sì, perché la spesa militare non viene sostituita da quella civile?
La
risposta è che ciò non è possibile nella società del capitalismo monopolistico,
dove l’oligarchia dominante si oppone a un ulteriore aumento della spesa
civile, come accadde durante il “New Deal “nel momento in cui la disoccupazione
colpiva ancora il 15% della forza lavoro.
La ragione è che l’aumento della spesa
pubblica civile tocca gli interessi dell’oligarchia capitalistica.
Infatti, la spesa pubblica civile è
contrastata “ogni volta in cui determina una situazione di concorrenza nei
confronti dell’iniziativa privata”.
Ciò
appare evidente, ad esempio, nella spesa sanitaria pubblica che toglie clienti
alla sanità privata e nell’edilizia a scopo abitativo, dove la massiccia
costruzione di alloggi pubblici toglierebbe occasioni di profitto ai
costruttori privati.
Al
contrario, non esiste una concorrenza con i privati nel campo militare e anzi
le spese militari vanno direttamente alle imprese private del settore, che
spesso hanno anche una branca civile che può beneficiare dei finanziamenti
erogati alla branca militare, come nel caso della “Boeing”, che produce aerei
sia militari sia civili.
La
particolare funzione delle spese militari e della guerra nella economia degli
Usa ha continuato a manifestarsi anche dopo il 1961, anno cui fanno riferimento
i dati citati da “Sweezy e Baran”.
Infatti,
se andiamo a vedere l’andamento dei profitti delle imprese non finanziarie
statunitensi tra 1929 e 2008, ci accorgiamo che i picchi della crescita del
profitto al netto delle tasse come percentuale dei costi dello stock netto del
capitale fisso si presentano in concomitanza con le guerre che gli Stati Uniti
hanno combattuto, dalla Seconda guerra mondiale alla guerra di Corea, a quella
del Vietnam, e a quella contro l’Iraq e l’Afghanistan.
Ma
anche in periodi di relativa pace si verifica l’aumento della spesa militare,
come sta accadendo ora.
Infatti,
nell’economia e nella struttura sociale di classe degli Usa si è formato il
“complesso militare-industriale”, come fu definito nel 1961 dal presidente “Eisenhower”
l’intreccio di interessi tra l’industria bellica, le alte gerarchie delle Forze
Armate e i deputati del Congresso, che influenza le scelte economiche e
politiche del Paese.
A
recente riprova della “influenza del complesso militare-industriale” c’è
l’aumento della spesa militare per il 2026 a 1.010 miliardi di dollari
nonostante in precedenza Trump avesse annunciato una riduzione di un terzo
della spesa entro il 2030.
Del
resto, negli ultimi dieci anni, tra 2014 e 2024, la spesa militare a prezzi
costanti degli Usa è passata da 833,7 miliardi di dollari a 968,3 miliardi, con
un aumento del 16,1%.
L’influenza
dello Stato, tramite la guerra e le spese belliche, sull’accumulazione
capitalistica non è fatto recente, ma è anche la causa dell’accumulazione
originaria del capitale, come la definisce Marx nel primo libro de Il capitale.
L’accumulazione
originaria, da cui, tra la fine del medioevo e l’inizio dell’epoca moderna,
parte il modo di produzione capitalistico si basa sul sistema coloniale e sul
debito pubblico.
Attraverso
l’espansione coloniale, fondata sulla violenza e quindi sulla guerra armi,
vengono razziate le ricchezze americane che vengono portate in Europa, dove
formano la base dell’accumulazione.
Il
debito pubblico, che determina l’ulteriore possibilità di profittevole
investimento del denaro e di crescita del capitale bancario, rappresenta
un’invenzione italiana, dovuta alla necessità di finanziare la guerra
permanente in cui le città-stato italiane erano impegnate.
Il debito pubblico diverrà sempre più
importante e necessario per i primi stati nazionali europei a causa delle
guerre e del colonialismo, che condussero all’aumento esponenziale della spesa
militare, dovuto anche all’invenzione della polvere da sparo e quindi
all’introduzione di costose artiglierie e fortificazioni moderne.
Il
debito pubblico, attraverso la guerra e la spesa militare, è ancora oggi legato
all’accumulazione del capitale.
Lo vediamo in Europa oggi, quando la
Commissione europea ha deciso di sospendere i vincoli di bilancio che, in base
ai trattati europei, impongono di limitare il deficit pubblico al 3%,
garantendo la possibilità di espanderlo di un ulteriore 1,5% annuo per le spese
militari.
Ciò è soprattutto vero in Germania, il paese
che era stato l’alfiere più deciso dell’austerità di bilancio e che aveva
impedito qualsiasi deroga ai vincoli di bilancio durante la devastante crisi
del debito greca.
In Germania, la norma che imponeva in
costituzione il limite allo 0,35% del Pil, per quanto riguarda il deficit
strutturale dello Stato federale, è stata recentemente abrogata in tutta fretta
con una maggioranza di due terzi del parlamento uscente visto che il nuovo
parlamento, con una folta presenza di deputati di “Afd” e “Die linke”, si
sarebbe opposto.
Quindi,
mentre per la sanità, la scuola, le pensioni e per la spesa sociale in genere
non si può fare debito aggiuntivo, per la spesa militare si può.
Si tratta, quindi, dell’ulteriore conferma di
quanto dicevamo sopra:
la
spesa militare è l’ideale per il capitale.
Da una parte, perché in questo campo
l’iniziativa pubblica non è concorrenziale rispetto all’iniziativa privata e,
dall’altra parte, perché sovvenziona l’industria bellica che opera in
condizioni di quasi monopolio e con prezzi alti che vengono facilmente
accettati da ufficiali delle Forze Armate che poi trovano collocamento, al
momento del loro pensionamento, in quella stessa industria bellica.
Come
scrivevano “Baran e Sweezy”, alla base di tutto questo c’è lo stato di perenne
stagnazione in cui versa l’economia moderna:
il capitale monopolistico non è in grado di
tirarsi fuori da situazioni di ristagno senza stimoli esterni.
Ed il
più importante stimolo esterno è rappresentato dalla spesa militare e dalla
guerra con le distruzioni che comporta.
Per
questa ragione l’unico modo per farla finita con la guerra è il superamento del
modo di produzione capitalistico con un nuovo modo di produzione che non metta
al centro il perseguimento del massimo profitto, ma la soddisfazione dei
bisogni individuali e sociali.
Confini
che sanguinano, sovranità che si esibisce:
ripensare
l’ordine regionale alla luce
dell’escalation
tra Thailandia e Cambogia.
Geopolitica.info
- Aniello Iannone – (29/07/2025) – ci dice:
Il
recente confronto armato tra Thailandia e Cambogia rappresenta molto più di una
semplice riemersione di dispute territoriali di lungo corso,
esso esemplifica una trasformazione più ampia
nel modo in cui la sovranità viene messa in scena, contestata e legittimata nel
contesto del Sud-est asiatico contemporaneo.
La violenza che si dispiega lungo il confine,
in particolare intorno al “tempio di Preah Vihear” e in altre aree storicamente
sensibili, non dovrebbe essere letta solo attraverso la lente dell’inimicizia
storica o della cattiva comunicazione tra stati vicini.
Al
contrario, essa riflette una modalità di espressione politica in cui il confine
funziona non solo come linea di controllo, ma come palcoscenico sul quale gli
stati mettono in scena potere, identità e legittimità in risposta a fragilità
interne e pressioni esterne.
In questo caso, la sovranità si manifesta non
tanto come autorità giuridica o controllo territoriale, quanto come performance
strategica, profondamente intrecciata con crisi politiche domestiche e ansie
regionali.
Il
dispiegamento militare di jet F-16 da parte della Thailandia e l’uso di razzi
da parte della Cambogia non sono semplici decisioni tattiche:
sono
atti simbolici che riaffermano la presenza e la determinazione dello stato di
fronte alla propria cittadinanza.
In tal senso, il confine si trasforma in un
luogo di visibilità, uno spazio in cui la sovranità diventa leggibile
attraverso la violenza, lo spettacolo e la diffusione mediatica.
Uno stato d’eccezione dove il confine emerge
come zona liminale dove le regole ordinarie della governance vengono sospese,
consentendo allo stato di riaffermarsi in momenti di percepita fragilità
istituzionale.
In
Thailandia, la tempistica dell’escalation coincide con un’ampia incertezza
politica e un declino della legittimità popolare, dove l’esternalizzazione del
conflitto serve a riaffermare la coesione interna in particolare da parte dei
militari. In Cambogia, il primo ministro “Hun Manet “sembra utilizzare la crisi
di confine come strumento per consolidare la lealtà dell’apparato militare e
deviare l’attenzione da pressioni socioeconomiche interne.
In
entrambi i casi, la politica del confronto è calibrata più per il pubblico
domestico che per una risoluzione strategica.
Questa
strumentalizzazione del conflitto colloca la disputa thai-cambogiana
all’interno di un pattern globale più ampio, in cui le “piccole guerre”,
scontri militari localizzati e di breve durata, non servono tanto alla
conquista quanto alla visibilità, non alla ristrutturazione del potere
regionale ma all’affermazione della presenza.
Quando
l’ordine globale si fa instabile, gli attori periferici o semiperiferici
ricorrono alla violenza performativa come mezzo per negoziare posizione e
proiettare rilevanza.
Questa teatralità della sovranità trova un
riflesso nell’incapacità delle istituzioni regionali di rispondere in modo
significativo.
L’approccio
dell’ASEAN al conflitto si è limitato, ancora una volta, a gesti retorici e
appelli diplomatici privi di forza coercitiva o capacità di mediazione
effettiva.
I
fondamenti normativi dell’Associazione, il consenso, la non interferenza, la
diplomazia informale, un tempo celebrati come pragmatici e culturalmente
sensibili, appaiono oggi insufficienti per affrontare confronti armati tra
stati membri.
Ciò che emerge non è solo il fallimento di un
meccanismo specifico, ma la rivelazione di una contraddizione strutturale più
profonda, l’ASEAN mette in scena l’unità, ma non possiede gli strumenti per
sostenerla o farla valere.
Le sue dichiarazioni funzionano come rituali
diplomatici piuttosto che come strumenti di politica concreta, segnando una
forma di esaurimento istituzionale sempre più evidente, dai casi della “crisi
in Myanmar” a quelli nel “Mar Cinese Meridionale”.
La coesione dell’ASEAN si è storicamente
basata su narrazioni condivise di armonia e resilienza, più che su solidità
istituzionale.
Tuttavia, nei momenti di tensione acuta,
queste narrazioni risultano incapaci di produrre risultati materiali.
Il
caso thailandese-cambogiano sottolinea dunque i limiti di un regionalismo
simbolico in un’epoca in cui la sovranità si fa sempre più militarizzata e
caricata affettivamente.
Il
problema non è solo strategico, ma epistemologico, il concetto stesso di
regionalismo richiede una riconcettualizzatine teorica, alla luce del suo
scollamento dalla prassi politica.
Asimmetrie
epistemiche e necessità di “pluralizzazione teorica.”
Il
conflitto impone anche una riflessione su come la conoscenza dei processi
regionali venga prodotta, circolata e legittimata.
La
copertura mediatica degli scontri di confine, in particolare da parte delle
agenzie internazionali, ha ampiamente aderito a cornici interpretative
convenzionali, sovranità, escalation, diplomazia bilaterale, senza cogliere
adeguatamente le dimensioni culturali, simboliche ed emozionali degli eventi.
Le prospettive locali, le continuità storiche,
le nozioni indigene di autorità sono frequentemente marginalizzate.
Questa asimmetria epistemica riflette un
modello più ampio nelle relazioni internazionali, in cui il Sud globale viene
reso intelligibile solo attraverso l’apparato concettuale del Nord globale.
Gli
scambi di conoscenza transnazionali siano spesso strutturati da gerarchie che
privilegiano certe voci, istituzioni ed epistemologie.
Nel
contesto dei conflitti del Sud-est asiatico, ciò si traduce in una dipendenza
persistente da cornici teoriche occidentali, inadeguate a cogliere la
specificità ontologica e normativa della regione.
La
sfida, dunque, non è solo localizzare la teoria, ma pluralizzarla, riconoscere
la validità di modi alternativi di conoscere e spiegare i fenomeni politici.
Tali
interventi non mirano a sostituire le teorie esistenti, ma ad ampliare
l’orizzonte epistemico delle relazioni internazionali.
Essi
sollecitano un passaggio da un universalismo rigido a una forma di
teorizzazione più riflessiva e situata.
Nel
caso dell’ASEAN, ciò significa riconoscere che l’ordine regionale non è
costruito solo attraverso istituzioni e norme, ma anche attraverso memoria
storica, performance simboliche e investimenti affettivi.
Il
conflitto tra Thailandia e Cambogia non è un’anomalia da spiegare, ma un
episodio paradigmatico che rivela le crepe nei modelli dominanti di governance
regionale e l’urgenza di un rinnovamento teorico.
La
dimensione affettiva del conflitto, svolge un ruolo centrale nella formazione
della percezione pubblica e delle strategie delle élite.
Nazionalismo,
risentimento, memoria storica e indignazione morale non sono epifenomeni, ma
elementi costitutivi della politica estera nella regione.
La
proliferazione del discorso digitale, la mobilitazione emotiva e la
simbolizzazione online intensificano ulteriormente questa dinamica,
trasformando i confini in spazi di governo affettivo oltre che di contesa
geopolitica.
Il concetto di” hate spin” elaborato da “Cherian
George” descrive con precisione il modo in cui l’emozione viene coltivata e
strumentalizzata all’interno del discorso politico, rafforzando la logica
performativa che sottende la sovranità contemporanea.
In
questo contesto, il dilemma dell’ASEAN non consiste semplicemente nell’essere
inefficace, ma nel rimanere teoricamente sotto esaminata.
La sua
oscillazione costante tra coesione simbolica e impotenza strategica richiede un
ripensamento concettuale che vada oltre la dicotomia successo-fallimento.
Anziché
misurare l’ASEAN attraverso metriche istituzionali derivate da esperienze
euro-atlantiche, si potrebbe esplorare la sua natura ibrida, in parte comunità
normativa, in parte teatro diplomatico, come oggetto teorico a sé stante.
Una tale ri-concettualizzazione non ne
eluderebbe i limiti, ma consentirebbe una comprensione più sfumata e sensibile
al contesto del suo ruolo in un ordine regionale in rapida trasformazione.
L’escalation
tra Thailandia e Cambogia si configura così come più di una disputa di confine.
È un
crocevia attraverso cui si intrecciano crisi multiple, la fragilità della
legittimità statale, l’esaurimento delle narrazioni regionali, il ritorno della
politica militarizzata e le asimmetrie nella produzione globale di conoscenza.
Affrontare
queste crisi richiede non solo ingegnosità diplomatica, ma anche coraggio
epistemologico.
Netanyahu:
‘La Cisgiordania è la terra
dei
nostri antenati. Qui è cristallizzata
la
nostra identità’.
Infopal.it – (08/06/2012) – Infopal -
Pubblicato in Evidenza – Redazione – ci dice:
Betlemme
– InfoPal.
Il
primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha deciso di “proseguire nel
processo di costruzione” delle colonie ebraiche sulla terra palestinese
occupata.
Tale
decisione rappresenta un tentativo di contenere le reazioni rabbiose da parte
dei coloni e dei partiti di estrema destra nei confronti del disegno di legge
respinto dalla Knesset, il parlamento israeliano, in materia di terre
palestinesi private in Cisgiordania.
In un
comunicato diffuso dal suo ufficio a commento della decisione della Knesset,
Netanyahu ha affermato:
“La
Cisgiordania è la terra dei nostri antenati, e in questo luogo è cristallizzata
la nostra identità.
Gerusalemme
è la capitale di Israele, e lo affermo in qualsiasi parte del mondo”.
Egli
ha sottolineato che al suo governo non è piaciuto prendere la decisione di
trasferire le unità coloniali nell’insediamento illegale di Ulpana, costruite
su terreni di proprietà privata palestinese, nel nord di Betlemme, e che la
popolazione di queste colonie sarà trasferita nell’insediamento di Beitel, con
300 famiglie di nuovi coloni.
Il
capo del governo israeliano ha informato della decisione di istituire un
comitato ministeriale che si occupi degli Affari coloniali, per garantire
“l’attuazione delle politiche israeliane per la promozione e il rafforzamento
degli insediamenti”.
Mercoledì
6 giugno, la Knesset ha respinto il disegno di legge noto come degli
“insediamenti”, che avrebbe permesso ai coloni di costruire su terreni privati
palestinesi nella Cisgiordania occupata: 69 parlamentari hanno votato contro e
22 a favore.
Israele
accusato di aver deliberatamente
infettato i prigionieri palestinesi e di
aver negato loro cure mediche.
Infopal.it
– (29/07/2025) – Redazione - News Prigionieri palestinesi – ci dice:
Ramallah
– PIC.
La “Commissione
per gli Affari dei Detenuti ed Ex Detenuti palestinesi” ha accusato il “Servizio
Penitenziario israeliano” (IPS) di diffondere intenzionalmente malattie tra i
prigionieri palestinesi e di negare loro cure mediche, nell’ambito di un più
ampio schema di abusi all’interno delle carceri israeliane.
In un
comunicato stampa diffuso domenica, la Commissione ha confermato che l’IPS
continua a commettere gravi violazioni contro circa 10.000 detenuti
palestinesi, tra cui donne e bambini.
Tali accuse sono supportate da recenti
testimonianze raccolte da avvocati e difensori dei diritti umani.
Una di
queste testimonianze riguarda “Hassan Imad Abu Hassan”, un prigioniero
originario della cittadina di Yamun, a ovest di Jenin, che soffre di scabbia da
oltre tre mesi.
Secondo
quanto riportato, le guardie israeliane lo avrebbero costretto a dormire sul
letto di un prigioniero già infetto il primo giorno di detenzione, provocandone
il contagio.
Un
altro detenuto,” Alaa Al-Adham”, di Beit Ula, nei pressi di al-Khalil/Hebron,
avrebbe sviluppato gravi problemi cutanei, tra cui prurito intenso e
sensibilità alle cosce, senza ricevere alcun tipo di assistenza medica.
“Bilal
Amr”, recluso a Ofer – vicino a Ramallah – e originario di Dura, a sud di
al-Khalil/Hebron, soffre di dolori cronici alla schiena e al piede a causa di
aste di platino impiantate per stabilizzare fratture pregresse.
Nonostante
le numerose richieste, non gli è mai stato somministrato un antidolorifico
adeguato.
Soffre,
inoltre, di una grave compromissione della vista.
In una
dichiarazione congiunta diffusa pochi giorni fa, la Commissione e la Società
per i Prigionieri Palestinesi hanno denunciato testimonianze di torture fisiche
e psicologiche, tra cui casi di detenuti costretti a bere alcolici e ustionati
con acqua bollente.
Dall’inizio
del genocidio israeliano nella Striscia di Gaza, il 7 ottobre 2023, diversi
detenuti palestinesi sono morti nelle carceri israeliane a causa di torture,
fame e abbandono medico.
Questi
resoconti sono stati confermati da organizzazioni palestinesi e internazionali
per i diritti umani.
Secondo
i dati ufficiali palestinesi, oltre 10.800 palestinesi si trovano attualmente
reclusi nelle carceri israeliane, tra cui circa 450 minorenni, 50 donne e 3.629
prigionieri amministrativi, rinchiusi senza accusa né processo.
Tali
cifre non includono le migliaia di palestinesi di Gaza sottoposti a sparizione
forzata.
Questi
abusi medici si inseriscono nel contesto della guerra genocida in corso contro
Gaza, che ha provocato più di 204.000 morti o feriti palestinesi, in
maggioranza donne e bambini.
Oltre 9.000 persone risultano disperse e
centinaia di migliaia sono state sfollate. In vaste aree della Striscia si
registrano condizioni di carestia, con decine di bambini tra le vittime.
Parallelamente
al genocidio a Gaza, le forze di occupazione israeliane e i coloni in
Cisgiordania e Gerusalemme Est hanno ucciso almeno 1.008 palestinesi, ne hanno
feriti circa 7.000 e arrestato oltre 18.000, secondo i dati palestinesi.
Israele
prosegue la sua occupazione pluridecennale dei territori palestinesi e di parti
della Siria e del Libano, in violazione del diritto internazionale e continuando a rifiutare il
riconoscimento di uno Stato palestinese sovrano con Gerusalemme Est come
capitale, secondo i confini precedenti al 1967.
Guerra
perpetua.
Corriere.it - Antonio Polito – (21 luglio 2025)
– ci dice:
Il
leader israeliano non usa più il conflitto armato come mezzo per ottenere un
giorno la pace, ma come un fine in sé.
Sul
finire del Settecento, il secolo della Ragione, Kant scrisse un “Progetto per
la pace perpetua”. Redatto sotto forma di un vero e proprio “Trattato
internazionale tra Stati”, fu ovviamente un tentativo utopico;
ma profetico di fronte al carattere assoluto,
totale, ideologico, di quel nuovo modo di fare la guerra che la Rivoluzione
Francese aveva introdotto nella storia d’Europa.
Se
oggi avesse un momento libero, tra un’invasione e un bombardamento, Benjamin
Netanyahu potrebbe invece scrivere, peraltro senza fare alcun ricorso
all’utopia, un “Progetto per la guerra perpetua”.
È a questo che assomiglia infatti la politica
che Israele sta perseguendo dopo il progrom anti-ebraico di Hamas del 7 ottobre
del 2023.
Con
geometrica potenza, il governo di Gerusalemme sta infatti colpendo tutti i suoi
vicini, anche quelli attualmente o potenzialmente non ostili.
L’attacco
ai palazzi del potere di Damasco, compiuto sei giorni fa in nome della
minoranza drusa della Siria, ne è stato il sorprendente epilogo:
ha
preso infatti di mira un Paese in corso di stabilizzazione, sul quale gli
stessi Stati Uniti puntano per «normalizzare» il Medioriente.
Al
punto da far sbottare qualche consigliere di Trump: «Ma questo Netanyahu è un
matto…».
È come
se Israele avesse deciso che è meglio avere come vicini solo stati falliti
(Gaza a Sud, Libano e Siria a Nord), segnati dal caos e dalla paura, nella
convinzione che così li possa controllare meglio e temere meno.
Una
cortina di instabilità perenne, su cui comandare appunto con il metodo della
«guerra perpetua».
Non
sembra contemplata alcuna strategia finale di pace, alcun progetto di
convivenza.
E infatti ormai al massimo si discute di
«tregue»:
brevi
attimi di pausa in conflitti definiti «esistenziali», e perciò destinati a
durare per sempre.
Se
questo è il disegno, tutto è permesso.
Gli
spostamenti forzati di civili, altrimenti dette «deportazioni», per esempio.
Un conclamato crimine di guerra immaginato
ormai su scala sempre più vasta; con l’idea di trasferire il popolo di Gaza, se
non nell’Egitto che non lo vuole, allora in Libia, in Etiopia o in Indonesia, e
fargli vivere così l’equivalente della «cattività babilonese» per la storia
ebraica.
Tutto
è permesso.
È
perciò anche lecito dubitare, come ha fatto per la Santa Sede il cardinale
Parolin, che il cannoneggiamento dell’unica chiesa cattolica di Gaza sia stato
un semplice errore di mira.
È
molto doloroso riconoscere tutto ciò per chi in Occidente è amico di Israele, e
lo è da sempre perché ha sempre riconosciuto nello Stato Ebraico una democrazia
ansiosa di ottenere finalmente la pace e la sicurezza per il suo popolo;
magari anche con l’uso della forza militare
quando è stato necessario, ma giustificato dall’obbligo di doversi
costantemente proteggere da chi da sempre lo vuole sopprimere.
Non
avremmo mai pensato di dover difendere Israele dall’accusa di «genocidio», dopo
la prova genocidaria del massacro di vecchi, donne e bambini da parte di Hamas;
eppure, ogni giorno che passa, un amico di Israele se ne va e dice: adesso
basta!
È
purtroppo un fatto che il principio «territori in cambio di pace», ispiratore
degli accordi di “Camp David” con l’Egitto e di Oslo con i palestinesi, si sia
ormai capovolto nella «guerra in cambio di territori»:
ogni
attacco serve infatti anche a svuotare e a occupare un’altra striscia di terra,
da usare come cuscinetto protettivo in una logica di perenne conflitto armato.
Invece che piantare semi, ora si costruiscono trincee.
Seppure
in contesti e su scala del tutto diversa, la guerra di Netanyahu ha assunto
così numerose analogie con quella di Putin in Ucraina.
Una
sorta di «espansionismo difensivo», come nella logica antica e paranoica di
ogni impero russo, che contempla anche operazioni di pulizia etnica (il
rapimento dei bambini ucraini è una forma di spostamento forzato di civili).
Non è
dunque solo per il numero spropositato delle vittime a Gaza, o per i metodi
disumani con cui vengono trattati esseri umani affamati e in cerca di cibo, che
l’Occidente non può più tollerare la guerra di Netanyahu.
È
certo importante ma non decisivo stabilire se sulle persone in fila per il pane
si spari deliberatamente o per errore, o se addirittura non siano affatto i
soldati israeliani a sparare.
Perché quella terra è comunque occupata e
controllata dalle forze armate di Gerusalemme, ed è impedito l’accesso
indipendente ai media; dunque tutto ciò che vi accade, il disordine che vi
regna, è oggi in ogni caso responsabilità politica di Israele.
Ciò
che è invece decisivo per definire un giudizio etico-politico è che con la
pratica della «guerra perpetua» il governo di Israele sta divorziando dai
valori delle democrazie occidentali.
Perché non usa più il conflitto armato come
mezzo per ottenere un giorno la pace, ma come un fine in sé, come un metodo
abituale di politica: l’unico su cui crede di poter contare per scongiurare un
altro 7 ottobre.
Paradossalmente
è proprio questa disperazione di Israele sul suo stesso destino, questa
assuefazione alla «guerra perpetua», che noi europei, colpevoli, complici o
spettatori ignavi dell’Olocausto, non possiamo accettare.
La
guerra perpetua.
Vocerepubblicana.it - Riccardo Bruno – (25 Settembre
2024) - L'editoriale – ci dice:
La
ricetta per la pace perpetua la scrisse” Immanuel Kant” già nel 1795 ed era
quasi elementare nella sua preparazione.
Delle
repubbliche sorelle sul continente che condividessero gli stessi principi e la
stessa forma di governo.
Quell’illuminista
disgraziato di “Napoleone Bonaparte” aveva un disegno per l’Europa che seguiva
lo stesso modello, non fosse che la repubblica si rivelava all’epoca forma di
governo troppo instabile e alla mercè delle peggiori pretese, indi per cui
meglio fare dei regni governati da suoi consanguinei, promotori delle idee di
eguaglianza francesi.
Fra
mille difficoltà in questo suo progetto, non c’era verso di piegare l’Austria e
la Prussia, per non parlare dell’Inghilterra, costrinse ad un accordo la
Russia, che non era un paese civilizzato.
Al di
là del fiume Nema sarebbero stati affari loro, al di qua, suoi.
Nemmeno
a dirlo, tempo tre anni i russi avevano varcato la Nema e tornato a minacciare
la Polonia con duecentomila uomini in armi.
L’idea
di pace che si sarebbe realizzata in Europa dal 1815 al 1870, fu l’esatto contrario,
un equilibrio di ducati e principati di ogni genere e grado per impedire
l’espansionismo dei grandi regni continentali e per quanto la realizzazione
fosse una schifezza, benedetta dalla chiesa e dal ritorno dei vecchi privilegi,
per lo meno funzionò per quasi quarant’anni, fino a quando la Russia pensò bene
di riaffacciarsi con le sue cannoniere sul mediterraneo, ovviamente per
difendere i luoghi sacri.
Le sue alleate le diedero addosso, guarda il
caso, proprio in Crimea.
A
quella guerra rimasero estranei gli stati tedeschi.
L’Austria
perché in fondo legata allo Zar e quelli germanici perché troppo deboli per
misurarsi.
Con la
Crimea tornò a galla il problema dell’unificazione tedesca che si realizzò
nell’unico modo possibile su un presupposto militare ed una prima guerra con
l’Austria, poi con la Francia ed infine con l’Inghilterra e fu la prima guerra
mondiale.
L’anomalia di quella guerra è che Russia e
Germania nonostante i loro legami di sangue si trovarono dalla parte opposta
della barricata e questo fu talmente insopportabile per il Kaiser da fargli
avere un’idea geniale, facciamo un colpo di Stato in Russia, deponiamo lo zar e
almeno riavremo la pace.
Non ci
fu fenomeno più straordinario al mondo della Rivoluzione russa.
Mentre tutti i governi europei avevano odiato
la Rivoluzione francese, verso quella russa furono compiacenti persino gli
americani, infatti il nuovo regime, con la pace, aveva il suo bel da fare.
Doveva
costruire una società completamente nuova.
Ministri
ed intellettuali andavano in Russia e vi tornavano entusiasti, tanto da
pubblicare libri e riviste per decantare le lodi di questo popolo giovane e
appassionato, che si era ripromesso di cambiare l’umanità.
John
Reed, André Malraux, André Gide, Joseph Roth.
Schumpeter, che vedeva lungo, scrisse persino
che il loro modello economico, quello dei soviet, avrebbe soppiantato il
capitalismo.
Alphonse
Adular, della Sorbone si commosse pensando di vedere in Lenin un secondo
Danton.
Giusto Keynes si mostrò scettico, ma Keynes
all’epoca non se lo filava nessuno. Nel 1928 arrivò a Mosca “Stephan Zweig”.
l’autore
più letto al mondo.
Zweig venne accolto con tutti gli onori e
anche lui si sarebbe convinto di dover scrivere un commento per celebrare
questa realtà tanto slanciata sulla via del progresso.
Non fosse che una sera si trovò un biglietto
nella tasca dove leggeva di non credere ad una parola di quanto gli veniva
detto e fatto mostrare, che tutto era un inganno e di bruciare il biglietto,
non di strapparlo, perché altrimenti sarebbe stato ritrovato e ricomposto.
Si deve a Zweig se cambiò almeno parzialmente
la valutazione sulla Russia sovietica.
E con
delle ragioni, dato che la seconda guerra mondiale fu possibile perché Stalin
si era alleato con Hitler che ammirava profondamente.
Al
Cremlino Stalin era rimasto abbagliato dalla notte dei lunghi coltelli.
Da
allora mai il mondo era stato affacciato su un abisso più profondo di quello su
cui si è riunito l’Onu in questi giorni.
Non
solo perché la Russia ha lo stesso volto di sempre, ma anche per l’attacco ad
Israele dietro cui c’è il principale alleato della Russia, l’Iran.
La
situazione di Israele e dell’Ucraina, sono le stesse, non fosse che Israele ha
più capacità di difesa tali da sembrare l’aggressore.
Erdogan
che si lamenta che nessuno la ferma, non scorge la cosa più semplice, ovvero,
chiedere ai suoi amici di Hamas di liberare gli ultimi ostaggi e questo
servirebbe.
Più
concreti cinesi e brasiliani che avrebbero predisposto un piano di pace in sei
punti per l’Ucraina e l’indiano Modi vorrebbe contribuire.
Disgraziatamente
non si capisce quale possa essere il punto di incontro, tanto che Biden ha
semplicemente rilanciato l’unità della Nato.
In questa dimostrazione sconcertante di
assoluta impotenza, l’Italia ha fatto un figurone, con premi e promozioni.
L’onorevole Meloni ha sventolato niente di
meno che il suo cavallo di battaglia, il leggendario piano Mattei, un approccio
diverso per l’intero continente africano, dove ci si possa confrontare “ad armi
pari”.
Al che
viene spontaneo chiedere se il presidente del Consiglio italiano ha mai fatto
un giro per le miniere dell’ex Congo belga, o se l’Africa che conosce, è quella
dei club Mediterranee in cui sbarcano Briatore e la Santanchè.
(Riccardo Bruno).
La
guerra perpetua
di
Israele.
Starmag.it
– (28 ottobre 2024) – Giuseppe Gagliano – ci dice:
Azioni
e strategie di Israele in campo militare. Fatti, analisi e scenari.
Il
punto di Gagliano.
Israele
sembra ormai intrappolato in una realtà di guerra perpetua, un elemento che,
piuttosto che essere un’emergenza temporanea, è divenuto parte integrante della
sua identità nazionale.
La
narrazione ufficiale giustifica la guerra come una necessità esistenziale,
evocando riferimenti biblici e un “nemico archetipico” costantemente presente.
Attualmente, questo ruolo è incarnato dall’Iran e dai suoi affiliati, percepiti
come rappresentanti di un male irredimibile.
Questa
concezione del conflitto, con il nemico visto come un’entità malvagia per
natura, rende pressoché impossibile qualsiasi tentativo di riconciliazione e
stabilisce la guerra come una costante dell’esistenza israeliana.
L’identità
nazionale sembra costruirsi in opposizione a un “altro” nemico, elemento che
unisce diversi gruppi interni in Israele.
Tuttavia,
questa coesione è solo apparente poiché la costante conflittualità finisce per
esacerbare le divisioni tra settori laici e ultraortodossi, trasformando la
guerra in un elemento di divisione sociale e politica.
Inoltre,
l’orientamento israeliano verso l’aggressività politica e militare rischia di
compromettere il sostegno internazionale, in particolare quello degli Stati
Uniti.
Gli
alleati storici iniziano a manifestare segnali di insofferenza verso la volontà
di Israele di intraprendere azioni unilaterali e rischiose, come l’operazione
contro Gaza, che ha suscitato non poche preoccupazioni.
Questo
atteggiamento potrebbe portare a un crescente isolamento internazionale,
minacciando la capacità di Israele di manovrare diplomaticamente e di mantenere
gli Accordi di Abramo.
L’approccio
di Israele verso le alleanze con i paesi del Golfo, motivato dalla comune
ostilità verso l’Iran, appare oggi in bilico.
L’apertura
di molteplici fronti di conflitto non solo mette a rischio questi accordi, ma
potrebbe portare alla formazione di una coalizione di nemici regionali,
intensificando il rischio di una guerra multi-arena.
Tale escalation spinge il paese in una
situazione dove la definizione di “nemico” si estende a vari attori, aumentando
la tensione su più fronti e complicando la strategia difensiva.
Dal
punto di vista strategico-militare, Israele basa la sua tattica su una
deterrenza illimitata, nota come “strategia del cane pazzo”.
Questa tattica prevede risposte aggressive e
imprevedibili per scoraggiare i nemici, ma comporta anche rischi elevati.
La
dispersione di Israele su fronti multipli – Gaza, Libano, Siria, e
indirettamente Iran – rischia di sovraccaricare le sue risorse operative, con
difficoltà nel mantenere una difesa efficace su tutti i fronti.
Una strategia di deterrenza illimitata su più
fronti, senza un piano chiaro, potrebbe rivelarsi insostenibile e alienare i
possibili alleati.
L’indipendenza
operativa di Israele, che spesso ignora i consigli di Washington, ha portato
tensioni nelle relazioni con gli Stati Uniti, fondamentali per la sicurezza
israeliana.
L’evoluzione del conflitto in altre aree
strategiche, come l’Ucraina, sta distogliendo l’attenzione degli Stati Uniti, e
se Israele continuerà ad agire unilateralmente, potrebbe trovarsi a perdere una
parte del sostegno americano.
A
questo si aggiunge l’effetto boomerang del conflitto perpetuo, che genera un
ciclo di violenza continua, rafforzando il nemico e radicalizzando nuove
generazioni di palestinesi e arabi, minando l’efficacia delle operazioni
israeliane e creando le basi per un conflitto senza fine.
Infine,
il conflitto con gruppi come Hamas e Hezbollah evidenzia i limiti della
deterrenza tradizionale.
La natura asimmetrica di questa guerra, fatta
di attentati e incursioni mirate, sfida la capacità di controllo di Israele e
rende inefficace la deterrenza in un contesto di estrema radicalizzazione, dove
i nemici mostrano resilienza e volontà di sacrificio.
In
conclusione, Israele si trova in un contesto di guerra prolungata, sostenuta da
superiorità tecnologica e appoggio americano.
Tuttavia,
l’approccio basato sulla deterrenza illimitata e l’apertura di fronti multipli
rischiano di alienare gli alleati, esaurire le risorse, e rendere la sua stessa
esistenza più fragile.
La politica israeliana sembra ormai orientata
verso il conflitto come unica opzione, abbandonando l’idea di una soluzione
pacifica, e mirando a un predominio militare che, però, non garantisce una
sicurezza duratura.
I
tanti falchi e i pochi diplomatici
di un
mondo in guerra perpetua.
Ilbolive.unipd.it
– (15 -5 -2025) - Andrea Gaiardoni – ci dice:
È questa l’epoca dei “falchi”, degli
intransigenti, degli interventisti.
Di
quei capi di governo che privilegiano l’uso della forza militare come strumento
maestro per raggiungere i propri obiettivi, spesso anteponendo la
giustificazione della “sicurezza nazionale”, senza che la comunità
internazionale riesca in alcun modo a intervenire per prevenire, per
disinnescare.
Mai come oggi, ottant’anni dopo la fine della
seconda guerra mondiale, le fragilità del sistema diplomatico globale sono
state così evidenti:
risoluzioni
ignorate, organismi disconosciuti (anche i più autorevoli) e attaccati
politicamente da una parte o dall’altra, come se la “sovranazionalità” non
fosse più un dogma, come se la definizione di ciò che è giusto e cosa sbagliato
non fosse più una questione di regole morali condivise (per dirne una: è ancora
vietato bombardare civili inermi), ma di competenza dei singoli governi che, a
seconda delle stagioni politiche, guidano le varie nazioni.
E se
la diplomazia ha le armi spuntate, gli eserciti dimostrano invece di averle ben
affilate: e di dettare nuove (in realtà secolari) regole per risolvere le
questioni tra Stati, gettando al vento quelle stabilite, di comune accordo, nel
1945, quando l’orrore per quanto accaduto era ancora vivo.
“Negli ultimi tre anni l’idea che i paesi non
vadano in guerra è scomparsa,“ sostiene “Samir Puri”, direttore del “Centro per
la Governance Globale e la Sicurezza” del centro studi britannico Chatham
House.
“L’invasione su vasta scala dell’Ucraina da
parte della Russia è iniziata nel 2022 e continua con attacchi quotidiani di
missili e droni in mezzo a sforzi di mediazione non convincenti da parte degli
Stati Uniti.
Israele
sta ora pianificando di impadronirsi di Gaza nella sua rinnovata offensiva
contro Hamas, poiché Donald Trump sembra aver perso interesse nel cercare di
porre fine a una guerra in cui sono stati uccisi più di 50mila palestinesi.
Paesi
distanti migliaia di chilometri si sono attaccati a vicenda.
L’Iran ha lanciato due volte complessi
attacchi a lungo raggio contro Israele nel 2024: siamo in un mondo in cui
rivali e nemici sono sempre più disposti a lanciarsi missili l’uno contro
l’altro”.
Attualmente
nel mondo sono attivi più di 50 conflitti armati (le stime sul punto divergono,
ma è comunque il numero più alto registrato dalla fine della Seconda Guerra
Mondiale) che coinvolgono direttamente o indirettamente oltre 90 Paesi.
L’ultimo
è deflagrato improvvisamente la settimana scorsa e ha visto coinvolti India e
Pakistan (entrambe potenze nucleari, dunque con un coefficiente di pericolosità
altissimo), lungo il confine storicamente conteso, non soltanto per questioni
identitarie e religiose, nella regione del Kashmir (l’area è cruciale per il
controllo delle risorse idriche).
Quattro
giorni di scontri e di tensioni, con lancio di missili e droni, interrotti
domenica scorsa da un improvviso “cessate il fuoco”:
con il presidente americano Donald Trump che
si è subito intestato il merito di aver convinto i leader dei due paesi a
“usare il buon senso”.
L’ultimo
report “Conflict Index”, pubblicato alla fine dello scorso anno dall’”Armed
Conflict Location & Events Dataset” (ACLED), ha rilevato un aumento del 12%
degli scontri armati nel 2023 rispetto al 2022 e di oltre il 40% negli ultimi
quattro anni.
“La
violenza internazionale e di stato rappresenta una quota crescente dei tassi di
conflitto complessivi”, è scritto nel report.
“I
tassi di eventi di conflitto sono cresciuti di oltre il 25% nel 2024 rispetto
al 2023, e gran parte di ciò è dovuto al conflitto emergente tra gli Stati e
gli stretti affiliati degli Stati in tutto il Medio Oriente”.
Le
situazioni più drammatiche, stando al solo conteggio delle vittime stimate nel
2024, sono in Ucraina e a Gaza;
ma ci sono anche le guerre civili in Myanmar,
in Sudan, in Etiopia;
ci
sono i gruppi terroristici che seminano terrore e morte in Nigeria e in Burkina
Faso, come in Mali, nella Repubblica Democratica del Congo, in Camerun, nel
Niger.
E la
piaga di Haiti, con gli scontri senza fine tra bande criminali.
Esistono
le foto delle violenze ad Haiti.
Le
tragiche conseguenze dei conflitti.
Ma
queste guerre non producono soltanto vittime e feriti:
portano
sofferenze, sfollamenti, crisi alimentari e sanitarie, che si sommano a quelle
ambientali derivanti dal cambiamento climatico.
Provocano
shock economici (chiusura di attività, blocco degli investimenti, fuga di
capitali) che spesso si traducono in crisi a lungo termine che possono
ostacolare lo sviluppo per generazioni.
Un
altro istituto di ricerca, l’”Emergency Watchlist dell’International Rescue
Committee” (IRC), ha stilato una classifica delle 10 nazioni che nel 2025
avranno maggiori probabilità di affrontare un’escalation delle crisi
umanitarie: “Nonostante rappresentino soltanto l’11% della popolazione mondiale
- scrive l’IRC -, questi paesi rappresentano uno sproporzionato 82% delle
persone che necessitano di aiuti umanitari”.
In cima alla classifica c’è il Sudan, definita
“la più grande crisi umanitaria mai registrata e la più grande e veloce crisi
di sfollamento del mondo”, con oltre 30 milioni di persone che hanno, o meglio
avrebbero, bisogno di assistenza.
Poi la
devastazione di Gaza ad opera dell’esercito di Israele, che oltre a insistere
con il devastante bombardamento della Striscia si ostina a mantenere un blocco
quasi totale sulla consegna degli aiuti (cibo, acqua, cure mediche)
“contravvenendo al rispetto dei principi umanitari fondamentali”, come rimarca
l’Onu.
Un
tempo il “faro” era il diritto internazionale umanitario, sancito dalle
convenzioni di Ginevra, che valeva come controllo sui conflitti armati:
con le
parti in guerra tenute ad aderire al principio di distinzione tra militari e
civili e al principio di proporzionalità (gli attacchi contro obiettivi
militari che causano un numero eccessivo di vittime civili rispetto al
vantaggio ottenuto sono considerati, in teoria, un crimine di guerra).
Sembra
preistoria alla luce di quanto sta accadendo quotidianamente, davanti ai nostri
occhi.
Al
terzo posto, in questa classifica delle tragedie umanitarie, c’è il letale mix
tra guerra civile e disastri naturali in Myanmar:
il
solo terremoto del 28 marzo scorso ha provocato quasi 4mila morti, con 55.000
case distrutte in diverse regioni, ma questo non ha fermato gli attacchi contro
i civili.
Ma c’è
anche un drammatico problema di disponibilità finanziarie: secondo il “Global
Humanitarian Overview “(GHO), stilato dall’Ufficio delle Nazioni Unite per gli
Affari Umanitari (OCHA), il fabbisogno di finanziamento globale per il 2025
dovrebbe essere di oltre 46 miliardi di dollari per assistere, concretamente,
188 milioni di persone bisognose in 72 nazioni.
Ma i
finanziamenti effettivi superano di poco i 4 miliardi di dollari, pari al 9%
del necessario: il che porta a un drastico ridimensionamento delle operazioni
umanitarie.
Anche
esuli del Sudan sono scappati dai conflitti.
La
nuova prevalenza del disordine globale.
Dunque
a questo siamo: a una forsennata corsa al riarmo (anche in Europa, come se
fosse “normale”) perché “così fan tutti” in un fiorire di sfide tecnologiche e
ibride sempre più sofisticate, tra aggressioni e minacce di annessioni, perché
“viviamo in un momento così importante e pericoloso”, per usare le parole della
presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen.
Ma è l’attuale disordine globale ad aver
stravolto i rapporti internazionali, ribaltando la grammatica della diplomazia,
togliendo spazi e parole ai “mediatori”.
Spingendo
anche l’attuale Papa Leone XIV a riprendere le parole del suo predecessore,
Francesco, parlando di “terza guerra mondiale a pezzi” e lanciando un appello
ai potenti del mondo: “Mai più guerra”.
Non
sarà ascoltato, come il suo predecessore: ma questo non toglie forza al gesto,
al messaggio.
Disarmiamo
le parole per disarmare la Terra.
Papa
Leone XIV.
Scriveva
pochi giorni fa” Othon A. Leon”, direttore del “Canadian Centre for Strategic
Studies” di Montreal, in un intervento pubblicato dall’autorevole rivista “Modern
Diplomacy”:
“L’8 maggio 1945 segnò non solo la sconfitta
della Germania nazista, ma anche la nascita di un nuovo ordine internazionale”,
ricorda Leon.
“Nella
loro incessante ricerca per prevenire il ripetersi di tale devastazione, le
potenze alleate vittoriose cercarono di costruire un'architettura diplomatica
radicata nella cooperazione, nell'interdipendenza economica e nella sicurezza
collettiva.
Tuttavia,
dopo ottant’anni di riflessione, l’ordine del dopoguerra non è riuscito ad
affrontare le profonde tensioni strutturali che continuavano a plasmare gli
affari globali.
Mentre
ha impedito un’altra guerra mondiale, non è riuscito a contenere o risolvere le
numerose piccole guerre e le crisi di lunga data che sono scoppiate sulla sua
scia.
La cattiva gestione del processo di
decolonizzazione, l’ostinazione delle ostilità della Guerra Fredda,
l’escalation dei conflitti per procura nel Sud del mondo e l’incapacità di
prevenire o mitigare la frammentazione del mondo post-sovietico evidenziano i
limiti di questo ordine.
Il mondo di oggi, caratterizzato da
disuguaglianze radicate, sfiducia strategica, arretramento democratico e
violenza persistente, è il risultato di questi fallimenti diplomatici”.
La
questione diventa ancor più complessa se si tiene conto dell’aspetto economico
della vicenda, della guerra intesa come “straordinario business” per
l’industria bellica (a puro titolo di esempio: secondo uno studio del 2024 di
Greenpeace Italia i profitti delle prime 10 imprese esportatrici di armamenti
dall’Italia si sono moltiplicati in due anni, sia in termini di utile netto,
con un aumento del 45%, sia come flusso di cassa disponibile, con un balzo del
175%).
Scriveva
pochi mesi fa l’”associazione Massachusetts Peace Action” (MAPA):
“Cosa dovremmo pensare di questa apparente
normalizzazione della guerra e del suo rapporto con la redditività delle
imprese?
Gli
interessi economici sia della Russia sia degli Stati Uniti, ad esempio,
entrambi importanti fornitori di armi, hanno beneficiato del conflitto in corso
nella guerra in Ucraina.
È
assurdo suggerire che, finché questo conflitto continuerà, le entità aziendali
di entrambi i paesi continueranno a godere di una miniera d'oro per gli affari
non solo in termini di costruzione e fornitura di armi, ma anche di
ricostruzione delle infrastrutture gravemente danneggiate del paese?
L’applicazione di questo modello alla nozione
di guerre eterne in generale, e all’Ucraina in particolare, si collega
facilmente a possibili secondi fini geopolitici. Se questo conflitto dovesse
essere risolto diplomaticamente, gli appaltatori della difesa di entrambe le
parti perderebbero il loro “gravy train” (treno della cuccagna).
Negli
Stati Uniti, data la smisurata influenza lobbystica a Washington, non sorprende
che la guerra sia continuata così a lungo”.
Dalle
leggi della robotica
alle
“leggi dell’AI.”
Ilbolive.unipd.it
- Mattia Soppelsa – (23 luglio 2025) – ci dice:
Sì: il titolo è volutamente provocatorio.
E no: almeno in Europa non ci sono automi
dotati di intelligenza artificiale, in stile Asimov, che si apprestano a
scrivere e a dettare legge.
È inutile negare, però, che molti Paesi – tra
cui l’Italia – stanno ampiamente sperimentando (e non solo) sistemi di AI che
permettano, a vari livelli, di semplificare, migliorare, gestire il grandissimo
spettro del sistema legislativo.
D’altra
parte, era solo questione di tempo: l’intelligenza artificiale permea, ormai,
qualsiasi livello della nostra società.
Le chatbots sono ampiamente usate, le
implementazioni nella vita di tutti i giorni sono più che visibili.
Viene
da sé che l’AI sbarcasse anche nella politica e nella sua complessa gestione.
Si tratta soprattutto di sperimentazioni, grandi o piccole con un caso
eclatante: quello degli Emirati Arabi Uniti, ma ci arriveremo.
L’Italia
e il Parlamento.
L’annuncio
è arrivato nel luglio del 2025:
il Parlamento italiano avvierà una fase di
sperimentazione sull’utilizzo dell’intelligenza artificiale nel processo
legislativo.
Il
progetto, condiviso tra Camera e Senato, è stato illustrato con l’obiettivo di
valutare in modo concreto le potenzialità dell’ “IA generativa come strumento
di supporto all’attività normativa.
La
sperimentazione italiana si concentra su tre ambiti:
la generazione di bozze legislative, la produzione
automatica di sintesi e comparazioni normative, e la risposta a quesiti
giuridici tecnici da parte degli uffici legislativi.
A
essere coinvolte sono alcune delle principali AI generative disponibili sul
mercato, selezionate sulla base di criteri tecnici, ma anche in relazione alle
linee guida europee in materia di affidabilità, sicurezza e trasparenza.
Il progetto è sotto la supervisione di un
comitato tecnico-scientifico, incaricato di monitorarne l’implementazione e gli
effetti, ed è previsto un costante aggiornamento verso i presidenti delle due
Camere.
Il
primo obiettivo dichiarato non è quello di sostituire il lavoro dei funzionari
o dei parlamentari, ma di fornire uno strumento di ausilio alla produzione
normativa e alla sua valutazione preliminare.
In
pratica, l’intelligenza artificiale verrà impiegata per fornire versioni
iniziali di testi legislativi o di emendamenti, aiutando gli uffici a
identificare incoerenze, sovrapposizioni normative e potenziali conflitti con
leggi esistenti.
A
differenza di quanto si sta sperimentando in altri contesti, il Parlamento
italiano ha scelto un modello prudente e graduale.
Ogni
output prodotto dall’IA è validato da personale umano, e non è prevista –
almeno per ora – alcuna forma di autonomia decisionale. Inoltre, i dati
utilizzati per l’addestramento o la consultazione dei modelli devono essere
trattati nel rispetto della normativa europea sulla privacy e con attenzione
alla riservatezza dei contenuti parlamentari.
Il
progetto si inserisce nel più ampio quadro normativo dell’”AI Act”, il
regolamento europeo approvato nel 2024 che l’Italia recepirà con l’approvazione
del “Disegno di legge sull’Intelligenza artificiale” che attende l’ultima
lettura del Senato.
Emirati
Arabi Uniti: IA al centro del sistema normativo.
Diverso
è il quadro negli Emirati Arabi Uniti, dove l’intelligenza artificiale è già
utilizzata in modo strutturato dal 2023 come supporto diretto alla produzione
normativa a livello federale.
Il
progetto, sviluppato sotto l’egida dell’UAE Government Development and the
Future Office, prevede un’integrazione continua tra algoritmi e funzionari
pubblici, in un sistema centralizzato che mira all’efficienza legislativa.
A
livello operativo, le funzioni dell’intelligenza artificiale vanno dalla
redazione delle proposte di legge alla simulazione d’impatto sociale, fino
all’aggiornamento automatico dei testi normativi sulla base di nuovi dati o
modifiche internazionali.
Il
cuore tecnico del sistema è gestito dal “Regulatory Intelligence Office” (RIO),
una struttura che combina capacità predittive, elaborazione semantica
multilingue e analisi automatizzata delle norme.
Il
modello emiratino, a differenza di quello italiano, non prevede una fase
sperimentale limitata.
L’intelligenza
artificiale è già entrata a far parte dell’intero ciclo legislativo e viene
utilizzata con regolarità in tutti i ministeri e negli uffici legali.
La
supervisione avviene tramite un comitato governativo misto, che comprende
rappresentanti tecnici, legali e religiosi.
Tuttavia,
manca una forma di controllo indipendente sull’intero processo.
Nel
quadro giuridico emiratino, l’impiego dell’IA nel diritto non è accompagnato da
una normativa specifica paragonabile all’AI Act europeo.
Le decisioni
vengono prese con un approccio centralizzato, e le tecnologie vengono
aggiornate in modo flessibile, sulla base delle esigenze del governo.
Le questioni legate alla privacy e all’etica
vengono gestite a livello ministeriale, secondo standard interni piuttosto che
regolamenti sovranazionali.
Uno
degli aspetti centrali è la creazione di un database normativo digitale
unificato, da cui l’intelligenza artificiale attinge per elaborare i testi.
Questo
permette una visione d’insieme più coerente, ma comporta anche un forte
accentramento delle fonti informative.
L’uso
dell’IA è inoltre esteso all’interazione con il pubblico:
alcune
chatbot istituzionali sono in grado di spiegare ai cittadini, in arabo e
inglese, il contenuto delle leggi e le procedure amministrative collegate.
Rimangono i problemi di fondo:
mancanza
di trasparenza e centralizzazione del processo decisionale per quanto riguarda
gli aspetti democratici e sociali;
evidenti
problemi etici e di probabilità di bias nel caso l’AI interpretasse male dei
dati e non ci fosse un sufficiente controllo (o fosse del tutto assente) umano
sul processo.
Infografica
sulle sperimentazioni legislative AI.
Le
sperimentazioni in corso.
Altri
paesi: tra ricerca e applicazione concreta.
Oltre all’Italia
e agli Emirati Arabi Uniti, sono in corso sperimentazioni simili in altri paesi
europei.
In Francia, l’Assemblea Nazionale sta testando
un modello per la valutazione dell’impatto normativo delle leggi tramite IA,
mentre in Germania sono attivi progetti pilota in collaborazione con istituti
universitari e think tank per l’analisi dei testi legislativi.
In
Spagna, il Senato ha avviato una riflessione istituzionale sull’uso dell’IA nel
monitoraggio dell’applicazione delle norme.
Il
Portogallo ha integrato strumenti di IA nella redazione di regolamenti
amministrativi, ma non ancora nel Parlamento.
Al di
fuori dell’Europa, si segnalano le attività del Parlamento del Canada, dove
alcuni software AI sono utilizzati per la semplificazione del linguaggio
normativo, e del governo del Cile, che ha lanciato un programma pubblico di
consultazione algoritmica sulle riforme fiscali.
Tuttavia,
in quasi tutti questi casi, l’impiego dell’IA è ancora oggetto di valutazione
etica e sperimentazione limitata.
Gli
unici paesi ad aver introdotto un’architettura normativo-legislativa con l’IA
già attiva e operativa a regime sono, al momento, proprio gli Emirati Arabi
Uniti e – in modo parziale – la Cina.
Non a
caso, due Paesi in cui la prudenza, lo spirito democratico e l’etica non sono
al primo posto in quanto a tutela.
Netanyahu
gioca di astuzia,
Hamas
non può che rifiutare
la
proposta.
Ilmanifesto.it
- Sabato Angieri -Redazione – (24 gennaio 2024) – ci dice:
Israele/Palestina
Qualcosa sul piano diplomatico si muove, ma a Gaza non è ancora tempo di
tregua.
Secondo
«funzionari anonimi» egiziani sentiti dall’Ap, il governo israeliano avrebbe
proposto una pausa di due mesi.
Esiste
la foto della protesta dei familiari degli ostaggi davanti alla Knesset.
Qualcosa
sul piano diplomatico si muove, ma a Gaza non è ancora tempo di tregua.
Secondo «funzionari anonimi» egiziani sentiti
dall’Ap, il governo israeliano avrebbe proposto una pausa di due mesi nella
Striscia, la liberazione di alcuni prigionieri palestinesi nelle carceri
israeliani e la possibilità per i leader di Hamas a Gaza di trasferirsi in
altri paesi.
In cambio Tel Aviv chiede la liberazione di
tutti e 130 gli ostaggi rapiti il 7 ottobre. Stando agli stessi funzionari,
tuttavia, i rappresentanti di Hamas hanno rifiutato la proposta.
LA
NOTIZIA sembra inaspettata.
Da un
lato, per alcuni significherebbe che il governo Netanyahu non sta considerando
soltanto l’opzione tabula rasa, come ripetono continuamente i rappresentanti
dell’esecutivo.
Ieri
il ministro della difesa di Israele, Yoav Gallant, ha dichiarato: «Questa è una
guerra che determinerà il futuro di Israele per i decenni a venire: la caduta
dei combattenti ci costringe a raggiungere gli obiettivi della guerra».
Anche
se Gallant si riferiva specificatamente ai 21 militari israeliani caduti nelle
scorse ore, le sue parole non si sono discostate di un millimetro dalla linea
dei vertici israeliani.
«Sradicare
Hamas da Gaza e mettere in sicurezza la Striscia» è il mantra di Netanyahu e
del suo governo fin dal giorno seguente agli attacchi terroristici di Hamas.
Tra
l’altro il premier ieri ha dichiarato: «La mia aspirazione principale è la
vittoria totale, niente di meno».
Dall’altro,
indicherebbe che forse le pressioni internazionali degli Usa e della comunità
internazionale e quelle interne starebbero mettendo in difficoltà Bibi.
LE
IMMAGINI dei familiari delle vittime che fanno irruzione in una riunione di
commissione al parlamento a Gerusalemme hanno fatto in fretta il giro del
mondo.
Così
come la testimonianza di Aviva Siegel, una degli ostaggi liberati da Hamas che
ha raccontato di fronte alla Knesset di aver assistito ad abusi e atrocità
subiti dagli ostaggi.
«I
terroristi portano vestiti che non vanno bene per le ragazze, le vestono come
le bambole. Hanno trasformato le ragazze nelle loro bambole, con cui possono
fare quello che vogliono», si legge sulle colonne del Times of Israel.
Secondo Siegel gli stupri «toccano anche i
ragazzi».
E
intanto le grandi città israeliane compaiono spesso cartelli con il volto di
Netanyahu insanguinato e la scritta «dimettiti».
Le
stesse fonti anonime egiziane sostengono che Hamas avrebbe rilanciato con la
sua nota richiesta: non verranno rilasciati altri ostaggi finché Israele non
metterà fine alla sua offensiva e si ritirerà da Gaza.
Il motivo è pratico: la proposta israeliana
sarebbe per Hamas un suicidio e Tel Aviv, quando l’ha avanzata con un’astuta
mossa politica, sapeva già che era irricevibile.
Perché
senza ostaggi la forza ai tavoli diplomatici del gruppo sarebbe ridotta a zero.
Hamas
punta a un cessate il fuoco permanente, altrimenti tra due mesi l’offensiva non
avrà limite alcuno.
IN
OGNI CASO Israele non commenta le indiscrezioni sulle trattative.
Ma due
conferme indirette ci sono.
Secondo
la CN, il capo del Mossad (i servizi segreti israeliani), David Barena, avrebbe
proposto che i leader di Hamas vengano esiliati dalla Striscia come parte di un
più ampio accordo di cessate il fuoco.
Il
portavoce del ministero degli esteri del Qatar, Majed al-Ansari, in serata ha
aggiunto:
«Non
posso dare dettagli specifici sulla mediazione in corso ma posso dire che siamo
impegnati in discussioni serie con entrambe le parti.
Stiamo ricevendo un flusso costante di
risposte da entrambe le parti e questo è motivo di ottimismo».
Anche
se, per ora, l’ottimismo è soltanto il suo.
Trump,
la Nazionalizzazione della FED
e il
Colpo di Grazia all’Euro.
Conoscenzealconfine.it
– (29 Luglio 2025 )- Cesare Sacchetti – ci dice:
La
visita non è stata affatto gradita. L’attuale governatore della Federal Reserve
Bank, “Jerome Powell”, non voleva che lo staff della Casa Bianca venisse in
visita alla sede della banca centrale americana, e allora è venuto direttamente
il comandante in capo, Donald Trump, che ha avuto in passato non pochi screzi
contro l’attuale governatore.
Nei
giorni scorsi se ne è avuto un altro esempio quando il presidente degli Stati
Uniti, dopo che Powell ha negato che il conto della ristrutturazione della FED
fosse lievitato oltre il budget previsto, ha tirato fuori dalla tasca il conto
con i numeri che smentivano il governatore della FED.
Si
potrebbe dire che quello di giovedì è stato un avviso di sfratto a Powell
perché Donald Trump da un po’ di tempo a questa parte ha mostrato molta
insoddisfazione nei confronti di un governatore che continua a tenere alti i
tassi e ad essere disallineato dalla politica economica dell’amministrazione
Trump.
L’operazione
che il presidente degli Stati Uniti sta portando avanti però sembra andare ben
oltre la semplice nomina del governatore della più importante banca centrale al
mondo.
Trump
vuole mettere fine ad una policy che marcava una rigida linea di separazione
tra il potere politico e quello monetario, una soglia che nessun altro
presidente prima di lui aveva osato superare, salvo il compianto presidente
Kennedy che aveva firmato un ordine esecutivo per consentire la creazione di
dollari emessi direttamente dal Tesoro.
La
Guerra dei Presidenti Contro le Banche.
Si
tratta di un conflitto che è parte della storia degli Stati Uniti sin dagli
albori, quando i vari presidenti si sono dovuti tutti ritrovati a combattere
delle guerre costanti con il “grande” potere delle banche e della finanza che
hanno sempre cercato di controllare la creazione della moneta in America.
A
scontrarsi per primo con tali poteri è stato il presidente Jackson che nel 1832
decise di mettere fuori legge la First United States Bank che si era arrogata
il diritto di stampare moneta.
Il
presidente americano era così fiero di essere riuscito a sconfiggere il
cartello bancario che decise di far scrivere sulla sua lapide la frase “I beat
the bank”, ovvero “ho sconfitto la banca”.
Stessa
guerra si trovò a combattere un altro grande presidente americano quale Abraham
Lincoln, che aveva deciso di creare una moneta puramente statale, il cosiddetto
“greenback”, emesso direttamente dal Tesoro, e che doveva essere stampata per
consentire allo Stato di poter crescere e di creare così quei posti di lavoro
necessari per il benessere di una nazione.
A
distanza di più di un secolo, il presidente Trump si trova ancora una volta a
combattere con il “potere dell’alta finanza” che nel 1913 ha partorito la
creazione della “Federal Reserve Bank.”
Se si
dà uno sguardo alla struttura organizzativa della FED si vedrà che essa non è
direttamente nelle mani del governo americano, ma dalle varie filiali che la
compongono, quale, ad esempio, la FED di New York, partecipata a sua volta dalle
banche del settore privato.
Sono i
“grandi” banchieri di Wall Street quali i Rockefeller, gli Schiff, i Kuhn &
Loeb, i Vanderbilt, i veri proprietari di tale banca e tali verità sono persino
contenute negli atti ufficiali del Congresso americano che discusse l’assetto
proprietario della banca centrale americana.
Una
nazione per poter essere realmente indipendente, deve avere la facoltà di
stampare la sua moneta e deve poter controllare la sua banca centrale, senza la
quale è impossibile fare una politica economica rivolta verso l’interesse
nazionale.
Si
spiega così, ad esempio, la crisi permanente che affligge l’eurozona ormai da
più di 15 anni perché i Paesi che hanno adottato la moneta unica hanno rimesso
la facoltà di stampare moneta alla BCE, un istituto di Francoforte partecipato
dalle banche centrali nazionali dei vari Paesi europei, partecipate a loro volta da banche
private che di fatto sono le vere proprietarie dell’Eurotower.
Donald
Trump aveva molto bene chiaro tale concetto.
Sapeva
sin dal primo istante che per restituire la piena sovranità al suo Paese
avrebbe dovuto liberare la FED e mettere fine al “dogma” partorito verso la
fine degli anni’70 dai “Chicago Boys” di Milton Friedman, economista padre del
neoliberismo, che ha stabilito la separazione tra il governo e la banca
centrale.
Se ne
sa qualcosa di tale politica proprio in Italia, laddove nel lontano 1981,
l’allora governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, e l’ex
ministro del Tesoro, Beniamino Andreatta, decisero arbitrariamente di attuare
il famigerato “divorzio”, privando così il governo della facoltà di monetizzare
il proprio debito pubblico e abbassare i tassi di interesse.
Chi ha
vissuto negli anni’80 ricorderà che in quel periodo storico i tassi sui titoli
di Stato erano particolarmente alti, e ciò avvenne proprio perché il ministero
del Tesoro non poteva più ordinare a Bankitalia di comprare i bot al tasso
indicato dal governo.
A
decidere in quel preciso istante i tassi di interesse non era più lo Stato, ma
il mercato, e il passaggio che si è verificato in quella fase ha di fatto
finanziarizzato l’economia e provocato la cosiddetta impennata del debito
pubblico, che non è schizzato in alto per le tangenti o per Bettino Craxi, come
vuole la vulgata di Marco Travaglio, ma per una decisione scellerata di
Andreatta e Ciampi, entrambi membri del gruppo Bilderberg.
Il
presidente Trump conosce bene tali meccanismi e tali politiche monetarie.
Trump
vuole arrivare alla fine del precedente status quo, e per poterlo fare ha già
sfruttato alcune situazioni quali la “farsa pandemica “che era state concepita
espressamente per restringere la sovranità dei governi nazionali e giungere al
successivo “Grande Reset di Davos”.
Nel
2020 infatti, all’alba dell’inizio della “pandemia”, il presidente ricorse a
degli strumenti legislativi noti come” Special Purpose Vehicle” (SPV), che in
pratica consentono al governo di controllare la Federal Reserve Bank alla quale
venne ordinato di stampare moneta per dare ossigeno alle piccole e medie
imprese americane, il cuore pulsante della classe media americana, schierata in
larghissima parte con Trump.
Il
presidente allora non fece altro che creare un precedente.
Il governo degli Stati Uniti per la prima
volta da molti anni ordinava di stampare moneta per sostenere l’economia reale
del Paese, piuttosto che fornire liquidità illimitata ai vari finanzieri di
Wall Street, che nel 2008 trascinarono gli Stati Uniti e il mondo verso la
famigerata crisi dei mutui subprime.
Trump
oggi sembra intenzionato a chiudere il cerchio.
A farlo capire è stato proprio il suo
segretario al Tesoro,” Scott Besson”, che apparso sugli schermi televisivi
della CNBC, ha detto esplicitamente che l’amministrazione Trump vuole
esaminare a fondo la Federal Reserve Bank, una dichiarazione che sembra celare
l’intenzione di andare verso il completo controllo della FED da parte del
governo americano.
A
intuire che il presidente Trump è intenzionato a mettere fine all’indipendenza
della Federal Reserve Bank sono stati già i vari apparati da sempre nemici del
presidente, quali, ad esempio, il “Council on Foreign Relations”, che,
allarmato, scrisse l’anno scorso che Donald Trump aveva a disposizione uno
stratagemma legale per controllare il “Comitato federale del mercato aperto”
(FOMC) della FED, ovvero l’organismo della banca centrale americana che
controlla sia i tassi di interesse, sia l’offerta di moneta da immettere sul
mercato.
A
comporre il FOMC sono 12 membri, 7 di nomina presidenziale, 1 che è il
presidente della FED di New York, e altri 4 membri che appartengono invece alle
altre 11 succursali regionali della Federal Reserve. A presiedere tale comitato è Jerome
Powell, che detiene anche la carica di governatore della FED.
Secondo
alcune interpretazioni giuridiche, Trump potrebbe licenziare Powell, privandolo
della carica di governatore, ma Powell resterebbe però presidente del citato
FOMC, anche se dal 1935 in poi il presidente della FED è stato il presidente
del FOMC, e non c’è mai stata una separazione dei due ruoli, cumulati nella
stessa persona.
Se
quindi Trump decidesse di mettere fine anticipatamente al mandato di Powell,
che scade a maggio del 2026, appare improbabile che questi possa conservare
l’altra carica di presidente del FOMC, rendendolo di fatto un membro zoppo
della FED, senza i pieni poteri di cui disponeva in precedenza.
Appare
chiaro che Trump proprio con la sua visita alla sede della FED si stia muovendo
per aumentare la pressione su Powell e indurlo a dimettersi. Il presidente
degli Stati Uniti sembra avere un obiettivo molto chiaro e ben definito.
Vuole
mettere fine alla stagione della indipendenza della banca centrale americana e
vuole far sì che sia il governo degli Stati Uniti a decidere i tassi di
interesse e quanta moneta immettere nel sistema.
Si può
vedere quindi come il presidente americano sia lontano anni luce dai dettami del neoliberismo che invece
vogliono togliere al governo la facoltà di controllare e gestire la banca
centrale.
Le
banche centrali sono state di fatto privatizzate per una ragione precisa.
I vari
economisti della scuola di Chicago, come Milton Friedman, che hanno partorito
tali idee volevano togliere agli Stati la facoltà di stampare moneta e
assegnare così ai mercati il controllo dell’economia e di nazioni intere.
Trump
e il Colpo di Grazia all’Euro.
Nell’agenda
di Trump non c’è però solo la nazionalizzazione della FED.
A Francoforte, la sede della BCE, nelle varie
banche europee inizia a manifestarsi una certa preoccupazione perché il presidente degli Stati Uniti vuole
cambiare rotta anche per ciò che riguarda il prestito di dollari erogati a
favore della stessa BCE e delle varie banche dei Paesi europei.
In
passato, negli anni dell’amministrazione Obama, ad esempio, o
dell’amministrazione Bush, il problema nemmeno si poneva.
Se c’era da finanziare la BCE, la Federal
Reserve Bank non esitava a prestare dollari all’istituto di Francoforte e alle
banche europee che avevano bisogno della moneta americana per onorare
determinate obbligazioni e debiti garantiti in quella moneta.
L’era
di Donald Trump ha messo fine alle certezze del passato, e adesso i vari
analisti della BCE stanno già iniziando ad eseguire i cosiddetti stress test
che prevedono uno scenario di chiusura dei rubinetti da parte della FED nei
prossimi mesi. Gli Stati Uniti sono chiaramente intenzionati a recidere ogni legame con
l’Unione europea.
Se è
fuori di dubbio che l’UE è stata voluta e finanziata sin dal principio dai vari
ambienti dello stato profondo americano nell’ottica della costruzione di una
governance globale, il presidente Trump, oggi, non ha più alcuna intenzione di
fornire liquidità illimitata all’Unione europea, una organizzazione da lui giudicata
ostile e che gode di un forte surplus commerciale verso gli Stati Uniti.
I dazi
sono dunque soltanto la prima parte della strategia di Trump, che, nel
“migliore” dei casi porterebbe ad un 15% di tassazione sulle esportazioni
europee negli Stati Uniti, e, nel peggiore, una tassazione del 30%.
Trump
agisce chiaramente per togliere a Bruxelles l’ossigeno americano di cui ha
bisogno per poter esistere da un punto di vista commerciale e monetario.
Le
dichiarazioni dei vari “leader” europei che vagheggiano, o delirano, di
eserciti comuni europei si scontrano con la realtà dei fatti, che ribadisce
ancora una volta una semplice evidenza.
L’Unione europea non ha la struttura per poter
esistere senza il sostegno economico, monetario e militare di Washington.
La
nuova politica estera di Washington ha messo a nudo tutte le fragilità e
velleità di Bruxelles, che in autunno rischia di trovarsi di fronte ad una
grave crisi commerciale e monetaria.
Se si
chiude il mercato di sbocco americano, e se si chiude il rubinetto della FED,
le pressioni sull’Unione europea e sulla moneta unica saranno fortissime.
L’euro resta una moneta forte nel cambio ma
intrinsecamente debole nella sua struttura.
Nonostante
il dollaro continui a perdere lo status di moneta di riserva globale, l’euro
non riesce a guadagnare terreno.
I
mercati sono in attesa.
Sanno che l’euro è una moneta privata non
garantita da uno Stato che non può resistere a lungo, soprattutto senza il supporto
degli Stati Uniti.
Sin
dal principio l’euro è stato costruito così, ovvero come un castello senza
fondamenta. A Maastricht, nell’infausto 1992, crearono una banca centrale che
non garantiva il debito pubblico degli Stati e che non finanziava il deficit
dei vari governi, perché si voleva creare una austerità permanente che avrebbe
a poco a poco spogliato completamente le nazioni delle loro ricchezze per
consegnarle nelle mani della finanza privata.
Tale
crisi permanente sarebbe dovuta servire in un secondo momento per fare il passo
successivo, quale quello della costruzione degli Stati Uniti d’Europa, dotati
di una vera banca centrale, ma i sogni di gloria degli eurocrati sono andati in
fumo una volta che gli Stati Uniti hanno iniziato a tagliare i ponti con
l’Unione europea. Donald Trump ha messo infatti fine a 80 anni di politica
estera Euro-Atlantica.
Ad
oggi, l’ordine liberale internazionale partorito dalla seconda guerra mondiale
è già finito. Non esiste più “Bretton Woods” che assegnava al dollaro lo status
di valuta di riserva globale, poiché Washington non è affatto interessata ad
avere in tasca una valuta pesante che la costringe ad avere un enorme deficit
commerciale con il resto del mondo.
Non
esiste nemmeno più la NATO il cui bluff di promettere a Trump il contributo del
5% del PIL a favore del Patto Atlantico verrà presto smascherato una volta che
i parlamenti nazionali saranno chiamati a discutere i bilanci da approvare,
senza dimenticare che i Paesi della NATO non riuscivano a onorare nemmeno il
precedente impegno del 2%, figurarsi quindi quello del 5%.
Gli
Stati Uniti stanno, in altre parole, staccando la spina all’Unione europea che
nel prossimo autunno si troverà praticamente soffocata dalle pressioni
americane e alle prese con delle gravi crisi interne politiche ed economiche.
Non si
può quindi non giungere ad una conclusione logica e scontata. L’apparato comunitario non può
farcela. Non può sopravvivere a questa fase della storia e non può sopravvivere
nello scontro con Washington.
Il
trattato di Maastricht quest’anno ha compiuto 33 anni di vita, un numero
alquanto caro alle massonerie parte integrante di questo sistema.
Di
questo passo, non c’è alcuna certezza che arrivi a compierne 34.
(Cesare
Sacchetti).
(lacrunadellago.net/trump-la-nazionalizzazione-della-fed-e-il-colpo-di-grazia-alleuro/).
Cambogia-Thailandia,
i motivi
della
nuova guerra in Asia.
Pagineesteri.it
- Marco Santopadre – Redazione - (25 Lug. 2025) – ci dice:
Pagine
Esteri – Proseguono gli scontri armati al confine tra Thailandia e Cambogia,
con diversi colpi di artiglieria sparati da entrambi gli eserciti in ben 12
punti della frontiera. Ieri il bilancio degli scontri e dei bombardamenti più
intensi dal 2011 era stato di 12 morti thailandesi e centinaia di feriti.
Finora
oltre 120 mila persone sono state evacuate dalle zone interessate dai
combattimenti.
Oggi
il conteggio è salito a 19 morti thailandesi – di cui 13 civili e 6 militari –
ed uno cambogiano.
L’esercito
thailandese ha riferito di scontri avvenuti prima dell’alba nelle province di
“Ubon Ratchathani” e “Surin”.
La Cambogia avrebbe utilizzato artiglieria e
sistemi missilistici BM-21 di fabbricazione russa, e la Thailandia avrebbe
risposto al fuoco.
Le
versioni dei due governi sulla scintilla che ha scatenato la nuova fiammata di
violenza ovviamente sono opposte.
Stando
a quella di Bangkok, sei soldati cambogiani, uno dei quali armato di
lanciarazzi, si sarebbero avvicinati alla frontiera e avrebbero aperto il fuoco
dando il via a una sparatoria che poi è degenerata in scontro aperto.
Phnom
Penh afferma invece che i militari cambogiani avrebbero agito per “autodifesa”,
in risposta a un’incursione “ingiustificata” dei thailandesi.
In
seguito le forze cambogiane avrebbero sparato una raffica di razzi, uno dei
quali ha colpito una stazione di rifornimento in territorio thailandese.
Bangkok avrebbe a quel punto fatto decollare
sei caccia F-16 allo scopo di colpire vari obiettivi militari in Cambogia, due
dei quali sarebbero stati abbattuti dall’anti-aerea di Phnom Penh che ha
risposto con vari colpi di artiglieria contro una base militare oltreconfine.
Il bombardamento avrebbe però colpito un
ospedale e varie abitazioni, uccidendo 11 civili e un militare.
Dopo
alcuni anni di relativa calma, il conflitto per il controllo di una porzione
contesa di frontiera, contigua al cosiddetto “triangolo dello smeraldo”, era
già esploso a maggio quando un breve scontro a fuoco tra i rispettivi militari
aveva provocato la morte di un soldato cambogiano.
Lo
scontro tra Phnom Penh e Bangkok risale all’epoca del tracciamento dei confini
da parte dei colonizzatori francesi che creò una contesa sul possesso di alcune
aree di un confine lungo 820 km.
La
prima divisione avvenne nel 1907 quando la Francia, che occupava la Cambogia,
tracciò un confine mai accettato dalla Thailandia.
Alcune delle aree rivendicate da entrambi i
paesi sono piene di templi di grande valore storico, artistico e religioso, ed
ovviamente simbolico.
Dopo
il ritiro della Francia dall’area, nel 1953, la Cambogia si rivolse alla Corte
di giustizia internazionale, che nel 1963 e di nuovo nel 2013 le diede ragione.
Ma la decisione non fu accettata dalla
Thailandia che non riconosce la giurisdizione dell’organismo internazionale.
Nel 2008 la tensione sfociò in un violento
scontro armato, che si protrasse per tre anni e causò la morte di 28 persone.
Ma
dietro la nuova guerra ci sono anche motivazioni di altro tipo oltre a quelle
legate all’annosa disputa territoriale:
interessi
economici legati allo sfruttamento di giacimenti di petrolio e di gas ancora
inesplorati, ma anche ai casinò dislocati lungo la frontiera;
l’intreccio di relazioni politiche e d’affari
tra due famiglie storicamente alleate, gli Hun e gli Shinawatra; i rapporti di
potere all’interno delle forze armate.
A
Bangkok il potere è stato per un anno in mano alla 38enne Paetongtarn
Shinawatra, figlia dell’ex primo ministro e tycoon delle telecomunicazioni
Thaksin, che dopo essere stato deposto da un colpo di stato militare nel 2006
trovò asilo proprio nella confinante Cambogia.
Ad
accoglierlo fu Hun Sen, padre dell’attuale premier Hun Manet, che poi nominò il
politico thailandese suo consigliere economico causando una crisi diplomatica
con il regime militare insediatosi a Bangkok.
Un
nuovo conflitto politico e diplomatico è esploso nelle scorse settimane a causa
della diffusione dell’audio di una telefonata tra la premier Paetongtarn
Shinawatra e Hun Sen, realizzata per abbassare la tensione tra i due paesi dopo
lo scontro a fuoco di maggio.
Nella registrazione di sente l’allora premier
thailandese rivolgersi in maniera deferente al politico cambogiano con
l’appellativo di “zio” e pronunciare delle critiche alla condotta dei propri
militari, in particolare al capo del Comando nordorientale dell’Esercito
Thailandese Boonsin Phadklang, responsabile delle truppe che avevano aperto il
fuoco contro una pattuglia cambogiana al confine.
L’audio
della chiamata fu però diffuso via social proprio da Hun Sen, che evidentemente
voleva utilizzarla per indebolire la giunta militare thailandese.
A
Bangkok si scatena un terremoto politico:
prima
il partito di destra “Orgoglio Thai” esce dalla maggioranza di governo, poi 36
senatori denunciano la premier Shinawatra che viene sospesa in attesa del
pronunciamento della Corte Costituzionale.
Secondo
vari analisti, Hun Sen avrebbe diffuso la registrazione della compromettente
telefonata per vendicarsi nei confronti della famiglia Shinawatra, inadempiente
rispetto alla promessa di accelerare i negoziati sulla definizione della
cosiddetta “Area di rivendicazioni sovrapposte”, una zona di 26 mila km
quadrati nel Golfo della Thailandia che secondo le stime ospita giacimenti di
gas e petrolio finora non sfruttati del valore di 300 miliardi.
Il
cambogiano Hun Sen, inoltre, sarebbe stato fortemente irritato da una legge,
approvata dal governo di Bangkok a marzo, che legalizza i casinò e consente la
realizzazione di alcune case da gioco anche nella regione del “Corridoio
economico orientale”, al confine con il vicino. In Cambogia il gioco d’azzardo
è legale da tempo solo per i turisti stranieri ma è vietato ai residenti
locali, e i casinò cambogiani sono frequentati quindi soprattutto da visitatori
cinesi e thailandesi che a questo punto però avranno a disposizione anche
quelli aperti nel territorio di Bangkok.
La
concorrenza thailandese danneggerà un settore economico che rappresenta
addirittura, secondo le stime, una quota tra il 5 e il 10% del Pil nazionale
cambogiano.
Al
centro della contesa tra i due paesi ci sono anche i “centri truffa”, strutture
illegali gestite da gruppi criminali che operano in vari paesi del Sud-est
asiatico per condurre frodi online, scommesse clandestine, falsi investimenti,
furti di criptovalute ecc.
Negli ultimi anni, anche a causa della
repressione operata dalla giunta militare thailandese in collaborazione con
Pechino, molte di queste attività si sono spostate in Cambogia grazie alla
tolleranza del governo locale.
Nei mesi scorsi, dopo il rapimento di un
attore cinese da parte di una gang, le autorità thailandesi hanno preso di mira
anche i centri truffa insediati in territorio cambogiano, tagliando ad esempio
le connessioni verso la provincia cambogiana di Sa Kaeo.
Insomma
i motivi di attrito tra Phnom Penh e Bangkok sono numerosi e si sovrappongono
alla contesa territoriale che già in passato è sfociata in scontro armato,
anche a causa del protagonismo di alcuni comandanti dell’esercito che tentano
di utilizzare l’escalation per farsi strada nelle rispettive nomenklature
militari o di accrescere il proprio ruolo per contestare i rispettivi governi.
Ad
esempio in Cambogia alcuni generali della vecchia guardia, protagonisti della
guerra contro i “khmer rossi”, sarebbero insoddisfatti delle riforme promesse
dal premier Hun Manet, e starebbero cercando di indebolirlo proprio aumentando
la tensione con la Thailandia.
Nelle
ultime ore i governi dei due regni stanno apparentemente tentando di contenere
gli scontri e di bloccare l’escalation.
Uno
scontro frontale avvantaggerebbe sicuramente Bangkok, che dispone di un
esercito più numeroso e meglio equipaggiato.
Mentre
oggi il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha indetto una riunione d’emergenza per
affrontare la crisi gli Stati Uniti, da lungo tempo alleati della Thailandia,
hanno chiesto la cessazione immediata delle ostilità.
Anche
la Cina, stretto alleato della Cambogia, ha dichiarato di essere profondamente
preoccupata per il conflitto in corso e di sperare che entrambi i Paesi
«risolvano adeguatamente la loro controversia attraverso il dialogo». –
(Pagine
Esteri).
GAZA.
“È genocidio”:
B’Tselem e Physicians for Human Rights accusano
Israele.
Pagineesteri.it - Redazione – (30 Lug. 2025)
– ci dice:
In uno
dei momenti più tesi e significativi dell’offensiva israeliana in corso a Gaza,
due tra le più note organizzazioni per i diritti umani israeliane hanno
compiuto un passo di grande significato:
accusare
apertamente lo Stato di Israele di genocidio.
Lunedì,
in una conferenza stampa tenuta a Gerusalemme,” B’Tselem” e “Physicians for
Human Rights” hanno presentato rapporti che delineano – nei dati, nelle
testimonianze e nell’analisi giuridica – ciò che definiscono “un’azione
coordinata e deliberata per distruggere la società palestinese nella Striscia
di Gaza”.
Un’accusa
che scuote le fondamenta stesse della narrazione pubblica israeliana.
«Abbiamo
esaminato tutti i rischi:
legali, reputazionali, sociali.
Sapevamo
che questa affermazione avrebbe avuto un costo, ma non potevamo più tacere», ha
dichiarato “Sarit Michaeli”, direttore internazionale di B’Tselem.
L’organizzazione,
pur marginalizzata nella politica interna, gode di rispetto e riconoscimento a
livello internazionale.
Il
rapporto accusa Israele non solo di aver condotto bombardamenti indiscriminati,
ma di aver adottato una strategia sistematica per disintegrare la società
palestinese, attraverso la distruzione di infrastrutture civili, l’assedio
totale e il blocco degli aiuti umanitari, che ha spinto l’intera popolazione
verso una carestia annunciata.
Nelle
stesse ore in cui veniva presentata la denuncia delle due Ong, un osservatorio
internazionale sulla fame nel mondo confermava che nella Striscia di Gaza c’è
la fame:
bambini
sotto i cinque anni muoiono per malnutrizione, l’accesso umanitario è pressoché
nullo, e il collasso sanitario è già realtà.
Il
bilancio, secondo stime delle Nazioni Unite e di fonti palestinesi, supera
ormai le 60.000 vittime, la maggior parte delle quali civili.
Un
numero enorme certo non compatibile con l’argomentazione israeliana della
“guerra mirata contro Hamas”.
Ma in
Israele, le parole “genocidio” e “crimine contro l’umanità” restano anatemi.
Il governo ha risposto con veemenza alle
accuse.
Il
portavoce dell’esecutivo, “David Mencer”, ha liquidato i rapporti delle ONG
come “un uso distorto della libertà di parola” e ha sostenuto che dichiarazioni
di questo tipo “alimentano l’antisemitismo nel mondo”.
Anche
il ministero degli Esteri e l’ufficio del primo ministro Benjamin Netanyahu,
già sotto pressione per il caso aperto alla Corte internazionale di giustizia
dell’Aia su iniziativa del Sudafrica, si sono trincerati dietro il rifiuto:
“Israele non commette genocidio. Ci difendiamo da Hamas, che usa i civili come
scudi umani”, è il mantra ribadito da mesi.
Israele
resta fermo sulla sua “guerra difensiva” dopo l’attacco di Hamas nel sud del
paese il 7 ottobre 2023.
In
questo contesto, il dibattito interno resta ancorato sulla vendetta e la
legittimazione della forza.
“Yuli
Novak”, direttrice esecutiva di “B’Tselem”, ha parlato con tono commosso:
«È una realtà che la mente fatica ad
accettare. Ma è proprio questa
sofferenza che ci impone di dire la verità».
Un’analoga
determinazione traspare dalle parole di “Guy Shalev,” direttore di “Physicians
for Human Rights Israel,” che denuncia un progressivo strangolamento
amministrativo e finanziario:
«Conti
congelati, ostacoli burocratici, pressioni legali: la macchina della
repressione si è già messa in moto, e sappiamo che peggiorerà».
La
società israeliana, nel suo insieme, resta ostile a queste denunce.
La
parola “genocidio” continua a essere vista come un attacco all’identità e alla
legittimità dello Stato.
Ma l’isolamento interno non ha fermato le due
Ong, che hanno scelto di allinearsi a un crescente coro internazionale che
chiede giustizia e responsabilità per ciò che accade ogni giorno a Gaza.
Il
Sud-Est asiatico
da che
parte sta?
Cittanuova.it - Ravida Cheta – (28 Luglio 2025)
– ci dice:
Nel
panorama geopolitico, spesso caotico, l’Occidente (e soprattutto l’Europa),
sembra aver perso di vista l’importanza nevralgica di una parte di mondo: il
Sud-est asiatico.
Che si
troverà presto ad avere un ruolo centrale negli equilibri globali.
Il
periodo che stiamo vivendo è caratterizzato da un vero e proprio caos
geopolitico.
Non si
sa che cosa può succedere da un giorno all’altro, mentre si continua ad
assistere – ed è assurdo che non si possa fare nulla – alla strage sistematica
di palestinesi a Gaza e a quella reciproca della guerra Russo-Ucraina,
altrettanto assurda.
Ma la presenza di altre tensioni, come quella
fra Thailandia e Cambogia, ci aiuta a capire come gli equilibri geopolitici
stiano cambiando a livello mondiale, in un clima dove, fra l’altro, la finanza
continua ad essere padrona della situazione. Basta vedere quanto tempo, spazio,
energie sta prendendo la politica dei dazi imposti dagli Stati Uniti, senza
considerare i rischi per la stabilità economica a livello mondiale già di per
sé precaria.
In
questo panorama, spesso, soprattutto da parte occidentale (e mi riferisco
all’Europa), si perde di vista l’importanza nevralgica di una parte di mondo –
il Sud-est asiatico – che si troverà ad avere un ruolo centrale in alcuni
equilibri globali.
Infatti, come fanno osservare due analisti in
un attento articolo pubblicato sulla rivista “Foreign Affairs”, più di altre
parti del mondo, in tempi recenti, il Sud-est asiatico si è ritrovato al centro
della crescente rivalità tra Stati Uniti e Cina.
Non si tratta, come spesso si crede, di una
regione marginale.
In
quanto a popolazione, per esempio, in questi Paesi vivono circa 700 milioni di
persone.
Attualmente,
gli equilibri dei principali Paesi dell’Asia sembrano ben definiti: Giappone,
Corea del Sud e Taiwan sono tutti saldamente dalla parte degli Stati Uniti;
l’India
sembra allinearsi con gli Stati Uniti, ma ha una lunga amicizia con la Russia e
una tradizionale tensione con la Cina;
il Pakistan sta ovviamente con la Cina;
e
anche i paesi dell’Asia centrale stanno stringendo legami sempre più stretti
con Pechino.
A fronte di questo quadro che appare
abbastanza stabile, gran parte del Sud-est asiatico sembra rimanere incerta.
La superpotenza che riuscirà a convincere i
Paesi chiave del Sud-est asiatico – Indonesia, Malesia, Filippine, Singapore,
Thailandia e Vietnam – a rimanere fedeli alla propria linea avrà maggiori
possibilità di realizzare i propri obiettivi in Asia.
Per
ora, molti di questi Paesi hanno avuto la tendenza a cercare di essere amici di
tutti, di ritardare il più possibile il momento di fare una scelta precisa, che
significherebbe sposare la linea politica ed economica di una delle grandi
potenze e, allo stesso tempo, escluderne altre.
La cultura di questa parte di mondo è
disponibile alla mediazione inclusiva piuttosto che all’esclusione tout court.
Ovviamente,
Pechino e Washington hanno fatto della loro rivalità il fatto dominante della
geopolitica globale e, dunque, anche di questa parte di mondo.
I tentativi a ripetizione di conquistarsi le
simpatie di uno o l’altro di questi Paesi, non sono finora andati a buon fine.
La partita resta aperta, come già in un
recente passato affermava il primo ministro di Singapore, “Lee Hsien Loon”:
«Penso che sia molto auspicabile per noi non
doverci schierare, ma potrebbero presentarsi circostanze in cui l’Asean
[l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico] potrebbe dover scegliere
l’una o l’altra.
Spero
che non accada presto».
Non
dobbiamo dimenticare che la stessa Singapore ha prosperato nell’era della
globalizzazione, presentandosi come un polo industriale con le porte aperte al
mondo.
Il
Vietnam, in cui sopravvive una dittatura solo apparentemente comunista, si è
trasformato in un importante polo manifatturiero globale, collegato sia alle
catene di approvvigionamento cinesi che a quelle occidentali.
Le vaste nazioni-arcipelago di Indonesia e
Filippine, un tempo dilaniate da conflitti interni, hanno visto il loro Pil
crescere significativamente dal 2000.
In
generale, negli ultimi 30 anni, i 10 Paesi del Sud-est asiatico si sono
gradualmente ma sensibilmente allontanati dagli Stati Uniti, orientandosi verso
la Cina.
Tuttavia,
alcuni cambiamenti mostrano come proprio quegli stessi Paesi siano impegnati a
fare scelte per restare il più a lungo possibile fuori dalla mischia.
Di
fatto, molti non hanno ancora scelto tra Pechino e Washington e preferiscono
non scegliere affatto o si affidano agli Stati Uniti per la sicurezza e alla
Cina per il commercio, gli investimenti e la crescita economica.
Tuttavia,
Pechino e Washington cercano di esercitare sempre più pressione nei confronti
di queste nazioni al fine di ottenere una scelta totale e definitiva a favore
della propria politica.
Ma non
possiamo dimenticare che “definitivo” è un termine pericoloso in Asia:
i Paesi possono cambiare il loro orientamento
piuttosto rapidamente.
Ad
esempio, sotto la presidenza di “Gloria Macapagal Arroyo” dal 2001 al 2010, le
Filippine si sono orientate verso la Cina.
Con il successore, Benigno Aquino III, fra il
2010 e il 2016, le Filippine si sono riavvicinate agli Stati Uniti, per
orientarsi ancora a Pechino con Rodrigo Duterte, e tornare a Washington con
l’attuale presidente Ferdinand Marcos jr.
Tra
gli Stati del Sud-est asiatico a maggioranza musulmana, tra cui Indonesia e
Malesia, la rabbia per il sostegno di Washington alla guerra di Israele a Gaza
ha portato i governi a prendere le distanze dagli Stati Uniti, mettendo in
dubbio il ricorso americano al cosiddetto ordine internazionale basato sulle
regole.
In
questo panorama, permane l’assenza dell’Ue che è presente in ordine sparso
nella regione, come sempre in ogni sua manifestazione.
Esistono,
cioè, contratti di singoli Paesi europei, soprattutto a livello economico, con
le nazioni del Sud-est asiatico.
Eppure,
si tratta di una regione che avrà un’importanza fondamentale nel futuro
prossimo della geopolitica mondiale.
Che
cosa c’è dietro le nuove
regole sul lavoro in Cina.
Formiche.net
- Rossana Miranda – (27-08-2021) – ci
dice:
La
Suprema corte del popolo della Repubblica Popolare Cinese ha dichiarato che
l’orario di lavoro dalle 9 del mattino alle 9 di sera per 6 giorni alla
settimana viola gravemente le normative sul lavoro del Paese.
Per “Jack
Ma”, invece, era una benedizione per il settore delle nuove tecnologie
Pechino
contro il lavoro illegale.
Il Supremo Tribunale Popolare della Repubblica
popolare di Cina ha dichiarato che gli orari “996”, cioè, dalle 9 del mattino
alle 9 di sera per 6 giorni alla settimana, violano gravemente le normative sul
lavoro del Paese.
In un
documento pubblicato in maniera congiunta con il “ministero delle Risorse Umane
e la Sicurezza Sociale”, il tribunale ha illustrato 10 casi giudiziali, alcuni
del settore tecnologico, in cui le imprese hanno costretto ai lavoratori ad
eseguire questi orari.
Tra questi casi è emblematico quello di un
corriere, che è stato licenziato dopo essersi rifiutato di lavorare con gli
straordinari.
Il
“996” fa parte di una cultura del lavoro applicata specialmente nel settore
delle nuove tecnologie.
Eccede
di circa il 35% il massimo di ore di lavoro mensili stabilito dalle leggi
cinesi (196 ore), con un massimo di 36 ore di straordinari al mese.
Ma con il “996” i lavoratori possono
raggiungere fino a 128 ore di straordinari al mese.
Il
tribunale cinese sostiene che questa pratica potrebbe danneggiare l’armonia dei
rapporti di lavoro e la stabilità sociale, per cui ha pubblicato una guida con
le linee che imprese e lavoratori dovrebbero seguire per risolvere i conflitti
organizzativi.
“I lavoratori hanno diritto ad un
compenso che corrisponda al loro lavoro, al riposo e alle vacanze, conforme
alla legge – si legge nel documento -. È un obbligo legale degli impiegati
rispettare le norme nazionali degli orari sul lavoro”.
Nel
2019, l’imprenditore “Jack Ma”, fondatore del colosso di e-commerce Alibaba, si
era detto difensore dell’orario di lavoro “996”.
Per lui il sistema è una “benedizione” sulla
quale si regge lo sviluppo dell’economia cinese.
Senza, la crescita economica perderebbe
probabilmente la spinta e la vitalità.
Le
polemiche sono partite dopo la morte di due lavoratori dell’azienda di
commercio elettronico, “Pinduoduo”, per presunto stress ed eccesso di lavoro.
In
seguito, la maggior parte delle aziende cinesi del settore tech hanno ridotto
gli orari degli straordinari.
Sebbene queste norme esistano da anni, sono
pochi i settori dove sono state rispettate.
Alla
fine dell’anno scorso, il governo cinese ha cominciato una campagna per
regolare il settore tecnologico, con multe antimonopolio e minacce di ulteriori
controlli statali per le acquisizioni in Borsa.
Molti
analisti ed esperti considerano che Pechino sta cercando di limitare la libertà
dei leader delle nuove tecnologie, a causa dell’importanza che hanno nella
crescita economica del Paese.
Come
assumere a Pechino
facilmente
nel 2025.
Ins-globalconsulting.com
– Redazione – Ins global – (10 aprile 2025) – ci dice:
Employer
of Record, Guida sulla Cina.
Key
Takeaways.
Pechino
è la principale città cinese di ricerca e sviluppo, con massicci investimenti
in AI, semiconduttori e tecnologia verde.
Le
aspettative salariali di Pechino sono tra le più alte della Cina, seconda solo
a Shanghai.
Assumere
a Pechino significa navigare in alcune delle più severe leggi sul lavoro e
procedure burocratiche in Cina.
Summary.
Pechino,
capitale politica e cuore culturale della Cina, è anche una potenza per
l’istruzione, l’innovazione e l’industria.
Sede
di importanti istituzioni governative, imprese globali e alcune delle migliori
università asiatiche, Pechino offre immense opportunità per le aziende in cerca
di talenti qualificati e ambiziosi.
Tuttavia,
nonostante il suo fascino, navigare nel panorama delle assunzioni di Pechino
comporta più che pubblicare un annuncio di lavoro o firmare un contratto. Tra
le severe leggi locali sul lavoro, le prospettive culturali, i requisiti di
conformità delle aziende, le restrizioni hukou, l’intensa concorrenza e un
numero infinito di ostacoli burocratici in evoluzione, assumere a Pechino è
complesso, soprattutto per le aziende straniere.
Per
fortuna, oltre ad essere completamente aggiornate su tutte le informazioni
rilevanti, le aziende possono bypassare molte di queste sfide del tutto, come
ad esempio lavorando con un affidabile servizio di Employer of Record (EOR)
come quello di INS Global.
Di
fretta? Salva questo articolo come PDF.
Perché
assumere a Pechino? Vantaggi chiave dell’assunzione nella capitale cinese.
Pechino
non è solo il centro politico della Cina, è anche una potenza economica e
tecnologica, che offre diversi vantaggi distinti per le imprese che cercano di
espandersi:
Accesso
ad un Pool di talenti d’élite.
Pechino
è la sede di università di altissimo livello tra cui la Tsinghua University, la
Peking University, e il Beijing Institute of Technology.
Il sistema accademico locale produce
costantemente una schiera di laureati altamente qualificati in settori quali
l’AI, l’ingegneria, l’economia e il commercio.
In
particolare, la concentrazione di centri di ricerca e sviluppo e sedi
multinazionali della città significa che non solo si assumono lavoratori, ma si
assumono professionisti di livello mondiale direttamente dal cancello
principale.
Industrie
leader e sostegno governativo.
Settori
chiave come l’AI, fintech, biotech, l’industria aerospaziale e le energie
rinnovabili fioriscono qui grazie a supporti governativi specifici e ad un
ambiente con politiche favorevoli.
Il portale ufficiale del governo municipale di
Pechino descrive una varietà di incentivi fiscali, programmi di finanziamento
della R&S e incubatori startup che sostengono le pratiche innovative e
attirano imprese straniere in città.
Infrastrutture
forti e connettività internazionale.
Con
due aeroporti internazionali, reti in espansione di treni ad alta velocità e un
sistema di infrastrutture digitali in crescita, Pechino è una delle città
cinesi più globalmente connessa.
Fornisce
un launchpad completamente attrezzato per le imprese che mirano ad espandere le
operazioni in tutta la Cina e l’Asia.
Requisiti
legali per le assunzioni a Pechino.
Assumere
a Pechino comporta diversi requisiti di regolamenti, molti dei quali sono
simili nel resto della Cina ma con sfumature locali degne di nota.
Contratti
di lavoro.
In
Cina, tutti i rapporti di lavoro devono essere regolati da contratti scritti
entro un mese dalla data di inizio del rapporto di lavoro del dipendente.
Tali
documenti, la cui copia prevalente è redatta in cinese, devono specificare le
responsabilità lavorative, lo stipendio, le condizioni di lavoro, i periodi di
prova e le clausole di risoluzione.
Orario
di lavoro e straordinari.
L’orario
di lavoro standard segue il modello nazionale della settimana lavorativa di “5
giorni, 40 ore”.
Il
limite massimo di lavoro straordinario è di 36 ore al mese e la retribuzione
deve essere aumentata a seconda che si tratti di lavoro nei giorni feriali, nei
fine settimana o nei giorni festivi.
Tuttavia,
va notato che in Cina si segnalano orari di lavoro estesi, con una cultura del
996 (turni di 12 ore per 6 giorni a settimana), cosa non rara in molti settori,
nonostante sia illegale.
Con le
limitazioni legali spesso applicate in modo più rigoroso a Pechino, è
fondamentale che le aziende comprendano i propri limiti e responsabilità per
evitare eccessi di lavoro e problemi di conformità in futuro.
Periodi
di prova.
La
libertà vigilata è consentita in Cina e varia in base alla durata del
contratto:
1 mese
per contratti <1 anno
2 mesi
per contratti da 1 a 3 anni
6 mesi
massimo per contratti >3 anni.
Regole
di risoluzione.
Il
licenziamento in Cina può essere giuridicamente insidioso. Sebbene la Cina non
riconosca il rapporto di lavoro a volontà, il licenziamento unilaterale da
parte del datore di lavoro è consentito in condizioni specifiche e rigorose e
generalmente prevede un’indennità di buonuscita calcolata in base al numero di
anni di lavoro.
Previdenza
sociale e tassazione a Pechino.
Come
tutte le città della Cina, i datori di lavoro di Pechino devono rispettare il
sistema di previdenza sociale 5+1 e le norme relative all’imposta sul reddito
delle persone fisiche (IIT).
Tipo
di assicurazione Contributo del
datore di lavoro Contributo dei
dipendenti
Assicurazione
pensionistica 16% 8%
Assicurazione
medica 10% 2% + ¥3 RMB/mese
Assicurazione
contro la disoccupazione 0,8% 0,2%
infortunio
sul lavoro 0,2% – 1,9% (in base al
settore) 0%
Assicurazione
maternità 0,8% 0%
Fondo
per l’edilizia abitativa 12% 12%
Il
tasso dell’Housing Provident Fund (HPF), che fornisce ai lavoratori supporto
per l’acquisto di immobili, a Pechino è tra i più alti in Cina.
Questo
può aumentare significativamente i costi del lavoro, ma significa anche che i
dipendenti ottengono migliori sussidi abitativi, il che può rappresentare un
forte incentivo per attrarre talenti cinesi.
Sfide
dell’Hukou e dinamiche dei talenti locali.
Il
sistema hukou di Pechino è uno dei più rigidi in Cina.
Poiché
il sistema hukou determina dove i cittadini possono accedere alle prestazioni
di previdenza sociale locali, i lavoratori senza registrazione locale
potrebbero incontrare difficoltà nell’accesso ad alloggi, istruzione e
assistenza sanitaria.
Di
conseguenza, molti migranti altamente istruiti finiscono per trasferirsi in
città di seconda fascia, sebbene recenti tentativi di allentare il sistema
abbiano lasciato intendere il desiderio di aumentare la mobilità interna e le
opportunità economiche in grandi città come Pechino.
Di
conseguenza, la fidelizzazione dei talenti rappresenta una sfida unica a
Pechino. Per contrastare le crescenti difficoltà causate da queste restrizioni,
i datori di lavoro dovrebbero offrire benefit competitivi e percorsi di
carriera a lungo termine per attrarre e trattenere i talenti di alto livello
senza l’hukou di Pechino.
Assunzione
di dipendenti stranieri a Pechino
Pechino
è una delle città più internazionali della Cina, ma assumere lavoratori
stranieri richiede comunque di superare un processo di approvazione articolato
in più fasi.
Permessi
di lavoro e visti.
Per
assumere legalmente un dipendente straniero:
Richiedere
un permesso di lavoro al Ministero delle Risorse Umane.
Richiedi
un visto Z tramite il canale governativo ufficiale online o tramite
l’ambasciata cinese più vicina, che consente la residenza e il lavoro legali.
Sottoporsi
a un controllo medico e registrarsi presso la polizia .
Per
qualificarsi, gli stranieri devono rientrare nella Categoria A (talenti di alto
livello) o nella Categoria B (talenti professionisti). I requisiti variano in
base all’età, all’esperienza e allo stipendio offerto.
Fortunatamente,
INS Global può semplificare questo processo tramite il nostro EOR in Cina,
gestendo la conformità e garantendo al contempo un processo di assunzione
fluido.
Tendenze
e strategie di assunzione a Pechino per il 2025.
Con
l’aumento del lavoro da remoto e una forza lavoro sempre più esperta in
tecnologia, le assunzioni a Pechino si stanno evolvendo. Secondo i recenti dati
sul mercato del lavoro pubblicati dal China Labor Bulletin, i datori di lavoro
di Pechino si trovano ad affrontare crescenti difficoltà nella ricerca di
talenti per ruoli nei settori della tecnologia, della sanità e dei servizi
professionali, il che sottolinea l’importanza di strategie di assunzione
digitali e modelli di lavoro flessibili.
Enfasi
su innovazione e ricerca e sviluppo.
Pechino
è la principale città cinese per la ricerca e sviluppo, con ingenti
investimenti in intelligenza artificiale, semiconduttori e tecnologie verdi.
Oggi,
le aziende che offrono maggiori opportunità per progetti di innovazione e
ricerca, con possibilità di sviluppo personale e di carriera, possono
distinguersi al meglio agli occhi dei candidati più promettenti.
Assunzioni
multilingue e transfrontaliere.
Data
la natura internazionale di molte aziende a Pechino, il bilinguismo (mandarino
+ inglese) è molto apprezzato, anche se non è ancora abbastanza diffuso da
fornire lavoratori qualificati per ogni ruolo aperto.
Piattaforme
di assunzione digitali.
Piattaforme
online come Zhipin, Liepin e BOSS直聘 dominano il mercato del lavoro locale, con sezioni specifiche per le
assunzioni a Pechino.
Inoltre,
sta crescendo anche il networking professionale su piattaforme come WeChat,
Maimai e LinkedIn China.
Per le
aziende straniere, il supporto alle assunzioni locali o le partnership di
reclutamento possono essere essenziali per muoversi efficacemente su queste
piattaforme, poiché la conoscenza della lingua cinese e una conoscenza
approfondita di culture e pratiche di assunzione specifiche possono essere
fattori decisivi per un’assunzione di successo.
Talenti
entry-level vs. talenti esperti a Pechino.
Talento
entry-level.
I
laureati delle università di Pechino sono altamente motivati e con ottimi
risultati accademici, ma potrebbero non avere esperienza pratica . Per
compensare, le aziende possono fidelizzare i propri dipendenti e accrescere le
loro competenze offrendo programmi di formazione strutturati, tutoraggio e
opportunità di sviluppo di carriera.
Professionisti
esperti.
I
professionisti senior a Pechino si aspettano spesso stipendi competitivi,
opportunità di mobilità internazionale e una solida reputazione aziendale.
Offrire bonus di rendimento, percorsi di leadership e benefit flessibili può
fare una differenza significativa in un mercato del lavoro che richiede
stipendi superiori alla media nazionale, come punto di partenza.
Stipendi
medi a Pechino per settore (stime del 2025).
Industria Livello base Livello medio Livello
senior
Tecnologia ¥8.000 – ¥15.000 ¥20.000 – ¥40.000 ¥45.000 –
¥80.000
Finanza ¥10.000 – ¥18.000 ¥25.000 – ¥45.000 ¥60.000+
Assistenza
sanitaria ¥9.000 – ¥14.000 ¥18.000 – ¥35.000 ¥40.000+
Legale/Conformità ¥12.000 – ¥20.000 ¥30.000 – ¥50.000 ¥60.000 – ¥90.000
Le
aspettative salariali di Pechino sono tra le più alte della Cina, seconde solo
a quelle di Shanghai.
Vantaggi
e benefit comuni offerti dai migliori datori di lavoro a Pechino.
Per
rimanere competitivi nel mercato del lavoro di Pechino, che è altamente
rischioso, i datori di lavoro devono in genere andare oltre lo stipendio per
attrarre e trattenere i talenti di alto livello
.
Soprattutto in settori come la finanza, la tecnologia e i servizi
professionali, pacchetti di benefit completi sono considerati standard, non
opzionali.
Indennità
di alloggio – A causa dell’elevato costo della vita e dei prezzi immobiliari a
Pechino, le indennità di alloggio sono uno dei benefit più apprezzati dalle
aziende locali e straniere.
Sono
particolarmente importanti per i dipendenti che non possiedono un hukou locale
di Pechino, in quanto potrebbero non avere diritto a alloggi sovvenzionati o a
opzioni di affitto pubblico.
Anche
i lavoratori più giovani o meno qualificati potrebbero apprezzare le aziende
che offrono alloggi o dormitori.
Sussidi
per pasti e trasporti – Molte aziende, in particolare quelle del settore
manifatturiero, dell’istruzione o dei servizi pubblici, offrono buoni pasto,
mense aziendali o assegni giornalieri per alleviare l’onere del costo della
vita. Anche i sussidi per i trasporti o i servizi di autobus sono più comuni a
Pechino, soprattutto per i dipendenti che si prevede debbano percorrere lunghe
distanze all’interno dell’area metropolitana della città.
Supporto
all’istruzione dei bambini – Per gli expat e i dipendenti cinesi di alto
livello, il supporto all’istruzione dei bambini è un vantaggio fondamentale.
Questo può includere la copertura delle tasse universitarie presso scuole
internazionali, l’offerta di borse di studio o l’assistenza nella complessa
procedura di iscrizione scolastica in Cina.
Piani
sanitari internazionali –
Sebbene
il sistema sanitario pubblico cinese copra l’assistenza sanitaria di base,
molti importanti datori di lavoro a Pechino si rendono più appetibili offrendo
piani sanitari privati o internazionali
Questi
offrono accesso a cliniche di alta qualità, tempi di attesa più brevi e medici
che parlano inglese, un aspetto particolarmente importante per personale e
dirigenti stranieri .
Bonus
annuali e basati sulle performance – I bonus rimangono una parte importante del
pacchetto retributivo complessivo a Pechino.
È consuetudine ricevere un bonus annuale in
occasione del Capodanno lunare (spesso chiamato “tredicesima mensilità”),
sebbene il valore medio di questi bonus sia diminuito negli ultimi anni.
Questi
bonus sono in genere legati a KPI e possono fungere da validi strumenti di
fidelizzazione in un mercato sempre più competitivo.
Altri
vantaggi emergenti.
Poiché
il benessere dei dipendenti sta diventando un’attenzione sempre maggiore, le
aziende progressiste stanno iniziando a offrire:
Modalità
di lavoro flessibili (ad esempio, configurazioni remote o ibride).
Sostegno
alla salute mentale e sussidi per il benessere.
Budget
per lo sviluppo professionale per l’aggiornamento professionale.
Giornate
di volontariato retribuite per migliorare gli sforzi di responsabilità sociale
delle imprese.
Sfide
comuni nelle assunzioni a Pechino.
Complessità
normativa.
Assumere
personale a Pechino significa destreggiarsi tra alcune delle leggi sul lavoro e
delle procedure burocratiche più severe della Cina.
Gli uffici del lavoro locali di Pechino
applicano rigorosamente le normative nazionali e le aziende devono rispettare
requisiti dettagliati relativi a contratti, previdenza sociale e procedure di
licenziamento.
Per i
datori di lavoro stranieri, la sfida è ancora più grande.
Ottenere
permessi di lavoro per cittadini non cinesi può essere un processo lungo e
frustrante, che spesso richiede la prova che il ruolo non può essere ricoperto
localmente e che il candidato straniero soddisfi determinati requisiti di
stipendio, qualifica ed esperienza.
Concorso
di talenti.
Capitale
politica e culturale della Cina, nonché polo tecnologico e finanziario in
crescita, Pechino attrae alcuni dei professionisti più qualificati del Paese.
Ma
questo significa anche che molte aziende competono per gli stessi talenti. I
lavoratori altamente qualificati, soprattutto nei settori dell’intelligenza
artificiale, dello sviluppo software e del diritto internazionale, spesso si
aspettano più offerte contemporaneamente.
Per
avere successo, i datori di lavoro devono agire rapidamente, offrire una chiara
progressione di carriera e sviluppare una Employer Value Proposition (EVP)
chiara che li differenzi agli occhi dei candidati di alto livello.
Per
questo motivo, decisioni lente o pacchetti di lavoro poco chiari possono
rapidamente portare a opportunità mancate.
Problemi
di conservazione.
Sebbene
Pechino offra un ambiente professionale senza pari, presenta anche degli
svantaggi che incidono sulla fidelizzazione dei dipendenti, ovvero l’elevato
costo della vita, la forte concorrenza e gli ambienti di lavoro ad alta
pressione.
I
dipendenti potrebbero cercare un migliore equilibrio tra lavoro e vita privata
o un costo della vita più basso nelle città di Livello 2 come Chengdu, Hangzhou
o Qingdao.
Queste
città offrono sempre più opportunità di lavoro attraenti, con meno ostacoli
burocratici o finanziari. Senza solidi programmi di sviluppo di carriera o
benefit interessanti, le aziende di Pechino potrebbero ritrovarsi a perdere
talenti a favore di queste alternative emergenti.
Assumi
a Pechino.
Assunzioni
senza personalità giuridica a Pechino: perché EOR è la scelta intelligente.
Costituire
un’impresa interamente di proprietà straniera (WFOE) o una joint venture da
assumere a Pechino può richiedere mesi e necessita di un notevole investimento
di tempo e denaro.
Per le
aziende che vogliono testare il mercato o espandersi in modo flessibile, un
Employer of Record (EOR) è un’opzione più rapida, semplice e pienamente
conforme.
Un EOR
come INS Global ti consente di:
Assumere
e pagare dipendenti a Pechino legalmente senza costituire un’entità locale.
Gestire
stipendi, previdenza sociale e conformità fiscale.
Offrire
vantaggi e tutele competitive ai dipendenti.
Concentrarsi
sulla strategia aziendale principale invece che sull’amministrazione delle
risorse umane.
Perché
scegliere INS Global come partner per le assunzioni a Pechino?
Fondata
in Cina nel 2006, INS Global vanta la competenza e l’esperienza necessarie per
supportare le aziende che desiderano espandersi in Cina . Grazie alla profonda
conoscenza delle leggi locali e delle procedure di assunzione a Pechino, vi
aiutiamo a:
Evitare
le insidie legali.
Risparmia
tempo e denaro.
Reclutare
i migliori talenti locali o stranieri.
Garantire
la totale conformità delle risorse umane e delle buste paga.
Assumi
entro pochi giorni, non mesi.
Che tu
stia assumendo un singolo ingegnere o creando un intero team locale, INS Global
semplifica il processo e riduce al minimo i rischi.
L’Intelligenza
Artificiale
ha
Imparato a Mentire!
Conoscenzealconfine.it – (30 Luglio 2025) - Massimo
Mazzucco – ci dice:
Esattamente
come gli umani, anche l’intelligenza artificiale ha imparato a mentire.
Si
inventa cose che non esistono.
Il
problema è sorto di recente, da quando il sistema sanitario nazionale americano
(HHS) ha introdotto un modello di intelligenza artificiale chiamato ELSA
(Efficient Language System for Analysis).
Lo
scopo di ELSA doveva essere quello di sveltire le pratiche di approvazione dei
nuovi medicinali, conducendo ricerche su larga scala su tutta la documentazione
scientifica già esistente.
Ma,
finché si tratta di fare il riassunto di migliaia di ricerche scientifiche già
pubblicate, l’Intelligenza Artificiale è sicuramente uno strumento molto
efficace.
Il problema nasce quando le si chiede di dare una sua
valutazione sulla eventuale efficacia e sicurezza di un nuovo farmaco, perché a
quel punto si è scoperto che ELSA, molto disinvoltamente, si inventa anche
ricerche scientifiche che non sono mai esistite.
In
gergo, si chiamano “allucinazioni”.
Ma
sono vere e proprie bugie.
Dall’articolo
della “CNN” leggiamo:
“Sei attuali ed ex funzionari della FDA hanno
dichiarato alla CNN che Elsa può essere utile per generare appunti e riepiloghi
di riunioni, o modelli di email e comunicati.
Ma ha
anche inventato studi inesistenti, noti come ‘allucinazioni’ o ricerche
travisate dall’IA. Questo la rende inaffidabile per il loro lavoro più critico,
hanno affermato i dipendenti.”
“Tutto
ciò che non si ha il tempo di ricontrollare è inaffidabile.
Si inventa cose con grande tranquillità” ha
detto un dipendente, “ben lontano da quanto promesso pubblicamente”.
“L’IA
dovrebbe farci risparmiare tempo, ma vi garantisco che spreco un sacco di tempo
extra solo a causa della maggiore vigilanza che devo avere per verificare la
presenza di studi falsi o travisati”, ha affermato un secondo dipendente della
FDA.
Bisogna
dire che in questo la IA mostra anche un aspetto umano, nel senso che sta
imparando a mentire, esattamente come lo facciamo noi. In fondo, non c’è molta
differenza fra le “invenzioni” di ELSA e un” Burioni” qualunque, che parlando
in televisione si inventa serenamente “migliaia di studi scientifici che
confermano la sicurezza” di un certo farmaco, quando noi sappiamo benissimo che
quelle migliaia di studi esistono solo nel suo cervello.
Alla
fine, gira e rigira, a furia di voler imitare il cervello umano, i creatori
della intelligenza artificiale sono riusciti a replicare solo quello di “Burioni”:
ovvero, la “deficienza naturale”.
(Massimo
Mazzucco).
(edition.cnn.com/2025/07/23/politics/fda-ai-elsa-drug-regulation-makary).
(luogocomune.net/scienza-e-tecnologia/l%E2%80%99intelligenza-artificiale-ha-imparato-a-mentire).
L’ex
ministro degli esteri” Borrell”
denuncia i Paesi dell’UE per il doppio
standard sulla fornitura di armi micidiali
a Israele per annientare Gaza
(Irina Smirnova).
Farodiroma.it - Redazione – Irina Smirnova -
(22/05/2025) – ci dice:
L’ex
Alto Rappresentante dell’Unione Europea per gli Affari Esteri e la Politica di
Sicurezza, Josep Borrell, ha apertamente criticato diversi Stati membri dell’UE
per aver continuato a fornire armi a Israele.
La sua
condanna giunge nel mezzo delle operazioni militari in corso a Gaza e
dell’escalation della crisi umanitaria nei territori palestinesi, sollevando
interrogativi sull’impegno del blocco a favore dei diritti umani e del diritto
internazionale.
La
dichiarazione di Borrell, rilasciata durante una conferenza stampa a Bruxelles,
ha sottolineato una crescente frattura all’interno dell’UE riguardo alla sua
posizione sul conflitto israelo-palestinese.
Mentre l’UE sostiene ufficialmente una
soluzione a due Stati e ha ripetutamente chiesto una de-escalation della
violenza, le azioni dei singoli Stati membri nel continuare le vendite di armi
a Israele sembrano contraddire questa posizione unitaria.
“Se
credete che il bilancio delle vittime sia troppo alto, forse dovreste fornire
meno armi per evitare che così tante persone vengano uccise”, ha affermato
Borrell, le sue parole portano un messaggio chiaro a quelle nazioni dell’UE che
sono i principali esportatori di armi verso Israele.
Non ha nominato paesi specifici, ma le sue
osservazioni sono ampiamente interpretate come dirette a nazioni come Germania,
Francia e Italia, che hanno industrie della difesa significative e contratti
militari esistenti con Israele.
La
denuncia di Borrell evidenzia la natura complessa e spesso contraddittoria
della politica estera dell’UE.
Mentre
la Commissione Europea e il Servizio Europeo per l’Azione Esterna (SEAE) si
sforzano di adottare un approccio coerente e basato su principi negli affari
globali, gli interessi nazionali e le relazioni bilaterali spesso hanno la
precedenza per i singoli Stati membri.
Questa
divergenza diventa particolarmente evidente in contesti geopolitici sensibili
come il Medio Oriente.
I
commenti dell’ex Alto Rappresentante riflettono la crescente pressione
internazionale e la preoccupazione per la situazione umanitaria a Gaza, dove
migliaia di civili sono stati uccisi e le infrastrutture sono state devastate.
Le organizzazioni per i diritti umani e gli
organismi internazionali hanno sempre più esaminato il ruolo dei fornitori di
armi nei conflitti in cui le vittime civili sono elevate, sottolineando il
potenziale di complicità nelle violazioni del diritto internazionale
umanitario.
L’intervento
di Borrell può essere visto come un tentativo di riaffermare la necessità di
una politica estera dell’UE più etica e unificata, esortando gli Stati membri
ad allineare le loro azioni ai valori e ai principi dichiarati dal blocco.
La sua
forte critica chiede anche maggiore trasparenza riguardo alle esportazioni di
armi e un’applicazione più rigorosa della posizione comune dell’UE sulle
esportazioni di armi, che stabilisce criteri rigorosi per l’autorizzazione di
tali vendite, incluso il rispetto dei diritti umani nel paese di destinazione
finale.
Tuttavia,
l’impatto della denuncia di Borrell resta sul piano morale sia perché si tratta
di un ex responsabile della UE, per quanto autorevole, sia perché le politiche
di esportazione di armi sono principalmente una competenza nazionale, e gli
Stati membri mantengono una significativa autonomia in questo settore. Sebbene
l’ex Alto Rappresentante possa esercitare pressione politica e autorità morale,
gli manca infatti il potere esecutivo per fermare unilateralmente le vendite di
armi da parte delle singole nazioni.
Il
dibattito in corso all’interno dell’UE sulle forniture di armi a Israele è
indicativo di una più ampia lotta per bilanciare gli interessi strategici con
le preoccupazioni umanitarie e per forgiare una politica estera veramente
unificata e basata su principi in un mondo volatile. Mentre il conflitto a Gaza
continua, la schietta critica di Borrell serve come un duro promemoria dei
dilemmi etici che affrontano le nazioni europee e dell’urgente necessità di un
approccio più coeso e responsabile al commercio di armi.
(Irina
Smirnova).
Quale
futuro per la sicurezza degli
europei
con il ritorno di Trump?
Analisidifesa.it
– (22 Febbraio 2025) - Antonio Li Gobbi - Opinioni – ci dice:
C’è un nuovo sceriffo a Washington?
Certo,
ma lo sapevamo già e lo conoscevamo bene!
Stupiscono
in questi giorni soprattutto le dichiarazioni di sorpresa da parte di leader
politici sinora considerati (forse con eccessiva benevolenza) “statisti” e di
alcuni rodati commentatori politici.
Chi
scrive non vede cosa ci potesse essere di imprevisto in relazione alle recenti
decisioni del Presidente Trump.
Cosa
Trump pensasse della NATO e dell’UE lo ha ripetutamente detto e dimostrato in
maniera tutt’altro che diplomatica già durante il suo primo mandato.
Cosa
pensasse del conflitto russo–ucraino lo ha ripetuto costantemente durante gli
ultimi tre anni, così come ci ha sempre detto quali fossero le sue priorità.
Era chiaro che né l’Ucraina né la sicurezza
europea rientrassero tra queste. Intendiamoci, Trump non è certamente un amico
né dell’Europa né dell’Italia (ma non lo era neanche Biden, solo che era meno
diretto nell’esprimere le proprie posizioni) come non lo sono né Xi Jinping né
Putin.
Facciamocene
una ragione.
Trump
ha una visione imperiale della geopolitica.
È più
che cosciente che l’unico vero contendente a livello planetario degli USA sia
oggi la Cina.
Al
fine di poter dedicare appieno la sua attenzione al confronto con la Cina,
Trump ha bisogno prima di stabilizzare i due conflitti irrisolti ereditati
dall’amministrazione precedente:
Medio
Oriente e Ucraina.
Il
“come” vengano stabilizzati gli interessa forse meno di “quando” vengano
stabilizzati.
Per
confrontarsi a livello globale Trump, come era prevedibile, vuole trattare
esclusivamente con i “grandi”.
Ha già dimostrato che per lui gli alleati non
contano e devono adattarsi alle sue decisioni (anche durante il suo primo
mandato, il ritiro NATO dall’Afghanistan venne concordato a Doha tra gli USA e
i Talebani senza coinvolgere né gli
Alleati NATO né il Governo di Kabul (vedi Da Doha al confine
greco-turco la NATO scricchiola pericolosamente – Analisi Difesa).
Inoltre,
non ritiene che accordi e promesse fatti dall’amministrazione precedente
meritino di essere rispettati.
Ciò
gli consente anche di rimarcare quella che lui sembra ritenere l’illegittimità
di tale amministrazione.
Appare
chiaro che per Trump contino solo i rapporti di forze (economica, politica e
militare): un ritorno alla realpolitik!
Peraltro,
non lo si sapeva già? Allora perché farsi ora prendere dal panico?
Questione
ucraina.
In
relazione all’Ucraina, appare evidente che gli USA considerino quello in corso
un confronto tra Washington e Mosca.
Un
confronto, iniziato da una precedente amministrazione, che si ritiene avrebbe
dovuto essere evitato.
Ne
consegue che una volta che tra Washington e Mosca ci si metta d’accordo sui
confini russo-ucraini e sullo sfruttamento delle risorse economiche ucraine,
per i due “grandi” la guerra sia da considerarsi finita.
Il
punto di vista di Trump sembra essere che se gli ucraini e gli europei
volessero poi continuare a combattere, beh lo facciano pure, ma con le loro
risorse umane e finanziarie e senza avvalersi del sostegno né politico né
militare statunitense.
In
quest’ottica, anche sulla base degli esiti deludenti dell’incontro di Parigi
organizzato il 17 febbraio da Macron, appare evidente che i leader dell’UE e
dei paesi europei che per tre anni hanno fatto la spola tra le loro capitali e
Kiev (chi per intima convinzione e chi nella speranza di acquisire meriti con
l’amministrazione Biden), anziché lamentarsi oggi di non venir considerati da Trump e da Putin,
dovrebbero decidere se assumersi la responsabilità e i costi umani ed economici
necessari a tener fede alle promesse
fatte all’Ucraina o se girarsi dall’altra parte, come l’Occidente
ha già fatto molteplici volte.
Ad
esempio, l’accordo di assistenza bilaterale tra l’Italia e l’Ucraina
sottoscritto il 24 febbraio 2024 all’art 1 comma 3 prevede che “I Partecipanti
(ovvero l’Italia e l’Ucraina) lavoreranno insieme, e con altri partner
dell’Ucraina, per garantire che le forze di sicurezza e di difesa dell’Ucraina
siano in grado di ripristinare pienamente l’integrità territoriale dell’Ucraina
all’interno dei suoi confini riconosciuti a livello internazionale, nonché di
aumentare la capacità di resistenza dell’Ucraina in modo che sia sufficiente a
dissuadere e a difendersi da futuri attacchi e coercizioni”.
Probabilmente
sia Ucraina che UE (inclusa la Gran Bretagna che non ne fa più parte)
protesteranno in maniera vibrante, si stracceranno le vesti, si esibiranno
nell’antica arte genovese del mugugno, ma nella sostanza accetteranno
supinamente le decisioni di Washington.
Né,
verosimilmente, potrebbero fare diversamente se privati della copertura
nucleare e convenzionale USA.
Indipendentemente
dalle lamentele di Kiev e delle capitali europee, Trump verosimilmente porrà
fine drasticamente e rapidamente alla guerra in Ucraina.
La
pace (o almeno il cessate il fuoco) sarà negoziato con il solo Putin e
probabilmente imposto a Zelensky.
Negoziato
che attribuisce un riconoscimento internazionale a Putin che gli europei e gli
ucraini non gradiranno, ma che probabilmente Trump ritiene urgente al fine di
evitare che la Russia si renda ancor più dipendente dalla Cina.
Per
Trump, infatti, può essere meno pericoloso che la Russia si confermi come una
“grande potenza”, sì ma di secondo livello e non in grado di competere con il
gigante americano, piuttosto che vederne confluire in toto le enormi risorse
naturali nell’orbita di Pechino.
Per
quanto riguarda l’Ucraina, che sia o meno d’accordo, Trump ritiene che basti
semplicemente tagliarle i finanziamenti per indurla ad accettare qualsiasi pace
che Washington negozierà.
Comunque,
una volta che gli USA si siano disimpegnati, gli europei non sarebbero in alcun
modo in grado di sostituirli nel sostegno all’Ucraina ove questa decidesse di
continuare a combattere.
Ciò
indipendentemente dal fatto che i paesi europei, nel loro insieme, abbiano
fornito in termini economici un sostegno a Kiev superiore a quello fornito
dagli USA.
Però, manca agli europei la capacità di
deterrenza (politica, militare e nucleare) che gli USA anche senza schierare
uomini sul terreno erano in grado di garantire.
Inoltre,
anche nel semplice ruolo di fornitori di armamenti e munizionamento, al momento
gli europei sono terribilmente scarsi sia di scorte sia di capacità produttive.
Certo,
potrebbero comprare dagli USA per donare all’Ucraina, opzione che a Trump non
dispiacerebbe, ma si tratterebbe di un’opzione finanziariamente insostenibile e
politicamente vergognosa.
Comunque,
anche il recente mini vertice di Parigi ha dimostrato che non vi sarebbe alcuna
volontà politica per un impegno militare UE, come a suo tempo proposto da
Macron e da Starmer.
Pertanto,
è probabile che anche gli europei accetteranno l’arbitrato americano perché
sarà l’unica opzione per prevenire il totale collasso dell’Ucraina e le
permetterà di mantenere, almeno temporaneamente, una parvenza di entità
statuale.
Il deterioramento del rapporto transatlantico.
Nel
2019 il presidente Macron affermò che la NATO aveva l’elettroencefalogramma
piatto.
I fatti sembrano dargli oggi ragione sotto
molti punti di vista.
L’architettura
dell’Alleanza appare sempre più pericolante ed è urgente incominciare
seriamente a chiedersi che cosa farne.
Occorre
chiedersi senza remore se la NATO oggi, con Trump alla Casa Bianca, sia
un’organizzazione che mostra delle crepe strutturali serie, ma riparabili,
oppure se, a 76 anni il prossimo aprile, non meriti di andare definitivamente
in pensione e traslocare, con tutti gli onori del caso, inni e bandiere
spiegate, nei musei e nei testi di storia.
L’Alleanza,
almeno nelle intenzioni nobili dei suoi fondatori, si basava sulla comunità
valoriale e la coesione politico-militare tra le due sponde dell’Atlantico. Appare evidente che sia a comunità
valoriale sia la coesione politico-militare ormai non ci sono più.
Intendiamoci,
la saldezza del legame transatlantico è in crisi da quasi un quarto di secolo.
Già all’indomani dell’attacco dell’11
settembre 2001 fu chiaro che gli USA, colpiti direttamente sul loro territorio
nazionale, abbiano considerato la NATO una organizzazione troppo burocratica e
lenta per difendere gli interessi statunitensi, ovvero che il suo
multilateralismo andava bene se si doveva discutere con gli europei della
sicurezza della Germania o dei Balcani.
Ma non
quando erano in ballo la sicurezza stessa degli USA!
Washington incominciò a ricercare soluzioni
più agili e soprattutto partner più ubbidienti, ovvero le cosiddette
“coalizioni di volenterosi”.
All’epoca,
gli alleati europei, terrificati dall’allentamento del legame transatlantico,
fecero di tutto per mantenerlo in vita, accettando di partecipare anche a
interventi militari non propriamente di loro interesse (quale il quasi
ventennale impegno in Afghanistan) pur di dimostrare all’alleato americano il
loro attaccamento e la loro fedeltà.
Il
tutto assunse un tono quasi patetico, come quello di una coppia in crisi dove
uno dei due (in questo caso gli europei) pareva disposto ad accettare qualsiasi
compromesso pur di evitare la fine di un matrimonio ormai solo formale.
Nonostante
vari scossoni, che per brevità non si ritiene di ricordare in questa sede, si
riuscì comunque a mantenere le due sponde dell’Atlantico unite sotto la
bandiera dell’Alleanza, pur riconoscendo sempre la leadership di Washington.
Il rapporto transatlantico venne di nuovo
messo pesantemente in crisi durante il primo mandato presidenziale di Trump
(2016-20).
Noi
europei ricordiamo bene i Vertici NATO del 2018 e del 2019 (vedi Dopo un summit
da incubo, cosa sarà della NATO? – Analisi Difesa), durante i quali il POTUS
(President Of The United States) non si preoccupò minimamente di nascondere la
sua scarsa considerazione per l’Alleanza e gli alleati, ribadendo ad ogni occasione che se
gli Alleati volevano continuare a beneficiare della protezione USA avrebbero
dovuto fare sforzi estremamente significativi in termini di incremento dei
rispettivi bilanci della difesa.
Trump,
infatti, già all’epoca aveva accusato ripetutamente alcuni paesi europei di
beneficiare delle garanzie di sicurezza USA senza, da parte loro, dedicare una
quota sufficiente del proprio PIL alla difesa.
In
realtà, più che all’efficienza degli apparati militari degli alleati, pareva
che il POTUS fosse interessato soprattutto al fatto che gli alleati europei
comprassero “Made in USA”.
Come
già ricordato, il ritiro dall’Afghanistan (dove la NATO in quanto alleanza
aveva operato senza soluzione di continuità sin dal 2003 e alcuni paesi alleati
sin dal 2001 nel quadro della coalizione di volenterosi “Operation Enduring
Freedom”) fu negoziata in splendido isolamento nel 2019-20 dall’amministrazione
Trump e poi condotta in maniera disastrosa nel 2021 da quella Biden, senza mai
coinvolgere gli Alleati che fornivano i loro soldati sul terreno in tali
processi decisionali.
Questo
non poteva non compromettere ulteriormente la credibilità del link
transatlantico.
Ciò
nonostante e probabilmente anche per l’acuirsi della crisi ucraina, durante la
presidenza Biden gli europei hanno di nuovo fatto di tutto per rinforzare quel
già debole legame transatlantico che era stato ulteriormente danneggiato
durante la prima presidenza Trump e dalle modalità di ritiro dall’Afghanistan.
In
quest’ottica, deve essere inteso anche il supporto, forse insufficiente ma
comunque molto generoso, che gli europei hanno fornito all’Ucraina negli ultimi
tre anni anche se per molti (tranne i paesi che per posizione geografica e storia
recente sono più timorosi di un’aggressione russa) il sostegno economico e
militare fornito è stato forse motivato più dal desiderio di acquisire meriti
con Washington e Bruxelles che dalla convinzione che fosse necessario aiutare
militarmente Kiev.
Il sostegno NATO all’Ucraina: molte parole e pochi
fatti.
Peraltro,
in relazione al conflitto in Ucraina, in questi tre anni, occorre rimarcare che
il ruolo della NATO nel conflitto è stato limitato, nonostante le pompose
dichiarazioni autoreferenziali del precedente segretario generale, Jens
Stoltenberg.
Ovviamente
c’è stato il rinforzo della frontiera orientale dell’Alleanza, attuato
esclusivamente all’interno del territorio dei paesi membri, senza alcuno
sconfinamento.
Si è
trattato di schieramento di assetti (aerei, terrestri e navali) aventi
l’obiettivo di dissuadere ed eventualmente contrastare possibili sconfinamenti
di forze russe/bielorusse in paesi NATO e di dimostrare la coesione militare
dell’Alleanza in caso di aggressioni.
Attività
questa in piena coerenza con i compiti di “difesa e deterrenza” che sin dal
1949 hanno rappresentato il “core business” dell’Alleanza.
Per il
resto, il segretario generale si è di fatto prodigato per convincere le singole
nazioni a fare di più in termini di aiuti militari diretti all’Ucraina,
sanzioni economiche contro la Russia, sostegno economico all’Ucraina, ecc.
Decisioni,
però, assunte altrove (a Washington, in ambito UE o nelle singole capitali
europee).
La NATO in questo processo ha avuto al massimo
il ruolo di monitorare e possibilmente coordinare l’afflusso di quanto reso
disponibile dai paesi membri. Tutto, comunque, sempre in base alle autonome
decisioni dei paesi donatori, tra i quali non solo membri NATO.
Trump
e gli “alleati-sudditi.”
Adesso
che si è insediata una seconda amministrazione Trump (opzione che era da
considerarsi decisamente possibile da più di un anno e molto probabile da
almeno sei mesi) era prevedibile che il legame transatlantico su cui si basa l’Alleanza
sarebbe stato di nuovo sottoposto a stress e messo in dubbio.
Peraltro,
pare che da parte europea poco sia stato fatto per prepararsi a questa
prevedibilissima evenienza.
La
scorsa settimana, sia dall’intervento del segretario alla difesa “Pete Hegseth”
durante la riunione dei ministri della difesa NATO che dall’intervento del vice
presidente” JD Vance a Monaco”, è emerso chiaramente che Trump intende dare
completa e rapida attuazione a quanto promesso in campagna elettorale in
materia di posizionamento geopolitico e rapporti con gli alleati.
Doveva
essere già evidente, ma in quelle sedi è stato chiaramente ribadito, che:
la
sicurezza dell’Europa non è più un primario interesse di Washington,
gli
interessi USA sono rivolti prioritariamente all’Indo-Pacifico e alla Cina,
la
Russia non è più considerato un nemico, da contrastare militarmente, bensì un
competitor con cui gli USA possono arrivare a patti,
la
sicurezza e l’integrità territoriale dell’Ucraina è un problema dell’Ucraina e,
eventualmente, degli europei.
Qualsiasi
sostegno politico, militare, economico USA fornito a paesi alleati ha un costo
che deve essere pagato comprando gas o armi USA o cedendo il controllo sulle
proprie materie prime di valore.
Inoltre,
non giova all’armonia interna alla NATO il fatto che alcuni alleati di vecchia
data (Canada e Danimarca) devono fare i conti anche con esplicite minacce di
annessioni territoriali da parte degli USA.
Non
può non essere chiaro, a questo punto, che gli europei devono al più presto
prendere atto di questo mutamento nei rapporti transatlantici e fare scelte
impegnative che, al momento, non appaiono ancora pronti ad affrontare.
Per
fortuna o purtroppo (dipende dai punti di vista), Trump non deciderà di uscire
dall’Alleanza Atlantica, come ha più volte minacciato di fare.
Scelta
che lascerebbe da un giorno all’altro gli alleati europei privi del supporto
militare strategico e della copertura nucleare statunitense, ma che li
metterebbe anche drasticamente di fronte all’esigenza di scelte coraggiose ed
immediate.
Scelte
che potrebbero prevedere eventualmente di riorganizzare le esistenti strutture
politiche e soprattutto militari dell’Alleanza per far fronte al ritiro USA.
Trump
probabilmente non lo farà, perché non ne avrebbe alcuna convenienza per vari
motivi.
In
primis, restando all’interno dell’Alleanza gli Stati Uniti possono continuare a
condizionare la politica di sicurezza europea, prevenendo o almeno rendendo
molto difficile che gli alleati europei, sotto bandiera UE, possano acquisire
quella autonoma dimensione militare che sarebbe indispensabile per giocare un
ruolo geopolitico significativo autonomo.
Inoltre,
da anni gli USA tentano di indirizzare la NATO verso l’Indo-Pacifico (che dal
2000 a oggi ha rappresentato la maggior preoccupazione di tutti gli inquilini
della Casa Bianca, democratici o repubblicani che fossero).
Già in
passato, ripetutamente, gli USA non hanno fatto mistero di voler fare della
NATO un loro strumento nel confronto con la Cina.
Ciò
per Washington sarebbe sempre più importante anche perché ormai, grazie alla
forza di attrazione politica ed economica del Dragone nella regione, sono
rimasti ben pochi i possibili alleati degli USA nell’Indo-Pacifico militarmente
credibili (Giappone,
Corea del Sud, Taiwan, Australia e Nuova Zelanda).
Appare
invece prevedibile che Trump, come più volte dichiarato, ridurrà in tempi brevi
la presenza militare USA in Europa, sia perché vorrà in prospettiva ridurre il
volume organico delle forze armate statunitensi (che anche in termini di costi
per il personale rappresentano un esborso non indifferente per il bilancio
federale) sia per poter gravitare, anche militarmente, sull’Indo-Pacifico.
Probabile
anche che, sulla base di una lettura letterale dell’”Articolo 5 del Trattato
Atlantico” (troppo spesso citato a sproposito da molti commentatori),
l’Amministrazione Trump metta in discussione l’obbligatorietà di un’azione
militare statunitense in risposta a un’aggressione militare a un paese NATO
confinante con Russia o Bielorussia (Finlandia, Repubbliche Baltiche, Polonia).
L’articolo
5 infatti prescrive che in tale evenienza “si adotterà l’azione che si
giudicherà necessaria, ivi compreso l’uso della forza armata” (pertanto, non
necessariamente la forza armata).
Ovviamente,
con un occhio più agli introiti dell’industria USA che all’efficienza degli
apparati militari europei, pretenderà una più accentuata condivisione degli
oneri con gli europei.
Quale futuro per la NATO?
La
NATO, dopo il grave colpo inferto alla sua credibilità dal caotico ritiro da
Kabul, potrà reggere anche alla irrilevanza nella gestione della crisi ucraina
e agli atteggiamenti da “marchese del grillo” che il nuovo “padrone del vapore”
ha adottato non solo nei confronti sia dell’ex-proxi ucraino che degli
alleati-sudditi europei?
Difficile
credere che possa reggere anche se altrettanto difficile è credere che se ne
vorrà prendere atto!
Innanzitutto
perché, come già scritto, gli Stati Uniti hanno interesse a evitare che
l’Europa possa assumere un ruolo geopolitico autonomo.
Quindi
è possibile che la NATO sopravviva procedendo per inerzia e col rischio di
essere sempre più screditata, percepita come “parente povero” dagli USA, come
inutile dalle nazioni europee e come “traditore” da coloro (ucraini, georgiani,
moldavi) ai quali l’Alleanza, in maniera azzardata, si era presentata sin dal
2008 con promesse che non aveva forse la volontà né la capacità di onorare.
E l’Unione Europea?
Gli
europei danno spesso l’impressione di una certa confusione nel tentare di
metterci d’accordo tra di noi su quali siano i nostri interessi e ci
comportiamo molto spesso come i capponi che Renzo portava in dono
all’Azzeccagarbugli.
Le reazioni stupite e offese delle leadership
politiche europee all’infelice, ma assolutamente prevedibile, evoluzione del
conflitto in Ucraina, ne costituisce solo una delle tante dimostrazioni.
Molti
parlano di rinforzare l’UE attribuendole una capacità militare addirittura
costituendo “forze armate europee”.
Opzione priva di senso a meno di una “politica
estera e di sicurezza comune” che potrebbe essere ottenuta solo attribuendo
alla UE la struttura costituzionale di Confederazione, con tutte le limitazioni
alle autonomie degli attuali Stati membri che una simile scelta comporterebbe.
Oggi
la UE non dispone di un proprio strumento militare adeguato alla situazione,
essendosi sempre appoggiata sulle capacità della NATO.
Occorre
tener presente che l’UE sarà, insieme all’Ucraina, la grande sconfitta
dell’accordo di pace negoziato da Trump.
Vale
la pena di ricordare che, più per assecondare Washington che per salvare Kiev,
i paesi UE hanno interrotto le loro relazioni commerciali con la Russia,
avviandosi sulla strada delle sanzioni commerciali autolesioniste, degli aiuti
economici e dei prestiti all’Ucraina (che non saranno mai ripagati) e dello
svuotamento dei propri già miseri arsenali militari.
Ora,
dopo aver tagliato i ponti con il loro principale fornitore di energia, per
seguire la via indicata dall’alleato a “stelle e strisce”, gli europei vengono
da questi abbandonati e sbeffeggiati.
Ciò nonostante e nonostante la ferma posizione USA contraria all’accesso
dell’Ucraina nella NATO, le leadership UE continuano a insistere sull’accesso
immediato dell’Ucraina nell’UE.
Penso
che non sia necessario rimarcare il peso economico per i paesi membri che ciò
comporterebbe, stante anche l’esigenza di ricostruire un paese che neanche
prima della guerra aveva i requisiti economici ed istituzionali per l’accesso.
Peraltro,
più preoccupante mi pare che chi caldeggia il rapido accesso dell’Ucraina
nell’UE sembra trascurare che in termini di obblighi di “difesa comune”, il
comma 7 dell’Articolo 42 del Trattato di Lisbona (trattato istitutivo della UE)
è molto più vincolante del già citato Articolo 5 del Trattato dei Washington
(trattato istitutivo della NATO).
Trattato
di Lisbona Art 42 comma 7 “Qualora uno Stato membro subisca un’aggressione
armata nel suo territorio, gli altri Stati membri sono tenuti a prestargli
aiuto e assistenza con tutti i mezzi in loro possesso, in conformità
dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite. Ciò non pregiudica il
carattere specifico della politica di sicurezza e di difesa di taluni Stati
membri.”
L’UE,
pertanto, potrebbe tra alcuni anni trovarsi da sola a difendere l’Ucraina dalla
Russia dopo solo alcuni anni di tregua.
Un
tale oneroso impegno potrebbe annientare sul nascere qualsiasi aspirazione alla
tanto decantata autonomia strategica europea e a un ruolo UE quale attore
geopolitico indipendente a livello mondiale. Tutto ciò, ovviamente, con gioia
dei nostri alleati d’oltreoceano che hanno sempre chiesto all’Europa di fare di
più per garantire la propria sicurezza, ma sono sempre stati restii a
riconoscerle un ruolo geopolitico autonomo.
Quale futuro per i paesi europei della NATO?
Appare
evidente che, come ribadito dall’amministrazione Trump, gli interessi
geopolitici americani siano ormai lontani dal nostro continente e comunque
spesso in concorrenza con gli interessi europei.
Rendiamoci
conto che non possiamo più affidarci allo Zio Sam per minacce che non lo
coinvolgano.
Pertanto
l’UE, associata eventualmente ad alcuni paesi europei non UE (Gran Bretagna,
Norvegia, Paesi dei Balcani occidentali), dovrà rapidamente dotarsi degli
strumenti militari per garantire sia la sua difesa a Est (dal Mar Glaciale
Artico al Mar Nero) da una minaccia russa/bielorussa, che la
sua sicurezza Sud verso il Mediterraneo, il Medio Oriente e il
Nord Africa, contrastando gli interessi di Cina, Russia e Turchia, oltre
all’espansione del fondamentalismo islamista e, non dimentichiamolo, alle verosimili
iniziative pericolose statunitensi.
Non si
tratta qui di essere europeisti o sovranisti, intendiamoci. Si tratta solo di
essere realisti.
È
pertanto, necessario incominciare da subito a dotare l’UE di una struttura di
comando militare permanente analoga a quella della NATO, che possa essere impiegata
in autonomia per operazioni UE e che, in caso di interventi NATO in Europa, sia
integrabile in quella NATO.
Per
seguire questo percorso è necessario abbandonare esplicitamente il vincolo
(voluto dagli USA) di evitare duplicazioni NATO-UE, perché solo dotandosi di una
struttura di comando militare permanente l’UE potrà acquisire reale capacità
operativa autonoma.
Ciò
ovviamente non richiede un fantomatico e poco realistico “esercito europeo”,
bensì solo una chiara visione da parte dell’UE delle sue esigenze di difesa e
sicurezza e l’adozione di procedure finanziarie che garantiscano un’equa
ripartizione degli oneri finanziari tra i paesi membri.
Tutto
ciò ovviamente avrà costi che bisogna accettare di sobbarcarsi!
Si tenga conto che altre soluzioni
organizzative, tendenti a evitare le inevitabili duplicazioni, come quelle
previste dagli Accordi NATO-UE “Berlin Plus” del 16 dicembre 2002, non hanno in
realtà mai funzionato perché mal sopportate dagli USA e ostentatamente
contrastate da alcuni paesi NATO non UE, in primis la Turchia.
Resta
inoltre il problema dell’acquisizione di una comune capacità di deterrenza
nucleare di cui l’UE non dispone e che andrebbe realizzata con fondi comuni.
L’ipotesi
di rendere disponibile le capacità nucleari francesi è poco realistica. Proprio
la riluttanza di De Gaulle a mettere a disposizione la Force de Frappe
transalpina fu il motivo principale del fallimento dell’ambizioso progetto
della CED (Comunità Europea di Difesa) nel 1954.
In
effetti neppure la NATO dispone di un proprio deterrente nucleare, in quanto in
fondo la decisione dell’eventuale ricorso all’armamento atomico, anche solo in
risposta ad attacco nucleare nemico, resta di fatto soggetto alle decisioni
finali delle nazioni NATO che possiedono tali capacità (USA, Regno Unito e
Francia).
Resta
il problema anche dell’integrazione nel sistema di sicurezza europea e nei
relativi processi decisionali delle nazioni NATO del continente che non sono
membri UE o non lo sono ancora o che non intendono al momento farne parte: Gran
Bretagna e Norvegia e i paesi NATO dei Balcani Occidentali, tutti in lista
d’attesa per entrare nell’Unione.
Un’evoluzione
nel senso indicato è costosa e dovrebbe essere perseguita con coraggio e
determinazione, nonostante le sicure opposizioni che tale processo incontrerà
da parte in primis degli USA, ma anche della Turchia, paese NATO che per
l’Europa rappresenta più un fattore di rischio che di sicurezza, come abbiamo
più volte evidenziato.
Restano
tanti problemi e tutti di difficile soluzione, certo, ma Trump ci sta dicendo
che dobbiamo affrontarli non domani, ma oggi stesso.
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