Cina e il suo potere finanziario del capitalismo di stato.

 

Cina e il suo potere finanziario del capitalismo di stato.

 

 

Dagli Usa alla Cina aumentano

i ricchi e le disuguaglianze.

Francescosyloslabini.info – (February 5, 2025) - Editorials Cina USA- Il Fatto Quotidiano – ci dicono:

Nel suo discorso di commiato, Biden ha paventato la formazione di un’oligarchia negli Stati Uniti, composta da super-ricchi, descrivendola come una minaccia per la democrazia, i diritti fondamentali e le libertà individuali.

Tuttavia, questa oligarchia non ha iniziato a formarsi con l’amministrazione Trump, ma si è consolidata nel corso degli anni del dominio unipolare americano, dal 1991 a oggi, con un’evidente accelerazione nell’ultimo decennio.

L’altra faccia della medaglia, l’aumento delle disuguaglianze, non è un fenomeno esclusivamente occidentale, ma ha interessato anche altre realtà globali, inclusa la Cina.

Secondo il rapporto Oxfam 2025, tra novembre 2023 e novembre 2024, la ricchezza complessiva dei miliardari inclusi nella lista di Forbes è aumentata in termini reali di 2.000 miliardi di dollari e il numero dei miliardari è cresciuto di 204 unità, con un ritmo di quasi 4 nuovi miliardari a settimana.

In media, i miliardari hanno visto incrementare le loro fortune di 2 milioni di dollari al giorno, ma i 10 miliardari più ricchi hanno registrato una crescita media giornaliera di circa 100 milioni di dollari.

 

Elon Musk, l’uomo più ricco al mondo, ha visto il suo patrimonio aumentare del 31% in un anno, raggiungendo oltre 330 miliardi di dollari a novembre 2024.

Mark Zuckerberg, con una ricchezza netta di 198,7 miliardi di dollari (4° posto nella classifica mondiale dei miliardari) ha registrato il maggiore incremento percentuale tra i primi dieci, con un sorprendente +69% su base annua.

Tra le dieci persone più ricche del mondo, sette sono americani, uno francese e due indiani.

 Nel 2024, il numero di miliardari in Cina è sceso a 814 rispetto ai 1.130 del 2022, mentre negli Stati Uniti è salito a 800 dai 716 del 2022.

 In Cina, i super-ricchi sembrano avere un impatto molto diverso sulla politica:

nonostante un’economia di mercato dinamica, l’autorità politica mantiene una chiara supremazia sul capitale, distinguendosi dal modello americano in cui gli interessi economici delle élite dominano il panorama politico.

 

I costi sociali ormai quarantennali della prevalenza di un sistema economico basato su una accumulazione illimitata, un fisco che la favorisce e la distruzione del lavoro organizzato sindacalmente sono alla base della trasformazione delle democrazie liberali in oligarchie.

 Questa concentrazione di potere ha dato luogo a un modello in cui la politica, che dovrebbe rappresentare le istanze di grande parte popolazione e non del solo 1% più ricco, è condizionata in maniera sempre più forte dagli interessi dei multimiliardari.

 Il diritto di voto, esercitato da una frazione sempre decrescente dell’elettorato, è sì assicurato ma il controllo dell’informazione e i costi della politica rappresentano le barriere superabili, direttamente o no, solo dai super-ricchi.

Un esempio emblematico sono le ultime elezioni americane, il cui costo ha superato i 15 miliardi di dollari.

 

Le disuguaglianze attuali sono talmente estreme che, secondo le stime, per accumulare la ricchezza di uno dei 10 miliardari più ricchi al mondo non basterebbe risparmiare 1.000 dollari al giorno sin dai tempi in cui i ritrovamenti fossili attestano la presenza del genere Homo (315.000 anni fa).

L’ingiustizia di queste disparità è ulteriormente evidenziata dal fatto che oltre un terzo (36%) della ricchezza dei miliardari è ereditata, dimostrando come l’accumulo di patrimoni straordinari non sia sempre il risultato di merito o innovazione, ma spesso di privilegi trasmessi o frutto della rendita.

La lotta alle disuguaglianze, a partire da una tassazione progressiva come lo fu negli anni 70 prima che “la lotta di classe fosse vinta dai ricchi”, come disse “Warren Buffett”, dovrebbe essere la priorità politica prodromica a costruire una società in cui non solo si possa rimettere in moto il famoso ascensore sociale ripristinando le fondamenta di un sistema realmente democratico e partecipativo.

 

 

Il falso mito della Cina capitalista e

gli occhi strabici dell’Occidente.

Marxismo-oggi.it – Il Fatto quotidiano – (30-05-2025) - Pino Arlacchi – ci dice:

 

Ed eccomi qui, di nuovo in Cina per l’ennesima volta.

Vengo in questo paese quasi ogni anno da trent’anni.

Ho potuto perciò vedere con i miei occhi la stupefacente rinascita di questo Stato-civiltà che ammalia chiunque lo incontri, da amico o da nemico, da alleato a invasore, prima e dopo Marco Polo.

 Ma è giunto il tempo di fare un inventario dei miei pensieri e dei miei sentimenti verso la Cina, e nelle scorse settimane ho avuto l’occasione di metterli alla prova in una serie di dibattiti ad alta intensità in alcune delle maggiori università del paese.

 

Offro ai lettori un resoconto molto parziale dei temi sui quali mi sono misurato con studenti, professori, dirigenti di partito, giornalisti.

Grandi temi, certo, perché tutto è grande nella Cina di questi tempi.

E occorrono chiavi di lettura adeguate se non si vuole cadere in balia dei luoghi comuni, delle mezze verità e degli stereotipi.

 

Non c’è un flusso di notizie affidabile su ciò che succede davvero in Cina, su come essa si comporti nella scena internazionale.

 Credo che la nozione più dura da afferrare per media e governi occidentali è che la potenza cinese attuale poggi su solide basi non-capitalistiche.

 

Il più diffuso luogo comune è quello che pretende di spiegare il miracolo economico della Cina con la scelta di volare sulle ali del capitalismo occidentale per fuggire dall’inferno della povertà estrema in cui essa era piombata dopo la caduta del Celeste Impero.

 Mao Tse Tung e la rivoluzione comunista del 1949 non sarebbero stati altro che un costoso, eccentrico biglietto di ingresso nella modernità occidentale, perseguita poi fino in fondo secondo una formula autoritaria e nazionalista.

La Cina di “Xi Jinping”, secondo le vittime del suddetto pregiudizio, è una replica tardiva e pericolosa della modernizzazione tedesca, giapponese e italiana del secolo passato destinata a terminare come sappiamo.

 Salvo una sua conversione dell’ultimo minuto alla democrazia liberale e allo Stato di diritto.

Conversione di giorno in giorno più improbabile data la saldezza crescente di un dominio comunista diventato, con le nuove tecnologie, compiutamente orwelliano. La forza di questo stereotipo non è intrinseca, ma è dovuta all’assenza di una concezione antagonista munita degli adeguati strumenti di contrasto.

 

L’eresia dei successori di Mao non è stata la conversione alla società del mercato, bensì la scelta di usare il capitalismo invece di distruggerlo, forzandolo a comportarsi come una risorsa al servizio del bene di tutti.

Ma la potenza delle idee sbagliate può essere suprema.

Lo deduco dal tempo che ha impiegato uno studioso di orientamento socialista come chi scrive per sentirsi in grado di attaccare il mito della Cina capitalista, e dalla timidezza con cui lo stesso governo di Pechino rivendica l’alterità del suo sistema rispetto a un Occidente capitalistico pervenuto alla fase terminale del suo declino.

 

 Durante un dibattito in università, un alto dirigente del Partito comunista ha così motivato la riluttanza del PCC a marcare le basi non-capitalistiche di una Cina aperta al confronto con mercati e Stati esteri:

 Primo, il concetto è difficile da spiegare, soprattutto a una audience straniera scettica verso di noi, pronta a considerare propaganda qualsiasi nostra dichiarazione di contenuto fortemente politico.

 Secondo, non intendiamo dare l’impressione di proporre un modello da imporre agli altri tipo l’esportazione della democrazia promossa dai neocon americani.

Terzo, l’idea può essere facilmente distorta e messa in contrasto con la nostra advocacy dei principi di non interferenza e di rispetto della sovranità”.

 

 In effetti, la narrativa di un sistema cinese composto da un’economia largamente capitalistica e di mercato e da uno Stato che non la riflette – perché socialista e orientato a dominarla invece del contrario – non è facile da spiegare neanche agli economisti.

Credo che solo i keynesiani più fedeli alle idee originarie del loro maestro siano in grado di comprendere bene questo concetto.

 Ora non prendetemi per un attempato comunista se vi dico che il potere euristico di questa chiave di lettura è grandioso.

 Essa vi consente non solo di risolvere l’enigma del miracolo economico della Cina post-Mao, ma vi permette di stare seduti in prima fila davanti al tramonto di un capitalismo occidentale dove la finanza si ciba dell’industria e del commercio.

 

 Mentre le industrie euroatlantiche soffrono di una cronica caduta dei profitti e sono costrette per sopravvivere a trasformarsi in imprese finanziarie, quelle cinesi realizzano introiti dal 50 al 200% superiori a quelli delle loro controparti occidentali grazie alla riduzione dei costi e dei rischi apportata dalla pianificazione socialista e grazie all’assenza del vampirismo finanziario.

Questo elemento è davvero fondamentale.

 Una delle maggiori risorse del “socialismo di mercato” cinese è un sistema bancario interamente pubblico, che consente di trasformare i risparmi dei cittadini in investimenti produttivi invece che in fiche del casinò finanziario mondiale.

 Il sistema cinese attuale è andato oltre Marx e molto oltre Keynes.

Esso non cerca né di distruggere né di “riparare” il capitalismo, ma di usarne l’immensa forza e dinamicità a scopi di benessere collettivo.

Superandolo anche nel campo dello sviluppo delle forze produttive.

Come?

Per mezzo di un possesso pubblico diretto di tutti mezzi di produzione strategici:

 il capitale-denaro, la terra, le grandi imprese dei settori strategici e, oggi, anche il mezzo di produzione più cruciale che è l’Intelligenza artificiale.

Tutti questi beni, i centri di comando della produzione e della distribuzione, sono di proprietà statale.

 Il cuore, il cervello e il sistema nervoso dell’economia cinese, perciò, non obbediscono al capitale ma allo Stato.

 Sono essi stessi lo Stato.

 

Il “corpaccione” materiale dell’economia cinese è invece largamente privato, composto da investitori capitalistici alla ricerca del profitto, del tutto simili ai loro omologhi occidentali.

Parlo di milioni di imprese e imprenditori che sono la parte più visibile dell’economia reale più imponente del pianeta, che genera ormai il 40% della produzione industriale globale.

Il software di tutta la baracca è una pianificazione altamente sofisticata, algoritmica, tentativo, collocata agli antipodi della rigida pianificazione sovietica che ha scavato la fossa del socialismo russo.

E agli antipodi anche della formula primitiva del capitalismo di Stato adottata in viarie parti del Grande Sud.

Il piano quinquennale cinese raramente ha mancato l’obiettivo grazie al suo comando immediato di risorse pubbliche gigantesche, ai suoi megaprogetti infrastrutturali da 6 trilioni di dollari, e al suo potere di indirizzare le strategie delle grandi imprese private.

Questo potere è cresciuto invece di indebolirsi con la crescita del Pil, anche perché l’Intelligenza artificiale ha amplificato di molto la capacità predittiva dei movimenti della domanda.

 La competizione interna tra imprese cinesi pubbliche e private persiste ed è ancora vigorosa, ma l’intera economia della Cina funziona sempre più come una gigantesca singola corporation in grado di battere qualunque rivale estera grazie… al suo non essere ontologicamente capitalista.

(Il Fatto Quotidiano | 30/05/2025).

 

 

 

 

Solo 9 Milioni di Digitalizzati:

Finalmente una Buona Notizia…

Peccato che ci Resta lo SPID.

Conoscenzealconfine.it – (15 Ottobre 2025) - Carmen Tortora – ci dice:

 

Ogni tanto, anche in questa fiera del delirio digitale, arriva una notizia che fa tirare un sospiro di sollievo.

Solo 9 milioni di italiani hanno attivato le credenziali digitali della Carta d’Identità Elettronica. Il resto – cioè l’84% – ha avuto il buon senso di ignorare il richiamo del chip, preferendo tenere la tessera nel portafoglio, come un qualsiasi documento, e non come chiave d’accesso al “panopticon digitale europeo”.

Insomma, 46 milioni di persone hanno deciso, magari senza nemmeno saperlo, di non farsi inghiottire del tutto dalla macchina.

 È una forma di resistenza civile inconsapevole, ma pur sempre resistenza.

La “CIE”, spacciata per il gioiello della modernizzazione italiana, si è rivelata per ciò che è: una costosissima trappola burocratica.

 Serve a poco, funziona male, e quando funziona è un incubo di codici, PIN, PUK e lettori NFC.

Per attivarla serve una laurea in informatica, per usarla serve la pazienza di un santo.

 Risultato: 9 milioni di coraggiosi attivisti digitali hanno completato la trafila, mentre gli altri 46 milioni hanno fatto l’unica scelta intelligente – lasciarla spenta.

 

Eppure non c’è troppo da festeggiare.

Perché nel frattempo abbiamo ancora lo SPID, quella creatura ibrida che si finge “pubblica” ma vive grazie a privati accreditati, controllata dallo Stato e sincronizzata con Bruxelles.

Il Sistema Pubblico di Identità Digitale – nome altisonante, realtà ben più prosaica – è la vera infrastruttura centralizzata di sorveglianza digitale in Italia, la porta d’ingresso per tutto: sanità, scuola, tasse, bonus, università, banca, utenze.

 

Lo SPID non è un servizio decentralizzato, come si cerca di far credere:

è un sistema federato solo sulla carta.

 Dietro il linguaggio tecnico da manuale UE (“provider”, “livelli di sicurezza”, “interoperabilità”) c’è una verità semplice:

 tutti passano per lo stesso imbuto.

 Che tu scelga “Poste ID”, “Aruba” o” Info Cert”, il login porta sempre alla stessa porta digitale, controllata dal “Dipartimento per la Trasformazione Digitale e dall’AgID”.

È un modello di centralizzazione elegante, cioè un accentramento travestito da pluralità.

 

I dati personali non vengono “gestiti” direttamente dallo Stato, ma certificati da aziende private che svolgono il ruolo di intermediari.

In altre parole: la tua identità digitale non è tua, ma “autorizzata” da soggetti terzi, che a loro volta rispondono a regole europee.

 Il cittadino, ridotto a username e codice OTP, deve fidarsi che tutto sia “sicuro”.

E quando l’UE parla di “interoperabilità”, significa semplicemente che presto tutti questi sistemi nazionali dovranno comunicare perfettamente tra loro: un’unica rete, un’unica logica, un’unica chiave d’accesso per l’intero continente.

 

Lo SPID, insomma, è il cavallo di Troia perfetto per l’identità digitale europea.

Non a caso è stato costruito seguendo gli standard “eIDAS”, la normativa dell’Unione che prepara il terreno per il grande passo: l’”EUDI Wallet”, cioè il portafoglio digitale unico dell’UE.

 Il meccanismo è semplice:

l’identità italiana (SPID), quella tedesca, quella francese – tutte integrate in un’unica infrastruttura continentale, dove ogni cittadino europeo avrà un profilo digitale verificato, interoperabile e accessibile da istituzioni pubbliche e “partner certificati”.

 

Il nuovo “IT Wallet”, già sperimentato nell’”app IO”, è solo la fase due della stessa operazione.

Si presenta come un portadocumenti digitale “comodo e sicuro”, ma nella sostanza è un archivio centralizzato di dati biometrici e amministrativi che si appoggia proprio a SPID o CIE per funzionare.

Non autentica nulla da solo, ma prepara il terreno per quando il sistema europeo sarà pienamente operativo.

È la classica mossa “alla UE”: un passaggio tecnico travestito da innovazione civica.

 

E così, mentre i comunicati ministeriali parlano di “semplificazione” e “inclusione digitale”, il quadro reale è un altro:

 lo SPID è già la spina dorsale della futura identità digitale europea, e la CIE – nonostante la sua apparente irrilevanza – serve solo a dare una patina di “sovranità nazionale” a un progetto che di nazionale non ha più nulla.

Tutto converge verso Bruxelles, dove il “wallet europeo” sarà la chiave universale per muoversi nel “mercato unico digitale”.

 

Il bello (o il tragico) è che lo SPID non è neppure sostenibile economicamente. I gestori privati lamentano da anni costi elevati e ritorni inesistenti, tanto che il governo ha dovuto garantire un’elemosina di 40 milioni di euro in tranche bimestrali.

Ma nonostante la retorica sul “mercato concorrenziale”, la realtà è che lo SPID sopravvive solo perché serve all’Europa.

 È il suo banco di prova:

un laboratorio perfettamente funzionante, con 41 milioni di utenti docili e un’infrastruttura già integrata con i protocolli UE.

 

Ecco quindi il paradosso:

 la buona notizia è che la “CIE” è un flop, la cattiva è che “SPID” no.

Gli italiani hanno (forse) evitato di attivare la loro carta elettronica, ma intanto usano ogni giorno il sistema che li collega direttamente alla rete europea di autenticazione.

Quando l’”EUDI Wallet “sarà operativo, il passaggio sarà automatico:

 SPID e CIE confluiranno in un’unica identità digitale continentale, valida ovunque, utile a tutto, controllabile da chiunque.

 

In fondo, l’84% di italiani che ancora non ha digitato il PIN della propria CIE rappresenta l’ultima trincea dell’anonimato.

Ma la trincea si restringe: ogni bonus, ogni servizio, ogni “semplificazione” spinge verso l’obbligo di autenticarsi digitalmente.

È così che la libertà si trasforma in comodità, e la comodità in dipendenza.

Per ora, ci resta solo da sorridere del paradosso:

il sistema che funziona è quello che ci lega all’Europa dei dati, quello che fallisce ci salva dalla schedatura totale.

E forse, in questa follia burocratica, gli italiani – inconsapevoli, restii, sospettosi – sono ancora una volta più saggi di chi li governa.

(Carmen Tortora (t.me/carmen_tortora1).

(agendadigitale.eu).

(imolaoggi.it/2025/10/13/solo-9-milioni-di-digitalizzati-buona-notizia).

 

 

 

 

 

 

Perché la Cina

non è capitalista.

Dinamopress.it – Richard Smith – Mondo – (3 ottobre 2020) – ci dice:

Pubblichiamo qui il secondo di due articoli pubblicati sul sito della rivista “Spectre” come occasione di approfondimento sulla Cina ed in particolare rispetto al dibattito sulla natura del regime cinese, se sia o meno capitalista.

 I due articoli si integrano fra loro poiché forniscono un’analisi del corso cinese degli ultimi decenni e, su questa base, cercano di indicare possibili percorsi di liberazione.

 Ospitiamo questi contributi, al di là di posizionamenti specifici e delle differenze di analisi e prospettive dei due autori, perché contribuiscono parzialmente ad approfondire il dibattito sulla Cina e sulle dinamiche dei conflitti di classe, di genere, di razza, e ambientale nella crisi globale contemporanea.

(Richard Smith).

 

Nel suo articolo su “Spectre Journal”, intitolato “Perché la Cina è capitalista”, “Eli Friedman sostiene “che «la Cina del XXI secolo è diventata un paese capitalistico, uno strappo violento per una nazione che aveva quasi totalmente abolito la proprietà private dei mezzi di produzione già alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso».

Eppure oggi «i segnali di capitalismo abbondano: le metropoli del paese sfoggiano negozi di Ferrari e Gucci, il profilo urbano si fregia dei loghi delle aziende straniere e nazionali, … lussuosi grattacieli spuntano in tutti i maggiori centri urbani … [e la Cina] è diventato uno dei paesi più ineguali del mondo».

 

Dietro le apparenze, per “Friedman” la dimostrazione definitiva che oggi la Cina è capitalistica viene dalla «universalizzazione della produzione di merci, evidente nel gran numero di vaste filiere produttive transnazionali che fanno capo alla Cina e dallo sfruttamento degli operai di fabbrica, innanzitutto e soprattutto orientato alla produzione di profitto piuttosto che al soddisfacimento delle necessità umane».

A me sembra invece che la produzione di merci non sia così pervasiva nell’economia.

Neanche la forza lavoro è del tutto mercificata, dato che le aziende cinesi fanno ampio uso di lavoro coatto:

 gli studenti universitari sono stati obbligati dal governo a lavorare nelle fabbriche della “Apple Foxconn” con salari sotto il minimo, pena la revoca del permesso di laurearsi.

Le aziende cinesi producono per l’esportazione grazie al lavoro schiavile nel Xinjiang e in dozzine di campi di lavoro sparsi in tutto il paese.

 

Il mercato governa visibilmente beni e servizi dei consumatori urbani e nelle ZES (zone economiche speciali) costiere a investimento straniero, ma nell’economia statale proprietà pubblica e pianificazione sono ancora al comando.

Il capitalismo è un regime economico basato sulla produzione generalizzata di merci, nel quale i vari fattori produttivi, terra, lavoro, mezzi di produzione e capitali, sono merci.

 Il lavoro, “merce speciale”, è talmente spossessato che non ha altro da vendere che la forza lavoro.

L’altro lato di questo processo di “accumulazione primitiva” è il monopolio dei principali mezzi di produzione che le nuove classi di proprietari terrieri e capitalisti industriali acquisiscono, con la violenza o in altri modi.

Questo sistema di poteri e proprietà sbilanciati può essere salvaguardato unicamente dall’instaurazione della proprietà privata, sorretta dal potere statale poliziesco e giudiziario.

Non è mai esistito un capitalismo senza proprietà privata.

In Cina ci sono alcuni di questi prerequisiti ma non tutti.

Il lavoro è ampiamente mercificato.

 Esiste una borghesia nazionale con alcuni prerequisiti del capitalismo, ma non tutti.

Ma la proprietà privata della terra non c’è.

La abolì Mao nel 1956 e non è mai stata ripristinata.

 

In Cina, la terra, le risorse naturali e la maggior parte dei mezzi di produzione rimangono di proprietà del Partito-Stato, ovvero del Partito Comunista classe dirigente.

La classe media urbana può acquistare i loro condomìni ma non possedere la terra sulla quale sorgono.

 In realtà, non possiedono neanche gli appartamenti, perché i governi locali possono, e lo fanno, requisire arbitrariamente gli edifici residenziali, espellerne i proprietari nominali, abbatterli per fare spazio a nuove infrastrutture, costringendo i “proprietari” precedenti ad accettare un’offerta prendere o lasciare o anche senza corrispettivo.

 I capitalisti fondano fabbriche.

Ma lo fanno con l’avallo del Partito-Stato.

La loro attività può, e talvolta succede, essere loro tolta arbitrariamente, senza possibilità di ricorrere.

 E i capitalisti?

 Se la Cina è capitalistica, dove sono i capitalisti?

Come vedremo più oltre, molti sopravvivono ma, a cominciare dal giro di vite del 2013 di “Xi Jinping”, altri eminenti capitalisti sono in prigione i loro beni confiscati, in quanto proprietà di capitalisti.

 Che razza di capitalismo sarebbe questo?

Non è capitalismo ma un ibrido capitalismo collettivistico burocratico.

Come spiego nel mio nuovo libro, “China’s Engine of Environmental Collapse” (Pluto, 2020), la Cina di oggi è piena di capitalismo:

c’è il capitalismo di Stato, il capitalismo clientelare, il capitalismo criminale, il capitalismo normale: la Cina ce li ha tutti.

In Cina ci sono più miliardari che negli Stati Uniti, molte aziende di Stato producono per il mercato e la forza lavoro è fatta di autonomi o di salariati di aziende private.

Nondimeno, non si tratta di un’economia capitalistica, almeno non soprattutto.

La migliore descrizione è quella di economia mista collettivistico-capitalistico-burocratica, nella quale il settore di Stato, collettivistico e burocratico, è predominante.

I dirigenti del PCC non possiedono le loro proprie economie privatamente, come capitalisti.

 Lo Stato possiede il grosso dell’economia, collettivamente.

Non è il mercato a organizzare la maggior parte della produzione in Cina.

Le riforme di mercato di tempo fa s’insabbiarono in quello che “Pei Minxin” ha chiamato la «transizione bloccata».

  Nei quarant’anni di riforme economiche e aperture all’estero la Cina non ha saltato un solo piano quinquennale o mancato di stabilire obiettivi annuali di crescita.

 La Cina resta essenzialmente un’economia di Stato, un’economia pianificata.

Come ha detto “Huang Yasheng”, del MIT, «l’economia privata cinese, in particolare la componente indigena, ha dimensioni piuttosto ridotte» ed è caratterizzata da giri d’affari limitati, dal lavoro autonomo e dalla presenza di contadini.

 

 Un’economia di Stato tripartita: 50, 30, 20.

Oggi, i dirigenti cinesi controllano un mastodonte industriale e commerciale, che rappresenta l’industria leggera del mondo, il maggior manufatturiere, il maggior esportatore, la seconda economia, con un PIL di 14 trilioni di dollari, il maggior numero di aziende di Stato classificate da Fortune fra le prime 500 e il più grande fondo sovrano del mondo, con 3 trilioni di dollari.

 

Nel comparto statale cinese s’annoverano alcune fra le più grandi aziende del mondo.

Negli anni Ottanta, non c’era una sola ditta cinese inclusa nella classifica di “Fortune”.

Nel 2017 ce ne sono state 115, con State Grid, Sinopec e China National Petroleum (CNPC) al secondo, terzo e quarto posto.

 Sono tutte, eccetto quattro, aziende di Stato.

“James McGregor” scrive che «delle 69 aziende della Cina continentale che figuravano nella classifica di “Fortune” nel 2012, solo sette non erano statali e comunque sia ricevevano cospicui finanziamenti statali e avevano enti statali fra i loro azionisti».

 

Nell’industria chiave, le aziende di Stato hanno dal 74 al 100% delle proprietà.

Le maggior banche cinesi sono di Stato al 100% (ci sono centinaia di banche private d’affari finanziate dall’estero ma subiscono restrizioni nella tipologia degli investimenti).

Il governo possiede anche dal 51% in su delle migliaia di joint venture orientate all’esportazione, fra cui figurano le compagnie transazionali, dalla” Audi” alla “Xerox”, che hanno alimentato la crescita cinese per decadi.

 Il governo ha anche comprato una caterva di aziende straniere come Volvo, Syngenta, Smithfield Farms, Pirelli Tires e Kuka Robotics, che amministra più o meno come se fossero aziende capitalistiche di Stato, in più possiede almeno il 10% delle azioni della Daimler (Mercedes Benz) tedesca.

A quarantadue anni dall’avvio delle riforme di mercato, il governo possiede e controlla ancora le leve fondamentali dell’economia.

Le banche, la grande industria pesante, l’industria mineraria, la metallurgia, la cantieristica, i settori energetico, petrolifero e petrolchimico, la grande edilizia e la grande manifattura, l’energia atomica e quella aerospaziale, le telecomunicazioni e internet, l’industria automobilistica (in parte in partenariato con aziende straniere), l’aereonautica (in partenariato con Boeing e Airbus), le linee aeree e ferroviarie, la farmaceutica, le biotecnologie, l’industria bellica e altro ancora.

 

Gli investitori stranieri lamentano da tempo l’esclusione dai settori strategici, l’obbligo di accettare soci di Stato nelle joint ventures e il divieto di operare in regime di piena proprietà nei pochi settori che sono loro accessibili.

Solo nel 2018 è stato consentito alla “Tesla” di fondare in Cina la prima fabbrica d’automobili interamente di proprietà straniera.

Non c’è dubbio che in Cina una vasta economia capitalistica di mercato affianchi il settore di Stato.

 Oggi il settore privato dispone di almeno il doppio degli operai del settore pubblico.

 

 Il comparto capitalistico nazionale nella Cina di oggi consiste in gran parte in una miriade di piccole e medie industrie e del settore autonomo, che in maggioranza consistono in miniere piccole e medie, edilizia locale, manifattura di scarpe, vendita al dettaglio, grandi magazzini, ristoranti, trasporto autonomo, consegne, tassì, aziende familiari, coltivatori diretti ecc.

 Il settore privato comprende anche grandi aziende come la “Baidu” (il motore di ricerca che domina internet dopo il ritiro di Google), la “Tencent” (messaggistica), l’”Alibaba” di “Jack Ma”, il gigante delle telecomunicazioni “Huawei”, l’immobiliarismo con il “Gruppo Wanda” di “Dalian” e la “SOHO China”, la preparazione di cibi con la “Wahaha Corp.”, le assicurazioni con la “Anbang”.

A partire dal 2000 i milionari spuntano come funghi:

le “Assicurazioni Anbang”, da piccola e sonnolenta compagnia d’assicurazioni auto fondata nel 2004 da un tale sposato con una parente di “Deng Xiaoping”, ha denunciato nel 2014 attività quotate in borsa per 295 milioni di dollari, dopo che” figli e nipoti di Deng” e di altri dirigenti vi hanno investito enormi somme (di provenienza sconosciuta), usandola per portare i soldi all’estero e comprare proprietà quali il Waldorf Astoria di New York.

 

Nel quadro largamente opaco della proprietà nella Cina di oggi è del tutto impossibile sapere quali aziende siano veramente o interamente private.

Come regola generale, più un’azienda è grande più è posseduta o è controllata dallo Stato.

Una ricerca del governo statunitense del 2011 ha scoperto che le aziende di Stato e le industrie urbane, di borgo e di villaggio di proprietà cosiddetta collettiva, ovvero dei governi locali, rappresentano la metà dell’attuale PIL cinese non agricolo.

 

Le joint ventures con il governo cinese a investimento straniero, quasi tutte nelle” ZES”, rappresentano il 30% circa del PIL non agricolo.

Il settore privato cinese rappresenta il resto, all’incirca il 20% del PIL non agricolo.

Altre stime valutano in 2/3 la porzione statale.

 In entrambi i casi, lo Stato possiede almeno la metà dell’economia industriale e controlla il resto.

 L’agricoltura nominalmente è privata ma i contadini non possiedono niente, non le fattorie, non le case, e decine di milioni di loro si sono visti privati delle terre senza appello e senza indennizzo.

Gli “elenchi dei maiali da abbattere” decapitano la borghesia nazionale cinese in potenza.

Il Partito comunista tiene al guinzaglio il capitalismo nazionale.

Gli imprenditori di successo scoprono presto di avere bisogno di un “socio” di Stato, altrimenti il governo li espelle dal mercato attivando un concorrente oppure sono acquisiti.

 Peggio ancora, quelli i cui nomi compaiono nella classifica di “Forbes” delle persone più ricche del mondo o nell’elenco degli “Unicorni” di “Rupert Hoogewerf” rischiano di attirare l’indesiderata attenzione del governo e vengono arrestati o spariscono a “un tasso allarmante”.

In appena un anno, il 2015, almeno 34 alti dirigenti di aziende cinesi sono stati arrestati dalla polizia, compreso l’amministratore delegato della “Fosun”, che aveva acquistato il “Club Mediterranee” proprio quell’anno.

In cinese lista di proscrizione si dice “shazhubang”, “elenco dei maiali da abbattere”.

Da quando la campagna anticorruzione di Xi Jinping ha preso il via nel 2013, i ricconi sono caduti come le mosche.

 

Nel biennio 2015-16, i cinesi ricchi hanno imboscato oltre un trilione di dollari all’estero, soprattutto investendo in aziende private come la HNA, la Fosun, la Dalian Wanda, l’Anbang e altre ancora, che acquistano alberghi (l’Hilton, lo Starwood ecc.), la AMC Entertainment, la Legendary Entertainment, il Cirque du Soleil, squadre di calcio e proprietà immobiliari sparse nel mondo – fondamentalmente per riciclare il malloppo e parcheggiarlo in paesi dove la legge protegge la proprietà.

 

Ansioso di tamponare la fuoriuscita dei “soldi che scottano”, per paura di perdite governative sui prestiti concessi alle aziende private e deciso a prevenire la nascita di una classe di capitalisti ricchi e potenti, “Xi Jinping è sceso in campo e s’è messo a dare la caccia ai cosiddetti huixiniu”, i “rinoceronti grigi”, ovvero le mine vaganti, le cui società molto esposte e i cui investimenti esteri “irrazionali” minacciano la stabilità finanziaria.

Gli amministratori delegati sono accusati di reati economici e messi sotto chiave e i loro beni sono requisiti.

 

Nel giugno del 2017 è stato colpito l’amministratore delegato della “Anbang”, “Wu Xiaohui, l’assicuratore automobilistico sposato con una nipote di Deng Xiaoping”, condannato a 18 anni di galera.

 L’azienda è stata nazionalizzata e le proprietà messe in vendita.

In giugno, “Wang Jianlin” (della Dalian Wanda), il pomposo costruttore edile e gran mogol dell’intrattenimento, oltre che il cinese più ricco sulla Lista degli Unicorni, che aveva giurato di “battere la Disney”, ha dovuto vendere i suoi parchi a tema e i suoi alberghi per ripagare le banche di Stato.

“Wang Shi”, fondatore di “China Vanke,” il più grande costruttore cinese, pur senza venire accusato di niente, è stato rimosso e la sua azienda è stata rilevata da aziende di Stato nel 2017.

 

Nel marzo del 2018, “Chen Feng”, amministratore delegato della “HNA” (una holding con aziende che vanno dall’aviazione ai servizi finanziari, con sede a Hainan), il maggiore dei grossi acquirenti che aveva ammassato proprietà trofeo in tutti i continenti acquisendo il 10% della Deutsche Bank, il 25% della Hilton Hotels, decine di milioni di proprietà immobiliari a Manhattan, aziende svizzere ecc., è stato obbligato a disfarsi delle proprietà immobiliari e di tutte le proprietà che «non figurano nell’agenda politica di Pechino».

Proprio questa settimana s’è appreso che l’impero multimilionario di “Xiao Jianhua” è stato requisito dallo Stato e sarà smantellato.

 “Xiao”, in passato stimato finanziere della stessa cerchia che include la famiglia di “Xi Jinping”, è stato rapito nel 2017 da un hotel di lusso di Hong Kong e non se n’è saputo più nulla.

 Così vanno le cose.

Come dicono in Cina, guo jin min tui (“quando lo stato si fa avanti, i privati rinculano”).

 

Ci sono molti milionari privati che prosperano, per esempio il presidente di Alibaba, “Jack Ma” (membro del PCC da molto prima del suo arricchimento) o “Pony Ma”, il fondatore della Tencent Holdings Ltd.. Infatti le loro aziende perseguono attivamente gli obiettivi della politica industriale del Partito, p. es. promuovendo il consumismo, raccogliendo dati sulla clientela ecc.

 Ma “Xi Jinping” ha decapitato la borghesia nazionale cinese in fieri e nazionalizzato le loro imprese, insomma deprime il settore privato, suo scopo dichiarato.

 Xi Jinping è un nazionalista e un neo maoista.

È ostile al capitalismo e non vuole che i capitali governativi e nemmeno quelli privati siano sprecati in sciocchezze o istradati all’estero.

 Li vuole concentrati sulle priorità della politica industriale di Stato. Inoltre, nel quadro del suo tentativo di eliminare la povertà in Cina, la presenza di milionari è un pugno nell’occhio per il suo livellamento sociale neo maoista.

 

 Deng Xiaoping restaura il capitalismo o lo usa per salvare il comunismo?

Delle interpretazioni maoiste della Cina, Mao mirò a costruire il socialismo, mentre Deng Xiaoping «restaurò il capitalismo».

 È un mito che non rispetta la storia.

Deng abbandonò l’autarchia di Mao, introdusse riforme di mercato e aprì l’economia agli investimenti occidentali.

Ma fin dall’inizio fu chiarissimo che le riforme non erano una controrivoluzione.

Non ci sarebbe stata alcuna privatizzazione, nessuna restaurazione del capitalismo.

Negli anni Ottanta e Novanta, Deng e compagni furono orripilati dalle privatizzazioni gorbacioviane, che provocarono il tracollo del PUCS.

Così, nel 1985, Deng riassicurò i compagni in ansia:

 

Noi vogliamo modernizzare l’industria, l’agricoltura, la difesa nazionale e la scienza e tecnologia.

Ma davanti alla parola modernizzazione c’è un aggettivo, “socialista”, e il risultato sono “le quattro modernizzazioni socialiste” (…)  Il socialismo richiede soprattutto due cose.

Primo, la sua economia dev’essere dominata dal settore pubblico (…) la nostra economia pubblica ammonta a oltre il 90% del totale.

Nello stesso tempo, consentiamo a una piccola percentuale di economia privata di svilupparsi, assorbiamo capitale straniero e introduciamo tecnologia avanzata, addirittura incoraggiamo le aziende straniere ad aprire fabbriche in Cina.

Sono tutte integrazioni dell’economia socialista basata sulla proprietà pubblica; non la possono minare, né lo faranno mai.

Ancora, nel gennaio febbraio 1992, a poche settimane dal crollo del PCUS, avvenuto a dicembre, Deng intraprese la sua celebre “ispezione nel Meridione”, a Shenzhen e nelle altre “ZES”, per galvanizzare le forze riformiste contro i conservatori, che erano pronti a chiudere le “ZES”.

 

 Egli sottolineò che, mentre le riforme di mercato e l’apertura erano la sola via per salvare il Patito comunista, lui non era un altro Gorbačëv:

Le” ZES “si chiamano “socialiste” (shehui zhuyi) e non “capitalistiche” (ziben zhuyi).

 A Shenzhen, la proprietà pubblica rimane il fulcro dell’economia e l’investimento straniero non ammonta che a un quarto (…)

 Noi abbiamo la priorità, perché abbiamo aziende di Stato grandi e medie e imprese di borgo e di villaggio.

 Meglio ancora, noi abbiamo il potere statale.

Certuni pensano che l’aumento del capitale straniero possa portare allo sviluppo del capitalismo e che la crescita delle aziende finanziate dall’estero possa aumentare gli elementi di capitalismo.

 Ma è gente priva di buon senso (…)

Le aziende finanziate dall’estero agiscono entro le condizioni politiche e economiche del nostro paese e non sono che un’utile integrazione all’economia socialista.

In ultima analisi, sono di beneficio al socialismo.

“Chen Yun”, il capo della pianificazione ai tempi di Mao, paragonò il capitalismo cui ricorreva la Cina a «un uccello in gabbia».

 La gabbia non può essere troppo piccola, sennò l’uccello soffoca, ma l’uccello deve restare ingabbiato, altrimenti vola via – il capitalismo andrebbe fuori controllo.

 La stessa cosa vale oggi.

Nella Cina di oggi gli elementi di capitalismo sono innumerevoli, ma non c’è stata alcuna privatizzazione generalizzata a favore degli oligarchi, come in Russia.

“James McGregor”, che ha passato oltre vent’anni in Cina a capo dell’ufficio del “Wall Street Journal” di Pechino e come presidente della “Camera di Commercio Statunitense” in Cina, descrive il controllo pervasivo dello Stato e il ruolo marginale del capitalismo e dei mercato nella Cina degli anni Novanta e Duemila in questi termini:

 

Le aziende di Stato monopolizzano o dominano tutti i settori significativi dell’economia e controllano completamente il sistema finanziario.

 I dirigenti di Partito affidano alle aziende di Stato la costruzione e il potenziamento dell’economia e sostengono il monopolio di Partito del controllo politico.

Il settore privato fornisce il lubrificante della crescita e dà alla popolazione l’occasione di arricchirsi fintanto che sostiene il Partito.

 

“Carl Walter” e “Fraser Howie”, autori di “Red Capitalism e banchieri d’affari veterani”, regolarmente implicati nelle OPA (offerte pubbliche iniziali) cinesi, scrissero nel 2011:

 

Lo Stato è coinvolto a tutti i livelli nel mercato:

come regolatore, elaboratore di politiche, investitore, azienda madre, azienda valutata in borsa, mediatore di borsa, banca e banchiere.

In breve, lo Stato fornisce tutti gli operatori alle maggiori aziende di Stato cinesi.

 

E non si tratta solo delle leve di comando.

Come spiega un banchiere d’affari, “Joe Zhang”, lo Stato ha a portata tutte le industrie ordinarie di beni di consumo:

Loro non monopolizzano (o quasi) soltanto molti settori e industrie “strategicamente importanti” (…) ma conducono operazioni massicce anche in settori più terra terra e competitivi, quali la manifattura, la metallurgia, la ristorazione, il gas e l’acqua, il settore alberghiero e immobiliare.

 

Per giunta, in quanto classe dirigente radicata nello Stato e determinata a “eguagliare e superare gli Stati Uniti”, la dirigenza cinese ha speso una parte della sua crescente ricchezza nel rinnovo, ammodernamento, aggiornamento ed espansione delle aziende di Stato, facendone i “campioni nazionali”.

 Oggigiorno, esse emergono nettamente fra le 500 migliori aziende cinesi e rappresentano il 63% del totale delle aziende, l’83% dei profitti, il 90% dell’attività.

 

La massimizzazione dei profitti non è il massimo che si può fare.

Eppure le “corporazioni” statali cinesi non sono massimizzatrici di profitti di per sé, come invece, ad esempio, la Temasek di Singapore, a capitali pubblici e altri consimili fondi sovrani, che sono contenti di fare soldi ogni volta che possono, ma senza esserci obbligati.

In effetti molti sono stati fallimentari per anni, ma nessuna ha dichiarato bancarotta, perché il governo non ha mai voluto dire addio ai suoi prestiti a causa del fallimento dei suoi zombi.

 

In quarant’anni di riforme di mercato, non una sola azienda di Stato importante ha potuto dichiarare bancarotta.

La loro esistenza e ragione di vita è dettata dal Piano, non dal mercato. Così quando il presidente di una grande corporazione fu rimosso per aver abbracciato l’economia di mercato con troppo entusiasmo, un esperto di aziende di Stato presso l’Università di Pechino ha commentato:

È in gioco il sistema, non una persona. Il dirigente nominato dal Partito basa la sua posizione sul padronaggio (…) e ha il compito di trattare coi dirigenti di Stato e proteggere le proprietà statali, non di massimizzare i profitti.

 

 Nessun “declino dell’economia pianificata”:

 infine, il mercato non ha soppiantato la pianificazione nemmeno nell’economia controllata dallo Stato.

Negli anni Novanta gli esperti occidentali di Cina entusiasti del mercato predissero una “crescita fuori del piano” per la Cina.

Ma non è mai successo.

 

 I dirigenti hanno sì accennato qualche volta alla possibilità un giorno per il mercato di “distribuire le risorse”, ma non l’hanno mai realizzata. Né l’avrebbero potuto fare, perché per superare gli Stati Uniti hanno bisogno di “campioni” fra le aziende di Stato, e dunque devono convogliare le risorse verso le industrie chiave e pianificare tutta l’economia.

Così, nelle parole del “Rapporto annuale del Congresso Statunitense su Economia e Sicurezza” del novembre 2015:

 

Il piano alla sovietica, dall’alto in basso, rimane il marchio del sistema economico e politico cinese.

 Il piano quinquennale continua a guidare la politica economica cinese delineando le priorità del governo e segnalando ai quadri e alle industrie locali i settori che riceveranno il sostegno governativo.

 I piani quinquennali sono seguiti da una cascata di piani nazionali, ministeriali, regionali, locali, miranti a tradurre le priorità in obiettivi regionali o industriali specifici, in strategie politiche e in meccanismi di valutazione.

 

L’XI e il XII Piano Quinquennale stabilirono le priorità nazionali e delinearono come esse avrebbero dovuto coniugarsi nelle migliaia di piani settoriali, raggruppati in tre categorie: “piani generali”, “piani speciali” e “piani macroregionali”.

Fra i piani regionali figurava il ciclopico “Programma di Sviluppo a Occidente”, focalizzato sull’industrializzazione della Cina occidentale, il “Programma del Delta del Zhujiang”, incentrato sull’innovazione tecnologica ecc.

Centinaia di piani tematici specifici stesero la programmazione quinquennale per le singole industrie farmaceutiche, alimentari, chimiche, tessili, per i cementifici.

Piani tematici più ampi sostennero la scienza, la tecnologia, il risparmio energetico, le ferrovie, le autostrade, l’energia, la mitigazione delle catastrofi ecc.

 

In un importante articolo su “Modern China” del 2013, “Sebastian Heilmann” e “Oliver Melton” sfatarono la tesi del “declino dell’economia pianificata”:

 

Contrariamente a quanto si crede (…) nessuna “rinuncia al piano” ha avuto luogo in Cina.

Dal 1993 in poi, la pianificazione allo sviluppo è stata profondamente modificata in termini di funzioni, contenuti, processi e metodi.

Ha dato spazio alle forze di mercato e alla decentralizzazione dei processi decisionali, ma ha mantenuto alla burocrazia di Stato la facoltà d’influenzare l’economia e ha ribadito che il Partito avrebbe conservato il controllo politico anche nella rinuncia a molti altri poteri.

 

Oggi, invece di proclamare migliaia di obiettivi di produzione dettagliati, i pianificatori centrali cinesi staccano soprattutto assegni per finanziare i progetti previsti.

Tuttavia, anche se la pianificazione è stata ammodernata e monetizzata, i piani continuano a stilare dozzine di obiettivi obbligatori e indicativi.

Per esempio, il XII Piano Quinquennale (2011-2015) ha fissato un aumento del 7,5% della crescita economica, del 3,1% del consumo dei combustibili non fossili nel consumo energetico primario, una diminuzione del 16% nel consumo energetico per punto di PIL, del 30% nel consumo d’acqua per punto di PIL, un aumento dell’1,3 % per la superficie forestale e perfino un aumento dell’1,6% per il numero di “brevetti ogni diecimila persone”.

 Il piano include anche numerosi obiettivi quantitativi: km 45.000 per la rete ferroviaria ad alta velocità, km 83.000 per la rete autostradale, 45 milioni di nuovi posti di lavoro governativi nell’arco dei 5 anni ecc.

Il piano ha previsto anche la costruzione di nuovi porti, di dozzine di nuovi aeroporti, ecc.

 

Insomma, anche se in Cina esistono cospicue realtà capitalistiche, concentrate soprattutto nella più o meno totalmente capitalizzata produzione per l’esportazione nelle ZES, il paese non può essere propriamente definito a economia politica capitalistica.

Si tratta della società della “nuova classe”, un’economia ibrida burocratico-collettivistico-capitalista nella quale dominano la proprietà pubblica e la pianificazione, mentre il capitalismo resta «un uccello in gabbia».

Quali sono le implicazioni politiche di quanto detto finora?

Volgendosi alle implicazioni politiche della sua analisi, “Friedman” domanda, la Cina è solo un’altra potenza capitalistica «in competizione con gli Stati Uniti» per l’egemonia imperiale globale?

O dobbiamo credere che «lo Stato cinese e la sua opposizione all’ordine americano annunciano una politica di liberazione?».

 

La mia risposta è che non c’è stato niente di “liberatorio” nelle politiche del PCC per molte decadi.

 Il PCC non è stato credibile come Partito socialista già dagli anni venti del secolo scorso, quand’era a stragrande maggioranza proletaria.

Dopo la repressione della rivoluzione operaia nel 1926 a opera dei Nazionalisti, la dirigenza del Partito andò alla sinistra nazionalista di Mao, che abbandonò il proletariato per costruire un “proletariato sostitutivo”, una burocrazia di Partito in armi tratta da elementi eterogenei piccolo borghesi e radicata nella contadineria.

Mao respinse il marxismo e il materialismo e abbracciò l’idealismo e il volontarismo, respinse la democrazia a favore della dittatura del Partito, rifiutò l’internazionalismo proletario a favore del nazionalismo e dello sciovinismo Han;

rifiutò le insurrezioni operaie per abbracciare la strategia della “guerra di popolo” e della conquista militare.

Tuttavia, il nuovo sostituzionismo stalinista di Partito di Mao ebbe un successo straordinario, liberando la Cina dall’occupazione straniera, i signori della guerra, i proprietari fondiari, il capitalismo ed emancipando le donne dal patriarcato confuciano.

 

Quel che di “liberatorio” c’è stato nella rivoluzione cinese è stato questo. Ma questa rivoluzione ha poi generato un nuovo tipo di classe dominante stalinista composta dal partito, esercito e burocrazia, sciovinismo Han, dittatura totalitaria da stato di polizia che ha sfruttato opera e contadini cinesi per settant’anni – e questo per perseguire il progetto vanaglorioso dei leader di riportare la Cine nella sua “giusta” posizione della più grande nazione del mondo e di superpotenza egemone.

 Come i loro compagni sovietici, Mao e i suoi successori hanno compreso che una nazione comunista con una classe dominante fondata sullo stato deve raggiungere e superare gli Stati Uniti in un mondo dominato da nazioni capitaliste più avanzate e potenti e costruire una superpotenza tecnologica relativamente autosufficiente tale da potere respingere gli imperialisti capitalisti. 

 

Il PCUS è stato segnato dalla sconfitta nella contesa economica e militare con gli Stati Uniti.

Deng Xiaoping e i suoi successori, particolarmente “Xi Jinping”, sono determinati a evitare di compiere il medesimo errore.

 Ma oggi, il PCC segue una missione suicida perché vuole massimizzare la crescita economica per superare gli Stati Uniti e dominare l’economia mondiale nonostante questa ultra-crescita che genera emissioni CO2 porti al collasso climatico e a un eco-suicidio.

Due sistemi sociali radicalmente differenti oggi sono uniti in una comune missione: massimizzare la crescita economica fino al collasso ecologico.

 

 La nostra unica speranza è supportare le lotte democratiche ovunque possano riuscire ad abbattere questi sistemi, prima che questi sistemi distruggano noi, e sostituirli con società eco-socialiste basate sulla proprietà pubblica e su una governance democratica.

Così come ci poniamo contro Trump e la sua base fascista, così dobbiamo “stare con Hong Kong” e stare con il Turkestan orientale (Xinjiang) contro il PCC, perché se non avremo successo, dovremo affrontare l’estinzione.

(“Richard Smith” fa parte del collettivo statunitense System Change Not Climate Change, autore di China’s Engine of Environmental Collapse (Pluto, July 2020) e di “The Triumph and Tragedy of the Chinese Revolution-” in stampa, 2021).

 

 

 

 

Cina: il drago capitalista.

Umanitanova.org – (18 Giugno 2025) - Redazione_web – Tiziano Antonelli – ci dice:

 

Lo sviluppo storico della Cina ha seguito un percorso diverso da quello della parte del mondo dove noi abitiamo, che ha visto succedersi prima la società schiavista, poi quella feudale e in seguito quella capitalistica.

All’interno di questo schema storico, la Cina è difficilmente inquadrabile. La sua storia millenaria ha delle ripercussioni anche sulla situazione attuale;

le incongruenze della Cina rispetto al modello capitalistico tipico dell’imperialismo angloamericano e dei suoi alleati sono semplicisticamente spiegate, spesso, attribuendo al modello cinese l’etichetta di “socialista”.

Se ce ne fosse bisogno, le ultime misure adottate dal Partito Comunista e dal governo cinesi dimostrano che invece la Cina, lungi dal socialismo, sta seguendo un proprio modello di sviluppo capitalistico.

 

Nel maggio scorso infatti il comitato centrale del Partito Comunista e il governo cinesi hanno elaborato congiuntamente le nuove linee guida in campo economico; queste linee guida mirano a “trasformare più aziende statali e private in aziende innovative, resilienti e competitive a livello globale con moderne strutture di corporate governance”, dice il “South China Morning Post”.

L’obiettivo 2035 per un “sistema di corporate governance” più raffinato si allinea anche con gli obiettivi di modernizzazione più ampi della Cina per quello stesso anno, traguardi che il governo cinese considera essenziali per raggiungere gli Stati Uniti.

 

La struttura di governance della Cina, definita moderna nel documento, sarà stabilita in circa cinque anni.

 L’obiettivo intermedio aiuterà le imprese a contribuire all’innovazione e agli aggiornamenti industriali e ad adempiere alle responsabilità sociali.

 

Particolare attenzione viene data alla gestione, che dev’essere scientifica e orientata al mercato, al miglioramento della governance presso le società quotate e all’assunzione di investitori istituzionali come azionisti attivi.

 

Le nuove linee guida si integrano con altre indicazioni centrali.

 A marzo, il “Ministero del Commercio cinese” e la “Commissione nazionale per lo sviluppo e la riforma”, il suo principale pianificatore economico, hanno pubblicato un documento che fissava l’obiettivo di avere entro cinque anni 100 aziende cinesi leader nelle catene di approvvigionamento digitali e legate all’intelligenza artificiale per rafforzare la resilienza e la sicurezza nei settori critici.

 

La spinta di Pechino arriva mentre le più grandi aziende cinesi hanno perso terreno rispetto ai loro rivali statunitensi.

 Nel 2024, la Cina continentale e Hong Kong avevano 128 società nella lista Fortune 500, mentre gli USA nella medesima lista avevano 139 società:

un capovolgimento, dopo che, nel 2019, le società cinesi avevano detronizzato le loro controparti statunitensi.

 

I profitti totali delle imprese statali si sono contratti del 4,4% nei primi quattro mesi del 2025, dopo un calo del 4,6% nel 2024.

 Le aziende private invece hanno visto i loro profitti aumentare del 4,3% tra gennaio e aprile.

 

Secondo una definizione largamente accettata, le imprese di proprietà statale nella Repubblica Popolare Cinese (RPC) sono un elemento chiave del sistema economico, basato sul principio della “proprietà pubblica socialista dei mezzi di produzione”.

Questo significa che, nonostante l’apertura all’economia di mercato, una parte significativa dell’economia cinese è ancora controllata dallo stato, con le imprese statali che svolgono un ruolo importante in vari settori;

ad esse il governo ha attribuito un ruolo che va oltre il semplice profitto e che riflette la continua influenza dello stato nell’economia.

 Ora però queste nuove linee guida affermano che le imprese che sono grandi ma non forti e redditizie saranno rigorosamente riformate in linea con la moderna governance aziendale.

 

Alle imprese private sarà concessa una maggiore autonomia nell’adozione di strutture di governance flessibili e gli imprenditori saranno in grado di gestire la propria attività senza un’eccessiva ingerenza statale, anche se esiste un punto nel documento in cui si prevede di rafforzare la leadership del Partito.

Ad aprile la Cina ha approvato una legge per promuovere l’economia privata e dare alle imprese colpite dai dazi USA una maggiore protezione legale contro multe e interferenze definite arbitrarie dal governo cinese.

 

Facciamo un passo indietro per capire quanto l’attributo di socialista conferito alla realtà economica cinese sia in realtà fuori luogo.

Nel 1953 erano trascorsi quattro anni dalla vittoria dell’Esercito Popolare di Liberazione su Chiang Kai-shek e in quello stesso anno quello stesso Esercito era intervenuto a difesa della Corea invasa dagli USA e dai loro alleati.

In quell’anno Mao Zedong, allora Presidente della Repubblica Popolare Cinese, così definì l’economia cinese:

“L’economia capitalista nella Cina di oggi è un’economia capitalista che si trova, nella sua stragrande maggioranza, sotto il controllo del governo popolare, è legata in varie forme all’economia socialista a gestione statale ed è sottoposta alla vigilanza degli operai.

Non si tratta più di un’economia capitalista normale, ma di un’economia capitalista di un genere particolare, cioè di un’economia capitalista di Stato di tipo nuovo.

 Essa esiste principalmente non per il profitto dei capitalisti ma per far fronte ai bisogni del popolo e dello Stato.

 Certo, una parte del profitto prodotto dagli operai va ancora ai capitalisti, ma essa rappresenta soltanto una piccola quota dell’intero profitto, circa un quarto, mentre i rimanenti tre quarti vanno agli operai (come fondi per il benessere), allo Stato (come imposte) e per ampliare gli impianti produttivi (in cui è compresa una piccola parte che produce profitto per i capitalisti).

Ne consegue che questa economia capitalista di Stato di tipo nuovo ha un notevole carattere socialista ed è vantaggiosa per gli operai e per lo Stato.”

 

Questa definizione potrebbe valere anche per la Cina di oggi, solo che da quando Mao scrisse queste righe sono passati più di settant’anni, le forze produttive della Cina hanno visto uno sviluppo impensabile, ma questo sviluppo delle forze produttive, anziché portare alla distruzione dei rapporti di produzione capitalistici, hanno portato all’estensione di questi rapporti a tutta la produzione e alla distribuzione.

Oggi il 75% della produzione è assicurato da imprese capitaliste, mentre quelle statali si limitano al 25%.

 La ricerca del massimo profitto è inoltre il faro che ispira le linee guida approvate a maggio scorso, mentre il ruolo del Partito Comunista all’interno delle unità produttive è assicurare la loro redditività, cioè la capacità di produrre profitti.

 

Ma più che nell’industria, l’avanzata del capitalismo è significativa in agricoltura e nella sanità, dove, ai primi tentativi di socializzazione, è stata presto sostituita la logica del capitale.

All’indomani della vittoria nella guerra civile, il governo abolì la proprietà privata della terra, che diventò di proprietà statale, e collettivizzò l’agricoltura per mezzo di cooperative di agricoltori. A partire dal 1958 il Partito Comunista cinese, sotto la guida di Mao Zedong, criticò il modello sovietico di sviluppo basato sull’industria pesante e puntò sulla rapida trasformazione in senso comunista dei rapporti di produzione nelle campagne, accompagnata dal sostegno alla piccola industria rurale.

 Furono create migliaia di comuni popolari: le oltre 740.000 cooperative di produzione agricola si fusero in 26.000 comuni popolari comprendenti 120 milioni di famiglie.

 

Questo tipo di organizzazione, nell’intenzione degli ideatori, non si limitava ad essere un’unità economica, ma era anche un’organizzazione basilare del potere statale.

 Inoltre, essa era la risposta alle esigenze del grande balzo che richiedeva una maggiore estensione delle unità fondiarie.

La comune doveva realizzare la collettivizzazione della vita, comprese le forme più elementari dell’esistenza umana, e con ciò preparare il passaggio dal sistema socialista a quello comunista.

Al loro interno erano stati aboliti i mercati liberi ed i campi privati precedentemente assegnati alle famiglie.

Nel 1984, nell’ambito delle riforme promosse durante la presidenza di Deng, furono definitivamente abolite le comuni popolari e si ridussero progressivamente le unità collettive.

Nel 1985 la cessione di quote di raccolto allo Stato fu sostituita dal sistema dei contratti di acquisto negoziati, sistema con cui alle quote di raccolto si sostituivano le imposte.

Tale evoluzione fu legittimata dall’emendamento costituzionale del 1993 che rimpiazzava formalmente le comuni con un sistema di responsabilità contrattuale.

Questo sistema prevede tuttora che lo Stato affidi in gestione la terra ai singoli capifamiglia per mezzo di contratti.

Anche la sanità ha visto un’evoluzione simile. La storia del servizio sanitario nella RPC può essere divisa in quattro periodi.

 

La prima fase inizia con la presa del potere da parte del Partito Comunista Cinese nel 1949.

Lo Stato era proprietario e fornitore di tutti i servizi sanitari e i professionisti sanitari erano suoi dipendenti.

Una peculiarità che ebbe un discreto successo, in questa fase, fu l’impiego dei cosiddetti medici scalzi per fornire servizi essenziali di sanità pubblica e di cure primarie nei villaggi rurali.

Tra il 1952 e il 1982 i tassi di mortalità infantile in Cina crollarono da 200 a 34 ogni 1000 nati vivi e furono quasi totalmente debellate malattie come la schistosomiasi, che da secoli affliggevano il Paese.

 

Nel 1984 cominciò una fase nuova.

Anche il sistema sanitario fu coinvolto nelle riforme volute dal governo per convertire la Cina in una economia di mercato.

 Il finanziamento governativo degli ospedali fu drammaticamente ridotto e molti operatori sanitari, tra i quali anche i medici scalzi, finirono per perdere il loro sussidio pubblico.

Il governo era ancora il proprietario degli ospedali, ma esercitava scarso controllo sulle organizzazioni sanitarie, che vi operavano quindi come entità for-profit in un mercato senza regole.

La maggior parte della popolazione rimase senza copertura assicurativa, dato che il governo non fornì alcuna copertura e non vi erano compagnie assicurative private.

Nel 1999, solo il 49% della popolazione delle città possedeva un’assicurazione sanitaria, perlopiù stipulata con imprese statali o governative, ed appena il 7% della popolazione rurale godeva di una qualche forma di copertura.

 

Nel 2003 cominciò una nuova fase, quando il governo cinese introdusse delle coperture assicurative per coprire le spese sanitarie ospedaliere dei residenti nelle aree rurali.

Non sorprende che le riforme del 2003 non furono sufficienti a risolvere le profonde problematiche del sistema sanitario cinese.

A partire dal 2008, il sistema sanitario continuò ad essere basato principalmente sul mercato ma dal 2012, un sistema assicurativo finanziato dal governo cominciò a fornire al 95% della popolazione una pur molto modesta copertura. Il governo si sforzò inoltre di creare un sistema di cure primarie.

 

Oltre ai dati dell’industria, anche quelli dell’agricoltura e della sanità mostrano quindi che il governo cinese è orientato alla liquidazione di quel che resta di strutture socialiste nel Paese, evitando passaggi critici come quelli che hanno portato al dissolvimento dell’Unione Sovietica.

(Tiziano Antonelli).

 

 

 

 

 

INTELLIGENZA ARTIFICIALE DI STATO:

COSÌ LA CINA SUPERA IL CAPITALISMO

da IL FATTO e IL MANIFESTO.

Officinadeisaperi.it - Pino Arlacchi – (11 Giugno 2025) – ci dice:

 

Intelligenza artificiale di Stato: così la Cina supera il capitalismo.

Futuro.

Se l’IA è migliore degli imprenditori umani, riducendo sprechi, surplus, crisi cicliche, cosa giustifica l’appropriazione privata dei profitti?

Negli ultimi dieci anni la Cina ha intrapreso uno dei più straordinari esperimenti economici della storia moderna.

 Ha investito oltre 500 miliardi di dollari nello sviluppo dell’Intelligenza artificiale, creando un ecosistema i cui algoritmi amplificano e raffinano il controllo statale dell’economia a un livello di granularità e precisione impossibile sia nei sistemi pianificati sia in quelli di mercato del secolo scorso.

La Cina possiede oggi il 47% dei brevetti globali legati all’Intelligenza artificiale applicata alla pianificazione economica.

Una cifra che viene da lontano.

Da una visione strategica articolata per la prima volta nel 2015, col 13° piano quinquennale, ma le cui radici affondano nella tradizione filosofica cinese e nella sua concezione dello Stato come garante dell’armonia sociale.

 

Molti in Occidente considerano il modello cinese una variante autoritaria del capitalismo.

 Invece è una sintesi originale, nuova, che utilizza strumenti tecnologici avanzati per realizzare principi di governance antichi e moderni, confuciani e socialisti.

Il sistema “Quishi” è nato nel 2017 come progetto sperimentale poi concretizzato in un’architettura a più livelli.

La sua versione attuale opera su una scala triennale e incorpora modelli di sviluppo tecnologico, cambiamenti demografici e scenari geopolitici. “Qiushi” monitora in tempo reale oltre 600.000 variabili economiche e può simulare l’impatto di politiche alternative con un margine di errore inferiore al 3%.

 

“Qiushi” non pretende di prevedere perfettamente il futuro, ma di creare un ciclo di feedback continuo tra previsione e realtà che gli consente di affinare costantemente i modelli e si estende fino alle singole fabbriche.

 Nella provincia di Jiangsu, la “Suzhou Industrial Park” ha implementato nodi “Qiushi” in 217 stabilimenti.

Dal ’21 anche le piccole e medie imprese private possono connettersi a un “Qiushi” semplificato, che ne nutre oggi 78 mila con previsioni di mercato, analisi della catena di approvvigionamento e raccomandazioni personalizzate.

 

Un sistema così potente solleva ovvi interrogativi sulla sua governance. Chi decide quali obiettivi deve raggiungere “Qiushi”?

Come vengono bilanciati crescita economica, sostenibilità ambientale, stabilità sociale e altri valori potenzialmente in conflitto?

Per affrontare queste questioni, nel 2020 è stato istituito il “Consiglio di Supervisione Algoritmica”, con economisti, scienziati, rappresentanti delle imprese e funzionari governativi.

 Il Consiglio definisce i parametri principali del sistema e rivede periodicamente i suoi output per garantire che siano allineati con gli obiettivi del piano quinquennale nazionale.

 La “versione 5.0 di Qiushi”, prevista per il 2026, ingloberà modelli in grado di simulare interi sistemi economici alternativi.

 

La rivoluzione è particolarmente evidente nel settore energetico.

La “State Grid Corporation of China”, la più grande azienda elettrica del mondo, usa un sistema “Energy Brain” che dirige la produzione e la distribuzione di energia in tutto il Paese.

 E, usando dati provenienti da milioni di sensori e previsioni meteo avanzate, ottimizza in tempo reale il mix energetico tra fonti rinnovabili e tradizionali.

 

La rivoluzione s’estende alle campagne:

processando dati satellitari, analisi del suolo e previsioni meteo, l’app del ministero dell’Agricoltura fornisce consigli individuali a oltre 120 milioni di agricoltori contribuendo a un aumento di produttività del 18% tra 2020 e 2023 e alla riduzione dell’uso di fertilizzanti chimici del 24%.

 

Nel settore manifatturiero del “Guangdong” il “programma Made in China 2025” ha trasformato fabbriche tradizionali in “smart fattorie” totalmente integrate.

 In alcune che ho visitato, robot e sistemi automatizzati hanno sostituito dal 2018 oltre l’80% della forza lavoro umana.

 Ma, a dispetto dei timori di disoccupazione tecnologica massiccia, la Cina ha mantenuto un tasso di disoccupazione stabile, intorno al 4,5%. Come è stato possibile?

Con una “transizione controllata” che combina riqualificazione professionale e incentivi alla nascita di nuove industrie nel quadro di una pianificazione strategica a lungo termine.

 

Nel 2018 l’IA nazionale ha iniziato a prevedere quali settori e competenze sarebbero divenuti obsoleti nei successivi 10 anni. Ciò ha permesso di pianificare in anticipo, creando programmi di formazione mirati e indirizzando investimenti su settori emergenti ad alto potenziale occupazionale.

Dal 2020 oltre 28 milioni di lavoratori hanno beneficiato di programmi di riqualificazione professionale finanziati dallo Stato.

Settori come assistenza agli anziani, produzione culturale, economia verde e servizi digitali hanno assorbito gran parte della forza lavoro liberata dall’automazione manifatturiera.

 

Come la proprietà dei mezzi di produzione industriali ha plasmato la politica e l’economia del XX secolo, così la proprietà dei mezzi di produzione algoritmici plasmerà le società del futuro.

 L’Intelligenza artificiale è una risorsa sconvolgente, che produce beni e servizi, ma che modella anche la nostra percezione del mondo, la nostra immagine del futuro e le nostre decisioni conseguenti.

 

La sua presenza arriva a toccare il cuore stesso del sistema capitalista, che consiste negli “spiriti animali” di Keynes, cioè la forza non razionale che guida le decisioni di investimento.

 Secondo Keynes, quando gli imprenditori devono prendere decisioni in un futuro impossibile da prevedere, si affidano non solo a calcoli logici ma a un “impulso spontaneo all’azione” – uno slancio emotivo, un ottimismo innato che li spinge ad agire nonostante l’incertezza.

Ma cosa accade quando l’IA avanzata, “Quishi”, entra in questo campo?

L’IA è in grado di ridurre drasticamente l’incertezza, fornendo previsioni razionali dove prima regnavano l’azzardo e la fortuna, soppiantando gli spiriti animali e assestando il colpo di grazia all’accumulazione “umana” del capitale.

 

L’IA non si limita a riempire il vuoto di razionalità che fonda il capitalismo, ma diventa essa stessa il decisore primario.

 Sono i sistemi algoritmici che determinano le allocazioni di capitale, calcolando i valori attesi e ottimizzando portafogli di investimento.

Già oggi, oltre il 70% delle transazioni nei mercati finanziari globali avvengono attraverso algoritmi di trading automatizzato.

 

È in corso un trasferimento progressivo dell’autorità decisionale dagli umani agli algoritmi.

In numerose industrie, cinesi e non, i modelli predittivi non sono più strumenti per manager in carne e ossa, ma decisori quasi autonomi che operano con supervisione umana limitata.

 

Un esempio emblematico di questa trasformazione è il “China Investment Corporation” (Cic), il fondo sovrano che gestisce parte delle immense riserve valutarie cinesi (3 trilioni di dollari).

 Dal 2021, il “Cic “utilizza un” sistema IA” denominato “Strategic Allocator”; per amministrare i suoi investimenti di lungo termine.

 

Ma attenzione alle conseguenze più a lungo raggio della rivoluzione tecnologica in corso in Cina.

 Se la pianificazione algoritmica può allocare capitale in modo più efficiente degli imprenditori umani, minimizzando sprechi, sovrapproduzione e crisi cicliche, quale diventa la giustificazione per l’appropriazione privata dei profitti?

 La teoria economica ha giustificato il profitto come ricompensa all’imprenditore per l’assunzione di rischio in condizioni di incertezza.

 

Se questo rischio viene assunto da “Quishi”, che è proprietà dello Stato, che cosa se ne fa la Cina del capitalismo e dei suoi imprenditori, dopo avere sostituito, per giunta, il mercato con il piano nella parte strategica dell’economia?

È quanto teme “Jack Ma,” il più noto dei grandi capitalisti cinesi, quando dichiara che il futuro della Cina non sta nell’impresa privata.

Cioè nel capitalismo.

Contro i blocchi tecnologici Usa la Cina manda in campo mister “Huawei”.

Cina/Usa.

 Rara intervista del “Quotidiano del Popolo” a un grande manager.

Che assicura: quei software che gli americani ci negano non sono poi così fondamentali.

(Lorenzo Lamperti- 11/06/2025).

 

TOKYO.

Chip e Huawei.

Sono le due parole chiave intorno alle quali è nata la guerra commerciale tecnologica tra Stati uniti e Cina.

 Le restrizioni alle catene di approvvigionamento più avanzate di semiconduttori e la “fatwa contro il colosso tech di Shenzhen” sono due passaggi cruciali dei rapporti tra le due grandi potenze, forse senza ritorno.

Sono entrambi avvenuti durante il primo mandato di Donald Trump, continuano a essere il cuore dei complessi colloqui in corso tra i due governi, i cui rappresentanti si sono parlati anche ieri a Londra per il secondo round negoziale dopo quello del mese scorso di Ginevra.

 

Al di là dell’esito, la Cina mira a una revoca totale delle restrizioni americane sulla vendita di software per la produzione di chip.

Gli Stati uniti puntano invece a una rimozione definitiva dei controlli aggiuntivi cinesi sull’export di terre rare.

Al di là delle reciproche rassicurazioni, si tratta però di due leve negoziali di cui nessuno dei due può o vuole fare a meno.

Anche perché sono in realtà percepite quasi come armi definitive, da provare a disinnescare.

 

In che modo?

 Rafforzando la produzione autoctona per potere ridurre la dipendenza dal rivale.

Non è certo un caso che, proprio ieri, il “Quotidiano del popolo “avesse in prima pagina un’intervista a “Ren Zhengfei”, fondatore di Huawei.

L’organo ufficiale del Partito comunista si concentra solitamente sull’agenda del “presidente Xi Jinping” o dei suoi alti funzionari.

Seppure i manager delle grandi aziende, soprattutto tecnologiche, vengano spesso citati, è raro trovare un’intervista così corposa a un amministratore delegato con tale visibilità.

 Segnale che l’operazione è ritenuta strategica a livello politico e narrativo.

Nell’intervista, “Ren” ammette che sui chip la Cina è ancora in ritardo di una generazione rispetto agli Stati uniti.

Ma, allo stesso tempo, prova a sminuire l’impatto del blocco trumpiano: “Il software non è qualcosa che può strangolarci, è fatto di simboli matematici e codici costruiti a partire da operatori e algoritmi all’avanguardia; non ci sono cavi da bloccare.

La difficoltà sta nella nostra istruzione e formazione, nella costruzione del bacino di talenti”.

 

“Ren” insiste molto su questo punto, gli investimenti necessari nella ricerca, soprattutto quella di base.

Un’indicazione che fa eco alle direttive di “Xi” e che sembra rivolta soprattutto alle aziende private, ma anche al governo chiamato a sostenerne gli sforzi.

 Il messaggio principale è però quello per gli Usa:

“Non c’è bisogno di preoccuparsi per il problema dei chip.

Usando metodi come la sovrapposizione e il clustering, i risultati di calcolo sono equivalenti al livello più avanzato.

Per quanto riguarda il software, in futuro ci saranno migliaia di software open source per soddisfare le esigenze dell’intera società”, sostiene” Ren”, che come il suo governo è interessato a presentare come “futili” i tentativi americani di bloccare l’ascesa tecnologica cinese.

L’intervista rende definitivamente Huawei un simbolo di quella che il Partito comunista definisce “resistenza contro il bullismo unilaterale” degli Usa.

 Lo era già diventata con l’arresto del 2018 in Canada di “Meng Wanzhou”, figlia di “Ren”.

Dopo anni in cui l’azienda ha lottato per la sopravvivenza, sotto il peso delle sanzioni e delle restrizioni, ora rilancia.

Negli ultimi cinque anni, ha acquistato oltre 60 compagnie operanti in diversi comparti della produzione di chip.

Anche le varie “Xiaomi”, “Alibaba” e “Tencent” stanno investendo cifre ingenti per tagliare il cordone tecnologico con l’America.

O, meglio, per riuscire a sopravvivere anche senza.

Nel frattempo, però, continuano a servire i chip della statunitense “Nvidia”, che sta per lanciare un nuovo modello dedicato solo al mercato cinese.

Trump permettendo.

 

 

 

Il Giorno Dopo.

Conoscenzealconfine.it – (16 Ottobre 2025) - Enrico Tomaselli – ci dice:

Concluso lo show più inconcludente e ridicolo degli ultimi decenni, con una ventina di leader mondiali accorsi a “Sharm e Sheikh” a fare da comparse nello spettacolo di Trump, ma senza i due veri protagonisti (Israele e la Resistenza palestinese), la questione all’ordine del giorno è ovviamente cosa accadrà a riflettori spenti.

 

Rispondere a questa domanda richiede preliminarmente capire quali sono le ragioni che hanno portato all’accordo.

 E innanzitutto va detto che, quanto c’è nel cosiddetto “piano dei 20 punti”, conta meno della carta su cui è scritto.

E di questo sono consapevoli tutti.

Lo stop al conflitto – la tregua, quindi, non certo la pace – si deve essenzialmente al fatto che Israele si è dimostrato incapace di conseguire gli obiettivi politici e militari, ma ha in compenso prodotto un’ondata di isolamento internazionale senza precedenti, tale da rimettere in discussione – forse per la prima volta in ottant’anni – la stessa esistenza dello stato ebraico;

 un’ondata che si è risentita particolarmente negli Stati Uniti, andando a toccare anche la base elettorale di Trump – che già non gode di un grande consenso nel paese.

Dunque la tregua risponde alla necessità statunitense (e israeliana) di non proseguire su una strada rivelatasi infruttuosa.

 

Dal punto di vista della “Resistenza”, invece, la scelta di rispondere positivamente al “piano” nasce fondamentalmente da alcune considerazioni strategiche.

Innanzitutto, era chiaro che la questione dei prigionieri israeliani aveva perso buona parte della sua efficacia come leva sul governo di Tel Aviv, restando però come problema politico e logistico per la Resistenza stessa.

Ugualmente, erano chiare sia le ragioni che spingevano l’amministrazione statunitense a volere uno stop, sia come questo avrebbe messo in difficoltà Netanyahu.

 E, ovviamente, la consapevolezza che la tregua avrebbe consentito non solo alla popolazione di Gaza di riprendere fiato, ma anche di riaffermare l’ineludibile centralità della “Resistenza”.

 

A questo punto, quindi, di là da possibili incidenti di percorso, è ragionevole prevedere che la tregua reggerà.

Non perché gli impegni di Israele e degli Stati Uniti siano di per sé affidabili – tutt’altro – ma perché questo è nel loro interesse, per le ragioni suddette.

Tra l’altro, in queste ore sta emergendo anche un altro aspetto della strategia israeliana (che dimostra, tra l’altro, che a questo evento si stessero preparando da tempo);

 l’idea era quella di utilizzare alcuni clan familiari di Gaza, da tempo dediti a traffici criminali e talvolta legati all’”Isis”, come una sorta di longa manus dell’”IDF”, che infatti in questi due anni li ha progressivamente aiutati e sostenuti, fornendo sia copertura militare che armi e mezzi.

 La presenza di queste bande avrebbe dovuto costituire un ostacolo per il controllo del territorio da parte della Resistenza.

 Che però ha ben chiaro il disegno, e sta provvedendo a ripulire la Striscia da questi clan con un’azione militare dura e rapida.

 

La questione più immediata, quindi, riguarderà la ricostruzione di un minimo di infrastruttura amministrativa, in grado di gestire la ripresa degli aiuti alimentari, la ricostruzione della sanità, l’assistenza agli orfani ed agli invalidi, nonché l’urgente questione della sistemazione della popolazione in vista dell’inverno.

 Questa fase non potrà essere gestita che da ciò che è rimasto della vecchia amministrazione pubblica di “Hamas”, col supporto delle “formazioni della Resistenza”.

 

Le due questioni successive – tempi e profondità del ritiro dell’IDF, e governance della Striscia – comunque preliminari a qualsiasi processo di ricostruzione, rappresentano quindi il nodo fondamentale.

 Ovviamente, Israele cercherà di ritardare il più possibile il ritiro, e di limitarlo.

Ma questo è legato alla capacità (politica, ovviamente) di allontanare dalle aree controllate la popolazione palestinese;

tendenzialmente, comunque, prima o poi si ritirerà nella prevista “fascia di sicurezza” lungo il confine – peraltro più simbolica che pratica, e che richiederà uno sforzo di presidio militare non sostenibile a lungo.

Quanto alla governance, è sin troppo evidente che questa sarà in una prima, non breve fase, assunta direttamente dalla Resistenza, per il semplice motivo che non è possibile calare dall’alto una struttura efficace – e che peraltro non esiste.

 

La composizione di questa, quindi, occuperà buona parte delle negoziazioni a venire, che – spenti appunto i riflettori dello show mediatico, e quindi l’interesse dei leader – finirà affidata ad un esercito di funzionari-sherpa, e si protrarrà per mesi – nella migliore delle ipotesi.

Cosa che, ovviamente, consentirà alla Resistenza di riconsolidare la sua centralità anche sul piano amministrativo.

 

Per quanto riguarda la ricostruzione, è abbastanza evidente che richiederà investimenti considerevoli, e quindi chi dovrà metterci i soldi – i paesi del Golfo in primis – vorrà vedere un minimo di stabilità.

 Non è quindi, purtroppo, prevedibile che parta a breve.

 Quantomeno, non in termini massivi, e relativamente alle questioni più onerose (impianti idrici ed elettrici, ad esempio).

È però presumibile che accada qualcosa di simile a quello che abbiamo visto in Libano, dove Hezbollah – che non ha mai smesso di premere sul governo affinché si assumesse l’onere di ricostruire – ha avviato un suo autonomo programma di ricostruzione, usando probabilmente anche fondi iraniani.

Qualcosa di simile potrebbe accadere anche a Gaza, dove semmai l’ostacolo maggiore potrebbe essere la difficoltà ed i tempi necessari a far arrivare i materiali da costruzione ed i macchinari necessari.

 

La tregua, quindi, ha buone possibilità di durare, almeno sul medio termine.

Ma ovviamente non è neanche lontanamente una pace, perché nemmeno affronta le questioni nodali che stanno alla base del conflitto. Il quale, ineluttabilmente, tornerà ad affacciarsi.

Al tempo stesso, è chiaro che non si tratta nemmeno di un mero ritorno allo status quo antecedente.

Nonostante l’ottimismo diffuso a piene mani da Trump prima durante e dopo lo “show stile Super Bowl in due tempi “– Knesset e Sharm – questi due anni hanno sì ridisegnato il Medio Oriente, ma non come credeva Netanyahu.

 

Oggi, la realtà è che Israele è più debole, più diviso al suo interno, più isolato internazionalmente, e più dipendente che mai dagli Stati Uniti.

 I quali a loro volta non stanno tanto bene.

Al contrario, l’Iran si è affermato come una potenza regionale, anche militare, perfettamente in grado di tenere testa ad Israele.

 E l’Asse della Resistenza, per quanto ovviamente abbia subito colpi significativi, esce invitto da due anni di guerra.

Tutti cominceranno a prepararsi per il prossimo round.

(Enrico Tomaselli).

(facebook.com/enrico.tomaselli/?locale=it_IT).

(ariannaeditrice.it/articoli/il-giorno-dopo).

 

 

 

 

IL GENOCIDIO È AMERICANO

da VOLERELALUNA.

 Officinadeisaperi.it - Piero Bevilacqua – (16-10-2025) – ci dice:

 

Il genocidio è americano.

Non lasciamoci ingannare.

 Quella ottenuta da Trump non è una pace, ma per il momento una tregua, un cessate il fuoco, comunque benvenuto per le martoriate popolazioni palestinesi.

Esso schiude spiragli per il futuro aperti a importanti possibilità su cui occorrerà ritornare.

 La rivolta di massa che ha investito i paesi europei, le divisioni interne allo stato di Israele, lo scandalo della posizione genocida americana di fronte al mondo, ha costretto Trump, o qualche suo influente consigliere, a intervenire con qualche soluzione che fermasse il massacro.

Il sollievo che proviamo in questo momento, le emozioni che ci suscitano le immagini dei disperati, che festeggiano la tregua tra le rovine delle proprie case, non ci deve, tuttavia, annebbiare la mente, né far desistere dai compiti dell’analisi storica.

 L’unica in grado di restituire la corretta lettura dei fatti.

 Anche se oggi bisogna pur sottolineare un fatto di grandissimo rilievo: la potenza politica delle mobilitazioni di massa.

Quello che non hanno fatto gli stati di quasi tutto il mondo, il Parlamento europeo, le inconsistenti élites di un continente alla deriva, lo hanno fatto milioni di cittadini, tantissimi ragazzi e ragazze che per giorni e giorni sono scesi nelle strade nostre città.

Ma il fine di questo articolo è un altro.

 

Oggi, in Italia, assistiamo a un evidente fenomeno di comportamento gattopardesco.

Di fronte all’abbagliante evidenza del genocidio compiuto a Gaza, i narratori delle magnifiche sorti e progressive dell’Occidente cominciano ad ammettere qualcosa, ma non per rivedere errori di valutazione, accennare a un’onesta autocritica. No.

Cedere su questa o quella questione particolare risponde a un intento politico preciso: mantenere intatta la visione egemonica che il genocidio manda in frantumi.

 Esponenti politici, giornalisti, intellettuali democratici (soprattutto quelli democratici) sono pronti a scaricare i sensi di colpa con cui per due anni hanno nascosto e giustificato i massacri, concedendo che, si, “Israele ha sbagliato, doveva fermarsi prima”, e qualcuno osa persino esporsi con “Netanyahu è un criminale”.

E altre concessioni di simile tenore.

Ammissioni più penose per superficialità delle menzogne precedenti.

 Se poi si fa cenno alle responsabilità americane naturalmente tutte vengono selettivamente concentrate sul violento e imprevedibile Trump, che aveva proposto di trasformare Gaza in un resort per miliardari come lui.

Sappiamo bene che il genocidio e il disegno della “soluzione finale” nei confronti della popolazione di Gaza e della Cisgiordania, non erano una solitaria follia del criminale Netanyahu e degli uomini del suo Governo, ma di tutto il fronte sionista delle classi dirigenti israeliane.

 E non solo, gran parte del gruppo dirigente israeliano ha condiviso quella scelta.

Basti ricordare che il 24 luglio di quest’anno la Knesset, il parlamento di Tel Aviv, con 71 voti favorevoli e 11 contrari ha approvato una mozione che impegna il Governo d’Israele a procedere all’annessione della Giudea e della Samaria, che nel linguaggio biblico corrispondono all’odierna Cisgiordania.

 

Ma fermarsi alle responsabilità di Israele di fronte a quanto è accaduto, anche soltanto in questi ultimi due anni, oggi non è ammissibile neppure nelle chiacchiere da bar.

In realtà abbiamo tutte le ragioni per affermare che senza l’ampio appoggio militare, politico, diplomatico e mediatico degli USA il genocidio non sarebbe stato neppure concepibile.

Cominciamo col ricordare gli ingenti capitali messi a disposizione di Israele: d

al 7 ottobre 2023 al 30 settembre 2024 gli Stati Uniti hanno speso ben 22,7 miliardi di dollari in sostegno militare a Israele (L. J. Bilmes, W.D. Hartung, S. Semler, United State on Israel’s Military Operations and Related U.S. Operations in the Region. October 7, 2023 – September 30, 2024, Watson Institute for International Public Affairs, 7 ottobre 2024).

E questo è solo un aspetto del supporto militare.

Trascuriamo per brevità le portaerei nel Mediterraneo, le migliaia di soldati insediati in area, le basi militari, ecc.

 

In questi due anni è stata l’amministrazione del democratico Biden a fornire all’esercito di Israele le bombe che hanno distrutto abitazioni, ospedali, scuole, università, annientato tende di rifugiati, bruciato campagne coltivate, ucciso anziani inermi, donne e bambini a migliaia al mese.

Un rapporto del Comitato Speciale delle Nazioni Unite sulle pratiche israeliane nei territori occupati, presentato all’Assemblea Generale il 18 novembre 2024, ricordava che nel solo mese di febbraio le forze israeliane avevano utilizzato, nella striscia di Gaza, più di 25.000 tonnellate di esplosivo:

 l’equivalente di due bombe nucleari, vale a dire circa il doppio della potenza distruttiva della bomba sganciata su Hiroshima.

Erano bombe spedite costantemente dagli USA, che evidentemente condividevano, con Netanyahu, il progetto della “soluzione finale” della questione palestinese.

 Qualcuno ricorda quante volte, durante il 2024, Joe Biden annunciava come prossimo un cessate il fuoco?

 Menzogne suggerite dagli esperti della comunicazione.

Dovevano consentire a Israele di continuare il “lavoro sporco” (come si è espresso con eleganza quel grande statista tedesco) contro i palestinesi, ingannando l’opinione pubblica americana e offrendo ai giornalisti occidentali l’immagine di una falsa neutralità di mediatori degli USA su cui poggiare il proprio pacchetto di menzogne.

Biden sotto banco inviava tonnellate di bombe, in pubblico annunciava imminenti accordi di pacificazione che non arrivavano mai.

 

E qui sfioro una questione capitale.

 Il sostegno mediatico che gli USA forniscono alle classi dirigenti occidentali per ottenere consenso, manipolare la propria opinione pubblica, mascherare anche le operazioni più criminali, è uno degli aspetti più ignorati e politicamente più rilevanti della storia contemporanea recente.

Sono gli Americani che decidono (e convincono larga parte del mondo) quali formazioni sono da considerare terroriste, quali stati sono “Stati canaglia”, quali sono le forze del bene e quelle del male.

Essi forniscono il materiale informativo e l’indirizzo ideologico al fine di consentire alla stampa vassalla la possibilità di impastare il nobile racconto occidentale.

 E alla fine realizzare di tale compito lavorano non soltanto con le loro potenti agenzie di stampa, come Associated Press e l’Agenzia Reuters (senza considerare l’influenza dei colossi mediatici), ma anche, e in maniera più mirata, con decine di migliaia di esperti di comunicazioni di massa al servizio del Pentagono.

Gruppi di creatori di notizie che confezionano le narrazioni destinate alle redazioni dei giornali.

 È grazie a questa gigantesca opera sotterranea, che l’oppressione quotidiana, l’apartheid conclamato, l’imprigionamento di fatto di milioni di palestinesi a Gaza, un oltraggio all’umanità che dura decenni, è stato sapientemente cancellato agli occhi dell’opinione pubblica mondiale.

 (Sul ruolo della stampa oggi, P. Bevilacqua, Stampa di guerra, Historia Magistra, 2023, n. 43, ma la pubblicazione è del 2024)

 

Ma c’è un sostegno storico più ampio degli USA a Israele, che ha trovato il suo culmine dopo il 7 ottobre 2023, e che colloca l’iniziativa americana entro una prospettiva più vasta.

 Washington ha cominciato a finanziare decisamente Israele dopo la guerra dei sei giorni del 1967.

Le capacità militari dimostrate dall’esercito di Tel Aviv in quel conflitto hanno convinto gli americani a farne il proprio avamposto strategico in Medio Oriente.

Con gli anni, poi, le potenti lobby ebraiche USA, com’è largamente noto, hanno finito col condizionare il sistema elettorale americano, legando così in maniera sistemica lo Stato di Tel Aviv al suo protettore.

Israele, spesso va oltre le indicazioni USA, vassallo irrequieto, e impetuoso.

Alcuni studiosi – in una ricerca ingiustamente trascurata – hanno addirittura messo in evidenza come in fatto di tecniche militari gli israeliani hanno talora fornito insegnamenti all’esercito americano (E. Bartolomei, D. Carminati, A. Tradardi, Gaza e l’industria israeliana della violenza, DeriveApprodi, 2015).

Tuttavia Israele resta il braccio armato della politica estera dell’impero americano in quella importante regione del mondo.

 Gli USA non si limitano a mandare armi, ma hanno bloccato dal 1948 ben 45 volte le 94 risoluzioni dell’ONU che sanzionavano le violenze e le infrazioni di Israele (tutte lodevolmente pubblicate in appendice a J. Baud, Operazione Diluvio Al-Aqsa. La sconfitta del vincitore, Max Milo, 2024).

Tutti i ferventi difensori dell’ordine internazionale si ricordano della sua esistenza solo per la Russia che ha invaso l’Ucraina e dimenticano l’essenziale.

Vale a dire che l’ordine internazionale è stato sistematicamente violato per 80 anni da Israele, con la copertura degli USA, i quali hanno finito con l’infliggere danni irreparabili al prestigio e alla credibilità dell’ONU.

Con la copertura politica della potenza americana, Israele, soprattutto dopo la guerra del 1967, ha potuto compiere tutta la propria operazione di espropriazione delle terre palestinesi, la politica di apartheid nei territori occupati, i massacri a Gaza seguiti alle varie intifade, le occupazioni illegali in Cisgiordania, i bombardamenti in Libano e in Siria, insomma tutta l’opera che precede e accompagna il genocidio di questi ultimi due anni.

 

Infine un’ultima considerazione.

 Chi ha a cuore le sorti del popolo palestinese spesso lamenta l’indifferenza, se non l’ostilità, di gran parte degli Stati arabi nei suoi confronti.

Ma di quanta corruzione in fiumi di dollari, di quante minacce militari subite si nutre da decenni questa indifferenza?

 Che cosa ne sappiamo noi delle operazioni segrete delle agenzie USA presso le élites politiche di questi paesi?

La storia segreta della politica estera americana si può conoscere solo dopo decenni, quando vengono desecretate le carte d’archivio e il castello di menzogne con cui è stata ingannata l’opinione pubblica mondiale viene alla luce.

Spesso, bisogna dire, per merito di storici e giornalisti americani.

 Ma davvero i governi del Qatar, del Libano, della pur debole Giordania, dell’Egitto, della Turchia, della stessa Arabia Saudita, con le loro opinioni pubbliche ferocemente antisraeliane, sarebbero rimaste inerti di fronte a tanto massacro senza la presenza militare USA, le sue basi militari, le sue portaerei, la sua minaccia di devastanti bombardamenti?

 Forse che le élites di quegli stati non ricordano i bombardamenti in Iraq, Libia, Siria, e ultimamente sull’Iran?

 

Dunque il genocidio a Gaza è interamente parte del progetto di dominio unipolare dell’Impero americano.

E i governi europei che nel genocidio hanno fatto la loro parte, soprattutto Germania e Italia (E. Traverso, Gaza davanti alla storia, Laterza, 2024), oggi vedono macchiato dal disonore un mito che dura da 80 anni, pilastro egemonico della loro narrazione:

quello dello Stato democratico più antico del mondo, che esporta la democrazia presso gli stati autocratici.

Oggi quella democrazia appare per quello che è da decenni, una plutocrazia aperta agli esiti più avventurosi, come mostra la presidenza Trump.

È evidente dunque che le élites europee si trovano intrappolate nelle menzogne con cui hanno cercato di mascherare la propria subalternità al Grande Fratello e ora cercano di fronteggiare un duplice scacco:

la sconfitta nella guerra in Ucraina, con cui si voleva far crollare la Russia, e il fallimento del progetto genocida a Gaza, compresa la liquidazione dell’Iran.

 Perciò le loro posizioni pubbliche oscillano oggi penosamente tra il ridicolo e il grottesco.

Come fanno a schierarsi con gli USA, mentre il loro governo si è trasformato in nemico, agente di una guerra economica e commerciale senza precedenti contro l’Europa?

 E infatti non possiamo non porci la grande domanda che riguarda il nostro immediato futuro:

quale grave e irreversibile delegittimazione subiranno le classi dirigenti del nostro continente, che continuano a indicare nella Russia il nemico alle porte, mentre l’America tenta di arginare il suo declino saccheggiando il nostro patrimonio industriale e imponendoci esborsi finanziari rovinosi?

 

 

 

 

L’EROSIONE DELLA DEMOCRAZIA

NEL SEGNO DEL TECNOFASCISMO

da IL FATTO.

Officinadeisaperi.it – Donatella DI Cesare – (17 ottobre 2025) – ci dice:

 

 

Pubblichiamo un estratto del libro “Tecno fascismo” di Donatella Di Cesare.

L’ erosione della democrazia nel segno del tecno fascismo.

L’erosione della democrazia non fa più notizia e nessuna maschera esterna potrebbe ormai occultare, o anche solo dissimulare, il processo in corso da tempo.

 C’è chi allude a un ultimo atto, quasi fosse inevitabile prenderne congedo, e chi avanza invece l’esigenza di rafforzare l’impalcatura, il fondamento interno (regole e procedure) e la corazza esterna (attrezzature militari).

Ma la democrazia non è un regime, non è basata su un pilastro stabile. Proprio la sua flessibilità e la sua apertura sono invece baluardi contro ogni violenza che, dentro come fuori, potrebbe svuotarla ed esautorarla. (…)

 

In che modo avviene l’erosione della democrazia?

Due sono le tendenze, diverse ma complementari, che si possono osservare con chiarezza già da tempo e che oggi emergono più chiaramente.

 La prima è la tendenza tecnocratica, che si traduce nella completa subordinazione all’economia di una politica ridotta ad anonima governance amministrativa, che fa il gioco di grandi imprese, industria militare, banche e capitale finanziario.

 La seconda è la tendenza etnocratica che si realizza in un esercizio familistico del potere e in una gestione dei popoli intesi come iper famiglie, comunità naturali chiuse, basate su nascita e discendenza, rese salde e stabili da legami di sangue e di suolo, capaci di essere ripari adeguati in un mondo sempre più caotico e inospitale.

Queste due tendenze, apparentemente antitetiche, si congiungono in un ibrido senza precedenti, una nuova forma di totalitarismo che insieme cancella la politica e decompone la democrazia. (…)

 

Narrata come il primo stadio del nuovo scontro di civiltà, la guerra russo-ucraina, scoppiata il 24 febbraio 2022, rappresenta un punto di svolta epocale.

Le ostilità in Medioriente, scoppiate il 7 ottobre 2023 e culminate nel conflitto fra Israele e Iran, confermano l’ingresso in un’epoca inedita e sconosciuta.

Non possono dunque essere considerate come meri episodi ulteriori della “terza guerra mondiale a pezzi” per via del risvolto politico: l’emergere, a cento anni dall’avvento del fascismo, di una forma di totalitarismo che, a differenza di quello novecentesco, appare più insidioso e subdolo, più disperso e sfuggente.

Esiti non di uno scontro di civiltà, bensì di un incontro di utilità, i conflitti attuali sono quel detonatore in grado di far luce su nessi esplosivi. L’alleanza tra manager delle grandi aziende belliche, rappresentanti delle gerarchie militari e ceto politico non è che l’aspetto più subdolo di un capitalismo che coinvolge, consuma e devasta le democrazie spinte, per garantirsi benessere ed extraprofitto, a diventare principali azioniste del mercato di guerra.

A mo’ di sovrani assoluti del passato, ma disponendo di una concentrazione di mezzi tecnici e finanziari, nonché di armi nucleari devastanti, le élite occidentali decidono le guerre senza chiedere in alcun modo il consenso dei propri cittadini e calpestando, anzi, la loro aspirazione alla pace.

 

Negli ultimi decenni la globalizzazione neoliberale e la finanziarizzazione del capitale hanno delocalizzato i centri del potere reale sottraendoli alla portata dei cittadini e delle comunità storicamente costituite.

Si sono andate così formando reti transnazionali, sempre più sofisticate e fluide, che comandano senza alcun bisogno di apparati statuali e istituzionali.

È questa, anzi, la causa del tramonto, annunciato da tempo, e ormai irreversibile, dello Stato nazionale. (…)

La tendenza tecnocratica e quella etnocratica, apparentemente antitetiche, si combinano perfettamente in un inquietante processo.

Per indicare questa sospensione tecnica della democrazia, che si coniuga con un rilancio della sovranità in chiave etnica, si potrebbe parlare di tecno fascismo.

 

 

Meloni, altro che Palestina: la sua vera guerra è ai Pm.

“Gian Carlo Caselli - 16 Ottobre 2025).

 

Giorgia Meloni ha saputo abilmente costruirsi una parvenza di equilibrio e di misura.

 Ma sotto di essa – molti lo sostengono – si delineano pulsioni di oltranzismo ed estremismo, riconducibili alla cultura autoritaria del Movimento Sociale Italiano degli anni 70/80 guidato da Giorgio Almirante.

Una tesi che suscita qualche preoccupazione, nella misura in cui può covare la volontà di capovolgere regole e princìpi fondanti della democrazia repubblicana.

Ad esempio, mediante riforme come quelle del premierato e della separazione delle carriere fra Pm e giudici:

dirette, la prima a rafforzare il potere esecutivo senza adeguati bilanciamenti, la seconda a rendere meno indipendente e incisiva l’azione della magistratura.

 

La separazione delle carriere sembra diventata un’ossessione per la nostra premier, al punto da indurla a scambiare il Palazzo di Vetro dell’Onu con il cortile di Palazzo Chigi.

 All’Assemblea generale Onu del 25 settembre, infatti, Meloni ha svolto un duro intervento contro i giudici italiani “politicizzati” che interpretano le regole in modo ideologico e unidirezionale, calpestando il diritto invece di affermarlo e contrastando l’azione del governo.

 Un manifesto di pura politica nazionale fragorosamente lanciato in un consesso mondiale;

finalizzato anche al referendum che dovrà confermare o bocciare la riforma costituzionale della separazione delle carriere tra Pm e giudici.

L’idea di infilare questo tema in un contesto internazionale dedicato al drammatico problema della guerra e della pace nel mondo poteva venire in mente soltanto a uno statista con una smisurata fantasia creativa.

 Fortunato il paese che ce l’ha… O forse no?

 

 

 

 

La feroce guerra di Trump &Co. al “nemico interno.”

In cammino verso la guerra civile…

Pungolorosso.com – (Ott. 15, 2025) - Redazione – ci dice: 

 

Al termine della prima puntata di questa serie dedicata alla guerra di Trump e sgherri al “nemico interno”, scrivevamo:

“nella prossima ragioneremo sulle cause e le conseguenze di queste politiche che designano, nel declino storico della superpotenza statunitense, il cammino ad una nuova guerra civile.

 È su questa tendenza che ci concentriamo ora.

 Partiamo da due commenti di vecchie volpi comparsi su “La Stampa”, dove si affronta l’accelerazione autoritaria in corso ed il connesso rischio di una “guerra civile” assumendo piuttosto palesemente un’ottica di classe.

 Segue l’analisi di un articolo di “C. Hedges”, ricco di eloquenti testimonianze dalla pancia del movimento MAGA.

Infine, dopo aver ripreso un nostro contributo relativo ad intensità e qualità del conflitto negli U.S.A., cerchiamo di dimostrare la sciagurata razionalità della marcia autoritaria del governo Trump, la cui ragion d’essere risiede nei bisogni della “corporate America”.

 L’articolo si muove nel tempo sospeso e carico di avvenire che segue immediatamente il delitto Kirk.

 

1. In un suo recente commento (La Stampa, 12 set. 2025), “Alan Friedman” dà una lettura dell’attentato Kirk come evento polarizzante in un’atmosfera surriscaldata, e quindi come catalizzatore dello scontro politico e sociale.

Con la prospettiva dell’establishment democratico, insieme conservatrice e lungimirante, l’articolo dà il polso della situazione negli Stati Uniti in termini complessivi, politici.

 

“Friedman” vede un rischio per la “democrazia e la società civile” statunitensi, cioè per lo Stato e l’ordine sociale, ordine di classe, razzista e sessista.

 Teme lo scoppio di una “guerra civile”, un’esplosione della conflittualità (seppur “a bassa intensità e sporadica”, fatta di attentati, assassini politici, sparatorie).

L’innesco è ravvisato nell’azione della destra trumpiana, di cui Kirk era una figura-cardine.

 

È bene anzitutto dire di “Charlie Kirk”.

 Fin dal primo mandato Kirk apparteneva alla cerchia ristretta del presidente gangster dal ciuffo arancione:

 ospite fisso alla Casa Bianca, era insieme “cheerleader, guardiano e factotum politico”.

Procacciava dollari e consensi, specie tra i giovani;

garantiva a Trump “un canale di energia giovanile”.

“Turning Point USA”, la sua macchina della propaganda, diviene rapidamente un impero, passando da 4 a 92 milioni di entrate tra il 2016 e il 2023.

 

In “Fiesta” di” Hemingway” un personaggio dice di aver fatto bancarotta “in due modi. Poco alla volta e all’improvviso”.

 La vicenda statunitense avrebbe assunto tali proporzioni da poter precipitare, facendo un salto di qualità.

 

Kirk era tra gli artefici dell’azione violenta ed improntata alla paura condotta dalla destra trumpiana.

Fu un fautore del tentativo insurrezionale del 6 gennaio 2021, significativo dell’istinto eversivo della nuova destra (Kirk rivendicava di aver organizzato “più di 80 pullman di patrioti diretti a Washington per combattere per questo presidente”).

Soprattutto, sparse a piene mani veleno razzista e sessista.

Secondo Kirk, “gli afro-americani stavano meglio sotto la schiavitù”.

È una legittimazione del potere razzista e dello sfruttamento differenziale, cioè bestiale, delle comunità afroamericane ed immigrate – politica funzionale alla divisione interna e dunque alla spremitura della working class tutta, per fare l’Amerika capitalistica great again.

Kirk, la destra MAGA, come espressione estrema, scoperta, del razzismo di Stato.

Con altrettanta violenza Kirk propugnava la sottomissione della donna.

“Ad un forum pubblico – ricorda Friedman – gli chiesero se la sua ipotetica figlia di dieci anni, violentata e rimasta incinta, potesse abortire:

È terribilmente crudo. Ma la riposta è no, il bambino verrebbe partorito.“

 Già il linguaggio è rivelatore, la forma passiva che esclude il soggetto reale, la madre: “verrebbe partorito”.

La donna è rappresentata e si vuole che sia un essere privo di ogni dignità:

un organismo utile alla procreazione e alla cura della prole e del ‘focolare’, oltre che – ancora a proposito di sfruttamento differenziale – una lavoratrice vulnerabile e ricattabile, tanto più se si tratta di donne immigrate o afroamericane.

È il duplice giogo della riproduzione sociale e della produzione spinta di valore.

 

Le parole di Kirk – apostolo cristiano-nazionalista della “dottrina MAGA” con schiere di seguaci digitali, ed ora martire – esprimono la durezza dell’attacco sferrato dalla corporate America trumpiana alla massa della popolazione mediante in particolare le armi del razzismo e del sessismo.

Un simile, crescente livello di oppressione – “un’accelerazione reazionaria” già in corso (L. Celada, Il manifesto, 23 set. 2025), e che ora, a seguito dell’attentato, può ambire al salto di qualità – può d’altra parte suscitare una risposta conflittuale; questo il cruccio di Friedman.

Egli richiama un altro aspetto della retorica di Kirk da ricondurre alla situazione esplosiva della società statunitense.

Sollecitato circa le cataste di morti da armi da fuoco, Kirk rispose: “sfortunatamente è il prezzo che paghiamo per la libertà(“fredda constatazione [che] suona come un epitaffio”, nota Friedman).

Libertà che, con 500 milioni di gingilli in mano a 50 milioni di pistoleri (M. Bryant, direttore del “Gun Violence Archive,” La Stampa, 13 set. 2025), si traduce nella licenza di scannarsi a vicenda:

nella interminabile serie di manifestazioni sanguinose dello stato di avanzata disgregazione della società amerikana.

 E ciò va bene, ai repubblicani come ai democratici, finché si tratta di un suicidio collettivo al rallentatore, ma preoccupa se malessere e rabbia si aprono alla dimensione sociale e, sia pur embrionalmente, si politicizzano.

Per argomentare come l’omicidio-Kirk possa essere l'”evento polarizzante” che, incoraggiando altra violenza, ossia anzitutto un’escalation repressiva, darà la stura ad una “guerra civile”, “Friedman” addita la sequenza di attentati verificatisi a partire dalla primavera scorsa.

 

Giugno, Minneapolis.

L’assassinio della speaker democratica “M. Hortman e del marito”, e il ferimento di un senatore locale e della moglie, per mano di “V. Boelte”r – un fervente cristiano evangelico responsabile dei rassicuranti “Praetorian guard security services”, nonché tifoso dello Stato di Israele, il quale, come missionario a Gaza e in Cisgiordania durante la Seconda Intifada, aveva “cercato gli islamisti militanti per condividere il Vangelo e spiegare che la violenza non era la risposta” (Wired, 16 giugno 2025).

Giugno, Boulder (Colorado).

M. Soliman – cittadino egiziano fedele alla causa della rivoluzione stroncata da Al-Sisi con gran sollievo dell’Occidente democratico, e di recente precarissimamente “integratosi” negli Stati Uniti con la famiglia – al grido di “Palestina libera” si scaglia armato di un lanciafiamme artigianale contro un sit-in della locale comunità ebraica per la liberazione dei prigionieri israeliani.

La sua famiglia verrà presto deportata (CNN, 2 giu. 2025; ABC News, 2 luglio 2025).

Aprile, Pennsylvania.

 La residenza del governatore democratico “J. Shapiro” viene incendiata da “C. A. Balmer” – ex-riservista disoccupato, indebitato, con un matrimonio a pezzi, che pesta la moglie e i figli, è esacerbato dal caro-vita (“Can’t pay rent? Sell your fuckin’ organs! No more organs? Fuckin’ die then this is America be grateful for the opportunity you had.“), odia sia Biden che Trump, santifica la molotov (“Be the light you want to see in the world.“) (ABC News, 15 aprile 2025).

“Friedman” parla di guerra civile “sporadica”, “a bassa densità”.

In effetti, in questi eventi spicca la figura del “leone gunman (pistolero solitario) alla Taxi Driver, senza una realtà organizzata alle spalle, e va ammessa una componente di malessere interiore.

 D’altra parte, Friedman a ragione insiste sulla qualità generale del fenomeno quando precisa che “non sono atti isolati”.

Essi sembrano infatti esprimere l’acuto livello di abiezione, disperazione e agitazione della società statunitense – una società, inoltre, infetta dal virus della brutalità imperialista che ha esportato a piene mani.

Vi è un fermento diffuso che, in forma magari confusa, tende a politicizzarsi con radicalità.

 

Ne è esempio la vicenda di “T. Robinson”, l’attentatore di Kirk.

Un ragazzo “normale”, uno studente capace, scrivono i giornali.

Cresce sereno in una famiglia conservatrice tradizionale tra gite in Alaska e a Disney World.

Conduce un'”esistenza tranquilla” condita dall’uso di armi da fuoco:

il fucile ai tempi delle elementari, la prova con la “M2 Browning” da giovanotto.

Tranquillamente, da adolescente si frigge il cervello con l’ameno Hell divers, insieme realistico sparatutto e “fantasia di potere”, adatto a chi senta il bisogno di “far saltare tutto in aria” (Forum in Reddit, 17 set. 2025).

Si tiene alla larga dalla politica ufficiale e dal seggio elettorale.

Tuttavia, di recente diventa “irascibile, pronto alla discussione e assai motivato”; si era “radicalizzato politicamente”, spiegano i familiari.

Si è accesa una fiamma, che brucia articolando discorsi generali, politici, e trova un bersaglio ideale in Kirk (La Stampa, 13 set. 2025).

 

Se questa storia esprime probabilmente l’inesorabile discesa del ceto medio statunitense, è significativo che Friedman dia un taglio sociale, di classe, alla lettura della situazione.

Come visto, egli si sofferma infatti sulla politica aggressiva della destra trumpiana, mediante in particolare l’arma del razzismo, e lo fa perché la interpreta come la benzina gettata sul fuoco d’una sofferenza e di una rabbia che dunque – a ciò guarda l’establishment – sono quelle del proletariato, e anzitutto della sua componente afroamericana ed immigrata.

Con l’espressione “guerra civile”, Friedman sembra voglia intendere, al di sotto della sanguinosa sequenza degli attentati, la possibilità di un’esplosione di classe a fronte dell’attacco brutale e privo di mascherature “democratiche” sferrato dalla cricca del gangster dal ciuffo arancione.

Certo, scrive infatti, l’Ameria è intrisa della “cultura delle armi”, ma sarebbe errato cullarsi in una simile lettura dei recenti attentati, impolitica e rassicurante, perché “Trump ha strappato il cerotto del razzismo, ha ammiccato al suprematismo bianco con il compiacimento maligno di un complice”.

 

2. Al commento di Friedman fa eco un’analisi dello storico direttore dell’Economist, “B. Emmot,” il quale alza lo sguardo alla prospettiva politica di medio-termine (La Stampa, 13 set. 2025).

D’accordo con Friedman, Emmot considera le ripercussioni dell’attentato Kirk e paventa che, dati anche l’inclinazione yankee alla violenza e un arsenale civile imponente, Trump e soci vogliano enfatizzare la spaccatura politica, finendo con il mettere così a rischio la “stabilità della democrazia americana”, la tenuta dello Stato.

La previsione colpisce per la sua drammaticità e si riassume nelle parole “dittatura” e “guerra civile”, ossia, rispettivamente:

“la possibilità che il governo ricorra alla forza militare per assumere il controllo” e la “possibilità – solo accennata da Friedman – che la violenza politica si diffonda in una popolazione ben armata”, conducendo così ad un conflitto ‘ad alta densità’.

In un contesto di radicalizzazione e crescente disponibilità alla violenza politica (secondo un recente sondaggio, un quarto della popolazione è favorevole alla violenza politica, e lo è ben il 41% dell’elettorato trumpiano (Pew Research Center, 2024)), l'”istinto” del governo Trump di ricorrere alla forza per estendere il potere può alimentare una “spirale di violenza e l’intervento dello Stato” – così Emmot.

 

Sulla falsariga di Friedman, ma più apertamente, “Emmot” ravvisa la possibilità di un’esplosione dei conflitti sociali e politici e, malgrado il debole argomento dell'”istinto” dittatoriale di Donald, sembra ritenere una prospettiva realistica la torsione autoritaria dello Stato.

Friedman concludeva allusivamente il suo pezzo ricordando il cruento programma presidenziale per le celebrazioni della prossima festa dell’indipendenza:

un “cage fight UFC” collocato nel giardino della Casa Bianca, “con ottagono, laser, fuochi d’artificio e sangue nell’erba del South Lawn” – “metafora perversamente perfetta dell’America di Trump”.

 

“Emmot “svolge la metafora.

Nota come la destra trumpiana, Musk in testa, abbia ovviamente strumentalizzato lo shock prodotto dall’attentato-Kirk per denigrare la “sinistra radicale”, e lo stesso dicasi per le dichiarazioni seguite al recente attacco al “centro ICE” di Dallas.

Soprattutto, Emmot evidenzia come la tendenza ‘dittatoriale’ fosse già consolidata, soffermandosi sull’impiego discrezionale della Guardia Nazionale e dell’ICE (espansione dell’Immigration and Customs Enforcement Agency, istituita dopo l’11/9 per incarcerare all’insegna del puro arbitrio i ‘soggetti pericolosi’ e organizzare rimpatri forzati), cioè sul ricorso sistematico e politico alla forza in aree urbane amministrate dal Partito democratico; laddove quel che conta, oltre ai colpi bassi assestati ai democratici, è la normalizzazione di una gestione militare del dissenso e di una politica del terrore nei confronti delle comunità immigrate.

 

Emmot afferma che l'”espansione sistematica del ruolo dell’esercito negli Stati Uniti e dell’ICE negli interventi di ordine pubblico”, che rischia di fare un salto di qualità dopo l’attentato-Kirk ed il fatto di Dallas, potrà causare un deterioramento della “democrazia” e della “legalità” così rapido e profondo da far rimpiangere il pur cupo scenario di “violenza politica a bassa intensità” delineato da Friedman.

Trump, si rammarica Emmot, ha adottato una “forma tribale di politica”, facendosi cioè interprete della tendenza della corporate America a forzare il quadro liberal-democratico.

Il cruccio, per gli Emmot, è la possibile conseguenza, il rischio di “scatenare un tribalismo simile a sinistra”, o, in altre parole, una conflittualità che ignori le forme della mediazione democratico-istituzionale assumendo un profilo più autonomo e di classe.

 

Comunque, Emmot ritiene che gli Stati Uniti abbiano imboccato la via autoritaria, tendendo ogni giorno di più ad una gestione brutale del potere di classe.

Sicché, scrive, un evento come il delitto Kirk, od un altro analogo, potrà essere facilmente preso a pretesto per dichiarare l’emergenza nazionale, introdurre la legge marziale su ampia scala, perseguitare il dissenso sospendendo le libertà fondamentali, ed altre amenità, con un rinvio ad libitum delle elezioni.

Malgrado il suo commento abbia il significato di un attacco allarmistico alla destra trumpiana, Emmot sembra convinto di un simile scenario;

si interroga addirittura sul possibile ruolo dell’esercito nell’eventualità di una svolta reazionaria e stabilisce un confronto con la vicenda di “Bolsonaro”, sulla quale d’altronde è intervenuto Trump a gamba tesa deprecando la condanna del suo simile per tentato golpe.

 In Fiesta di Hemingway, ricorda Emmot, un personaggio dice di aver fatto bancarotta “in due modi. Poco alla volta e all’improvviso”.

Ovvero, la vicenda statunitense avrebbe assunto tali proporzioni da poter precipitare, facendo un salto di qualità.

 

3. “I martiri sacralizzano la violenza.

Vengono usati per rovesciare l’ordine morale. La depravazione diventa moralità.

Le atrocità eroismo. Il crimine giustizia. L’odio virtù. […]  La guerra è l’estetica finale.

Questo è ciò che sta arrivando.”

All’indomani del delitto-Kirk, celebrato come martire dalla destra MAGA, il commentatore radicale “C. Hedges” scrive un pezzo angosciato, privo della visione dei Friedman e degli Emmot, ma utile per toccare con mano l’accelerazione di quel che Hedges vede senz’altro come fascistizzazione del discorso politico statunitense.

 

L’alto papavero “Bannon” invita dalla sua “War Room” ad avere una “risoluzione ferrea” perché Kirk è una “vittima di guerra.

Siamo in guerra in questo paese”.

Gli fa eco Musk: “se non ci lasceranno in pace, allora la nostra scelta è combattere o morire”.

Il commentatore e autore “M. Walsh” dà un volto al nemico, le “forze democratiche provenienti dall’inferno”.

Il deputato “C. Higgins” stila un piano di guerra:

 minaccia di ricorrere al Congresso e alle piattaforme digitali per stanare chiunque abbia “sminuito [c.n.] l’assassinio di Charlie Kirk”, revocare quindi licenze commerciali e patenti di guida, inserire “aggressivamente” le attività dei traditori nella lista nera, cacciarli dalle scuole – in breve, “I’m basically going to cancel with extreme prejudice these evil, sick animals.” (Intendo eliminare senza mezzi termini questi animali malvagi, malati).

 Higgins onora così la pia opera di san Kirk, che aveva tra l’altro fondato la “Professor Watchlist” e la “School Board Watchlist” allo scopo di epurare i docenti della “sinistra radicale”.

 Infine il giovane e influente paperone” J. Lonsdale” – appassionato di “riparazione di industrie e governi dissestati” (sito personale Joelonsdale.com, consultato il 9 ott. 2025) – incolpa dell’omicidio Kirk l'”alleanza rosso-verde” dei “comunisti islamisti” che insidiano la “civiltà occidentale”.

 Anche qui un degno omaggio a Kirk, campione di islamofobia, promotore di campagne d’odio contro le popolazioni arabo-islamiche: “L’Islam è la spada che la sinistra sta usando per tagliare la gola all’America”, predicava il buon Charlie.

 

Le citazioni raccolte da “Hedges” sono importanti perché mostrano che il linguaggio bellicista e imperniato sulla disumanizzazione del nemico, che da un trentennio accompagna il fallimentare ma devastante rilancio dell’azione imperialista occidentale a guida U.S.A – dall’Iraq all’Afghanistan, fino all’inferno scatenato contro la resistenza palestinese – quel linguaggio è ora moneta corrente, ha finito con il dominare la politica interna statunitense.

Guerra è la parola, l’idea chiave.

Dalla guerra esterna alla guerra interna.

Sulla bocca di Kirk e adesso, possibilmente ancora di più, dei suoi seguaci.

Ma guerra a chi?

È importante capire il senso sociale, di classe, di questo linguaggio – ci sono due aspetti, già accennati:

 

Il primo riguarda la dimensione “strutturale” a cui va riferita l’ideologia mobilitante MAGA;

riguarda il razzismo ed il sessismo senza veli come strumenti di sfruttamento differenziale e divisione della classe lavoratrice, e dunque come perno dell’oppressione (delle parabole di Kirk va pure ricordata l’immagine dei “neri in agguato” pronti ad assalire il probo viso pallido “per divertimento”, o il giudizio secondo cui “Black Lives Matter “vuol “distruggere il tessuto della nostra società”, e riguardo al sessismo l’esaltazione di Trump come “gigantesco dito medio a tutti gli squittenti controllori di corridoio che hanno attaccato i giovani uomini solo per il fatto di esistere”).

Il secondo aspetto è l’attacco al processo di politicizzazione radicale dell’altra America, dell’America proletaria, e ciò senza farsi scrupolo alcuno per la violazione del diritto liberale, a cominciare dalla libertà di parola.

Questo è il senso, lo scopo della demonizzazione di ogni soggetto in odore di “sinistra radicale”:

soffocare nella culla ogni orizzonte attivizzante di emancipazione collettiva.

Ciò vale in particolare per la guerra senza quartiere dichiarata contro il “comunismo islamista”.

Nel mirino vi è la solidarietà diffusa e militante, ben viva negli U.S.A, con la causa della popolazione palestinese, avanguardia della resistenza delle masse arabo-islamiche all’imperialismo nel Medio-Oriente.

Quel che con crescente brutalità vogliono schiacciare è l’identificazione dell’altra America – identificazione di stomaco magari, ma a livello di massa – con la causa della Palestina come “patria degli oppressi”, ben al di là della questione nazionale.

Il che mostra, inoltre, il legame tra la guerra esterna, imperialista, genocidaria, condotta contro la resistenza palestinese da Israele, con il cruciale supporto di Stati Uniti e Unione europea, e la guerra interna dichiarata dai vari Kirk al movimento ProPal come catalizzatore di una pressione conflittuale – Kirk, a proposito, viene compianto da B. Gantz come un “voracious defender of Judeo-Christian values, America and the State of Israel“; del resto, malgrado qualche balletto, egli negava ogni realtà all’affamamento di Gaza e plaudiva alla repressione del movimento universitario delle acampadas, nonché alla deportazione dell’attivista Mahmoud Khalil (Al Jazeera, 11 set. 2025).

“Hedges” da una parte vede, come Friedman ed Emmot, la tempesta che arriva;

ha il polso della pancia MAGA, avverte una diffusa, messianica “esaltazione per l’imminente carneficina”.

Denuncia, citando il comico dell’Alt-Right S. Hyde, il rischio della svolta autoritaria.

Dopo l’omicidio Kirk, ha scritto Hyde rivolgendosi a Trump e taggando membri del governo ed appaltatori militari privati:

 “è ora di fare il tuo cazzo di lavoro e prendere il potere [c.n.] … se vuoi essere più di una nota a pié di pagina nel capitolo “Collasso americano” dei futuri libri di storia, ora o mai più”.

Hedges, d’altra parte, a differenza degli Emmot e dei Friedman, dà un’interpretazione riduttiva della tendenza fascistica amerikana, ché esclude la categoria e la realtà del conflitto – di classe, di “razza”, di genere.

Si concentra sul processo di medio-periodo di espropriazione causata dalla deindustrializzazione, con ben 30 milioni di operai gettati in strada; scrive della disperazione e della rabbia montanti, di una condizione di alienazione su cui attecchisce il pensiero magico – dimentica tuttavia che il pensiero magico viene instillato, fatto colare dall’alto, sembra ignorare l’esistenza di una politica organica di abbrutimento culturale. Hedges sembrano dire solo questi riguardo alle masse oppresse, vede solo questa folla di disgraziati in preda al fanatismo, inclini alla “celebrazione della violenza come un purgativo per il decadimento”.

Egli argomenta come il delitto-Kirk dia ora modo alla nuova destra di tradurre in realtà il “fascismo cristiano”, scagliando quella massa di manovra contro le minoranze, perché solo così si può intendere l’elenco delle vittime stilato da Hedges: “dissidenti, artisti, gay, intellettuali, i poveri, i vulnerabili, le persone di colore, quelle senza documenti”.

Ecco le “vittime sacrificali” destinate ad esser sgozzate da un’orda di bianchi diseredati e rabbiosi sull’altare della palingenesi morale, della riconquista della “gloria e prosperità perdute”.

 

 

La mobilitazione nazionalista e fascistica del proletariato bianco è una questione vera. Hedges, tuttavia, non vede affatto le classi sociali.

A differenza di un Emmot, sembra non capire che Trump, consapevole del crack della società statunitense, ha preso di mira la possibile mobilitazione, organizzazione e politicizzazione radicale a livello di massa, che conferirebbe alla temuta esplosione un profilo di classe – è questo, come visto, il versante della “guerra civile” che impensierisce l’intellighenzia democratica, spaventata dai contraccolpi conflittuali del carro armato trumpiano.

Di conseguenza, Hedges non dà una spiegazione della torsione autoritaria.

Scimmiotta, seppur criticamente, il tema ideologico del “rinnovamento morale”, del Make America Great Again.

Non vede che, in concreto, si tratta di una guerra sociale e politica preventiva volta a impedire brutalmente un salto qualitativo, in senso anticapitalistico, del conflitto sociale e politico.

Sicché la lettura di Hedges, oltre che essenzialmente errata, è politicamente suicida.

 Questa voce della democrazia radicale s’è fasciata la testa prima di essersela rotta, vede solo nero, non vede le contraddizioni, la conflittualità cioè, che è la ragion d’essere della ‘guerra interna’ scatenata da Trump;

né quindi dà alcuna indicazione strategica, organizzativa, che sarebbe invece necessaria poiché il conflitto sociale da sé non basta.

 

4. Le cupe previsioni circa l’accelerazione autoritaria hanno iniziato presto ad avverarsi.

Dopo nemmeno una settimana dall’omicidio Kirk, il “Guardian” documentava il lancio di una vasta campagna di persecuzione delle voci fuori dal coro, critiche o semplicemente scettiche nei confronti del martire MAGA (Holmes, 16 set. 2025).

È una caccia alle streghe.

Diffamazione, messa alla berlina ed un orwelliano invito alla denuncia dei dissenzienti ai datori di lavoro, con conseguenti licenziamenti (in un attimo il sito dedicato Expose Charlie’s Murders ha raccolto 63.000 delazioni).

In Florida, Oklahoma e Texas degli insegnanti rei di aver espresso pensieri ‘inappropriati’ sono andati incontro a procedimenti a dir poco inquisitori, e così diversi militari.

Ma, nota giustamente il “Guardia”n, l’obbiettivo di questa “draconiana repressione della libertà di parola” sono le organizzazioni e i movimenti di opposizione, definite da “S. Miller”, eminenza grigia dell’amministrazione Trump, una “vasta rete terroristica interna”:

“Con Dio testimone – promette solennemente Miller -, useremo ogni nostra risorsa a disposizione presso il Dipartimento di Giustizia, la sicurezza interna e in tutto il governo per identificare, interrompere, smantellare e distruggere queste reti, e rendere l’America di nuovo sicura per il popolo americano “.

 

Le cose nell’America di Trump sono andate da così a peggio nei giorni successivi.

La cerimonia funebre per C. Kirk, l’adunata dei vertici dell’esercito a Quantico, la tavola rotonda alla Casa Bianca centrata sulla repressione del movimento” Anti fa” sono altrettante tappe di un rapidissimo crescendo della guerra al ‘nemico interno’ (Il pungolo rosso, 11 ott. 2025).

Ma è bene tornare al tempo sospeso immediatamente successivo al delitto-Kirk per notare un ultimo aspetto, forse ovvio, ma cruciale.

In quei giorni “Radio 3 Mondo “osservava come, oltre alla stretta repressiva giustificata da questo evento-spartiacque – cioè la messa a tacere delle voci critiche, peraltro già avviata in grande stile con il taglio dei finanziamenti alle università -, vi sia l’accondiscendenza o comunque l’acquiescenza dei colossi della comunicazione, dalla “Disney” al “L.A. Times” di J. Bezos, passando per la “CNN”, per non dire – aggiungevano – del supporto della “Corporate America”.

Contro la rappresentazione del trumpismo come un bubbone pustoloso su di un corpo di per sé sano, bisogna aver presente, invece, che Donald Trump è la degna faccia escrementizia dell’America dei boss (Radio 3 Mondo, 19 set. 2025).

 

 

Per capire meglio quel che bolle in pentola per il prossimo futuro, è infine opportuno fare un ulteriore passo indietro e mettere meglio a fuoco le questioni del conflitto e dell’accelerazione autoritaria con un articolo uscito sul “Pungolo rosso” un istante prima dell’assassinio di Kirk (Il pungolo rosso, 10 set. 2025).

L’articolo dava conto della prosecuzione delle proteste a Washington DC e Chicago contro il dispiegamento della Guardia Nazionale, ricordando l’avvio delle contestazioni, specialmente in California, ancora a marzo scorso.

La mobilitazione, rivolta contro la guerra agli immigrati condotta da Trump mediante l’”ICE”, ha conosciuto un acuto a giugno, ma è poi rientrata, mentre è proseguita a tamburo battente la campagna governativa:

deportazioni di massa, famiglie smembrate, la creazione di un clima di paura finalizzato a ridurre la forza-lavoro immigrata ad una massa inerme di servi.

Quest’azione brutale – si notava anticipando ciò che “Friedman” e “Emmot” avrebbero detto tra le righe – determina “un ribollio nella società e nella classe lavoratrice americana che prepara nuove esplosioni [c.n.]”.

Ne darebbe parziale conferma appunto lo scoppio delle proteste a Washington DC e Chicago ad agosto.

 Parziale perché le pur consistenti masse scese in piazza erano organizzate dalle associazioni per i diritti civili, stavano sul binario legalitario, con il Partito Democratico a fare da vagone di testa.

D’altra parte, si osserva nell’articolo, già l’estate scorsa le pacifiche sfilate all’ombra delle associazioni in difesa della Costituzione e della democrazia hanno visto una rapida metamorfosi in termini di composizione e attitudine conflittuale; inoltre, gli episodi di contrasto attivo alle squadracce dell’ICE sembrano denotare un risveglio di coscienza proletaria.

[Esiste un video sulla giornata di ieri a Chicago – guerriglia urbana contro le squadracce].

L’establishment democratico vede aggirarsi questo spettro e ha buon gioco a rappresentare la politica interna di Trump come una follia.

La rottura del quadro liberal-democratico – sembra essere l’argomento – finirà col far tracimare la conflittualità, spingerla fuori dall’alveo istituzionale, e allora si salvi chi può.

Tale preoccupazione è realistica e genuina, ma vi è probabilmente dell’altro.

Trump potrebbe star scommettendo proprio sullo scoppio di ‘disordini’ per legittimare una svolta eversiva, dittatoriale, che annichilirebbe il polo democrat del potere;

se è piuttosto palese l’uso in questo senso politico del dispiegamento della Guardia Nazionale in Stati e metropoli democratiche, gesti come il manifesto che ritrae Trump nei panni del tenente-colonnello “Kilgore” in “Apocalypse Now” mentre recita “I love the smell of deportations” [Amo l’odore delle deportazioni] sembrano avere davvero il valore di una provocazione.

 L’elemento di fondo, ad ogni modo, è che a dispetto della polemica politica dei Friedman e degli Emmot l’accelerazione autoritaria ha una sua razionalità.

 La cricca trumpiana si fa interprete della necessità ineluttabile, in una prospettiva di sistema ben presente alla “Corporate America”, di comprimere e deteriorare all’estremo bisogni e condizioni di vita della massa della popolazione proletaria, cercando così di risalire la china di un declino inesorabile.

Ciò genera inevitabilmente, come dev’essere chiaro a Trump e al suo lugubre seguito, un’estensione ed una radicalizzazione dei conflitti sociali e politici;

sicché il trattamento brutale fin qui riservato alle popolazioni del Sud globale viene ora rivolto anche contro il “nemico interno”, in funzione preventiva, e in modo quanto mai aggressivo se la politicizzazione radicale può condurre alla solidarietà militante con le masse oppresse del Sud del mondo.

Del resto, in quest’epoca di crisi sistemica, la violenza statuale interna è in crescita ovunque, ed è limitante identificarla con il trumpismo.

Basti pensare al “decreto-sicurezza” firmato Meloni-Mattarella, o alla persecuzione del “movimento Palestine Action” da parte del governo laburista inglese, o ancora, tornando oltreoceano, alla violenta repressione delle acampadas ancora ai tempi di Genocide Joe.

Il trumpismo è un’interpretazione conseguente di una tendenza strutturale del capitalismo globale, in particolare di quello statunitense e occidentale.

 

 

 

La Cina spiegata all'Occidente.

Ariannaditrice.it - Pino Arlacchi – (12/10/2025) – ci dice:

 

La Cina spiegata all'Occidente.

Metto a disposizione dei miei lettori un testo tratto dal volume che ho appena pubblicato, e che tenta di spiegare le ragioni della rinascita della Cina come potenza mondiale non capitalistica ed alternativa all'impero americano che tramonta.

Il ritorno della Cina in cima ai destini della terra è stato definito il più grande evento del nostro tempo, ma non è facile da spiegare, a meno che non si voglia chiudere subito il discorso dichiarando scontata la supremazia millenaria della sua civiltà rispetto alle altre, e in particolare rispetto alla civiltà europea.

L’argomento in questo caso può essere che la Cina è così perché è sempre stata così. Il crollo dell’Ottocento e l’incorporazione subordinata della Cina nelle trafile del capitalismo occidentale fino al 1949 sono da considerare poco più di un blip. Un accidente storico lungo una vicenda plurisecolare di stabilità sistemica. Un semplice inciampo che tra cento anni sarà appena menzionato.

Se decidiamo di vedere le cose in questo modo, attraverso il filtro di un determinismo storico assoluto, non c’è molto di cui dibattere, non ci sono speciali indagini da condurre e non ci sono segreti da scoprire.

Seguendo questa linea di pensiero, tuttavia, occorre prendere per buona, senza coglierne l’acuminata dose di paradosso, la celebre risposta del ministro degli Esteri di Mao Tse-Tung, Chou EnLai, alla domanda di Henry Kissinger se la Rivoluzione francese fosse stata un bene per l’umanità: «È troppo presto per dirlo».

Se invece non ci accontentiamo della spiegazione che attribuisce sic et simpliciter alla superiorità della Cina come Stato e come civiltà la straordinaria continuità storica di questi ultimi, e se non

vogliamo aspettare cent’anni, la prima domanda che dobbiamo porci è se il governo della Cina post-1949 ha rappresentato o no una rottura completa con il sistema di governo del Celeste Impero e con le sue radici nella cultura e nella filosofia più antiche della Cina stessa. Da questo dilemma – non difficile da sciogliere, come vedremo nella prima sezione di questo studio – ne dipendono altri, molto più ardui. Eccone alcuni.

Da cosa deriva la capacità della Cina di superare il capitalismo proprio nel punto di maggiore vanto di quest’ultimo, cioè nello sviluppo delle forze produttive?

Deriva da un aggiornamento dell’idea di Adam Smith che la Cina era capace di seguire meglio dell’Europa il “cammino naturale dello sviluppo”? Oppure dalla sua singolare dotazione di quella forza vitale chiamata ‘asabiyya dal più grande sociologo di tutti i tempi, Ibn Khaldun, una forza che le ha consentito di rispondere alle minacce interne ed esterne rigenerandosi e diventando ogni volta più forte di prima?

O dall’azione di entrambe?

La Cina odierna è socialista, o è solo una versione più sofisticata del “capitalismo di Stato” già affermatosi nei paesi del socialismo reale del Novecento?

Il marxismo dei dirigenti del Partito Comunista Cinese si è incrociato con i classici confuciani, o entrambe queste culture sono rimaste come bandiera di un modo di pensare e di governare tanto suggestivo quanto, in fondo, obsoleto? Occorre davvero prendere sul serio, insomma, l’algoritmo politico del “socialismo con caratteristiche cinesi”?

La Cina di oggi è ancora l’entità aperta, cosmopolita, non-espansionista e non guerrafondaia dei tempi imperiali oppure è diventata una minaccia per l’ordine internazionale in quanto superpotenza sfidante, orientata ad assumere lo stesso profilo aggressivo e militarista della potenza dominante americana?

Se la Cina attuale è una replica della potenza americana, quanto è probabile un confronto militare tra le due?

Questo volume è un tentativo di rispondere in modo non evasivo a questi e ad altri quesiti. Uno sforzo che non nasce dalla insensata pretesa di pronunciare l’ultima parola su mega narrative sinologiche iniziate in Europa con Marco Polo e che hanno impegnato le menti di molti illustri studiosi nei secoli successivi.

Non nutro questa ambizione, anche se talvolta mi faccio accarezzare dall’idea di scrivere “il grande romanzo della Cina”, magari durante la prossima reincarnazione.

Nelle pagine che seguono proverò a mettere a fuoco le principali forze che hanno animato e animano la società cinese usando la cassetta degli attrezzi delle scienze sociali. La mia ambizione è quella di aiutare il lettore a orientarsi nella marea di approssimazioni, stereotipi e false narrative che circondano il tema della Cina in Occidente. E di fare ciò sintetizzando il meglio della letteratura scientifica sulla Cina.

 

I magnifici tre.

Il disegno di questo libro è relativamente semplice. Nei tre blocchi che lo compongono cerco di delineare i “tre segreti” che consentono di capire l’eccezionalità della vicenda cinese. Quella che molti chiamano “il miracolo cinese” riferendosi alla spettacolare resurrezione del paese dal 1978 in poi, con le riforme di Deng Xiaoping. Resurrezione iniziata in realtà, come vedremo, con la rivoluzione del 1949.

Non si tratta, in verità, di veri e propri segreti ma di mega fattori quasi sconosciuti al largo pubblico, e poco frequentati anche dai sinologi contemporanei. Fattori che sono anche risorse. Le risorse strategiche che hanno fatto della Cina ciò che è stata e ciò che è.

Il primo è il non-espansionismo della Cina, cioè il suo sinocentrismo universalista e pacifico, collegato a una profonda avversione alla violenza e alla guerra.

Il secondo è il suo singolare sistema di meritocrazia politica, il governo dei migliori, che la dirige da più di duemila anni. E il terzo è il suo sistema economico-politico fondamentalmente non capitalistico. Socialista.

Ritengo che questa triade sia la guida più sicura per capire la Cina post-rivoluzionaria.

La Cina di oggi, erede della Cina imperiale molto più di quanto si possa pensare.

Questi tre mega fattori sono le colonne su cui poggia l’attuale civiltà cinese.

Una civiltà molto diversa da quella europea nel suo ethos di fondo, nella sua visione del mondo e nel suo assetto istituzionale, ma simile a essa nella sua complessità e capacità di rinnovamento.

I tre mega fattori citati non agiscono separatamente ma si mescolano e rafforzano a vicenda.

Come vedremo nel corso della nostra esplorazione, la combinazione di un’arte del buon governo che rifugge l’uso della forza, praticata da una élite meritocratica convinta che il mercato sia uno strumento dello Stato, è passata indenne dall’attacco occidentale dell’Ottocento e dalla creazione della Repubblica cinese nei primi del Novecento.

Per poi essere fatta propria dalla rivoluzione socialista di metà secolo.

Il risultato – la Cina di oggi – è un manufatto sociologico complesso, dalle radici storiche profonde, che il governo di Pechino chiama “socialismo di mercato con caratteristiche cinesi”.

Ero diffidente verso questa definizione, che piaceva al mio maestro “Giovanni Arrighi “ma era liquidata come una massima propagandistica da molti osservatori e studiosi.

Ma credo siano i risultati dell’evoluzione della Cina lungo gli ultimi due decenni e in particolare le linee strategiche inaugurate da “Xi Jinping” – ad avere dato pieno potere euristico a questa espressione.

Discuteremo a lungo di questo apparente ossimoro del “socialismo di mercato”, ma per coglierne appieno il senso non bisogna dissociarlo dalle “caratteristiche cinesi”, cioè dalle sue radici nell’antica civiltà dell’Impero di Mezzo.

Una civiltà il cui profilo si è delineato cinquemila anni fa, e da tremila anni si è fissato in un sistema dotato di una resilienza straordinaria.

Il carattere centripeto e pacifico di questa civiltà – un cosmo che guarda a sé stesso e che si considera allo stesso tempo universale, privo perciò di una spinta espansiva di tipo sia territoriale che economico e militare – è l’aspetto forse più difficile da afferrare per chi fa parte di una civiltà dal carattere opposto, “estroverso”, centrifugo e guerresco come quella occidentale, abituata a vivere dal Cinquecento in poi sulle spalle altrui.

Vedremo come il grado di espansività e di bellicosità delle due civiltà sia connesso con i loro caratteri di fondo, forgiati dalla geografia e dalla storia quasi negli stessi anni: l’antichità greco-romana dell’Occidente coincide con l’epoca degli “Stati combattenti” della Cina e della fondazione dell’Impero unificato nel 221 a.C.

 È proprio in questa epoca che si sono affermate le principali coordinate filosofiche ed etiche delle due civiltà:

 Confucio, Mencio, Mozi e i legalisti sono vissuti nello stesso arco di tempo di Socrate, Platone e Aristotele.

Ma quale profonda differenza tra le due scuole, specialmente nella loro cosmologia, nella gestione della diversità etnica e culturale, nelle loro concezioni della guerra e dell’uso della violenza, nonché dell’arte di governo e dei diritti dei cittadini!

La questione dell’espansionismo della Cina è il punto più cruciale sotto il profilo dell’attualità politica internazionale, un campo dominato in Occidente da pregiudizi e distorsioni molto radicati.

Secoli di eurocentrismo, di razzismo e di colonialismo globale hanno costruito un muro che impedisce agli occidentali di vedere gli aspetti più salienti della civiltà cinese.

Crollata durante l’Illuminismo, questa barriera è risorta nel corso dell’Ottocento e del Novecento.

E oggi – a mano a mano che la Cina diventa più vicina spinta dal vigore della sua economia e dal suo crescente status di grande potenza – questo muro è diventato una muraglia sinofobica.

Gli ammalati di sinofobia sono numerosi.

Risparmio al lettore la lunga lista di titoli di volumi e di articoli sul pericolo giallo, sulla minaccia cinese, sulla invasione di merci fabbricate in Cina che agirebbero da avanguardie di conquista politica e da cavalli di Troia di un progetto di dominio mondiale.

Sparare a zero su Pechino è un vecchio sport, pronto a riemergere a ogni giro di boa della storia.

L’Occidente non può resistere alla tentazione di proiettare sulla Cina la propria psicologia aggressiva, formatasi lungo secoli di crociate, conquiste e pretese di dominare il mondo.

Per mezzo di questo libro spero di contribuire a contrastare l’industria della paura e dell’ignoranza che alimenta gran parte della narrativa sulla Cina diffusa oggi in Occidente.

La chiave per entrare nella mentalità della Cina e dei cinesi è la conoscenza delle istituzioni politiche originali che essi hanno creato nel corso dei millenni e dentro le quali vivono ancora oggi.

Istituzioni umane, piene perciò di difetti.

Ma istituzioni efficaci, sorrette da un larghissimo consenso perché hanno permesso al popolo cinese di raggiungere oggi, nell’arco di una sola generazione, traguardi impensabili, ottenuti usando risorse interne e non sfruttando, invadendo e occupando altri paesi.

Gli attuali successi della Cina all’estero sono di natura esclusivamente economica e non hanno niente a che fare con disegni di dominio regionali o globali.

Il paese non intende esportare le sue istituzioni politiche né condiziona investimenti e aiuti esteri alla sottoscrizione di alleanze politiche o militari contro ipotetici nemici.

 Il progetto “Belt and Road” è un ponte verso il resto del pianeta fondato su investimenti in opere di pubblica utilità e non sulla ricerca di profitti capitalistici.

La sua filosofia non è imperialista, ma di cooperazione e amicizia transnazionali.

La nozione che la forza del governo cinese poggi su solide basi proprie è la più dura da afferrare in Occidente perché non c’è un flusso di notizie affidabili su ciò che succede davvero in quel paese e su come la Cina si comporta nella scena internazionale.

Media e governi euroamericani riempiono il vuoto di informazioni attendibili alimentando angosce su una sorta di imperialismo cinese che mima quello praticato storicamente dall’Occidente contro la Cina.

Il fattore “meritocrazia politica” è quasi ignoto al pubblico occidentale perché si trova completamente al di fuori dei radar mediatici e del flusso di conoscenze sulla Cina.

Anche gli studiosi stranieri più indipendenti fanno raramente ricorso al concetto di meritocrazia per interpretare le dinamiche politiche cinesi e le strategie più rilevanti adottate da Pechino nel campo dell’economia e della finanza.

La riluttanza a trattare il tema dipende un po’ dal termine stesso di “meritocrazia politica”.

Esso incorpora una valutazione intrinsecamente positiva dell’oggetto, che in questo caso non è altro che il mostro sacro del Partito Comunista Cinese:

 una istituzione-chiave, poco conosciuta e poco studiata, circondata da un alone di riservatezza e di segreto che occorre superare per comprendere il funzionamento dello Stato, della società civile e della politica della Cina.

Quando parlo di meritocrazia mi riferisco non solo alla sua versione socialista incarnata dal PCC, ma a una forma di governo basata su un’istituzione denominata “sistema degli esami”, istituito formalmente dalla dinastia Sui (581-618 d.C.) sulla scorta di forme di selezione che esistevano già sotto gli Han (206 a.C. 220 d.C.) e pienamente operativo ancora oggi.

 Ogni dipendente dello Stato e quasi tutti i dirigenti pubblici di alto grado vengono selezionati in Cina tramite un concorso competitivo che inizia con prove scritte e orali.

L’operato di ciascun dirigente è sottoposto in seguito a regolari valutazioni con scadenze fisse e con criteri e procedure predeterminati.

Fin dalle sue origini il sistema soffre di alcuni vizi di fondo quali la corruzione, l’ossificazione e il rischio di perdita di legittimità.

Era così nella Cina imperiale ed è così oggi.

La differenza è che nel passato la meritocrazia era lo strumento di governo dell’imperatore, mentre oggi è il principio che struttura una leadership comunista che si dichiara al servizio del popolo.

In Occidente siamo abituati a considerare i partiti politici come delle associazioni di cittadini che si propongono di influenzare la gestione dei beni comuni.

L’amministrazione dello Stato è da noi una burocrazia indipendente, gelosa della sua autonomia perfino rispetto all’esecutivo cui obbedisce.

La pubblica amministrazione occidentale si vanta di dipendere solo dalle leggi, e alcune sue parti – come le banche centrali e la magistratura – sono indipendenti per legge dal potere legislativo ed esecutivo.

 Le più alte cariche dello Stato in Occidente vengono nominate dal presidente o dal primo ministro di ciascun paese, oppure da organi interni di autogoverno.

Non esistono in Cina né divisione dei poteri né Stato di diritto.

Il PCC in Cina coincide quasi con lo Stato, e rappresenta anche un segmento non indifferente della società civile.

Non vige in Cina alcuna forma di indipendenza della magistratura, che è espressione dell’esecutivo e del Partito.

Il presidente della Repubblica Popolare è anche segretario del Partito e capo delle forze armate.

 Il Politburo, il vertice supremo del Partito, indirizza e controlla strettamente l’operato del governo.

La singolarità del PCC è di essere nello stesso tempo Stato, Partito e società civile.

L’élite della società civile cinese governa lo Stato tramite il Partito Comunista, che non è un’associazione politica come le altre ma un gruppo sociale di quasi cento milioni di persone vagliate una per una attraverso metodi la cui selettività cresce man mano che si va verso l’alto.

Alla base il sistema è aperto a tutti, senza riguardo a privilegi di ricchezza e potere.

L’ascesa lungo i ranghi è fermamente meritocratica, con filtri e controlli periodici non di facciata.

 In teoria, chiunque può diventare presidente della Repubblica o segretario del PCC.

 In pratica, vige una prassi di cooptazione e di corsie privilegiate per gli eredi e i sodali dei massimi dirigenti.

La presenza del Partito è capillare, ubiqua.

 Il PCC è il sistema nervoso della Cina.

 Grazie alla sua componente civile, esso è sia software che hardware.

 È il Moderno principe di Antonio Gramsci, le cui riflessioni sono una buona guida per la comprensione del sistema politico cinese di ieri e di oggi.

Secondo Gramsci, il Moderno principe è un Partito di intellettuali organici che organizza il consenso della società, la “volontà collettiva” del popolo, tramite la gestione dei beni comuni.

 La stessa funzione svolta dai liberati, gli shi, il corpo dei dignitari-filosofi che ha governato la Cina imperiale per duemilacinquecento anni.

Pur avendo ospitato la più grande economia di mercato del mondo, la Cina non ha mai conosciuto, né nel suo passato remoto né oggi, il capitalismo.

La Cina può essere definita capitalista solo rinunciando a usare la preziosa distinzione tra la sfera del mercato, che è universale, da quel prodotto squisitamente occidentale che è il capitalismo.

Dobbiamo a “Braudel” la migliore definizione dei due separabili compagni.

Il mercato ha a che fare con il mondo rumoroso e inquieto degli scambi e dei luoghi di compravendita.

È popolato da piccoli felini, audaci, mobili e orientati al profitto. Confucio li chiamava “piccoli uomini” che dovevano essere lasciati in pace e se possibile favoriti, perché fonte di graditi profitti aggiuntivi a quelli dell’agricoltura.

Il capitalismo, secondo “Braudel”, può sembrare simile al mercato, ma in realtà è l’”anti mercato”, popolato dai grandi predatori che scorrazzano nella giungla da essi stessi creata, spesso invisibili e lontani dai luoghi di accumulo delle loro fortune.

“Adam Smith” è stato celebrato, senza leggere bene i suoi scritti, come l’alfiere del libero mercato e del capitalismo.

 Nelle sue opere principali Smith sostiene, invece, che il libero mercato deve essere uno strumento dello Stato, e cita proprio la Cina come esempio di uno sviluppo “naturale” del mercato portatore di stabilità e di ricchezza delle nazioni, in contrasto alla strada “innaturale” imboccata dagli Stati europei nelle mani dei capitalisti e dei banchieri dediti allo sfruttamento del commercio coloniale e delle guerre per la supremazia.

Il modello di sviluppo cinese è crollato assieme alla Cina imperiale a metà dell’Ottocento perché colpito nel suo tallone d’Achille della potenza militare.

 Il modello è risorto nel 1949 con la rivoluzione maoista ed è ridiventato con Deng Xiaoping un “socialismo di mercato con caratteristiche cinesi”.

Un sistema economico e politico che sopravanza per forza intrinseca, produttività e saldezza il capitalismo americano dominato dalla finanza parassitaria e pervenuto alla fase terminale della sua egemonia.

Questa narrativa è l’argomento della terza parte di questo volume, il terzo “segreto” della potenza della Cina odierna.

La parte conclusiva di questo studio è dedicata alle conseguenze della rinascita della Cina, ai suoi rapporti con gli Stati Uniti e con il sistema internazionale.

Tento qui di rispondere all’interrogativo sul possibile scontro armato tra le due massime potenze del pianeta e alla domanda sul ruolo della Cina nel nuovo ordine mondiale post-americano e post-occidentale che si va consolidando.

La mia risposta alla prima domanda è netta, e risulterà scontata, quasi ovvia, per chi si sia dato la pena di leggere anche poche pagine di questo volume.

Non credo alla “trappola di Tucidide”, cioè a una guerra tra Cina e Stati Uniti per la supremazia mondiale diventata inevitabile come quella tra Sparta e Atene del iv secolo prima di Cristo.

Gli ostacoli allo scontro nascono dal fatto che per fare la guerra bisogna essere in due, e dal fatto che il declino americano sta avvenendo in un contesto globale sfavorevole all’uso della forza militare.

Quanto al secondo interrogativo, cerco di mostrare nel capitolo finale come l’ascesa cinese sia tutta interna a un riequilibrio storico dei rapporti tra il Nord e il Sud del pianeta, e come la politica estera cinese sia coerente con il profilo più equo e più pacifico del nuovo ordine multipolare.

 

 

 

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