Cina e il suo potere finanziario del capitalismo di stato.
Cina e
il suo potere finanziario del capitalismo di stato.
Dagli
Usa alla Cina aumentano
i
ricchi e le disuguaglianze.
Francescosyloslabini.info
– (February 5, 2025) - Editorials Cina USA- Il Fatto Quotidiano – ci dicono:
Nel
suo discorso di commiato, Biden ha paventato la formazione di un’oligarchia
negli Stati Uniti, composta da super-ricchi, descrivendola come una minaccia
per la democrazia, i diritti fondamentali e le libertà individuali.
Tuttavia,
questa oligarchia non ha iniziato a formarsi con l’amministrazione Trump, ma si
è consolidata nel corso degli anni del dominio unipolare americano, dal 1991 a
oggi, con un’evidente accelerazione nell’ultimo decennio.
L’altra
faccia della medaglia, l’aumento delle disuguaglianze, non è un fenomeno
esclusivamente occidentale, ma ha interessato anche altre realtà globali,
inclusa la Cina.
Secondo
il rapporto Oxfam 2025, tra novembre 2023 e novembre 2024, la ricchezza
complessiva dei miliardari inclusi nella lista di Forbes è aumentata in termini
reali di 2.000 miliardi di dollari e il numero dei miliardari è cresciuto di
204 unità, con un ritmo di quasi 4 nuovi miliardari a settimana.
In
media, i miliardari hanno visto incrementare le loro fortune di 2 milioni di
dollari al giorno, ma i 10 miliardari più ricchi hanno registrato una crescita
media giornaliera di circa 100 milioni di dollari.
Elon
Musk, l’uomo più ricco al mondo, ha visto il suo patrimonio aumentare del 31%
in un anno, raggiungendo oltre 330 miliardi di dollari a novembre 2024.
Mark
Zuckerberg, con una ricchezza netta di 198,7 miliardi di dollari (4° posto
nella classifica mondiale dei miliardari) ha registrato il maggiore incremento
percentuale tra i primi dieci, con un sorprendente +69% su base annua.
Tra le
dieci persone più ricche del mondo, sette sono americani, uno francese e due
indiani.
Nel 2024, il numero di miliardari in Cina è
sceso a 814 rispetto ai 1.130 del 2022, mentre negli Stati Uniti è salito a 800
dai 716 del 2022.
In Cina, i super-ricchi sembrano avere un
impatto molto diverso sulla politica:
nonostante
un’economia di mercato dinamica, l’autorità politica mantiene una chiara
supremazia sul capitale, distinguendosi dal modello americano in cui gli
interessi economici delle élite dominano il panorama politico.
I
costi sociali ormai quarantennali della prevalenza di un sistema economico
basato su una accumulazione illimitata, un fisco che la favorisce e la
distruzione del lavoro organizzato sindacalmente sono alla base della
trasformazione delle democrazie liberali in oligarchie.
Questa concentrazione di potere ha dato luogo
a un modello in cui la politica, che dovrebbe rappresentare le istanze di
grande parte popolazione e non del solo 1% più ricco, è condizionata in maniera
sempre più forte dagli interessi dei multimiliardari.
Il diritto di voto, esercitato da una frazione
sempre decrescente dell’elettorato, è sì assicurato ma il controllo
dell’informazione e i costi della politica rappresentano le barriere
superabili, direttamente o no, solo dai super-ricchi.
Un
esempio emblematico sono le ultime elezioni americane, il cui costo ha superato
i 15 miliardi di dollari.
Le
disuguaglianze attuali sono talmente estreme che, secondo le stime, per
accumulare la ricchezza di uno dei 10 miliardari più ricchi al mondo non
basterebbe risparmiare 1.000 dollari al giorno sin dai tempi in cui i
ritrovamenti fossili attestano la presenza del genere Homo (315.000 anni fa).
L’ingiustizia
di queste disparità è ulteriormente evidenziata dal fatto che oltre un terzo
(36%) della ricchezza dei miliardari è ereditata, dimostrando come l’accumulo
di patrimoni straordinari non sia sempre il risultato di merito o innovazione,
ma spesso di privilegi trasmessi o frutto della rendita.
La
lotta alle disuguaglianze, a partire da una tassazione progressiva come lo fu
negli anni 70 prima che “la lotta di classe fosse vinta dai ricchi”, come disse
“Warren Buffett”, dovrebbe essere la priorità politica prodromica a costruire
una società in cui non solo si possa rimettere in moto il famoso ascensore
sociale ripristinando le fondamenta di un sistema realmente democratico e
partecipativo.
Il
falso mito della Cina capitalista e
gli
occhi strabici dell’Occidente.
Marxismo-oggi.it
– Il Fatto quotidiano – (30-05-2025) - Pino Arlacchi – ci dice:
Ed
eccomi qui, di nuovo in Cina per l’ennesima volta.
Vengo
in questo paese quasi ogni anno da trent’anni.
Ho
potuto perciò vedere con i miei occhi la stupefacente rinascita di questo
Stato-civiltà che ammalia chiunque lo incontri, da amico o da nemico, da
alleato a invasore, prima e dopo Marco Polo.
Ma è giunto il tempo di fare un inventario dei
miei pensieri e dei miei sentimenti verso la Cina, e nelle scorse settimane ho
avuto l’occasione di metterli alla prova in una serie di dibattiti ad alta
intensità in alcune delle maggiori università del paese.
Offro
ai lettori un resoconto molto parziale dei temi sui quali mi sono misurato con
studenti, professori, dirigenti di partito, giornalisti.
Grandi
temi, certo, perché tutto è grande nella Cina di questi tempi.
E
occorrono chiavi di lettura adeguate se non si vuole cadere in balia dei luoghi
comuni, delle mezze verità e degli stereotipi.
Non
c’è un flusso di notizie affidabile su ciò che succede davvero in Cina, su come
essa si comporti nella scena internazionale.
Credo che la nozione più dura da afferrare per
media e governi occidentali è che la potenza cinese attuale poggi su solide
basi non-capitalistiche.
Il più
diffuso luogo comune è quello che pretende di spiegare il miracolo economico
della Cina con la scelta di volare sulle ali del capitalismo occidentale per
fuggire dall’inferno della povertà estrema in cui essa era piombata dopo la
caduta del Celeste Impero.
Mao Tse Tung e la rivoluzione comunista del
1949 non sarebbero stati altro che un costoso, eccentrico biglietto di ingresso
nella modernità occidentale, perseguita poi fino in fondo secondo una formula
autoritaria e nazionalista.
La
Cina di “Xi Jinping”, secondo le vittime del suddetto pregiudizio, è una
replica tardiva e pericolosa della modernizzazione tedesca, giapponese e
italiana del secolo passato destinata a terminare come sappiamo.
Salvo una sua conversione dell’ultimo minuto
alla democrazia liberale e allo Stato di diritto.
Conversione
di giorno in giorno più improbabile data la saldezza crescente di un dominio
comunista diventato, con le nuove tecnologie, compiutamente orwelliano. La
forza di questo stereotipo non è intrinseca, ma è dovuta all’assenza di una
concezione antagonista munita degli adeguati strumenti di contrasto.
L’eresia
dei successori di Mao non è stata la conversione alla società del mercato,
bensì la scelta di usare il capitalismo invece di distruggerlo, forzandolo a
comportarsi come una risorsa al servizio del bene di tutti.
Ma la
potenza delle idee sbagliate può essere suprema.
Lo
deduco dal tempo che ha impiegato uno studioso di orientamento socialista come
chi scrive per sentirsi in grado di attaccare il mito della Cina capitalista, e
dalla timidezza con cui lo stesso governo di Pechino rivendica l’alterità del
suo sistema rispetto a un Occidente capitalistico pervenuto alla fase terminale
del suo declino.
Durante un dibattito in università, un alto dirigente
del Partito comunista ha così motivato la riluttanza del PCC a marcare le basi
non-capitalistiche di una Cina aperta al confronto con mercati e Stati esteri:
“Primo, il concetto è difficile da spiegare, soprattutto a una
audience straniera scettica verso di noi, pronta a considerare propaganda
qualsiasi nostra dichiarazione di contenuto fortemente politico.
Secondo, non intendiamo dare l’impressione di proporre un
modello da imporre agli altri tipo l’esportazione della democrazia promossa dai
neocon americani.
Terzo, l’idea può essere facilmente
distorta e messa in contrasto con la nostra advocacy dei principi di non
interferenza e di rispetto della sovranità”.
In effetti, la narrativa di un sistema cinese composto
da un’economia largamente capitalistica e di mercato e da uno Stato che non la
riflette – perché socialista e orientato a dominarla invece del contrario – non
è facile da spiegare neanche agli economisti.
Credo
che solo i keynesiani più fedeli alle idee originarie del loro maestro siano in
grado di comprendere bene questo concetto.
Ora non prendetemi per un attempato comunista
se vi dico che il potere euristico di questa chiave di lettura è grandioso.
Essa vi consente non solo di risolvere
l’enigma del miracolo economico della Cina post-Mao, ma vi permette di stare
seduti in prima fila davanti al tramonto di un capitalismo occidentale dove la
finanza si ciba dell’industria e del commercio.
Mentre le industrie euroatlantiche soffrono di
una cronica caduta dei profitti e sono costrette per sopravvivere a
trasformarsi in imprese finanziarie, quelle cinesi realizzano introiti dal 50
al 200% superiori a quelli delle loro controparti occidentali grazie alla
riduzione dei costi e dei rischi apportata dalla pianificazione socialista e
grazie all’assenza del vampirismo finanziario.
Questo
elemento è davvero fondamentale.
Una delle maggiori risorse del “socialismo di mercato”
cinese è un sistema bancario interamente pubblico, che consente di trasformare
i risparmi dei cittadini in investimenti produttivi invece che in fiche del
casinò finanziario mondiale.
Il sistema cinese attuale è andato oltre Marx
e molto oltre Keynes.
Esso
non cerca né di distruggere né di “riparare” il capitalismo, ma di usarne
l’immensa forza e dinamicità a scopi di benessere collettivo.
Superandolo
anche nel campo dello sviluppo delle forze produttive.
Come?
Per
mezzo di un possesso pubblico diretto di tutti mezzi di produzione strategici:
il capitale-denaro, la terra, le grandi
imprese dei settori strategici e, oggi, anche il mezzo di produzione più
cruciale che è l’Intelligenza artificiale.
Tutti
questi beni, i centri di comando della produzione e della distribuzione, sono
di proprietà statale.
Il cuore, il cervello e il sistema nervoso
dell’economia cinese, perciò, non obbediscono al capitale ma allo Stato.
Sono essi stessi lo Stato.
Il
“corpaccione” materiale dell’economia cinese è invece largamente privato,
composto da investitori capitalistici alla ricerca del profitto, del tutto
simili ai loro omologhi occidentali.
Parlo
di milioni di imprese e imprenditori che sono la parte più visibile
dell’economia reale più imponente del pianeta, che genera ormai il 40% della
produzione industriale globale.
Il
software di tutta la baracca è una pianificazione altamente sofisticata,
algoritmica, tentativo, collocata agli antipodi della rigida pianificazione
sovietica che ha scavato la fossa del socialismo russo.
E agli
antipodi anche della formula primitiva del capitalismo di Stato adottata in
viarie parti del Grande Sud.
Il
piano quinquennale cinese raramente ha mancato l’obiettivo grazie al suo
comando immediato di risorse pubbliche gigantesche, ai suoi megaprogetti
infrastrutturali da 6 trilioni di dollari, e al suo potere di indirizzare le
strategie delle grandi imprese private.
Questo
potere è cresciuto invece di indebolirsi con la crescita del Pil, anche perché
l’Intelligenza artificiale ha amplificato di molto la capacità predittiva dei
movimenti della domanda.
La competizione interna tra imprese cinesi
pubbliche e private persiste ed è ancora vigorosa, ma l’intera economia della
Cina funziona sempre più come una gigantesca singola corporation in grado di
battere qualunque rivale estera grazie… al suo non essere ontologicamente
capitalista.
(Il
Fatto Quotidiano | 30/05/2025).
Solo 9
Milioni di Digitalizzati:
Finalmente
una Buona Notizia…
Peccato
che ci Resta lo SPID.
Conoscenzealconfine.it
– (15 Ottobre 2025) - Carmen Tortora – ci dice:
Ogni
tanto, anche in questa fiera del delirio digitale, arriva una notizia che fa tirare
un sospiro di sollievo.
Solo 9
milioni di italiani hanno attivato le credenziali digitali della Carta
d’Identità Elettronica. Il resto – cioè l’84% – ha avuto il buon senso di
ignorare il richiamo del chip, preferendo tenere la tessera nel portafoglio,
come un qualsiasi documento, e non come chiave d’accesso al “panopticon
digitale europeo”.
Insomma,
46 milioni di persone hanno deciso, magari senza nemmeno saperlo, di non farsi
inghiottire del tutto dalla macchina.
È una forma di resistenza civile
inconsapevole, ma pur sempre resistenza.
La
“CIE”, spacciata per il gioiello della modernizzazione italiana, si è rivelata
per ciò che è: una costosissima trappola burocratica.
Serve a poco, funziona male, e quando funziona
è un incubo di codici, PIN, PUK e lettori NFC.
Per
attivarla serve una laurea in informatica, per usarla serve la pazienza di un
santo.
Risultato: 9 milioni di coraggiosi attivisti digitali
hanno completato la trafila, mentre gli altri 46 milioni hanno fatto l’unica
scelta intelligente – lasciarla spenta.
Eppure
non c’è troppo da festeggiare.
Perché
nel frattempo abbiamo ancora lo SPID, quella creatura ibrida che si finge
“pubblica” ma vive grazie a privati accreditati, controllata dallo Stato e
sincronizzata con Bruxelles.
Il
Sistema Pubblico di Identità Digitale – nome altisonante, realtà ben più
prosaica – è la vera infrastruttura centralizzata di sorveglianza digitale in
Italia, la porta d’ingresso per tutto: sanità, scuola, tasse, bonus,
università, banca, utenze.
Lo
SPID non è un servizio decentralizzato, come si cerca di far credere:
è un
sistema federato solo sulla carta.
Dietro il linguaggio tecnico da manuale UE
(“provider”, “livelli di sicurezza”, “interoperabilità”) c’è una verità
semplice:
tutti passano per lo stesso imbuto.
Che tu scelga “Poste ID”, “Aruba” o” Info Cert”,
il login porta sempre alla stessa porta digitale, controllata dal “Dipartimento
per la Trasformazione Digitale e dall’AgID”.
È un
modello di centralizzazione elegante, cioè un accentramento travestito da
pluralità.
I dati
personali non vengono “gestiti” direttamente dallo Stato, ma certificati da
aziende private che svolgono il ruolo di intermediari.
In
altre parole: la tua identità digitale non è tua, ma “autorizzata” da soggetti
terzi, che a loro volta rispondono a regole europee.
Il cittadino, ridotto a username e codice OTP,
deve fidarsi che tutto sia “sicuro”.
E
quando l’UE parla di “interoperabilità”, significa semplicemente che presto
tutti questi sistemi nazionali dovranno comunicare perfettamente tra loro:
un’unica rete, un’unica logica, un’unica chiave d’accesso per l’intero
continente.
Lo
SPID, insomma, è il cavallo di Troia perfetto per l’identità digitale europea.
Non a
caso è stato costruito seguendo gli standard “eIDAS”, la normativa dell’Unione
che prepara il terreno per il grande passo: l’”EUDI Wallet”, cioè il
portafoglio digitale unico dell’UE.
Il meccanismo è semplice:
l’identità
italiana (SPID), quella tedesca, quella francese – tutte integrate in un’unica
infrastruttura continentale, dove ogni cittadino europeo avrà un profilo
digitale verificato, interoperabile e accessibile da istituzioni pubbliche e
“partner certificati”.
Il
nuovo “IT Wallet”, già sperimentato nell’”app IO”, è solo la fase due della
stessa operazione.
Si
presenta come un portadocumenti digitale “comodo e sicuro”, ma nella sostanza è
un archivio centralizzato di dati biometrici e amministrativi che si appoggia
proprio a SPID o CIE per funzionare.
Non
autentica nulla da solo, ma prepara il terreno per quando il sistema europeo
sarà pienamente operativo.
È la
classica mossa “alla UE”: un passaggio tecnico travestito da innovazione
civica.
E
così, mentre i comunicati ministeriali parlano di “semplificazione” e
“inclusione digitale”, il quadro reale è un altro:
lo SPID è già la spina dorsale della futura
identità digitale europea, e la CIE – nonostante la sua apparente irrilevanza –
serve solo a dare una patina di “sovranità nazionale” a un progetto che di
nazionale non ha più nulla.
Tutto
converge verso Bruxelles, dove il “wallet europeo” sarà la chiave universale
per muoversi nel “mercato unico digitale”.
Il
bello (o il tragico) è che lo SPID non è neppure sostenibile economicamente. I
gestori privati lamentano da anni costi elevati e ritorni inesistenti, tanto
che il governo ha dovuto garantire un’elemosina di 40 milioni di euro in
tranche bimestrali.
Ma
nonostante la retorica sul “mercato concorrenziale”, la realtà è che lo SPID
sopravvive solo perché serve all’Europa.
È il suo banco di prova:
un laboratorio
perfettamente funzionante, con 41 milioni di utenti docili e un’infrastruttura
già integrata con i protocolli UE.
Ecco
quindi il paradosso:
la buona notizia è che la “CIE” è un flop, la
cattiva è che “SPID” no.
Gli
italiani hanno (forse) evitato di attivare la loro carta elettronica, ma
intanto usano ogni giorno il sistema che li collega direttamente alla rete
europea di autenticazione.
Quando
l’”EUDI Wallet “sarà operativo, il passaggio sarà automatico:
SPID e CIE confluiranno in un’unica identità
digitale continentale, valida ovunque, utile a tutto, controllabile da chiunque.
In
fondo, l’84% di italiani che ancora non ha digitato il PIN della propria CIE
rappresenta l’ultima trincea dell’anonimato.
Ma la
trincea si restringe: ogni bonus, ogni servizio, ogni “semplificazione” spinge
verso l’obbligo di autenticarsi digitalmente.
È così
che la libertà si trasforma in comodità, e la comodità in dipendenza.
Per
ora, ci resta solo da sorridere del paradosso:
il
sistema che funziona è quello che ci lega all’Europa dei dati, quello che
fallisce ci salva dalla schedatura totale.
E
forse, in questa follia burocratica, gli italiani – inconsapevoli, restii,
sospettosi – sono ancora una volta più saggi di chi li governa.
(Carmen
Tortora (t.me/carmen_tortora1).
(agendadigitale.eu).
(imolaoggi.it/2025/10/13/solo-9-milioni-di-digitalizzati-buona-notizia).
Perché
la Cina
non è
capitalista.
Dinamopress.it
– Richard Smith – Mondo – (3 ottobre 2020) – ci dice:
Pubblichiamo
qui il secondo di due articoli pubblicati sul sito della rivista “Spectre” come
occasione di approfondimento sulla Cina ed in particolare rispetto al dibattito
sulla natura del regime cinese, se sia o meno capitalista.
I due articoli si integrano fra loro poiché
forniscono un’analisi del corso cinese degli ultimi decenni e, su questa base,
cercano di indicare possibili percorsi di liberazione.
Ospitiamo questi contributi, al di là di
posizionamenti specifici e delle differenze di analisi e prospettive dei due
autori, perché contribuiscono parzialmente ad approfondire il dibattito sulla
Cina e sulle dinamiche dei conflitti di classe, di genere, di razza, e
ambientale nella crisi globale contemporanea.
(Richard
Smith).
Nel
suo articolo su “Spectre Journal”, intitolato “Perché la Cina è capitalista”, “Eli
Friedman sostiene “che «la Cina del XXI secolo è diventata un paese
capitalistico, uno strappo violento per una nazione che aveva quasi totalmente
abolito la proprietà private dei mezzi di produzione già alla fine degli anni
Cinquanta del secolo scorso».
Eppure
oggi «i segnali di capitalismo abbondano: le metropoli del paese sfoggiano
negozi di Ferrari e Gucci, il profilo urbano si fregia dei loghi delle aziende
straniere e nazionali, … lussuosi grattacieli spuntano in tutti i maggiori
centri urbani … [e la Cina] è diventato uno dei paesi più ineguali del mondo».
Dietro
le apparenze, per “Friedman” la dimostrazione definitiva che oggi la Cina è
capitalistica viene dalla «universalizzazione della produzione di merci,
evidente nel gran numero di vaste filiere produttive transnazionali che fanno
capo alla Cina e dallo sfruttamento degli operai di fabbrica, innanzitutto e
soprattutto orientato alla produzione di profitto piuttosto che al
soddisfacimento delle necessità umane».
A me
sembra invece che la produzione di merci non sia così pervasiva nell’economia.
Neanche
la forza lavoro è del tutto mercificata, dato che le aziende cinesi fanno ampio
uso di lavoro coatto:
gli studenti universitari sono stati obbligati
dal governo a lavorare nelle fabbriche della “Apple Foxconn” con salari sotto
il minimo, pena la revoca del permesso di laurearsi.
Le
aziende cinesi producono per l’esportazione grazie al lavoro schiavile nel
Xinjiang e in dozzine di campi di lavoro sparsi in tutto il paese.
Il
mercato governa visibilmente beni e servizi dei consumatori urbani e nelle ZES
(zone economiche speciali) costiere a investimento straniero, ma nell’economia statale proprietà
pubblica e pianificazione sono ancora al comando.
Il
capitalismo è un regime economico basato sulla produzione generalizzata di
merci, nel quale i vari fattori produttivi, terra, lavoro, mezzi di produzione
e capitali, sono merci.
Il lavoro, “merce speciale”, è talmente
spossessato che non ha altro da vendere che la forza lavoro.
L’altro
lato di questo processo di “accumulazione primitiva” è il monopolio dei
principali mezzi di produzione che le nuove classi di proprietari terrieri e
capitalisti industriali acquisiscono, con la violenza o in altri modi.
Questo
sistema di poteri e proprietà sbilanciati può essere salvaguardato unicamente
dall’instaurazione della proprietà privata, sorretta dal potere statale
poliziesco e giudiziario.
Non è
mai esistito un capitalismo senza proprietà privata.
In
Cina ci sono alcuni di questi prerequisiti ma non tutti.
Il
lavoro è ampiamente mercificato.
Esiste una borghesia nazionale con alcuni
prerequisiti del capitalismo, ma non tutti.
Ma la
proprietà privata della terra non c’è.
La
abolì Mao nel 1956 e non è mai stata ripristinata.
In
Cina, la terra, le risorse naturali e la maggior parte dei mezzi di produzione
rimangono di proprietà del Partito-Stato, ovvero del Partito Comunista classe
dirigente.
La
classe media urbana può acquistare i loro condomìni ma non possedere la terra
sulla quale sorgono.
In realtà, non possiedono neanche gli
appartamenti, perché i governi locali possono, e lo fanno, requisire
arbitrariamente gli edifici residenziali, espellerne i proprietari nominali,
abbatterli per fare spazio a nuove infrastrutture, costringendo i “proprietari”
precedenti ad accettare un’offerta prendere o lasciare o anche senza
corrispettivo.
I capitalisti fondano fabbriche.
Ma lo
fanno con l’avallo del Partito-Stato.
La
loro attività può, e talvolta succede, essere loro tolta arbitrariamente, senza
possibilità di ricorrere.
E i capitalisti?
Se la Cina è capitalistica, dove sono i
capitalisti?
Come
vedremo più oltre, molti sopravvivono ma, a cominciare dal giro di vite del
2013 di “Xi Jinping”, altri eminenti capitalisti sono in prigione i loro beni
confiscati, in quanto proprietà di capitalisti.
Che razza di capitalismo sarebbe questo?
Non è
capitalismo ma un ibrido capitalismo collettivistico burocratico.
Come
spiego nel mio nuovo libro, “China’s Engine of Environmental Collapse” (Pluto,
2020), la Cina di oggi è piena di capitalismo:
c’è il
capitalismo di Stato, il capitalismo clientelare, il capitalismo criminale, il
capitalismo normale: la Cina ce li ha tutti.
In
Cina ci sono più miliardari che negli Stati Uniti, molte aziende di Stato
producono per il mercato e la forza lavoro è fatta di autonomi o di salariati
di aziende private.
Nondimeno,
non si tratta di un’economia capitalistica, almeno non soprattutto.
La
migliore descrizione è quella di economia mista
collettivistico-capitalistico-burocratica, nella quale il settore di Stato,
collettivistico e burocratico, è predominante.
I
dirigenti del PCC non possiedono le loro proprie economie privatamente, come
capitalisti.
Lo Stato possiede il grosso dell’economia,
collettivamente.
Non è
il mercato a organizzare la maggior parte della produzione in Cina.
Le
riforme di mercato di tempo fa s’insabbiarono in quello che “Pei Minxin” ha
chiamato la «transizione bloccata».
Nei quarant’anni di riforme economiche e
aperture all’estero la Cina non ha saltato un solo piano quinquennale o mancato
di stabilire obiettivi annuali di crescita.
La Cina resta essenzialmente un’economia di
Stato, un’economia pianificata.
Come
ha detto “Huang Yasheng”, del MIT, «l’economia privata cinese, in particolare
la componente indigena, ha dimensioni piuttosto ridotte» ed è caratterizzata da
giri d’affari limitati, dal lavoro autonomo e dalla presenza di contadini.
Un’economia di Stato tripartita: 50, 30, 20.
Oggi,
i dirigenti cinesi controllano un mastodonte industriale e commerciale, che
rappresenta l’industria leggera del mondo, il maggior manufatturiere, il
maggior esportatore, la seconda economia, con un PIL di 14 trilioni di dollari,
il maggior numero di aziende di Stato classificate da Fortune fra le prime 500
e il più grande fondo sovrano del mondo, con 3 trilioni di dollari.
Nel
comparto statale cinese s’annoverano alcune fra le più grandi aziende del
mondo.
Negli
anni Ottanta, non c’era una sola ditta cinese inclusa nella classifica di
“Fortune”.
Nel
2017 ce ne sono state 115, con State Grid, Sinopec e China National Petroleum
(CNPC) al secondo, terzo e quarto posto.
Sono tutte, eccetto quattro, aziende di Stato.
“James
McGregor” scrive che «delle 69 aziende della Cina continentale che figuravano
nella classifica di “Fortune” nel 2012, solo sette non erano statali e
comunque sia ricevevano cospicui finanziamenti statali e avevano enti statali
fra i loro azionisti».
Nell’industria
chiave, le aziende di Stato hanno dal 74 al 100% delle proprietà.
Le
maggior banche cinesi sono di Stato al 100% (ci sono centinaia di banche
private d’affari finanziate dall’estero ma subiscono restrizioni nella
tipologia degli investimenti).
Il
governo possiede anche dal 51% in su delle migliaia di joint venture orientate
all’esportazione, fra cui figurano le compagnie transazionali, dalla” Audi”
alla “Xerox”, che hanno alimentato la crescita cinese per decadi.
Il governo ha anche comprato una caterva di aziende
straniere come Volvo, Syngenta, Smithfield Farms, Pirelli Tires e Kuka
Robotics, che amministra più o meno come se fossero aziende capitalistiche di
Stato, in più possiede almeno il 10% delle azioni della Daimler (Mercedes Benz)
tedesca.
A
quarantadue anni dall’avvio delle riforme di mercato, il governo possiede e
controlla ancora le leve fondamentali dell’economia.
Le
banche, la grande industria pesante, l’industria mineraria, la metallurgia, la
cantieristica, i settori energetico, petrolifero e petrolchimico, la grande
edilizia e la grande manifattura, l’energia atomica e quella aerospaziale, le
telecomunicazioni e internet, l’industria automobilistica (in parte in
partenariato con aziende straniere), l’aereonautica (in partenariato con Boeing
e Airbus), le linee aeree e ferroviarie, la farmaceutica, le biotecnologie,
l’industria bellica e altro ancora.
Gli
investitori stranieri lamentano da tempo l’esclusione dai settori strategici,
l’obbligo di accettare soci di Stato nelle joint ventures e il divieto di
operare in regime di piena proprietà nei pochi settori che sono loro
accessibili.
Solo
nel 2018 è stato consentito alla “Tesla” di fondare in Cina la prima fabbrica
d’automobili interamente di proprietà straniera.
Non
c’è dubbio che in Cina una vasta economia capitalistica di mercato affianchi il
settore di Stato.
Oggi il settore privato dispone di almeno il
doppio degli operai del settore pubblico.
Il comparto capitalistico nazionale nella Cina
di oggi consiste in gran parte in una miriade di piccole e medie industrie e
del settore autonomo, che in maggioranza consistono in miniere piccole e medie,
edilizia locale, manifattura di scarpe, vendita al dettaglio, grandi magazzini,
ristoranti, trasporto autonomo, consegne, tassì, aziende familiari, coltivatori
diretti ecc.
Il settore privato comprende anche grandi
aziende come la “Baidu” (il motore di ricerca che domina internet dopo il
ritiro di Google), la “Tencent” (messaggistica), l’”Alibaba” di “Jack Ma”, il
gigante delle telecomunicazioni “Huawei”, l’immobiliarismo con il “Gruppo Wanda”
di “Dalian” e la “SOHO China”, la preparazione di cibi con la “Wahaha Corp.”,
le assicurazioni con la “Anbang”.
A
partire dal 2000 i milionari spuntano come funghi:
le “Assicurazioni
Anbang”, da piccola e sonnolenta compagnia d’assicurazioni auto fondata nel
2004 da un tale sposato con una parente di “Deng Xiaoping”, ha denunciato nel
2014 attività quotate in borsa per 295 milioni di dollari, dopo che” figli e
nipoti di Deng” e di altri dirigenti vi hanno investito enormi somme (di
provenienza sconosciuta), usandola per portare i soldi all’estero e comprare proprietà
quali il Waldorf Astoria di New York.
Nel
quadro largamente opaco della proprietà nella Cina di oggi è del tutto
impossibile sapere quali aziende siano veramente o interamente private.
Come
regola generale, più un’azienda è grande più è posseduta o è controllata dallo
Stato.
Una
ricerca del governo statunitense del 2011 ha scoperto che le aziende di Stato e
le industrie urbane, di borgo e di villaggio di proprietà cosiddetta
collettiva, ovvero dei governi locali, rappresentano la metà dell’attuale PIL
cinese non agricolo.
Le
joint ventures con il governo cinese a investimento straniero, quasi tutte
nelle” ZES”, rappresentano il 30% circa del PIL non agricolo.
Il
settore privato cinese rappresenta il resto, all’incirca il 20% del PIL non
agricolo.
Altre
stime valutano in 2/3 la porzione statale.
In entrambi i casi, lo Stato possiede almeno
la metà dell’economia industriale e controlla il resto.
L’agricoltura nominalmente è privata ma i contadini
non possiedono niente, non le fattorie, non le case, e decine di milioni di
loro si sono visti privati delle terre senza appello e senza indennizzo.
Gli
“elenchi dei maiali da abbattere” decapitano la borghesia nazionale cinese in
potenza.
Il
Partito comunista tiene al guinzaglio il capitalismo nazionale.
Gli
imprenditori di successo scoprono presto di avere bisogno di un “socio” di
Stato, altrimenti il governo li espelle dal mercato attivando un concorrente
oppure sono acquisiti.
Peggio ancora, quelli i cui nomi compaiono nella
classifica di “Forbes” delle persone più ricche del mondo o nell’elenco degli “Unicorni”
di “Rupert Hoogewerf” rischiano di attirare l’indesiderata attenzione del
governo e vengono arrestati o spariscono a “un tasso allarmante”.
In
appena un anno, il 2015, almeno 34 alti dirigenti di aziende cinesi sono stati
arrestati dalla polizia, compreso l’amministratore delegato della “Fosun”, che
aveva acquistato il “Club Mediterranee” proprio quell’anno.
In
cinese lista di proscrizione si dice “shazhubang”, “elenco dei maiali da
abbattere”.
Da
quando la campagna anticorruzione di Xi Jinping ha preso il via nel 2013, i
ricconi sono caduti come le mosche.
Nel
biennio 2015-16, i cinesi ricchi hanno imboscato oltre un trilione di dollari
all’estero, soprattutto investendo in aziende private come la HNA, la Fosun, la
Dalian Wanda, l’Anbang e altre ancora, che acquistano alberghi (l’Hilton, lo
Starwood ecc.), la AMC Entertainment, la Legendary Entertainment, il Cirque du
Soleil, squadre di calcio e proprietà immobiliari sparse nel mondo –
fondamentalmente per riciclare il malloppo e parcheggiarlo in paesi dove la
legge protegge la proprietà.
Ansioso
di tamponare la fuoriuscita dei “soldi che scottano”, per paura di perdite
governative sui prestiti concessi alle aziende private e deciso a prevenire la
nascita di una classe di capitalisti ricchi e potenti, “Xi Jinping è sceso in
campo e s’è messo a dare la caccia ai cosiddetti huixiniu”, i “rinoceronti
grigi”, ovvero le mine vaganti, le cui società molto esposte e i cui
investimenti esteri “irrazionali” minacciano la stabilità finanziaria.
Gli
amministratori delegati sono accusati di reati economici e messi sotto chiave e
i loro beni sono requisiti.
Nel
giugno del 2017 è stato colpito l’amministratore delegato della “Anbang”, “Wu
Xiaohui, l’assicuratore automobilistico sposato con una nipote di Deng Xiaoping”,
condannato a 18 anni di galera.
L’azienda è stata nazionalizzata e le proprietà messe
in vendita.
In
giugno, “Wang Jianlin” (della Dalian Wanda), il pomposo costruttore edile e
gran mogol dell’intrattenimento, oltre che il cinese più ricco sulla Lista
degli Unicorni, che aveva giurato di “battere la Disney”, ha dovuto vendere i
suoi parchi a tema e i suoi alberghi per ripagare le banche di Stato.
“Wang
Shi”, fondatore di “China Vanke,” il più grande costruttore cinese, pur senza
venire accusato di niente, è stato rimosso e la sua azienda è stata rilevata da
aziende di Stato nel 2017.
Nel
marzo del 2018, “Chen Feng”, amministratore delegato della “HNA” (una holding
con aziende che vanno dall’aviazione ai servizi finanziari, con sede a Hainan),
il maggiore dei grossi acquirenti che aveva ammassato proprietà trofeo in tutti
i continenti acquisendo il 10% della Deutsche Bank, il 25% della Hilton Hotels,
decine di milioni di proprietà immobiliari a Manhattan, aziende svizzere ecc.,
è stato obbligato a disfarsi delle proprietà immobiliari e di tutte le
proprietà che «non figurano nell’agenda politica di Pechino».
Proprio
questa settimana s’è appreso che l’impero multimilionario di “Xiao Jianhua” è
stato requisito dallo Stato e sarà smantellato.
“Xiao”, in passato stimato finanziere della
stessa cerchia che include la famiglia di “Xi Jinping”, è stato rapito nel 2017
da un hotel di lusso di Hong Kong e non se n’è saputo più nulla.
Così vanno le cose.
Come
dicono in Cina, guo jin min tui (“quando lo stato si fa avanti, i privati
rinculano”).
Ci
sono molti milionari privati che prosperano, per esempio il presidente di
Alibaba, “Jack Ma” (membro del PCC da molto prima del suo arricchimento) o “Pony
Ma”, il fondatore della Tencent Holdings Ltd.. Infatti le loro aziende
perseguono attivamente gli obiettivi della politica industriale del Partito, p.
es. promuovendo il consumismo, raccogliendo dati sulla clientela ecc.
Ma “Xi Jinping” ha decapitato la borghesia
nazionale cinese in fieri e nazionalizzato le loro imprese, insomma deprime il
settore privato, suo scopo dichiarato.
Xi Jinping è un nazionalista e un neo maoista.
È
ostile al capitalismo e non vuole che i capitali governativi e nemmeno quelli
privati siano sprecati in sciocchezze o istradati all’estero.
Li vuole concentrati sulle priorità della
politica industriale di Stato. Inoltre, nel quadro del suo tentativo di
eliminare la povertà in Cina, la presenza di milionari è un pugno nell’occhio
per il suo livellamento sociale neo maoista.
Deng Xiaoping restaura il capitalismo o lo usa per
salvare il comunismo?
Delle
interpretazioni maoiste della Cina, Mao mirò a costruire il socialismo, mentre
Deng Xiaoping «restaurò il capitalismo».
È un mito che non rispetta la storia.
Deng
abbandonò l’autarchia di Mao, introdusse riforme di mercato e aprì l’economia
agli investimenti occidentali.
Ma fin
dall’inizio fu chiarissimo che le riforme non erano una controrivoluzione.
Non ci
sarebbe stata alcuna privatizzazione, nessuna restaurazione del capitalismo.
Negli
anni Ottanta e Novanta, Deng e compagni furono orripilati dalle privatizzazioni
gorbacioviane, che provocarono il tracollo del PUCS.
Così,
nel 1985, Deng riassicurò i compagni in ansia:
Noi
vogliamo modernizzare l’industria, l’agricoltura, la difesa nazionale e la
scienza e tecnologia.
Ma
davanti alla parola modernizzazione c’è un aggettivo, “socialista”, e il
risultato sono “le quattro modernizzazioni socialiste” (…) Il socialismo richiede soprattutto due cose.
Primo,
la sua economia dev’essere dominata dal settore pubblico (…) la nostra economia
pubblica ammonta a oltre il 90% del totale.
Nello
stesso tempo, consentiamo a una piccola percentuale di economia privata di
svilupparsi, assorbiamo capitale straniero e introduciamo tecnologia avanzata,
addirittura incoraggiamo le aziende straniere ad aprire fabbriche in Cina.
Sono
tutte integrazioni dell’economia socialista basata sulla proprietà pubblica;
non la possono minare, né lo faranno mai.
Ancora,
nel gennaio febbraio 1992, a poche settimane dal crollo del PCUS, avvenuto a
dicembre, Deng intraprese la sua celebre “ispezione nel Meridione”, a Shenzhen
e nelle altre “ZES”, per galvanizzare le forze riformiste contro i
conservatori, che erano pronti a chiudere le “ZES”.
Egli sottolineò che, mentre le riforme di
mercato e l’apertura erano la sola via per salvare il Patito comunista, lui non
era un altro Gorbačëv:
Le”
ZES “si chiamano “socialiste” (shehui zhuyi) e non “capitalistiche” (ziben
zhuyi).
A Shenzhen, la proprietà pubblica rimane il
fulcro dell’economia e l’investimento straniero non ammonta che a un quarto (…)
Noi abbiamo la priorità, perché abbiamo
aziende di Stato grandi e medie e imprese di borgo e di villaggio.
Meglio ancora, noi abbiamo il potere statale.
Certuni
pensano che l’aumento del capitale straniero possa portare allo sviluppo del
capitalismo e che la crescita delle aziende finanziate dall’estero possa
aumentare gli elementi di capitalismo.
Ma è gente priva di buon senso (…)
Le
aziende finanziate dall’estero agiscono entro le condizioni politiche e
economiche del nostro paese e non sono che un’utile integrazione all’economia
socialista.
In
ultima analisi, sono di beneficio al socialismo.
“Chen
Yun”, il capo della pianificazione ai tempi di Mao, paragonò il capitalismo cui
ricorreva la Cina a «un uccello in gabbia».
La gabbia non può essere troppo piccola, sennò
l’uccello soffoca, ma l’uccello deve restare ingabbiato, altrimenti vola via –
il capitalismo andrebbe fuori controllo.
La stessa cosa vale oggi.
Nella
Cina di oggi gli elementi di capitalismo sono innumerevoli, ma non c’è stata
alcuna privatizzazione generalizzata a favore degli oligarchi, come in Russia.
“James
McGregor”, che ha passato oltre vent’anni in Cina a capo dell’ufficio del “Wall
Street Journal” di Pechino e come presidente della “Camera di Commercio
Statunitense” in Cina, descrive il controllo pervasivo dello Stato e il ruolo
marginale del capitalismo e dei mercato nella Cina degli anni Novanta e Duemila
in questi termini:
Le
aziende di Stato monopolizzano o dominano tutti i settori significativi
dell’economia e controllano completamente il sistema finanziario.
I dirigenti di Partito affidano alle aziende
di Stato la costruzione e il potenziamento dell’economia e sostengono il
monopolio di Partito del controllo politico.
Il
settore privato fornisce il lubrificante della crescita e dà alla popolazione
l’occasione di arricchirsi fintanto che sostiene il Partito.
“Carl
Walter” e “Fraser Howie”, autori di “Red Capitalism e banchieri d’affari
veterani”, regolarmente implicati nelle OPA (offerte pubbliche iniziali)
cinesi, scrissero nel 2011:
Lo
Stato è coinvolto a tutti i livelli nel mercato:
come
regolatore, elaboratore di politiche, investitore, azienda madre, azienda
valutata in borsa, mediatore di borsa, banca e banchiere.
In
breve, lo Stato fornisce tutti gli operatori alle maggiori aziende di Stato
cinesi.
E non
si tratta solo delle leve di comando.
Come
spiega un banchiere d’affari, “Joe Zhang”, lo Stato ha a portata tutte le
industrie ordinarie di beni di consumo:
Loro
non monopolizzano (o quasi) soltanto molti settori e industrie “strategicamente
importanti” (…) ma conducono operazioni massicce anche in settori più terra
terra e competitivi, quali la manifattura, la metallurgia, la ristorazione, il
gas e l’acqua, il settore alberghiero e immobiliare.
Per
giunta, in quanto classe dirigente radicata nello Stato e determinata a
“eguagliare e superare gli Stati Uniti”, la dirigenza cinese ha speso una parte
della sua crescente ricchezza nel rinnovo, ammodernamento, aggiornamento ed
espansione delle aziende di Stato, facendone i “campioni nazionali”.
Oggigiorno, esse emergono nettamente fra le
500 migliori aziende cinesi e rappresentano il 63% del totale delle aziende,
l’83% dei profitti, il 90% dell’attività.
La
massimizzazione dei profitti non è il massimo che si può fare.
Eppure
le “corporazioni” statali cinesi non sono massimizzatrici di profitti di per
sé, come invece, ad esempio, la Temasek di Singapore, a capitali pubblici e
altri consimili fondi sovrani, che sono contenti di fare soldi ogni volta che
possono, ma senza esserci obbligati.
In
effetti molti sono stati fallimentari per anni, ma nessuna ha dichiarato
bancarotta, perché il governo non ha mai voluto dire addio ai suoi prestiti a
causa del fallimento dei suoi zombi.
In
quarant’anni di riforme di mercato, non una sola azienda di Stato importante ha
potuto dichiarare bancarotta.
La
loro esistenza e ragione di vita è dettata dal Piano, non dal mercato. Così quando il presidente di una
grande corporazione fu rimosso per aver abbracciato l’economia di mercato con
troppo entusiasmo, un esperto di aziende di Stato presso l’Università di
Pechino ha commentato:
È in
gioco il sistema, non una persona. Il dirigente nominato dal Partito basa la
sua posizione sul padronaggio (…) e ha il compito di trattare coi dirigenti di
Stato e proteggere le proprietà statali, non di massimizzare i profitti.
Nessun “declino dell’economia pianificata”:
infine, il mercato non ha soppiantato la
pianificazione nemmeno nell’economia controllata dallo Stato.
Negli
anni Novanta gli esperti occidentali di Cina entusiasti del mercato predissero
una “crescita fuori del piano” per la Cina.
Ma non
è mai successo.
I dirigenti hanno sì accennato qualche volta
alla possibilità un giorno per il mercato di “distribuire le risorse”, ma non
l’hanno mai realizzata. Né l’avrebbero potuto fare, perché per superare gli
Stati Uniti hanno bisogno di “campioni” fra le aziende di Stato, e dunque
devono convogliare le risorse verso le industrie chiave e pianificare tutta
l’economia.
Così,
nelle parole del “Rapporto annuale del Congresso Statunitense su Economia e
Sicurezza” del novembre 2015:
Il
piano alla sovietica, dall’alto in basso, rimane il marchio del sistema
economico e politico cinese.
Il piano quinquennale continua a guidare la
politica economica cinese delineando le priorità del governo e segnalando ai
quadri e alle industrie locali i settori che riceveranno il sostegno
governativo.
I piani quinquennali sono seguiti da una
cascata di piani nazionali, ministeriali, regionali, locali, miranti a tradurre
le priorità in obiettivi regionali o industriali specifici, in strategie
politiche e in meccanismi di valutazione.
L’XI e
il XII Piano Quinquennale stabilirono le priorità nazionali e delinearono come
esse avrebbero dovuto coniugarsi nelle migliaia di piani settoriali,
raggruppati in tre categorie: “piani generali”, “piani speciali” e “piani
macroregionali”.
Fra i
piani regionali figurava il ciclopico “Programma di Sviluppo a Occidente”,
focalizzato sull’industrializzazione della Cina occidentale, il “Programma del
Delta del Zhujiang”, incentrato sull’innovazione tecnologica ecc.
Centinaia
di piani tematici specifici stesero la programmazione quinquennale per le
singole industrie farmaceutiche, alimentari, chimiche, tessili, per i
cementifici.
Piani
tematici più ampi sostennero la scienza, la tecnologia, il risparmio
energetico, le ferrovie, le autostrade, l’energia, la mitigazione delle
catastrofi ecc.
In un
importante articolo su “Modern China” del 2013, “Sebastian Heilmann” e “Oliver
Melton” sfatarono la tesi del “declino dell’economia pianificata”:
Contrariamente
a quanto si crede (…) nessuna “rinuncia al piano” ha avuto luogo in Cina.
Dal
1993 in poi, la pianificazione allo sviluppo è stata profondamente modificata
in termini di funzioni, contenuti, processi e metodi.
Ha
dato spazio alle forze di mercato e alla decentralizzazione dei processi
decisionali, ma ha mantenuto alla burocrazia di Stato la facoltà d’influenzare
l’economia e ha ribadito che il Partito avrebbe conservato il controllo
politico anche nella rinuncia a molti altri poteri.
Oggi,
invece di proclamare migliaia di obiettivi di produzione dettagliati, i
pianificatori centrali cinesi staccano soprattutto assegni per finanziare i
progetti previsti.
Tuttavia,
anche se la pianificazione è stata ammodernata e monetizzata, i piani
continuano a stilare dozzine di obiettivi obbligatori e indicativi.
Per
esempio, il XII Piano Quinquennale (2011-2015) ha fissato un aumento del 7,5%
della crescita economica, del 3,1% del consumo dei combustibili non fossili nel
consumo energetico primario, una diminuzione del 16% nel consumo energetico per
punto di PIL, del 30% nel consumo d’acqua per punto di PIL, un aumento dell’1,3
% per la superficie forestale e perfino un aumento dell’1,6% per il numero di
“brevetti ogni diecimila persone”.
Il piano include anche numerosi obiettivi
quantitativi: km 45.000 per la rete ferroviaria ad alta velocità, km 83.000 per
la rete autostradale, 45 milioni di nuovi posti di lavoro governativi nell’arco
dei 5 anni ecc.
Il
piano ha previsto anche la costruzione di nuovi porti, di dozzine di nuovi
aeroporti, ecc.
Insomma,
anche se in Cina esistono cospicue realtà capitalistiche, concentrate
soprattutto nella più o meno totalmente capitalizzata produzione per
l’esportazione nelle ZES, il paese non può essere propriamente definito a
economia politica capitalistica.
Si
tratta della società della “nuova classe”, un’economia ibrida
burocratico-collettivistico-capitalista nella quale dominano la proprietà
pubblica e la pianificazione, mentre il capitalismo resta «un uccello in
gabbia».
Quali
sono le implicazioni politiche di quanto detto finora?
Volgendosi
alle implicazioni politiche della sua analisi, “Friedman” domanda, la Cina è
solo un’altra potenza capitalistica «in competizione con gli Stati Uniti» per
l’egemonia imperiale globale?
O
dobbiamo credere che «lo Stato cinese e la sua opposizione all’ordine americano
annunciano una politica di liberazione?».
La mia
risposta è che non c’è stato niente di “liberatorio” nelle politiche del PCC
per molte decadi.
Il PCC non è stato credibile come Partito
socialista già dagli anni venti del secolo scorso, quand’era a stragrande
maggioranza proletaria.
Dopo
la repressione della rivoluzione operaia nel 1926 a opera dei Nazionalisti, la
dirigenza del Partito andò alla sinistra nazionalista di Mao, che abbandonò il
proletariato per costruire un “proletariato sostitutivo”, una burocrazia di
Partito in armi tratta da elementi eterogenei piccolo borghesi e radicata nella
contadineria.
Mao
respinse il marxismo e il materialismo e abbracciò l’idealismo e il
volontarismo, respinse la democrazia a favore della dittatura del Partito,
rifiutò l’internazionalismo proletario a favore del nazionalismo e dello
sciovinismo Han;
rifiutò
le insurrezioni operaie per abbracciare la strategia della “guerra di popolo” e
della conquista militare.
Tuttavia,
il nuovo sostituzionismo stalinista di Partito di Mao ebbe un successo
straordinario, liberando la Cina dall’occupazione straniera, i signori della
guerra, i proprietari fondiari, il capitalismo ed emancipando le donne dal
patriarcato confuciano.
Quel
che di “liberatorio” c’è stato nella rivoluzione cinese è stato questo. Ma
questa rivoluzione ha poi generato un nuovo tipo di classe dominante stalinista
composta dal partito, esercito e burocrazia, sciovinismo Han, dittatura
totalitaria da stato di polizia che ha sfruttato opera e contadini cinesi per
settant’anni – e questo per perseguire il progetto vanaglorioso dei leader di
riportare la Cine nella sua “giusta” posizione della più grande nazione del
mondo e di superpotenza egemone.
Come i loro compagni sovietici, Mao e i suoi
successori hanno compreso che una nazione comunista con una classe dominante
fondata sullo stato deve raggiungere e superare gli Stati Uniti in un mondo
dominato da nazioni capitaliste più avanzate e potenti e costruire una
superpotenza tecnologica relativamente autosufficiente tale da potere
respingere gli imperialisti capitalisti.
Il
PCUS è stato segnato dalla sconfitta nella contesa economica e militare con gli
Stati Uniti.
Deng
Xiaoping e i suoi successori, particolarmente “Xi Jinping”, sono determinati a
evitare di compiere il medesimo errore.
Ma oggi, il PCC segue una missione suicida
perché vuole massimizzare la crescita economica per superare gli Stati Uniti e
dominare l’economia mondiale nonostante questa ultra-crescita che genera
emissioni CO2 porti al collasso climatico e a un eco-suicidio.
Due
sistemi sociali radicalmente differenti oggi sono uniti in una comune missione:
massimizzare
la crescita economica fino al collasso ecologico.
La nostra unica speranza è supportare le lotte
democratiche ovunque possano riuscire ad abbattere questi sistemi, prima che
questi sistemi distruggano noi, e sostituirli con società eco-socialiste basate
sulla proprietà pubblica e su una governance democratica.
Così
come ci poniamo contro Trump e la sua base fascista, così dobbiamo “stare con
Hong Kong” e stare con il Turkestan orientale (Xinjiang) contro il PCC, perché
se non avremo successo, dovremo affrontare l’estinzione.
(“Richard
Smith” fa parte del collettivo statunitense System Change Not Climate Change,
autore di China’s Engine of Environmental Collapse (Pluto, July 2020) e di “The
Triumph and Tragedy of the Chinese Revolution-” in stampa, 2021).
Cina:
il drago capitalista.
Umanitanova.org
– (18 Giugno 2025) - Redazione_web – Tiziano Antonelli – ci dice:
Lo
sviluppo storico della Cina ha seguito un percorso diverso da quello della
parte del mondo dove noi abitiamo, che ha visto succedersi prima la società
schiavista, poi quella feudale e in seguito quella capitalistica.
All’interno
di questo schema storico, la Cina è difficilmente inquadrabile. La sua storia
millenaria ha delle ripercussioni anche sulla situazione attuale;
le
incongruenze della Cina rispetto al modello capitalistico tipico
dell’imperialismo angloamericano e dei suoi alleati sono semplicisticamente
spiegate, spesso, attribuendo al modello cinese l’etichetta di “socialista”.
Se ce
ne fosse bisogno, le ultime misure adottate dal Partito Comunista e dal governo
cinesi dimostrano che invece la Cina, lungi dal socialismo, sta seguendo un
proprio modello di sviluppo capitalistico.
Nel
maggio scorso infatti il comitato centrale del Partito Comunista e il governo
cinesi hanno elaborato congiuntamente le nuove linee guida in campo economico;
queste linee guida mirano a “trasformare più aziende statali e private in
aziende innovative, resilienti e competitive a livello globale con moderne
strutture di corporate governance”, dice il “South China Morning Post”.
L’obiettivo
2035 per un “sistema di corporate governance” più raffinato si allinea anche
con gli obiettivi di modernizzazione più ampi della Cina per quello stesso
anno, traguardi che il governo cinese considera essenziali per raggiungere gli
Stati Uniti.
La
struttura di governance della Cina, definita moderna nel documento, sarà
stabilita in circa cinque anni.
L’obiettivo intermedio aiuterà le imprese a
contribuire all’innovazione e agli aggiornamenti industriali e ad adempiere
alle responsabilità sociali.
Particolare
attenzione viene data alla gestione, che dev’essere scientifica e orientata al
mercato, al miglioramento della governance presso le società quotate e
all’assunzione di investitori istituzionali come azionisti attivi.
Le
nuove linee guida si integrano con altre indicazioni centrali.
A marzo, il “Ministero del Commercio cinese” e
la “Commissione nazionale per lo sviluppo e la riforma”, il suo principale
pianificatore economico, hanno pubblicato un documento che fissava l’obiettivo
di avere entro cinque anni 100 aziende cinesi leader nelle catene di
approvvigionamento digitali e legate all’intelligenza artificiale per
rafforzare la resilienza e la sicurezza nei settori critici.
La
spinta di Pechino arriva mentre le più grandi aziende cinesi hanno perso
terreno rispetto ai loro rivali statunitensi.
Nel 2024, la Cina continentale e Hong Kong
avevano 128 società nella lista Fortune 500, mentre gli USA nella medesima
lista avevano 139 società:
un
capovolgimento, dopo che, nel 2019, le società cinesi avevano detronizzato le
loro controparti statunitensi.
I
profitti totali delle imprese statali si sono contratti del 4,4% nei primi
quattro mesi del 2025, dopo un calo del 4,6% nel 2024.
Le aziende private invece hanno visto i loro
profitti aumentare del 4,3% tra gennaio e aprile.
Secondo
una definizione largamente accettata, le imprese di proprietà statale nella
Repubblica Popolare Cinese (RPC) sono un elemento chiave del sistema economico,
basato sul principio della “proprietà pubblica socialista dei mezzi di
produzione”.
Questo
significa che, nonostante l’apertura all’economia di mercato, una parte
significativa dell’economia cinese è ancora controllata dallo stato, con le
imprese statali che svolgono un ruolo importante in vari settori;
ad
esse il governo ha attribuito un ruolo che va oltre il semplice profitto e che
riflette la continua influenza dello stato nell’economia.
Ora però queste nuove linee guida affermano
che le imprese che sono grandi ma non forti e redditizie saranno rigorosamente
riformate in linea con la moderna governance aziendale.
Alle
imprese private sarà concessa una maggiore autonomia nell’adozione di strutture
di governance flessibili e gli imprenditori saranno in grado di gestire la
propria attività senza un’eccessiva ingerenza statale, anche se esiste un punto
nel documento in cui si prevede di rafforzare la leadership del Partito.
Ad
aprile la Cina ha approvato una legge per promuovere l’economia privata e dare
alle imprese colpite dai dazi USA una maggiore protezione legale contro multe e
interferenze definite arbitrarie dal governo cinese.
Facciamo
un passo indietro per capire quanto l’attributo di socialista conferito alla
realtà economica cinese sia in realtà fuori luogo.
Nel
1953 erano trascorsi quattro anni dalla vittoria dell’Esercito Popolare di
Liberazione su Chiang Kai-shek e in quello stesso anno quello stesso Esercito
era intervenuto a difesa della Corea invasa dagli USA e dai loro alleati.
In
quell’anno Mao Zedong, allora Presidente della Repubblica Popolare Cinese, così
definì l’economia cinese:
“L’economia
capitalista nella Cina di oggi è un’economia capitalista che si trova, nella
sua stragrande maggioranza, sotto il controllo del governo popolare, è legata
in varie forme all’economia socialista a gestione statale ed è sottoposta alla
vigilanza degli operai.
Non si
tratta più di un’economia capitalista normale, ma di un’economia capitalista di
un genere particolare, cioè di un’economia capitalista di Stato di tipo nuovo.
Essa esiste principalmente non per il profitto
dei capitalisti ma per far fronte ai bisogni del popolo e dello Stato.
Certo, una parte del profitto prodotto dagli
operai va ancora ai capitalisti, ma essa rappresenta soltanto una piccola quota
dell’intero profitto, circa un quarto, mentre i rimanenti tre quarti vanno agli
operai (come fondi per il benessere), allo Stato (come imposte) e per ampliare
gli impianti produttivi (in cui è compresa una piccola parte che produce
profitto per i capitalisti).
Ne
consegue che questa economia capitalista di Stato di tipo nuovo ha un notevole
carattere socialista ed è vantaggiosa per gli operai e per lo Stato.”
Questa
definizione potrebbe valere anche per la Cina di oggi, solo che da quando Mao
scrisse queste righe sono passati più di settant’anni, le forze produttive
della Cina hanno visto uno sviluppo impensabile, ma questo sviluppo delle forze
produttive, anziché portare alla distruzione dei rapporti di produzione
capitalistici, hanno portato all’estensione di questi rapporti a tutta la
produzione e alla distribuzione.
Oggi
il 75% della produzione è assicurato da imprese capitaliste, mentre quelle
statali si limitano al 25%.
La ricerca del massimo profitto è inoltre il
faro che ispira le linee guida approvate a maggio scorso, mentre il ruolo del
Partito Comunista all’interno delle unità produttive è assicurare la loro
redditività, cioè la capacità di produrre profitti.
Ma più
che nell’industria, l’avanzata del capitalismo è significativa in agricoltura e
nella sanità, dove, ai primi tentativi di socializzazione, è stata presto
sostituita la logica del capitale.
All’indomani
della vittoria nella guerra civile, il governo abolì la proprietà privata della
terra, che diventò di proprietà statale, e collettivizzò l’agricoltura per
mezzo di cooperative di agricoltori. A partire dal 1958 il Partito Comunista
cinese, sotto la guida di Mao Zedong, criticò il modello sovietico di sviluppo
basato sull’industria pesante e puntò sulla rapida trasformazione in senso
comunista dei rapporti di produzione nelle campagne, accompagnata dal sostegno
alla piccola industria rurale.
Furono create migliaia di comuni popolari: le
oltre 740.000 cooperative di produzione agricola si fusero in 26.000 comuni
popolari comprendenti 120 milioni di famiglie.
Questo
tipo di organizzazione, nell’intenzione degli ideatori, non si limitava ad
essere un’unità economica, ma era anche un’organizzazione basilare del potere
statale.
Inoltre, essa era la risposta alle esigenze
del grande balzo che richiedeva una maggiore estensione delle unità fondiarie.
La
comune doveva realizzare la collettivizzazione della vita, comprese le forme
più elementari dell’esistenza umana, e con ciò preparare il passaggio dal
sistema socialista a quello comunista.
Al
loro interno erano stati aboliti i mercati liberi ed i campi privati
precedentemente assegnati alle famiglie.
Nel
1984, nell’ambito delle riforme promosse durante la presidenza di Deng, furono
definitivamente abolite le comuni popolari e si ridussero progressivamente le
unità collettive.
Nel
1985 la cessione di quote di raccolto allo Stato fu sostituita dal sistema dei
contratti di acquisto negoziati, sistema con cui alle quote di raccolto si
sostituivano le imposte.
Tale
evoluzione fu legittimata dall’emendamento costituzionale del 1993 che
rimpiazzava formalmente le comuni con un sistema di responsabilità
contrattuale.
Questo
sistema prevede tuttora che lo Stato affidi in gestione la terra ai singoli
capifamiglia per mezzo di contratti.
Anche
la sanità ha visto un’evoluzione simile. La storia del servizio sanitario nella
RPC può essere divisa in quattro periodi.
La
prima fase inizia con la presa del potere da parte del Partito Comunista Cinese
nel 1949.
Lo
Stato era proprietario e fornitore di tutti i servizi sanitari e i
professionisti sanitari erano suoi dipendenti.
Una
peculiarità che ebbe un discreto successo, in questa fase, fu l’impiego dei
cosiddetti medici scalzi per fornire servizi essenziali di sanità pubblica e di
cure primarie nei villaggi rurali.
Tra il
1952 e il 1982 i tassi di mortalità infantile in Cina crollarono da 200 a 34
ogni 1000 nati vivi e furono quasi totalmente debellate malattie come la
schistosomiasi, che da secoli affliggevano il Paese.
Nel
1984 cominciò una fase nuova.
Anche
il sistema sanitario fu coinvolto nelle riforme volute dal governo per
convertire la Cina in una economia di mercato.
Il finanziamento governativo degli ospedali fu
drammaticamente ridotto e molti operatori sanitari, tra i quali anche i medici
scalzi, finirono per perdere il loro sussidio pubblico.
Il
governo era ancora il proprietario degli ospedali, ma esercitava scarso
controllo sulle organizzazioni sanitarie, che vi operavano quindi come entità
for-profit in un mercato senza regole.
La
maggior parte della popolazione rimase senza copertura assicurativa, dato che
il governo non fornì alcuna copertura e non vi erano compagnie assicurative
private.
Nel
1999, solo il 49% della popolazione delle città possedeva un’assicurazione
sanitaria, perlopiù stipulata con imprese statali o governative, ed appena il
7% della popolazione rurale godeva di una qualche forma di copertura.
Nel
2003 cominciò una nuova fase, quando il governo cinese introdusse delle
coperture assicurative per coprire le spese sanitarie ospedaliere dei residenti
nelle aree rurali.
Non
sorprende che le riforme del 2003 non furono sufficienti a risolvere le
profonde problematiche del sistema sanitario cinese.
A
partire dal 2008, il sistema sanitario continuò ad essere basato principalmente
sul mercato ma dal 2012, un sistema assicurativo finanziato dal governo
cominciò a fornire al 95% della popolazione una pur molto modesta copertura. Il
governo si sforzò inoltre di creare un sistema di cure primarie.
Oltre
ai dati dell’industria, anche quelli dell’agricoltura e della sanità mostrano
quindi che il governo cinese è orientato alla liquidazione di quel che resta di
strutture socialiste nel Paese, evitando passaggi critici come quelli che hanno
portato al dissolvimento dell’Unione Sovietica.
(Tiziano
Antonelli).
INTELLIGENZA
ARTIFICIALE DI STATO:
COSÌ LA
CINA SUPERA IL CAPITALISMO
da IL
FATTO e IL MANIFESTO.
Officinadeisaperi.it
- Pino Arlacchi – (11 Giugno 2025) – ci dice:
Intelligenza
artificiale di Stato: così la Cina supera il capitalismo.
Futuro.
Se
l’IA è migliore degli imprenditori umani, riducendo sprechi, surplus, crisi
cicliche, cosa giustifica l’appropriazione privata dei profitti?
Negli
ultimi dieci anni la Cina ha intrapreso uno dei più straordinari esperimenti
economici della storia moderna.
Ha investito oltre 500 miliardi di dollari
nello sviluppo dell’Intelligenza artificiale, creando un ecosistema i cui
algoritmi amplificano e raffinano il controllo statale dell’economia a un
livello di granularità e precisione impossibile sia nei sistemi pianificati sia
in quelli di mercato del secolo scorso.
La
Cina possiede oggi il 47% dei brevetti globali legati all’Intelligenza
artificiale applicata alla pianificazione economica.
Una
cifra che viene da lontano.
Da una
visione strategica articolata per la prima volta nel 2015, col 13° piano
quinquennale, ma le cui radici affondano nella tradizione filosofica cinese e
nella sua concezione dello Stato come garante dell’armonia sociale.
Molti
in Occidente considerano il modello cinese una variante autoritaria del
capitalismo.
Invece è una sintesi originale, nuova, che
utilizza strumenti tecnologici avanzati per realizzare principi di governance
antichi e moderni, confuciani e socialisti.
Il
sistema “Quishi” è nato nel 2017 come progetto sperimentale poi concretizzato
in un’architettura a più livelli.
La sua
versione attuale opera su una scala triennale e incorpora modelli di sviluppo
tecnologico, cambiamenti demografici e scenari geopolitici. “Qiushi” monitora in tempo reale
oltre 600.000 variabili economiche e può simulare l’impatto di politiche
alternative con un margine di errore inferiore al 3%.
“Qiushi”
non pretende di prevedere perfettamente il futuro, ma di creare un ciclo di
feedback continuo tra previsione e realtà che gli consente di affinare
costantemente i modelli e si estende fino alle singole fabbriche.
Nella provincia di Jiangsu, la “Suzhou
Industrial Park” ha implementato nodi “Qiushi” in 217 stabilimenti.
Dal
’21 anche le piccole e medie imprese private possono connettersi a un “Qiushi”
semplificato, che ne nutre oggi 78 mila con previsioni di mercato, analisi
della catena di approvvigionamento e raccomandazioni personalizzate.
Un
sistema così potente solleva ovvi interrogativi sulla sua governance. Chi
decide quali obiettivi deve raggiungere “Qiushi”?
Come
vengono bilanciati crescita economica, sostenibilità ambientale, stabilità
sociale e altri valori potenzialmente in conflitto?
Per
affrontare queste questioni, nel 2020 è stato istituito il “Consiglio di
Supervisione Algoritmica”, con economisti, scienziati, rappresentanti delle
imprese e funzionari governativi.
Il Consiglio definisce i parametri principali
del sistema e rivede periodicamente i suoi output per garantire che siano
allineati con gli obiettivi del piano quinquennale nazionale.
La “versione 5.0 di Qiushi”, prevista per il
2026, ingloberà modelli in grado di simulare interi sistemi economici
alternativi.
La
rivoluzione è particolarmente evidente nel settore energetico.
La “State
Grid Corporation of China”, la più grande azienda elettrica del mondo, usa un
sistema “Energy Brain” che dirige la produzione e la distribuzione di energia
in tutto il Paese.
E, usando dati provenienti da milioni di
sensori e previsioni meteo avanzate, ottimizza in tempo reale il mix energetico
tra fonti rinnovabili e tradizionali.
La
rivoluzione s’estende alle campagne:
processando
dati satellitari, analisi del suolo e previsioni meteo, l’app del ministero
dell’Agricoltura fornisce consigli individuali a oltre 120 milioni di
agricoltori contribuendo a un aumento di produttività del 18% tra 2020 e 2023 e
alla riduzione dell’uso di fertilizzanti chimici del 24%.
Nel
settore manifatturiero del “Guangdong” il “programma Made in China 2025” ha
trasformato fabbriche tradizionali in “smart fattorie” totalmente integrate.
In alcune che ho visitato, robot e sistemi
automatizzati hanno sostituito dal 2018 oltre l’80% della forza lavoro umana.
Ma, a dispetto dei timori di disoccupazione
tecnologica massiccia, la Cina ha mantenuto un tasso di disoccupazione stabile,
intorno al 4,5%. Come è stato possibile?
Con
una “transizione controllata” che combina riqualificazione professionale e
incentivi alla nascita di nuove industrie nel quadro di una pianificazione
strategica a lungo termine.
Nel
2018 l’IA nazionale ha iniziato a prevedere quali settori e competenze
sarebbero divenuti obsoleti nei successivi 10 anni. Ciò ha permesso di pianificare in
anticipo, creando programmi di formazione mirati e indirizzando investimenti su
settori emergenti ad alto potenziale occupazionale.
Dal
2020 oltre 28 milioni di lavoratori hanno beneficiato di programmi di
riqualificazione professionale finanziati dallo Stato.
Settori
come assistenza agli anziani, produzione culturale, economia verde e servizi
digitali hanno assorbito gran parte della forza lavoro liberata
dall’automazione manifatturiera.
Come
la proprietà dei mezzi di produzione industriali ha plasmato la politica e
l’economia del XX secolo, così la proprietà dei mezzi di produzione algoritmici
plasmerà le società del futuro.
L’Intelligenza artificiale è una risorsa sconvolgente,
che produce beni e servizi, ma che modella anche la nostra percezione del
mondo, la nostra immagine del futuro e le nostre decisioni conseguenti.
La sua
presenza arriva a toccare il cuore stesso del sistema capitalista, che consiste
negli “spiriti animali” di Keynes, cioè la forza non razionale che guida le
decisioni di investimento.
Secondo Keynes, quando gli imprenditori devono
prendere decisioni in un futuro impossibile da prevedere, si affidano non solo
a calcoli logici ma a un “impulso spontaneo all’azione” – uno slancio emotivo,
un ottimismo innato che li spinge ad agire nonostante l’incertezza.
Ma
cosa accade quando l’IA avanzata, “Quishi”, entra in questo campo?
L’IA è
in grado di ridurre drasticamente l’incertezza, fornendo previsioni razionali
dove prima regnavano l’azzardo e la fortuna, soppiantando gli spiriti animali e
assestando il colpo di grazia all’accumulazione “umana” del capitale.
L’IA
non si limita a riempire il vuoto di razionalità che fonda il capitalismo, ma
diventa essa stessa il decisore primario.
Sono i sistemi algoritmici che determinano le
allocazioni di capitale, calcolando i valori attesi e ottimizzando portafogli
di investimento.
Già
oggi, oltre il 70% delle transazioni nei mercati finanziari globali avvengono
attraverso algoritmi di trading automatizzato.
È in
corso un trasferimento progressivo dell’autorità decisionale dagli umani agli
algoritmi.
In
numerose industrie, cinesi e non, i modelli predittivi non sono più strumenti
per manager in carne e ossa, ma decisori quasi autonomi che operano con
supervisione umana limitata.
Un
esempio emblematico di questa trasformazione è il “China Investment Corporation”
(Cic), il fondo sovrano che gestisce parte delle immense riserve valutarie
cinesi (3 trilioni di dollari).
Dal 2021, il “Cic “utilizza un” sistema IA” denominato
“Strategic Allocator”; per amministrare i suoi investimenti di lungo termine.
Ma
attenzione alle conseguenze più a lungo raggio della rivoluzione tecnologica in
corso in Cina.
Se la pianificazione algoritmica può allocare
capitale in modo più efficiente degli imprenditori umani, minimizzando sprechi,
sovrapproduzione e crisi cicliche, quale diventa la giustificazione per
l’appropriazione privata dei profitti?
La teoria economica ha giustificato il
profitto come ricompensa all’imprenditore per l’assunzione di rischio in
condizioni di incertezza.
Se
questo rischio viene assunto da “Quishi”, che è proprietà dello Stato, che cosa
se ne fa la Cina del capitalismo e dei suoi imprenditori, dopo avere
sostituito, per giunta, il mercato con il piano nella parte strategica
dell’economia?
È
quanto teme “Jack Ma,” il più noto dei grandi capitalisti cinesi, quando
dichiara che il futuro della Cina non sta nell’impresa privata.
Cioè
nel capitalismo.
Contro
i blocchi tecnologici Usa la Cina manda in campo mister “Huawei”.
Cina/Usa.
Rara intervista del “Quotidiano del Popolo” a un
grande manager.
Che
assicura: quei software che gli americani ci negano non sono poi così fondamentali.
(Lorenzo
Lamperti- 11/06/2025).
TOKYO.
Chip e
Huawei.
Sono
le due parole chiave intorno alle quali è nata la guerra commerciale
tecnologica tra Stati uniti e Cina.
Le restrizioni alle catene di
approvvigionamento più avanzate di semiconduttori e la “fatwa contro il colosso
tech di Shenzhen” sono due passaggi cruciali dei rapporti tra le due grandi
potenze, forse senza ritorno.
Sono
entrambi avvenuti durante il primo mandato di Donald Trump, continuano a essere
il cuore dei complessi colloqui in corso tra i due governi, i cui
rappresentanti si sono parlati anche ieri a Londra per il secondo round
negoziale dopo quello del mese scorso di Ginevra.
Al di
là dell’esito, la Cina mira a una revoca totale delle restrizioni americane
sulla vendita di software per la produzione di chip.
Gli
Stati uniti puntano invece a una rimozione definitiva dei controlli aggiuntivi
cinesi sull’export di terre rare.
Al di
là delle reciproche rassicurazioni, si tratta però di due leve negoziali di cui
nessuno dei due può o vuole fare a meno.
Anche
perché sono in realtà percepite quasi come armi definitive, da provare a
disinnescare.
In che
modo?
Rafforzando la produzione autoctona per potere
ridurre la dipendenza dal rivale.
Non è
certo un caso che, proprio ieri, il “Quotidiano del popolo “avesse in prima
pagina un’intervista a “Ren Zhengfei”, fondatore di Huawei.
L’organo
ufficiale del Partito comunista si concentra solitamente sull’agenda del “presidente
Xi Jinping” o dei suoi alti funzionari.
Seppure
i manager delle grandi aziende, soprattutto tecnologiche, vengano spesso
citati, è raro trovare un’intervista così corposa a un amministratore delegato
con tale visibilità.
Segnale che l’operazione è ritenuta strategica
a livello politico e narrativo.
Nell’intervista,
“Ren” ammette che sui chip la Cina è ancora in ritardo di una generazione
rispetto agli Stati uniti.
Ma,
allo stesso tempo, prova a sminuire l’impatto del blocco trumpiano: “Il software non è qualcosa che può
strangolarci, è fatto di simboli matematici e codici costruiti a partire da
operatori e algoritmi all’avanguardia; non ci sono cavi da bloccare.
La
difficoltà sta nella nostra istruzione e formazione, nella costruzione del
bacino di talenti”.
“Ren”
insiste molto su questo punto, gli investimenti necessari nella ricerca,
soprattutto quella di base.
Un’indicazione
che fa eco alle direttive di “Xi” e che sembra rivolta soprattutto alle aziende
private, ma anche al governo chiamato a sostenerne gli sforzi.
Il messaggio principale è però quello per gli
Usa:
“Non
c’è bisogno di preoccuparsi per il problema dei chip.
Usando
metodi come la sovrapposizione e il clustering, i risultati di calcolo sono
equivalenti al livello più avanzato.
Per
quanto riguarda il software, in futuro ci saranno migliaia di software open
source per soddisfare le esigenze dell’intera società”, sostiene” Ren”, che
come il suo governo è interessato a presentare come “futili” i tentativi
americani di bloccare l’ascesa tecnologica cinese.
L’intervista
rende definitivamente Huawei un simbolo di quella che il Partito comunista
definisce “resistenza contro il bullismo unilaterale” degli Usa.
Lo era già diventata con l’arresto del 2018 in Canada
di “Meng Wanzhou”, figlia di “Ren”.
Dopo
anni in cui l’azienda ha lottato per la sopravvivenza, sotto il peso delle
sanzioni e delle restrizioni, ora rilancia.
Negli
ultimi cinque anni, ha acquistato oltre 60 compagnie operanti in diversi
comparti della produzione di chip.
Anche
le varie “Xiaomi”, “Alibaba” e “Tencent” stanno investendo cifre ingenti per
tagliare il cordone tecnologico con l’America.
O,
meglio, per riuscire a sopravvivere anche senza.
Nel
frattempo, però, continuano a servire i chip della statunitense “Nvidia”, che
sta per lanciare un nuovo modello dedicato solo al mercato cinese.
Trump
permettendo.
Il
Giorno Dopo.
Conoscenzealconfine.it
– (16 Ottobre 2025) - Enrico Tomaselli – ci dice:
Concluso
lo show più inconcludente e ridicolo degli ultimi decenni, con una ventina di
leader mondiali accorsi a “Sharm e Sheikh” a fare da comparse nello spettacolo
di Trump, ma senza i due veri protagonisti (Israele e la Resistenza
palestinese), la questione all’ordine del giorno è ovviamente cosa accadrà a
riflettori spenti.
Rispondere
a questa domanda richiede preliminarmente capire quali sono le ragioni che
hanno portato all’accordo.
E innanzitutto va detto che, quanto c’è nel
cosiddetto “piano dei 20 punti”, conta meno della carta su cui è scritto.
E di
questo sono consapevoli tutti.
Lo
stop al conflitto – la tregua, quindi, non certo la pace – si deve
essenzialmente al fatto che Israele si è dimostrato incapace di conseguire gli
obiettivi politici e militari, ma ha in compenso prodotto un’ondata di
isolamento internazionale senza precedenti, tale da rimettere in discussione –
forse per la prima volta in ottant’anni – la stessa esistenza dello stato
ebraico;
un’ondata che si è risentita particolarmente negli
Stati Uniti, andando a toccare anche la base elettorale di Trump – che già non
gode di un grande consenso nel paese.
Dunque
la tregua risponde alla necessità statunitense (e israeliana) di non proseguire
su una strada rivelatasi infruttuosa.
Dal
punto di vista della “Resistenza”, invece, la scelta di rispondere
positivamente al “piano” nasce fondamentalmente da alcune considerazioni
strategiche.
Innanzitutto,
era chiaro che la questione dei prigionieri israeliani aveva perso buona parte
della sua efficacia come leva sul governo di Tel Aviv, restando però come
problema politico e logistico per la Resistenza stessa.
Ugualmente,
erano chiare sia le ragioni che spingevano l’amministrazione statunitense a
volere uno stop, sia come questo avrebbe messo in difficoltà Netanyahu.
E, ovviamente, la consapevolezza che la tregua
avrebbe consentito non solo alla popolazione di Gaza di riprendere fiato, ma
anche di riaffermare l’ineludibile centralità della “Resistenza”.
A
questo punto, quindi, di là da possibili incidenti di percorso, è ragionevole
prevedere che la tregua reggerà.
Non
perché gli impegni di Israele e degli Stati Uniti siano di per sé affidabili –
tutt’altro – ma perché questo è nel loro interesse, per le ragioni suddette.
Tra
l’altro, in queste ore sta emergendo anche un altro aspetto della strategia
israeliana (che dimostra, tra l’altro, che a questo evento si stessero
preparando da tempo);
l’idea era quella di utilizzare alcuni clan familiari
di Gaza, da tempo dediti a traffici criminali e talvolta legati all’”Isis”,
come una sorta di longa manus dell’”IDF”, che infatti in questi due anni li ha
progressivamente aiutati e sostenuti, fornendo sia copertura militare che armi
e mezzi.
La presenza di queste bande avrebbe dovuto costituire
un ostacolo per il controllo del territorio da parte della Resistenza.
Che però ha ben chiaro il disegno, e sta
provvedendo a ripulire la Striscia da questi clan con un’azione militare dura e
rapida.
La
questione più immediata, quindi, riguarderà la ricostruzione di un minimo di
infrastruttura amministrativa, in grado di gestire la ripresa degli aiuti
alimentari, la ricostruzione della sanità, l’assistenza agli orfani ed agli
invalidi, nonché l’urgente questione della sistemazione della popolazione in
vista dell’inverno.
Questa fase non potrà essere gestita che da
ciò che è rimasto della vecchia amministrazione pubblica di “Hamas”, col
supporto delle “formazioni della Resistenza”.
Le due
questioni successive – tempi e profondità del ritiro dell’IDF, e governance
della Striscia – comunque preliminari a qualsiasi processo di ricostruzione,
rappresentano quindi il nodo fondamentale.
Ovviamente, Israele cercherà di ritardare il
più possibile il ritiro, e di limitarlo.
Ma
questo è legato alla capacità (politica, ovviamente) di allontanare dalle aree
controllate la popolazione palestinese;
tendenzialmente,
comunque, prima o poi si ritirerà nella prevista “fascia di sicurezza” lungo il
confine – peraltro più simbolica che pratica, e che richiederà uno sforzo di
presidio militare non sostenibile a lungo.
Quanto
alla governance, è sin troppo evidente che questa sarà in una prima, non breve
fase, assunta direttamente dalla Resistenza, per il semplice motivo che non è
possibile calare dall’alto una struttura efficace – e che peraltro non esiste.
La
composizione di questa, quindi, occuperà buona parte delle negoziazioni a
venire, che – spenti appunto i riflettori dello show mediatico, e quindi
l’interesse dei leader – finirà affidata ad un esercito di funzionari-sherpa, e
si protrarrà per mesi – nella migliore delle ipotesi.
Cosa
che, ovviamente, consentirà alla Resistenza di riconsolidare la sua centralità
anche sul piano amministrativo.
Per
quanto riguarda la ricostruzione, è abbastanza evidente che richiederà
investimenti considerevoli, e quindi chi dovrà metterci i soldi – i paesi del
Golfo in primis – vorrà vedere un minimo di stabilità.
Non è quindi, purtroppo, prevedibile che parta
a breve.
Quantomeno, non in termini massivi, e
relativamente alle questioni più onerose (impianti idrici ed elettrici, ad
esempio).
È però
presumibile che accada qualcosa di simile a quello che abbiamo visto in Libano,
dove Hezbollah – che non ha mai smesso di premere sul governo affinché si
assumesse l’onere di ricostruire – ha avviato un suo autonomo programma di
ricostruzione, usando probabilmente anche fondi iraniani.
Qualcosa
di simile potrebbe accadere anche a Gaza, dove semmai l’ostacolo maggiore
potrebbe essere la difficoltà ed i tempi necessari a far arrivare i materiali
da costruzione ed i macchinari necessari.
La
tregua, quindi, ha buone possibilità di durare, almeno sul medio termine.
Ma
ovviamente non è neanche lontanamente una pace, perché nemmeno affronta le
questioni nodali che stanno alla base del conflitto. Il quale,
ineluttabilmente, tornerà ad affacciarsi.
Al
tempo stesso, è chiaro che non si tratta nemmeno di un mero ritorno allo status
quo antecedente.
Nonostante
l’ottimismo diffuso a piene mani da Trump prima durante e dopo lo “show stile
Super Bowl in due tempi “– Knesset e Sharm – questi due anni hanno sì
ridisegnato il Medio Oriente, ma non come credeva Netanyahu.
Oggi,
la realtà è che Israele è più debole, più diviso al suo interno, più isolato
internazionalmente, e più dipendente che mai dagli Stati Uniti.
I quali a loro volta non stanno tanto bene.
Al
contrario, l’Iran si è affermato come una potenza regionale, anche militare,
perfettamente in grado di tenere testa ad Israele.
E l’Asse della Resistenza, per quanto
ovviamente abbia subito colpi significativi, esce invitto da due anni di
guerra.
Tutti
cominceranno a prepararsi per il prossimo round.
(Enrico
Tomaselli).
(facebook.com/enrico.tomaselli/?locale=it_IT).
(ariannaeditrice.it/articoli/il-giorno-dopo).
IL
GENOCIDIO È AMERICANO
da
VOLERELALUNA.
Officinadeisaperi.it - Piero Bevilacqua – (16-10-2025)
– ci dice:
Il
genocidio è americano.
Non
lasciamoci ingannare.
Quella ottenuta da Trump non è una pace, ma
per il momento una tregua, un cessate il fuoco, comunque benvenuto per le
martoriate popolazioni palestinesi.
Esso
schiude spiragli per il futuro aperti a importanti possibilità su cui occorrerà
ritornare.
La rivolta di massa che ha investito i paesi
europei, le divisioni interne allo stato di Israele, lo scandalo della
posizione genocida americana di fronte al mondo, ha costretto Trump, o qualche
suo influente consigliere, a intervenire con qualche soluzione che fermasse il
massacro.
Il
sollievo che proviamo in questo momento, le emozioni che ci suscitano le
immagini dei disperati, che festeggiano la tregua tra le rovine delle proprie
case, non ci deve, tuttavia, annebbiare la mente, né far desistere dai compiti
dell’analisi storica.
L’unica in grado di restituire la corretta
lettura dei fatti.
Anche se oggi bisogna pur sottolineare un
fatto di grandissimo rilievo: la potenza politica delle mobilitazioni di massa.
Quello
che non hanno fatto gli stati di quasi tutto il mondo, il Parlamento europeo,
le inconsistenti élites di un continente alla deriva, lo hanno fatto milioni di
cittadini, tantissimi ragazzi e ragazze che per giorni e giorni sono scesi
nelle strade nostre città.
Ma il
fine di questo articolo è un altro.
Oggi,
in Italia, assistiamo a un evidente fenomeno di comportamento gattopardesco.
Di
fronte all’abbagliante evidenza del genocidio compiuto a Gaza, i narratori
delle magnifiche sorti e progressive dell’Occidente cominciano ad ammettere
qualcosa, ma non per rivedere errori di valutazione, accennare a un’onesta
autocritica. No.
Cedere
su questa o quella questione particolare risponde a un intento politico
preciso: mantenere intatta la visione egemonica che il genocidio manda in
frantumi.
Esponenti politici, giornalisti, intellettuali
democratici (soprattutto quelli democratici) sono pronti a scaricare i sensi di
colpa con cui per due anni hanno nascosto e giustificato i massacri, concedendo
che, si, “Israele ha sbagliato, doveva fermarsi prima”, e qualcuno osa persino
esporsi con “Netanyahu è un criminale”.
E
altre concessioni di simile tenore.
Ammissioni
più penose per superficialità delle menzogne precedenti.
Se poi si fa cenno alle responsabilità
americane naturalmente tutte vengono selettivamente concentrate sul violento e
imprevedibile Trump, che aveva proposto di trasformare Gaza in un resort per
miliardari come lui.
Sappiamo
bene che il genocidio e il disegno della “soluzione finale” nei confronti della
popolazione di Gaza e della Cisgiordania, non erano una solitaria follia del
criminale Netanyahu e degli uomini del suo Governo, ma di tutto il fronte
sionista delle classi dirigenti israeliane.
E non solo, gran parte del gruppo dirigente
israeliano ha condiviso quella scelta.
Basti
ricordare che il 24 luglio di quest’anno la Knesset, il parlamento di Tel Aviv,
con 71 voti favorevoli e 11 contrari ha approvato una mozione che impegna il
Governo d’Israele a procedere all’annessione della Giudea e della Samaria, che
nel linguaggio biblico corrispondono all’odierna Cisgiordania.
Ma
fermarsi alle responsabilità di Israele di fronte a quanto è accaduto, anche
soltanto in questi ultimi due anni, oggi non è ammissibile neppure nelle
chiacchiere da bar.
In
realtà abbiamo tutte le ragioni per affermare che senza l’ampio appoggio
militare, politico, diplomatico e mediatico degli USA il genocidio non sarebbe
stato neppure concepibile.
Cominciamo
col ricordare gli ingenti capitali messi a disposizione di Israele: d
al 7
ottobre 2023 al 30 settembre 2024 gli Stati Uniti hanno speso ben 22,7 miliardi
di dollari in sostegno militare a Israele (L. J. Bilmes, W.D. Hartung, S.
Semler, United State on Israel’s Military Operations and Related U.S.
Operations in the Region. October 7, 2023 – September 30, 2024, Watson
Institute for International Public Affairs, 7 ottobre 2024).
E
questo è solo un aspetto del supporto militare.
Trascuriamo
per brevità le portaerei nel Mediterraneo, le migliaia di soldati insediati in
area, le basi militari, ecc.
In
questi due anni è stata l’amministrazione del democratico Biden a fornire
all’esercito di Israele le bombe che hanno distrutto abitazioni, ospedali,
scuole, università, annientato tende di rifugiati, bruciato campagne coltivate,
ucciso anziani inermi, donne e bambini a migliaia al mese.
Un
rapporto del Comitato Speciale delle Nazioni Unite sulle pratiche israeliane
nei territori occupati, presentato all’Assemblea Generale il 18 novembre 2024,
ricordava che nel solo mese di febbraio le forze israeliane avevano utilizzato,
nella striscia di Gaza, più di 25.000 tonnellate di esplosivo:
l’equivalente di due bombe nucleari, vale a
dire circa il doppio della potenza distruttiva della bomba sganciata su
Hiroshima.
Erano
bombe spedite costantemente dagli USA, che evidentemente condividevano, con
Netanyahu, il progetto della “soluzione finale” della questione palestinese.
Qualcuno ricorda quante volte, durante il
2024, Joe Biden annunciava come prossimo un cessate il fuoco?
Menzogne suggerite dagli esperti della
comunicazione.
Dovevano
consentire a Israele di continuare il “lavoro sporco” (come si è espresso con
eleganza quel grande statista tedesco) contro i palestinesi, ingannando
l’opinione pubblica americana e offrendo ai giornalisti occidentali l’immagine
di una falsa neutralità di mediatori degli USA su cui poggiare il proprio
pacchetto di menzogne.
Biden
sotto banco inviava tonnellate di bombe, in pubblico annunciava imminenti
accordi di pacificazione che non arrivavano mai.
E qui
sfioro una questione capitale.
Il sostegno mediatico che gli USA forniscono
alle classi dirigenti occidentali per ottenere consenso, manipolare la propria
opinione pubblica, mascherare anche le operazioni più criminali, è uno degli
aspetti più ignorati e politicamente più rilevanti della storia contemporanea
recente.
Sono
gli Americani che decidono (e convincono larga parte del mondo) quali
formazioni sono da considerare terroriste, quali stati sono “Stati canaglia”,
quali sono le forze del bene e quelle del male.
Essi
forniscono il materiale informativo e l’indirizzo ideologico al fine di
consentire alla stampa vassalla la possibilità di impastare il nobile racconto
occidentale.
E alla fine realizzare di tale compito lavorano non
soltanto con le loro potenti agenzie di stampa, come Associated Press e
l’Agenzia Reuters (senza considerare l’influenza dei colossi mediatici), ma
anche, e in maniera più mirata, con decine di migliaia di esperti di
comunicazioni di massa al servizio del Pentagono.
Gruppi
di creatori di notizie che confezionano le narrazioni destinate alle redazioni
dei giornali.
È grazie a questa gigantesca opera
sotterranea, che l’oppressione quotidiana, l’apartheid conclamato,
l’imprigionamento di fatto di milioni di palestinesi a Gaza, un oltraggio
all’umanità che dura decenni, è stato sapientemente cancellato agli occhi
dell’opinione pubblica mondiale.
(Sul ruolo della stampa oggi, P. Bevilacqua, Stampa di
guerra, Historia Magistra, 2023, n. 43, ma la pubblicazione è del 2024)
Ma c’è
un sostegno storico più ampio degli USA a Israele, che ha trovato il suo
culmine dopo il 7 ottobre 2023, e che colloca l’iniziativa americana entro una
prospettiva più vasta.
Washington ha cominciato a finanziare
decisamente Israele dopo la guerra dei sei giorni del 1967.
Le
capacità militari dimostrate dall’esercito di Tel Aviv in quel conflitto hanno
convinto gli americani a farne il proprio avamposto strategico in Medio
Oriente.
Con
gli anni, poi, le potenti lobby ebraiche USA, com’è largamente noto, hanno
finito col condizionare il sistema elettorale americano, legando così in
maniera sistemica lo Stato di Tel Aviv al suo protettore.
Israele,
spesso va oltre le indicazioni USA, vassallo irrequieto, e impetuoso.
Alcuni
studiosi – in una ricerca ingiustamente trascurata – hanno addirittura messo in
evidenza come in fatto di tecniche militari gli israeliani hanno talora fornito
insegnamenti all’esercito americano (E. Bartolomei, D. Carminati, A.
Tradardi, Gaza e l’industria israeliana della violenza, DeriveApprodi, 2015).
Tuttavia
Israele resta il braccio armato della politica estera dell’impero americano in
quella importante regione del mondo.
Gli USA non si limitano a mandare armi, ma
hanno bloccato dal 1948 ben 45 volte le 94 risoluzioni dell’ONU che
sanzionavano le violenze e le infrazioni di Israele (tutte lodevolmente
pubblicate in appendice a J. Baud, Operazione Diluvio Al-Aqsa. La sconfitta del
vincitore, Max Milo, 2024).
Tutti
i ferventi difensori dell’ordine internazionale si ricordano della sua
esistenza solo per la Russia che ha invaso l’Ucraina e dimenticano
l’essenziale.
Vale a
dire che l’ordine internazionale è stato sistematicamente violato per 80 anni
da Israele, con la copertura degli USA, i quali hanno finito con l’infliggere
danni irreparabili al prestigio e alla credibilità dell’ONU.
Con la
copertura politica della potenza americana, Israele, soprattutto dopo la guerra
del 1967, ha potuto compiere tutta la propria operazione di espropriazione
delle terre palestinesi, la politica di apartheid nei territori occupati, i
massacri a Gaza seguiti alle varie intifade, le occupazioni illegali in
Cisgiordania, i bombardamenti in Libano e in Siria, insomma tutta l’opera che
precede e accompagna il genocidio di questi ultimi due anni.
Infine
un’ultima considerazione.
Chi ha a cuore le sorti del popolo palestinese spesso
lamenta l’indifferenza, se non l’ostilità, di gran parte degli Stati arabi nei
suoi confronti.
Ma di
quanta corruzione in fiumi di dollari, di quante minacce militari subite si
nutre da decenni questa indifferenza?
Che cosa ne sappiamo noi delle operazioni segrete
delle agenzie USA presso le élites politiche di questi paesi?
La
storia segreta della politica estera americana si può conoscere solo dopo
decenni, quando vengono desecretate le carte d’archivio e il castello di
menzogne con cui è stata ingannata l’opinione pubblica mondiale viene alla
luce.
Spesso,
bisogna dire, per merito di storici e giornalisti americani.
Ma davvero i governi del Qatar, del Libano, della pur
debole Giordania, dell’Egitto, della Turchia, della stessa Arabia Saudita, con
le loro opinioni pubbliche ferocemente antisraeliane, sarebbero rimaste inerti
di fronte a tanto massacro senza la presenza militare USA, le sue basi
militari, le sue portaerei, la sua minaccia di devastanti bombardamenti?
Forse che le élites di quegli stati non ricordano i
bombardamenti in Iraq, Libia, Siria, e ultimamente sull’Iran?
Dunque
il genocidio a Gaza è interamente parte del progetto di dominio unipolare
dell’Impero americano.
E i
governi europei che nel genocidio hanno fatto la loro parte, soprattutto
Germania e Italia (E. Traverso, Gaza davanti alla storia, Laterza, 2024), oggi vedono macchiato dal disonore un
mito che dura da 80 anni, pilastro egemonico della loro narrazione:
quello
dello Stato democratico più antico del mondo, che esporta la democrazia presso
gli stati autocratici.
Oggi
quella democrazia appare per quello che è da decenni, una plutocrazia aperta
agli esiti più avventurosi, come mostra la presidenza Trump.
È
evidente dunque che le élites europee si trovano intrappolate nelle menzogne
con cui hanno cercato di mascherare la propria subalternità al Grande Fratello
e ora cercano di fronteggiare un duplice scacco:
la
sconfitta nella guerra in Ucraina, con cui si voleva far crollare la Russia, e
il fallimento del progetto genocida a Gaza, compresa la liquidazione dell’Iran.
Perciò le loro posizioni pubbliche oscillano
oggi penosamente tra il ridicolo e il grottesco.
Come
fanno a schierarsi con gli USA, mentre il loro governo si è trasformato in
nemico, agente di una guerra economica e commerciale senza precedenti contro
l’Europa?
E infatti non possiamo non porci la grande
domanda che riguarda il nostro immediato futuro:
quale
grave e irreversibile delegittimazione subiranno le classi dirigenti del nostro
continente, che continuano a indicare nella Russia il nemico alle porte, mentre
l’America tenta di arginare il suo declino saccheggiando il nostro patrimonio
industriale e imponendoci esborsi finanziari rovinosi?
L’EROSIONE
DELLA DEMOCRAZIA
NEL
SEGNO DEL TECNOFASCISMO
da IL
FATTO.
Officinadeisaperi.it
– Donatella DI Cesare – (17 ottobre 2025) – ci dice:
Pubblichiamo
un estratto del libro “Tecno fascismo” di Donatella Di Cesare.
L’
erosione della democrazia nel segno del tecno fascismo.
L’erosione
della democrazia non fa più notizia e nessuna maschera esterna potrebbe ormai
occultare, o anche solo dissimulare, il processo in corso da tempo.
C’è chi allude a un ultimo atto, quasi fosse
inevitabile prenderne congedo, e chi avanza invece l’esigenza di rafforzare
l’impalcatura, il fondamento interno (regole e procedure) e la corazza esterna
(attrezzature militari).
Ma la
democrazia non è un regime, non è basata su un pilastro stabile. Proprio la sua
flessibilità e la sua apertura sono invece baluardi contro ogni violenza che,
dentro come fuori, potrebbe svuotarla ed esautorarla. (…)
In che
modo avviene l’erosione della democrazia?
Due
sono le tendenze, diverse ma complementari, che si possono osservare con
chiarezza già da tempo e che oggi emergono più chiaramente.
La prima è la tendenza tecnocratica, che si traduce nella completa
subordinazione all’economia di una politica ridotta ad anonima governance
amministrativa, che fa il gioco di grandi imprese, industria militare, banche e
capitale finanziario.
La seconda è la tendenza etnocratica che si realizza in un esercizio
familistico del potere e in una gestione dei popoli intesi come iper famiglie,
comunità naturali chiuse, basate su nascita e discendenza, rese salde e stabili
da legami di sangue e di suolo, capaci di essere ripari adeguati in un mondo
sempre più caotico e inospitale.
Queste
due tendenze, apparentemente antitetiche, si congiungono in un ibrido senza
precedenti, una nuova forma di totalitarismo che insieme cancella la politica e
decompone la democrazia. (…)
Narrata
come il primo stadio del nuovo scontro di civiltà, la guerra russo-ucraina,
scoppiata il 24 febbraio 2022, rappresenta un punto di svolta epocale.
Le
ostilità in Medioriente, scoppiate il 7 ottobre 2023 e culminate nel conflitto
fra Israele e Iran, confermano l’ingresso in un’epoca inedita e sconosciuta.
Non
possono dunque essere considerate come meri episodi ulteriori della “terza
guerra mondiale a pezzi” per via del risvolto politico: l’emergere, a cento anni dall’avvento
del fascismo, di una forma di totalitarismo che, a differenza di quello
novecentesco, appare più insidioso e subdolo, più disperso e sfuggente.
Esiti
non di uno scontro di civiltà, bensì di un incontro di utilità, i conflitti
attuali sono quel detonatore in grado di far luce su nessi esplosivi. L’alleanza tra manager delle grandi
aziende belliche, rappresentanti delle gerarchie militari e ceto politico non è
che l’aspetto più subdolo di un capitalismo che coinvolge, consuma e devasta le
democrazie spinte, per garantirsi benessere ed extraprofitto, a diventare
principali azioniste del mercato di guerra.
A mo’
di sovrani assoluti del passato, ma disponendo di una concentrazione di mezzi
tecnici e finanziari, nonché di armi nucleari devastanti, le élite occidentali
decidono le guerre senza chiedere in alcun modo il consenso dei propri
cittadini e calpestando, anzi, la loro aspirazione alla pace.
Negli
ultimi decenni la globalizzazione neoliberale e la finanziarizzazione del
capitale hanno delocalizzato i centri del potere reale sottraendoli alla
portata dei cittadini e delle comunità storicamente costituite.
Si
sono andate così formando reti transnazionali, sempre più sofisticate e fluide,
che comandano senza alcun bisogno di apparati statuali e istituzionali.
È
questa, anzi, la causa del tramonto, annunciato da tempo, e ormai
irreversibile, dello Stato nazionale. (…)
La
tendenza tecnocratica e quella etnocratica, apparentemente antitetiche, si
combinano perfettamente in un inquietante processo.
Per
indicare questa sospensione tecnica della democrazia, che si coniuga con un
rilancio della sovranità in chiave etnica, si potrebbe parlare di tecno fascismo.
Meloni,
altro che Palestina: la sua vera guerra è ai Pm.
“Gian
Carlo Caselli - 16 Ottobre 2025).
Giorgia
Meloni ha saputo abilmente costruirsi una parvenza di equilibrio e di misura.
Ma sotto di essa – molti lo sostengono – si
delineano pulsioni di oltranzismo ed estremismo, riconducibili alla cultura
autoritaria del Movimento Sociale Italiano degli anni 70/80 guidato da Giorgio
Almirante.
Una
tesi che suscita qualche preoccupazione, nella misura in cui può covare la
volontà di capovolgere regole e princìpi fondanti della democrazia
repubblicana.
Ad
esempio, mediante riforme come quelle del premierato e della separazione delle
carriere fra Pm e giudici:
dirette,
la prima a rafforzare il potere esecutivo senza adeguati bilanciamenti, la
seconda a rendere meno indipendente e incisiva l’azione della magistratura.
La
separazione delle carriere sembra diventata un’ossessione per la nostra
premier, al punto da indurla a scambiare il Palazzo di Vetro dell’Onu con il
cortile di Palazzo Chigi.
All’Assemblea generale Onu del 25 settembre,
infatti, Meloni ha svolto un duro intervento contro i giudici italiani
“politicizzati” che interpretano le regole in modo ideologico e unidirezionale,
calpestando il diritto invece di affermarlo e contrastando l’azione del
governo.
Un manifesto di pura politica nazionale
fragorosamente lanciato in un consesso mondiale;
finalizzato
anche al referendum che dovrà confermare o bocciare la riforma costituzionale
della separazione delle carriere tra Pm e giudici.
L’idea
di infilare questo tema in un contesto internazionale dedicato al drammatico
problema della guerra e della pace nel mondo poteva venire in mente soltanto a
uno statista con una smisurata fantasia creativa.
Fortunato il paese che ce l’ha… O forse no?
La
feroce guerra di Trump &Co. al “nemico interno.”
In
cammino verso la guerra civile…
Pungolorosso.com
– (Ott. 15, 2025) - Redazione – ci dice:
Al
termine della prima puntata di questa serie dedicata alla guerra di Trump e
sgherri al “nemico interno”, scrivevamo:
“nella
prossima ragioneremo sulle cause e le conseguenze di queste politiche che
designano, nel declino storico della superpotenza statunitense, il cammino ad
una nuova guerra civile.”
È su questa tendenza che ci concentriamo ora.
Partiamo da due commenti di vecchie volpi
comparsi su “La Stampa”, dove si affronta l’accelerazione autoritaria in corso
ed il connesso rischio di una “guerra civile” assumendo piuttosto palesemente
un’ottica di classe.
Segue l’analisi di un articolo di “C. Hedges”,
ricco di eloquenti testimonianze dalla pancia del movimento MAGA.
Infine,
dopo aver ripreso un nostro contributo relativo ad intensità e qualità del
conflitto negli U.S.A., cerchiamo di dimostrare la sciagurata razionalità della
marcia autoritaria del governo Trump, la cui ragion d’essere risiede nei
bisogni della “corporate America”.
L’articolo si muove nel tempo sospeso e carico
di avvenire che segue immediatamente il delitto Kirk.
1. In
un suo recente commento (La Stampa, 12 set. 2025), “Alan Friedman” dà una
lettura dell’attentato Kirk come evento polarizzante in un’atmosfera
surriscaldata, e quindi come catalizzatore dello scontro politico e sociale.
Con la
prospettiva dell’establishment democratico, insieme conservatrice e
lungimirante, l’articolo dà il polso della situazione negli Stati Uniti in
termini complessivi, politici.
“Friedman”
vede un rischio per la “democrazia e la società civile” statunitensi, cioè per
lo Stato e l’ordine sociale, ordine di classe, razzista e sessista.
Teme lo scoppio di una “guerra civile”, un’esplosione
della conflittualità (seppur “a bassa intensità e sporadica”, fatta di
attentati, assassini politici, sparatorie).
L’innesco
è ravvisato nell’azione della destra trumpiana, di cui Kirk era una
figura-cardine.
È bene
anzitutto dire di “Charlie Kirk”.
Fin dal primo mandato Kirk apparteneva alla
cerchia ristretta del presidente gangster dal ciuffo arancione:
ospite fisso alla Casa Bianca, era insieme
“cheerleader, guardiano e factotum politico”.
Procacciava
dollari e consensi, specie tra i giovani;
garantiva
a Trump “un canale di energia giovanile”.
“Turning
Point USA”, la sua macchina della propaganda, diviene rapidamente un impero,
passando da 4 a 92 milioni di entrate tra il 2016 e il 2023.
In “Fiesta”
di” Hemingway” un personaggio dice di aver fatto bancarotta “in due modi. Poco
alla volta e all’improvviso”.
La vicenda statunitense avrebbe assunto tali
proporzioni da poter precipitare, facendo un salto di qualità.
Kirk
era tra gli artefici dell’azione violenta ed improntata alla paura condotta
dalla destra trumpiana.
Fu un
fautore del tentativo insurrezionale del 6 gennaio 2021, significativo
dell’istinto eversivo della nuova destra (Kirk rivendicava di aver organizzato
“più di 80 pullman di patrioti diretti a Washington per combattere per questo
presidente”).
Soprattutto,
sparse a piene mani veleno razzista e sessista.
Secondo
Kirk, “gli afro-americani stavano meglio sotto la schiavitù”.
È una
legittimazione del potere razzista e dello sfruttamento differenziale, cioè
bestiale, delle comunità afroamericane ed immigrate – politica funzionale alla
divisione interna e dunque alla spremitura della working class tutta, per fare
l’Amerika capitalistica great again.
Kirk,
la destra MAGA, come espressione estrema, scoperta, del razzismo di Stato.
Con
altrettanta violenza Kirk propugnava la sottomissione della donna.
“Ad un
forum pubblico – ricorda Friedman – gli chiesero se la sua ipotetica figlia di
dieci anni, violentata e rimasta incinta, potesse abortire:
È
terribilmente crudo. Ma la riposta è no, il bambino verrebbe partorito.“
Già il linguaggio è rivelatore, la forma
passiva che esclude il soggetto reale, la madre: “verrebbe partorito”.
La
donna è rappresentata e si vuole che sia un essere privo di ogni dignità:
un
organismo utile alla procreazione e alla cura della prole e del ‘focolare’,
oltre che – ancora a proposito di sfruttamento differenziale – una lavoratrice
vulnerabile e ricattabile, tanto più se si tratta di donne immigrate o
afroamericane.
È il
duplice giogo della riproduzione sociale e della produzione spinta di valore.
Le
parole di Kirk – apostolo cristiano-nazionalista della “dottrina MAGA” con
schiere di seguaci digitali, ed ora martire – esprimono la durezza dell’attacco
sferrato dalla corporate America trumpiana alla massa della popolazione
mediante in particolare le armi del razzismo e del sessismo.
Un
simile, crescente livello di oppressione – “un’accelerazione reazionaria” già
in corso (L.
Celada, Il manifesto, 23 set. 2025), e che ora, a seguito dell’attentato, può ambire al
salto di qualità – può d’altra parte suscitare una risposta conflittuale;
questo il cruccio di Friedman.
Egli
richiama un altro aspetto della retorica di Kirk da ricondurre alla situazione
esplosiva della società statunitense.
Sollecitato
circa le cataste di morti da armi da fuoco, Kirk rispose: “sfortunatamente è il
prezzo che paghiamo per la libertà” (“fredda constatazione [che] suona come un epitaffio”, nota
Friedman).
Libertà
che, con 500 milioni di gingilli in mano a 50 milioni di pistoleri (M. Bryant, direttore del “Gun
Violence Archive,” La Stampa, 13 set. 2025), si traduce nella licenza di scannarsi
a vicenda:
nella
interminabile serie di manifestazioni sanguinose dello stato di avanzata
disgregazione della società amerikana.
E ciò va bene, ai repubblicani come ai democratici,
finché si tratta di un suicidio collettivo al rallentatore, ma preoccupa se
malessere e rabbia si aprono alla dimensione sociale e, sia pur embrionalmente,
si politicizzano.
Per
argomentare come l’omicidio-Kirk possa essere l'”evento polarizzante” che,
incoraggiando altra violenza, ossia anzitutto un’escalation repressiva, darà la
stura ad una “guerra civile”, “Friedman” addita la sequenza di attentati
verificatisi a partire dalla primavera scorsa.
Giugno,
Minneapolis.
L’assassinio
della speaker democratica “M. Hortman e del marito”, e il ferimento di un
senatore locale e della moglie, per mano di “V. Boelte”r – un fervente
cristiano evangelico responsabile dei rassicuranti “Praetorian guard security
services”, nonché tifoso dello Stato di Israele, il quale, come missionario a
Gaza e in Cisgiordania durante la Seconda Intifada, aveva “cercato gli
islamisti militanti per condividere il Vangelo e spiegare che la violenza non
era la risposta” (Wired,
16 giugno 2025).
Giugno,
Boulder (Colorado).
M.
Soliman – cittadino egiziano fedele alla causa della rivoluzione stroncata da
Al-Sisi con gran sollievo dell’Occidente democratico, e di recente
precarissimamente “integratosi” negli Stati Uniti con la famiglia – al grido di
“Palestina libera” si scaglia armato di un lanciafiamme artigianale contro un
sit-in della locale comunità ebraica per la liberazione dei prigionieri
israeliani.
La sua
famiglia verrà presto deportata (CNN, 2 giu. 2025; ABC News, 2 luglio 2025).
Aprile,
Pennsylvania.
La residenza del governatore democratico “J. Shapiro”
viene incendiata da “C. A. Balmer” – ex-riservista disoccupato, indebitato, con
un matrimonio a pezzi, che pesta la moglie e i figli, è esacerbato dal
caro-vita (“Can’t
pay rent? Sell your fuckin’ organs! No more organs? Fuckin’ die then this is
America be grateful for the opportunity you had.“), odia sia Biden che Trump,
santifica la molotov (“Be the light you want to see in the world.“) (ABC News, 15
aprile 2025).
“Friedman”
parla di guerra civile “sporadica”, “a bassa densità”.
In
effetti, in questi eventi spicca la figura del “leone gunman (pistolero
solitario) alla Taxi Driver, senza una realtà organizzata alle spalle, e va
ammessa una componente di malessere interiore.
D’altra parte, Friedman a ragione insiste sulla
qualità generale del fenomeno quando precisa che “non sono atti isolati”.
Essi
sembrano infatti esprimere l’acuto livello di abiezione, disperazione e
agitazione della società statunitense – una società, inoltre, infetta dal virus
della brutalità imperialista che ha esportato a piene mani.
Vi è
un fermento diffuso che, in forma magari confusa, tende a politicizzarsi con
radicalità.
Ne è
esempio la vicenda di “T. Robinson”, l’attentatore di Kirk.
Un
ragazzo “normale”, uno studente capace, scrivono i giornali.
Cresce
sereno in una famiglia conservatrice tradizionale tra gite in Alaska e a Disney
World.
Conduce
un'”esistenza tranquilla” condita dall’uso di armi da fuoco:
il
fucile ai tempi delle elementari, la prova con la “M2 Browning” da giovanotto.
Tranquillamente,
da adolescente si frigge il cervello con l’ameno Hell divers, insieme
realistico sparatutto e “fantasia di potere”, adatto a chi senta il bisogno di
“far saltare tutto in aria” (Forum in Reddit, 17 set. 2025).
Si
tiene alla larga dalla politica ufficiale e dal seggio elettorale.
Tuttavia,
di recente diventa “irascibile, pronto alla discussione e assai motivato”; si
era “radicalizzato politicamente”, spiegano i familiari.
Si è
accesa una fiamma, che brucia articolando discorsi generali, politici, e trova
un bersaglio ideale in Kirk (La Stampa, 13 set. 2025).
Se
questa storia esprime probabilmente l’inesorabile discesa del ceto medio
statunitense, è significativo che Friedman dia un taglio sociale, di classe,
alla lettura della situazione.
Come
visto, egli si sofferma infatti sulla politica aggressiva della destra
trumpiana, mediante in particolare l’arma del razzismo, e lo fa perché la
interpreta come la benzina gettata sul fuoco d’una sofferenza e di una rabbia
che dunque – a ciò guarda l’establishment – sono quelle del proletariato, e
anzitutto della sua componente afroamericana ed immigrata.
Con
l’espressione “guerra civile”, Friedman sembra voglia intendere, al di sotto
della sanguinosa sequenza degli attentati, la possibilità di un’esplosione di
classe a fronte dell’attacco brutale e privo di mascherature “democratiche”
sferrato dalla cricca del gangster dal ciuffo arancione.
Certo,
scrive infatti, l’Ameria è intrisa della “cultura delle armi”, ma sarebbe
errato cullarsi in una simile lettura dei recenti attentati, impolitica e
rassicurante, perché “Trump ha strappato il cerotto del razzismo, ha ammiccato al
suprematismo bianco con il compiacimento maligno di un complice”.
2. Al
commento di Friedman fa eco un’analisi dello storico direttore dell’Economist, “B.
Emmot,” il quale alza lo sguardo alla prospettiva politica di medio-termine (La Stampa, 13 set. 2025).
D’accordo
con Friedman, Emmot considera le ripercussioni dell’attentato Kirk e paventa
che, dati anche l’inclinazione yankee alla violenza e un arsenale civile
imponente, Trump e soci vogliano enfatizzare la spaccatura politica, finendo
con il mettere così a rischio la “stabilità della democrazia americana”, la
tenuta dello Stato.
La
previsione colpisce per la sua drammaticità e si riassume nelle parole
“dittatura” e “guerra civile”, ossia, rispettivamente:
“la
possibilità che il governo ricorra alla forza militare per assumere il
controllo” e la “possibilità – solo accennata da Friedman – che la violenza
politica si diffonda in una popolazione ben armata”, conducendo così ad un
conflitto ‘ad alta densità’.
In un
contesto di radicalizzazione e crescente disponibilità alla violenza politica (secondo un recente sondaggio, un
quarto della popolazione è favorevole alla violenza politica, e lo è ben il 41%
dell’elettorato trumpiano (Pew Research Center, 2024)), l'”istinto” del governo Trump di
ricorrere alla forza per estendere il potere può alimentare una “spirale di
violenza e l’intervento dello Stato” – così Emmot.
Sulla
falsariga di Friedman, ma più apertamente, “Emmot” ravvisa la possibilità di
un’esplosione dei conflitti sociali e politici e, malgrado il debole argomento
dell'”istinto” dittatoriale di Donald, sembra ritenere una prospettiva
realistica la torsione autoritaria dello Stato.
Friedman
concludeva allusivamente il suo pezzo ricordando il cruento programma
presidenziale per le celebrazioni della prossima festa dell’indipendenza:
un “cage
fight UFC” collocato nel giardino della Casa Bianca, “con ottagono, laser,
fuochi d’artificio e sangue nell’erba del South Lawn” – “metafora perversamente
perfetta dell’America di Trump”.
“Emmot
“svolge la metafora.
Nota
come la destra trumpiana, Musk in testa, abbia ovviamente strumentalizzato lo
shock prodotto dall’attentato-Kirk per denigrare la “sinistra radicale”, e lo
stesso dicasi per le dichiarazioni seguite al recente attacco al “centro ICE”
di Dallas.
Soprattutto,
Emmot evidenzia come la tendenza ‘dittatoriale’ fosse già consolidata,
soffermandosi sull’impiego discrezionale della Guardia Nazionale e dell’ICE (espansione dell’Immigration and
Customs Enforcement Agency, istituita dopo l’11/9 per incarcerare all’insegna
del puro arbitrio i ‘soggetti pericolosi’ e organizzare rimpatri forzati), cioè sul ricorso sistematico e
politico alla forza in aree urbane amministrate dal Partito democratico;
laddove quel che conta, oltre ai colpi bassi assestati ai democratici, è la
normalizzazione di una gestione militare del dissenso e di una politica del
terrore nei confronti delle comunità immigrate.
Emmot
afferma che l'”espansione sistematica del ruolo dell’esercito negli Stati Uniti
e dell’ICE negli interventi di ordine pubblico”, che rischia di fare un salto
di qualità dopo l’attentato-Kirk ed il fatto di Dallas, potrà causare un
deterioramento della “democrazia” e della “legalità” così rapido e profondo da
far rimpiangere il pur cupo scenario di “violenza politica a bassa intensità”
delineato da Friedman.
Trump,
si rammarica Emmot, ha adottato una “forma tribale di politica”, facendosi cioè
interprete della tendenza della corporate America a forzare il quadro
liberal-democratico.
Il
cruccio, per gli Emmot, è la possibile conseguenza, il rischio di “scatenare un
tribalismo simile a sinistra”, o, in altre parole, una conflittualità che
ignori le forme della mediazione democratico-istituzionale assumendo un profilo
più autonomo e di classe.
Comunque,
Emmot ritiene che gli Stati Uniti abbiano imboccato la via autoritaria,
tendendo ogni giorno di più ad una gestione brutale del potere di classe.
Sicché,
scrive, un evento come il delitto Kirk, od un altro analogo, potrà essere
facilmente preso a pretesto per dichiarare l’emergenza nazionale, introdurre la
legge marziale su ampia scala, perseguitare il dissenso sospendendo le libertà
fondamentali, ed altre amenità, con un rinvio ad libitum delle elezioni.
Malgrado
il suo commento abbia il significato di un attacco allarmistico alla destra
trumpiana, Emmot sembra convinto di un simile scenario;
si
interroga addirittura sul possibile ruolo dell’esercito nell’eventualità di una
svolta reazionaria e stabilisce un confronto con la vicenda di “Bolsonaro”,
sulla quale d’altronde è intervenuto Trump a gamba tesa deprecando la condanna
del suo simile per tentato golpe.
In Fiesta di Hemingway, ricorda Emmot, un personaggio
dice di aver fatto bancarotta “in due modi. Poco alla volta e all’improvviso”.
Ovvero,
la vicenda statunitense avrebbe assunto tali proporzioni da poter precipitare,
facendo un salto di qualità.
3. “I martiri sacralizzano la violenza.
Vengono
usati per rovesciare l’ordine morale. La depravazione diventa moralità.
Le
atrocità eroismo. Il crimine giustizia. L’odio virtù. […] La guerra è l’estetica finale.
Questo
è ciò che sta arrivando.”
All’indomani
del delitto-Kirk, celebrato come martire dalla destra MAGA, il commentatore
radicale “C. Hedges” scrive un pezzo angosciato, privo della visione dei
Friedman e degli Emmot, ma utile per toccare con mano l’accelerazione di quel
che Hedges vede senz’altro come fascistizzazione del discorso politico
statunitense.
L’alto
papavero “Bannon” invita dalla sua “War Room” ad avere una “risoluzione ferrea”
perché Kirk è una “vittima di guerra.
Siamo
in guerra in questo paese”.
Gli fa
eco Musk: “se non ci lasceranno in pace, allora la nostra scelta è combattere o
morire”.
Il
commentatore e autore “M. Walsh” dà un volto al nemico, le “forze democratiche
provenienti dall’inferno”.
Il
deputato “C. Higgins” stila un piano di guerra:
minaccia di ricorrere al Congresso e alle
piattaforme digitali per stanare chiunque abbia “sminuito [c.n.] l’assassinio
di Charlie Kirk”, revocare quindi licenze commerciali e patenti di guida,
inserire “aggressivamente” le attività dei traditori nella lista nera,
cacciarli dalle scuole – in breve, “I’m basically going to cancel with extreme
prejudice these evil, sick animals.” (Intendo eliminare senza mezzi termini questi
animali malvagi, malati).
Higgins onora così la pia opera di san Kirk,
che aveva tra l’altro fondato la “Professor Watchlist” e la “School Board
Watchlist” allo scopo di epurare i docenti della “sinistra radicale”.
Infine il giovane e influente paperone” J.
Lonsdale” – appassionato di “riparazione di industrie e governi dissestati” (sito personale Joelonsdale.com,
consultato il 9 ott. 2025) – incolpa dell’omicidio Kirk l'”alleanza rosso-verde” dei
“comunisti islamisti” che insidiano la “civiltà occidentale”.
Anche qui un degno omaggio a Kirk, campione di
islamofobia, promotore di campagne d’odio contro le popolazioni
arabo-islamiche: “L’Islam è la spada che la sinistra sta usando per tagliare la
gola all’America”, predicava il buon Charlie.
Le
citazioni raccolte da “Hedges” sono importanti perché mostrano che il
linguaggio bellicista e imperniato sulla disumanizzazione del nemico, che da un
trentennio accompagna il fallimentare ma devastante rilancio dell’azione
imperialista occidentale a guida U.S.A – dall’Iraq all’Afghanistan, fino
all’inferno scatenato contro la resistenza palestinese – quel linguaggio è ora
moneta corrente, ha finito con il dominare la politica interna statunitense.
Guerra
è la parola, l’idea chiave.
Dalla
guerra esterna alla guerra interna.
Sulla
bocca di Kirk e adesso, possibilmente ancora di più, dei suoi seguaci.
Ma
guerra a chi?
È
importante capire il senso sociale, di classe, di questo linguaggio – ci sono
due aspetti, già accennati:
Il
primo riguarda la dimensione “strutturale” a cui va riferita l’ideologia
mobilitante MAGA;
riguarda
il razzismo ed il sessismo senza veli come strumenti di sfruttamento
differenziale e divisione della classe lavoratrice, e dunque come perno
dell’oppressione (delle parabole di Kirk va pure ricordata l’immagine dei “neri in
agguato” pronti ad assalire il probo viso pallido “per divertimento”, o il
giudizio secondo cui “Black Lives Matter “vuol “distruggere il tessuto della
nostra società”, e riguardo al sessismo l’esaltazione di Trump come “gigantesco
dito medio a tutti gli squittenti controllori di corridoio che hanno attaccato
i giovani uomini solo per il fatto di esistere”).
Il
secondo aspetto è l’attacco al processo di politicizzazione radicale dell’altra
America, dell’America proletaria, e ciò senza farsi scrupolo alcuno per la
violazione del diritto liberale, a cominciare dalla libertà di parola.
Questo
è il senso, lo scopo della demonizzazione di ogni soggetto in odore di
“sinistra radicale”:
soffocare
nella culla ogni orizzonte attivizzante di emancipazione collettiva.
Ciò
vale in particolare per la guerra senza quartiere dichiarata contro il
“comunismo islamista”.
Nel
mirino vi è la solidarietà diffusa e militante, ben viva negli U.S.A, con la
causa della popolazione palestinese, avanguardia della resistenza delle masse
arabo-islamiche all’imperialismo nel Medio-Oriente.
Quel
che con crescente brutalità vogliono schiacciare è l’identificazione dell’altra
America – identificazione di stomaco magari, ma a livello di massa – con la
causa della Palestina come “patria degli oppressi”, ben al di là della
questione nazionale.
Il che
mostra, inoltre, il legame tra la guerra esterna, imperialista, genocidaria,
condotta contro la resistenza palestinese da Israele, con il cruciale supporto
di Stati Uniti e Unione europea, e la guerra interna dichiarata dai vari Kirk
al movimento ProPal come catalizzatore di una pressione conflittuale – Kirk, a
proposito, viene compianto da B. Gantz come un “voracious defender of
Judeo-Christian values, America and the State of Israel“; del resto, malgrado
qualche balletto, egli negava ogni realtà all’affamamento di Gaza e plaudiva
alla repressione del movimento universitario delle acampadas, nonché alla
deportazione dell’attivista Mahmoud Khalil (Al Jazeera, 11 set. 2025).
“Hedges”
da una parte vede, come Friedman ed Emmot, la tempesta che arriva;
ha il
polso della pancia MAGA, avverte una diffusa, messianica “esaltazione per
l’imminente carneficina”.
Denuncia,
citando il comico dell’Alt-Right S. Hyde, il rischio della svolta autoritaria.
Dopo
l’omicidio Kirk, ha scritto Hyde rivolgendosi a Trump e taggando membri del
governo ed appaltatori militari privati:
“è ora di fare il tuo cazzo di lavoro e
prendere il potere [c.n.] … se vuoi essere più di una nota a pié di pagina nel
capitolo “Collasso americano” dei futuri libri di storia, ora o mai più”.
Hedges,
d’altra parte, a differenza degli Emmot e dei Friedman, dà un’interpretazione
riduttiva della tendenza fascistica amerikana, ché esclude la categoria e la
realtà del conflitto – di classe, di “razza”, di genere.
Si
concentra sul processo di medio-periodo di espropriazione causata dalla
deindustrializzazione, con ben 30 milioni di operai gettati in strada; scrive
della disperazione e della rabbia montanti, di una condizione di alienazione su
cui attecchisce il pensiero magico – dimentica tuttavia che il pensiero magico
viene instillato, fatto colare dall’alto, sembra ignorare l’esistenza di una
politica organica di abbrutimento culturale. Hedges sembrano dire solo questi
riguardo alle masse oppresse, vede solo questa folla di disgraziati in preda al
fanatismo, inclini alla “celebrazione della violenza come un purgativo per il
decadimento”.
Egli
argomenta come il delitto-Kirk dia ora modo alla nuova destra di tradurre in
realtà il “fascismo cristiano”, scagliando quella massa di manovra contro le
minoranze, perché solo così si può intendere l’elenco delle vittime stilato da
Hedges: “dissidenti, artisti, gay, intellettuali, i poveri, i vulnerabili, le
persone di colore, quelle senza documenti”.
Ecco
le “vittime sacrificali” destinate ad esser sgozzate da un’orda di bianchi
diseredati e rabbiosi sull’altare della palingenesi morale, della riconquista
della “gloria e prosperità perdute”.
La
mobilitazione nazionalista e fascistica del proletariato bianco è una questione
vera. Hedges, tuttavia, non vede affatto le classi sociali.
A
differenza di un Emmot, sembra non capire che Trump, consapevole del crack
della società statunitense, ha preso di mira la possibile mobilitazione,
organizzazione e politicizzazione radicale a livello di massa, che conferirebbe
alla temuta esplosione un profilo di classe – è questo, come visto, il versante
della “guerra civile” che impensierisce l’intellighenzia democratica,
spaventata dai contraccolpi conflittuali del carro armato trumpiano.
Di
conseguenza, Hedges non dà una spiegazione della torsione autoritaria.
Scimmiotta,
seppur criticamente, il tema ideologico del “rinnovamento morale”, del Make
America Great Again.
Non
vede che, in concreto, si tratta di una guerra sociale e politica preventiva
volta a impedire brutalmente un salto qualitativo, in senso anticapitalistico,
del conflitto sociale e politico.
Sicché
la lettura di Hedges, oltre che essenzialmente errata, è politicamente suicida.
Questa voce della democrazia radicale s’è
fasciata la testa prima di essersela rotta, vede solo nero, non vede le
contraddizioni, la conflittualità cioè, che è la ragion d’essere della ‘guerra
interna’ scatenata da Trump;
né
quindi dà alcuna indicazione strategica, organizzativa, che sarebbe invece
necessaria poiché il conflitto sociale da sé non basta.
4. Le
cupe previsioni circa l’accelerazione autoritaria hanno iniziato presto ad
avverarsi.
Dopo
nemmeno una settimana dall’omicidio Kirk, il “Guardian” documentava il lancio
di una vasta campagna di persecuzione delle voci fuori dal coro, critiche o
semplicemente scettiche nei confronti del martire MAGA (Holmes, 16 set. 2025).
È una
caccia alle streghe.
Diffamazione,
messa alla berlina ed un orwelliano invito alla denuncia dei dissenzienti ai
datori di lavoro, con conseguenti licenziamenti (in un attimo il sito dedicato Expose
Charlie’s Murders ha raccolto 63.000 delazioni).
In
Florida, Oklahoma e Texas degli insegnanti rei di aver espresso pensieri
‘inappropriati’ sono andati incontro a procedimenti a dir poco inquisitori, e
così diversi militari.
Ma,
nota giustamente il “Guardia”n, l’obbiettivo di questa “draconiana repressione della libertà
di parola”
sono le organizzazioni e i movimenti di opposizione, definite da “S. Miller”,
eminenza grigia dell’amministrazione Trump, una “vasta rete terroristica interna”:
“Con
Dio testimone – promette solennemente Miller -, useremo ogni nostra risorsa a
disposizione presso il Dipartimento di Giustizia, la sicurezza interna e in
tutto il governo per identificare, interrompere, smantellare e distruggere
queste reti, e rendere l’America di nuovo sicura per il popolo americano “.
Le
cose nell’America di Trump sono andate da così a peggio nei giorni successivi.
La
cerimonia funebre per C. Kirk, l’adunata dei vertici dell’esercito a Quantico,
la tavola rotonda alla Casa Bianca centrata sulla repressione del movimento”
Anti fa” sono altrettante tappe di un rapidissimo crescendo della guerra al
‘nemico interno’ (Il pungolo rosso, 11 ott. 2025).
Ma è
bene tornare al tempo sospeso immediatamente successivo al delitto-Kirk per
notare un ultimo aspetto, forse ovvio, ma cruciale.
In
quei giorni “Radio 3 Mondo “osservava come, oltre alla stretta repressiva
giustificata da questo evento-spartiacque – cioè la messa a tacere delle voci
critiche, peraltro già avviata in grande stile con il taglio dei finanziamenti
alle università -, vi sia l’accondiscendenza o comunque l’acquiescenza dei
colossi della comunicazione, dalla “Disney” al “L.A. Times” di J. Bezos,
passando per la “CNN”, per non dire – aggiungevano – del supporto della “Corporate
America”.
Contro
la rappresentazione del trumpismo come un bubbone pustoloso su di un corpo di
per sé sano, bisogna aver presente, invece, che Donald Trump è la degna faccia
escrementizia dell’America dei boss (Radio 3 Mondo, 19 set. 2025).
Per
capire meglio quel che bolle in pentola per il prossimo futuro, è infine
opportuno fare un ulteriore passo indietro e mettere meglio a fuoco le
questioni del conflitto e dell’accelerazione autoritaria con un articolo uscito
sul “Pungolo rosso” un istante prima dell’assassinio di Kirk (Il pungolo rosso, 10 set. 2025).
L’articolo
dava conto della prosecuzione delle proteste a Washington DC e Chicago contro
il dispiegamento della Guardia Nazionale, ricordando l’avvio delle
contestazioni, specialmente in California, ancora a marzo scorso.
La
mobilitazione, rivolta contro la guerra agli immigrati condotta da Trump
mediante l’”ICE”, ha conosciuto un acuto a giugno, ma è poi rientrata, mentre è
proseguita a tamburo battente la campagna governativa:
deportazioni
di massa, famiglie smembrate, la creazione di un clima di paura finalizzato a
ridurre la forza-lavoro immigrata ad una massa inerme di servi.
Quest’azione
brutale – si notava anticipando ciò che “Friedman” e “Emmot” avrebbero detto
tra le righe – determina “un ribollio nella società e nella classe lavoratrice
americana che prepara nuove esplosioni [c.n.]”.
Ne
darebbe parziale conferma appunto lo scoppio delle proteste a Washington DC e
Chicago ad agosto.
Parziale perché le pur consistenti masse scese
in piazza erano organizzate dalle associazioni per i diritti civili, stavano
sul binario legalitario, con il Partito Democratico a fare da vagone di testa.
D’altra
parte, si osserva nell’articolo, già l’estate scorsa le pacifiche sfilate
all’ombra delle associazioni in difesa della Costituzione e della democrazia
hanno visto una rapida metamorfosi in termini di composizione e attitudine
conflittuale; inoltre, gli episodi di contrasto attivo alle squadracce dell’ICE
sembrano denotare un risveglio di coscienza proletaria.
[Esiste un video sulla giornata di
ieri a Chicago – guerriglia urbana contro le squadracce].
L’establishment
democratico vede aggirarsi questo spettro e ha buon gioco a rappresentare la
politica interna di Trump come una follia.
La
rottura del quadro liberal-democratico – sembra essere l’argomento – finirà col
far tracimare la conflittualità, spingerla fuori dall’alveo istituzionale, e
allora si salvi chi può.
Tale
preoccupazione è realistica e genuina, ma vi è probabilmente dell’altro.
Trump
potrebbe star scommettendo proprio sullo scoppio di ‘disordini’ per legittimare
una svolta eversiva, dittatoriale, che annichilirebbe il polo democrat del
potere;
se è
piuttosto palese l’uso in questo senso politico del dispiegamento della Guardia
Nazionale in Stati e metropoli democratiche, gesti come il manifesto che ritrae
Trump nei panni del tenente-colonnello “Kilgore” in “Apocalypse Now” mentre
recita “I love the smell of deportations” [Amo l’odore delle deportazioni]
sembrano avere davvero il valore di una provocazione.
L’elemento di fondo, ad ogni modo, è che a
dispetto della polemica politica dei Friedman e degli Emmot l’accelerazione
autoritaria ha una sua razionalità.
La cricca trumpiana si fa interprete della
necessità ineluttabile, in una prospettiva di sistema ben presente alla “Corporate
America”, di comprimere e deteriorare all’estremo bisogni e condizioni di vita
della massa della popolazione proletaria, cercando così di risalire la china di
un declino inesorabile.
Ciò
genera inevitabilmente, come dev’essere chiaro a Trump e al suo lugubre
seguito, un’estensione ed una radicalizzazione dei conflitti sociali e
politici;
sicché
il trattamento brutale fin qui riservato alle popolazioni del Sud globale viene
ora rivolto anche contro il “nemico interno”, in funzione preventiva, e in modo
quanto mai aggressivo se la politicizzazione radicale può condurre alla
solidarietà militante con le masse oppresse del Sud del mondo.
Del
resto, in quest’epoca di crisi sistemica, la violenza statuale interna è in
crescita ovunque, ed è limitante identificarla con il trumpismo.
Basti
pensare al “decreto-sicurezza” firmato Meloni-Mattarella, o alla persecuzione
del “movimento Palestine Action” da parte del governo laburista inglese, o
ancora, tornando oltreoceano, alla violenta repressione delle acampadas ancora
ai tempi di Genocide Joe.
Il
trumpismo è un’interpretazione conseguente di una tendenza strutturale del
capitalismo globale, in particolare di quello statunitense e occidentale.
La
Cina spiegata all'Occidente.
Ariannaditrice.it
- Pino Arlacchi – (12/10/2025) – ci dice:
La
Cina spiegata all'Occidente.
Metto
a disposizione dei miei lettori un testo tratto dal volume che ho appena
pubblicato, e che tenta di spiegare le ragioni della rinascita della Cina come
potenza mondiale non capitalistica ed alternativa all'impero americano che
tramonta.
Il
ritorno della Cina in cima ai destini della terra è stato definito il più
grande evento del nostro tempo, ma non è facile da spiegare, a meno che non si
voglia chiudere subito il discorso dichiarando scontata la supremazia
millenaria della sua civiltà rispetto alle altre, e in particolare rispetto
alla civiltà europea.
L’argomento
in questo caso può essere che la Cina è così perché è sempre stata così. Il
crollo dell’Ottocento e l’incorporazione subordinata della Cina nelle trafile
del capitalismo occidentale fino al 1949 sono da considerare poco più di un
blip. Un accidente storico lungo una vicenda plurisecolare di stabilità
sistemica. Un semplice inciampo che tra cento anni sarà appena menzionato.
Se
decidiamo di vedere le cose in questo modo, attraverso il filtro di un
determinismo storico assoluto, non c’è molto di cui dibattere, non ci sono
speciali indagini da condurre e non ci sono segreti da scoprire.
Seguendo
questa linea di pensiero, tuttavia, occorre prendere per buona, senza coglierne
l’acuminata dose di paradosso, la celebre risposta del ministro degli Esteri di
Mao Tse-Tung, Chou EnLai, alla domanda di Henry Kissinger se la Rivoluzione
francese fosse stata un bene per l’umanità: «È troppo presto per dirlo».
Se
invece non ci accontentiamo della spiegazione che attribuisce sic et
simpliciter alla superiorità della Cina come Stato e come civiltà la
straordinaria continuità storica di questi ultimi, e se non
vogliamo
aspettare cent’anni, la prima domanda che dobbiamo porci è se il governo della
Cina post-1949 ha rappresentato o no una rottura completa con il sistema di
governo del Celeste Impero e con le sue radici nella cultura e nella filosofia
più antiche della Cina stessa. Da questo dilemma – non difficile da sciogliere,
come vedremo nella prima sezione di questo studio – ne dipendono altri, molto
più ardui. Eccone alcuni.
Da
cosa deriva la capacità della Cina di superare il capitalismo proprio nel punto
di maggiore vanto di quest’ultimo, cioè nello sviluppo delle forze produttive?
Deriva
da un aggiornamento dell’idea di Adam Smith che la Cina era capace di seguire
meglio dell’Europa il “cammino naturale dello sviluppo”? Oppure dalla sua
singolare dotazione di quella forza vitale chiamata ‘asabiyya dal più grande
sociologo di tutti i tempi, Ibn Khaldun, una forza che le ha consentito di
rispondere alle minacce interne ed esterne rigenerandosi e diventando ogni
volta più forte di prima?
O
dall’azione di entrambe?
La
Cina odierna è socialista, o è solo una versione più sofisticata del
“capitalismo di Stato” già affermatosi nei paesi del socialismo reale del
Novecento?
Il
marxismo dei dirigenti del Partito Comunista Cinese si è incrociato con i
classici confuciani, o entrambe queste culture sono rimaste come bandiera di un
modo di pensare e di governare tanto suggestivo quanto, in fondo, obsoleto?
Occorre davvero prendere sul serio, insomma, l’algoritmo politico del
“socialismo con caratteristiche cinesi”?
La
Cina di oggi è ancora l’entità aperta, cosmopolita, non-espansionista e non
guerrafondaia dei tempi imperiali oppure è diventata una minaccia per l’ordine
internazionale in quanto superpotenza sfidante, orientata ad assumere lo stesso
profilo aggressivo e militarista della potenza dominante americana?
Se la
Cina attuale è una replica della potenza americana, quanto è probabile un
confronto militare tra le due?
Questo
volume è un tentativo di rispondere in modo non evasivo a questi e ad altri
quesiti. Uno sforzo che non nasce dalla insensata pretesa di pronunciare
l’ultima parola su mega narrative sinologiche iniziate in Europa con Marco Polo
e che hanno impegnato le menti di molti illustri studiosi nei secoli
successivi.
Non
nutro questa ambizione, anche se talvolta mi faccio accarezzare dall’idea di
scrivere “il grande romanzo della Cina”, magari durante la prossima
reincarnazione.
Nelle
pagine che seguono proverò a mettere a fuoco le principali forze che hanno
animato e animano la società cinese usando la cassetta degli attrezzi delle
scienze sociali. La mia ambizione è quella di aiutare il lettore a orientarsi
nella marea di approssimazioni, stereotipi e false narrative che circondano il
tema della Cina in Occidente. E di fare ciò sintetizzando il meglio della
letteratura scientifica sulla Cina.
I
magnifici tre.
Il
disegno di questo libro è relativamente semplice. Nei tre blocchi che lo
compongono cerco di delineare i “tre segreti” che consentono di capire
l’eccezionalità della vicenda cinese. Quella che molti chiamano “il miracolo
cinese” riferendosi alla spettacolare resurrezione del paese dal 1978 in poi,
con le riforme di Deng Xiaoping. Resurrezione iniziata in realtà, come vedremo,
con la rivoluzione del 1949.
Non si
tratta, in verità, di veri e propri segreti ma di mega fattori quasi
sconosciuti al largo pubblico, e poco frequentati anche dai sinologi
contemporanei. Fattori che sono anche risorse. Le risorse strategiche che hanno
fatto della Cina ciò che è stata e ciò che è.
Il
primo è il non-espansionismo della Cina, cioè il suo sinocentrismo
universalista e pacifico, collegato a una profonda avversione alla violenza e
alla guerra.
Il
secondo è il suo singolare sistema di meritocrazia politica, il governo dei
migliori, che la dirige da più di duemila anni. E il terzo è il suo sistema
economico-politico fondamentalmente non capitalistico. Socialista.
Ritengo
che questa triade sia la guida più sicura per capire la Cina
post-rivoluzionaria.
La
Cina di oggi, erede della Cina imperiale molto più di quanto si possa pensare.
Questi
tre mega fattori sono le colonne su cui poggia l’attuale civiltà cinese.
Una
civiltà molto diversa da quella europea nel suo ethos di fondo, nella sua
visione del mondo e nel suo assetto istituzionale, ma simile a essa nella sua
complessità e capacità di rinnovamento.
I tre
mega fattori citati non agiscono separatamente ma si mescolano e rafforzano a
vicenda.
Come
vedremo nel corso della nostra esplorazione, la combinazione di un’arte del
buon governo che rifugge l’uso della forza, praticata da una élite
meritocratica convinta che il mercato sia uno strumento dello Stato, è passata
indenne dall’attacco occidentale dell’Ottocento e dalla creazione della
Repubblica cinese nei primi del Novecento.
Per
poi essere fatta propria dalla rivoluzione socialista di metà secolo.
Il
risultato – la Cina di oggi – è un manufatto sociologico complesso, dalle
radici storiche profonde, che il governo di Pechino chiama “socialismo di mercato con
caratteristiche cinesi”.
Ero
diffidente verso questa definizione, che piaceva al mio maestro “Giovanni
Arrighi “ma era liquidata come una massima propagandistica da molti osservatori
e studiosi.
Ma
credo siano i risultati dell’evoluzione della Cina lungo gli ultimi due decenni
e in particolare le linee strategiche inaugurate da “Xi Jinping” – ad avere
dato pieno potere euristico a questa espressione.
Discuteremo
a lungo di questo apparente ossimoro del “socialismo di mercato”, ma per
coglierne appieno il senso non bisogna dissociarlo dalle “caratteristiche
cinesi”, cioè dalle sue radici nell’antica civiltà dell’Impero di Mezzo.
Una
civiltà il cui profilo si è delineato cinquemila anni fa, e da tremila anni si
è fissato in un sistema dotato di una resilienza straordinaria.
Il
carattere centripeto e pacifico di questa civiltà – un cosmo che guarda a sé
stesso e che si considera allo stesso tempo universale, privo perciò di una
spinta espansiva di tipo sia territoriale che economico e militare – è
l’aspetto forse più difficile da afferrare per chi fa parte di una civiltà dal
carattere opposto, “estroverso”, centrifugo e guerresco come quella occidentale,
abituata a vivere dal Cinquecento in poi sulle spalle altrui.
Vedremo
come il grado di espansività e di bellicosità delle due civiltà sia connesso
con i loro caratteri di fondo, forgiati dalla geografia e dalla storia quasi
negli stessi anni: l’antichità greco-romana dell’Occidente coincide con l’epoca
degli “Stati combattenti” della Cina e della fondazione dell’Impero unificato
nel 221 a.C.
È proprio in questa epoca che si sono
affermate le principali coordinate filosofiche ed etiche delle due civiltà:
Confucio, Mencio, Mozi e i legalisti sono vissuti
nello stesso arco di tempo di Socrate, Platone e Aristotele.
Ma
quale profonda differenza tra le due scuole, specialmente nella loro
cosmologia, nella gestione della diversità etnica e culturale, nelle loro
concezioni della guerra e dell’uso della violenza, nonché dell’arte di governo
e dei diritti dei cittadini!
La
questione dell’espansionismo della Cina è il punto più cruciale sotto il
profilo dell’attualità politica internazionale, un campo dominato in Occidente
da pregiudizi e distorsioni molto radicati.
Secoli
di eurocentrismo, di razzismo e di colonialismo globale hanno costruito un muro
che impedisce agli occidentali di vedere gli aspetti più salienti della civiltà
cinese.
Crollata
durante l’Illuminismo, questa barriera è risorta nel corso dell’Ottocento e del
Novecento.
E oggi
– a mano a mano che la Cina diventa più vicina spinta dal vigore della sua
economia e dal suo crescente status di grande potenza – questo muro è diventato
una muraglia sinofobica.
Gli
ammalati di sinofobia sono numerosi.
Risparmio
al lettore la lunga lista di titoli di volumi e di articoli sul pericolo
giallo, sulla minaccia cinese, sulla invasione di merci fabbricate in Cina che
agirebbero da avanguardie di conquista politica e da cavalli di Troia di un
progetto di dominio mondiale.
Sparare
a zero su Pechino è un vecchio sport, pronto a riemergere a ogni giro di boa
della storia.
L’Occidente
non può resistere alla tentazione di proiettare sulla Cina la propria
psicologia aggressiva, formatasi lungo secoli di crociate, conquiste e pretese
di dominare il mondo.
Per
mezzo di questo libro spero di contribuire a contrastare l’industria della
paura e dell’ignoranza che alimenta gran parte della narrativa sulla Cina
diffusa oggi in Occidente.
La
chiave per entrare nella mentalità della Cina e dei cinesi è la conoscenza
delle istituzioni politiche originali che essi hanno creato nel corso dei
millenni e dentro le quali vivono ancora oggi.
Istituzioni
umane, piene perciò di difetti.
Ma
istituzioni efficaci, sorrette da un larghissimo consenso perché hanno permesso
al popolo cinese di raggiungere oggi, nell’arco di una sola generazione,
traguardi impensabili, ottenuti usando risorse interne e non sfruttando,
invadendo e occupando altri paesi.
Gli
attuali successi della Cina all’estero sono di natura esclusivamente economica
e non hanno niente a che fare con disegni di dominio regionali o globali.
Il
paese non intende esportare le sue istituzioni politiche né condiziona
investimenti e aiuti esteri alla sottoscrizione di alleanze politiche o
militari contro ipotetici nemici.
Il progetto “Belt and Road” è un ponte verso
il resto del pianeta fondato su investimenti in opere di pubblica utilità e non
sulla ricerca di profitti capitalistici.
La sua
filosofia non è imperialista, ma di cooperazione e amicizia transnazionali.
La
nozione che la forza del governo cinese poggi su solide basi proprie è la più
dura da afferrare in Occidente perché non c’è un flusso di notizie affidabili
su ciò che succede davvero in quel paese e su come la Cina si comporta nella
scena internazionale.
Media
e governi euroamericani riempiono il vuoto di informazioni attendibili
alimentando angosce su una sorta di imperialismo cinese che mima quello
praticato storicamente dall’Occidente contro la Cina.
Il
fattore “meritocrazia politica” è quasi ignoto al pubblico occidentale perché
si trova completamente al di fuori dei radar mediatici e del flusso di
conoscenze sulla Cina.
Anche
gli studiosi stranieri più indipendenti fanno raramente ricorso al concetto di
meritocrazia per interpretare le dinamiche politiche cinesi e le strategie più
rilevanti adottate da Pechino nel campo dell’economia e della finanza.
La
riluttanza a trattare il tema dipende un po’ dal termine stesso di “meritocrazia
politica”.
Esso incorpora
una valutazione intrinsecamente positiva dell’oggetto, che in questo caso non è
altro che il mostro sacro del Partito Comunista Cinese:
una istituzione-chiave, poco conosciuta e poco
studiata, circondata da un alone di riservatezza e di segreto che occorre
superare per comprendere il funzionamento dello Stato, della società civile e
della politica della Cina.
Quando
parlo di meritocrazia mi riferisco non solo alla sua versione socialista
incarnata dal PCC, ma a una forma di governo basata su un’istituzione
denominata “sistema degli esami”, istituito formalmente dalla dinastia Sui
(581-618 d.C.) sulla scorta di forme di selezione che esistevano già sotto gli
Han (206 a.C. 220 d.C.) e pienamente operativo ancora oggi.
Ogni dipendente dello Stato e quasi tutti i dirigenti
pubblici di alto grado vengono selezionati in Cina tramite un concorso
competitivo che inizia con prove scritte e orali.
L’operato
di ciascun dirigente è sottoposto in seguito a regolari valutazioni con
scadenze fisse e con criteri e procedure predeterminati.
Fin
dalle sue origini il sistema soffre di alcuni vizi di fondo quali la
corruzione, l’ossificazione e il rischio di perdita di legittimità.
Era
così nella Cina imperiale ed è così oggi.
La
differenza è che nel passato la meritocrazia era lo strumento di governo
dell’imperatore, mentre oggi è il principio che struttura una leadership
comunista che si dichiara al servizio del popolo.
In
Occidente siamo abituati a considerare i partiti politici come delle
associazioni di cittadini che si propongono di influenzare la gestione dei beni
comuni.
L’amministrazione
dello Stato è da noi una burocrazia indipendente, gelosa della sua autonomia
perfino rispetto all’esecutivo cui obbedisce.
La
pubblica amministrazione occidentale si vanta di dipendere solo dalle leggi, e
alcune sue parti – come le banche centrali e la magistratura – sono
indipendenti per legge dal potere legislativo ed esecutivo.
Le più alte cariche dello Stato in Occidente vengono
nominate dal presidente o dal primo ministro di ciascun paese, oppure da organi
interni di autogoverno.
Non
esistono in Cina né divisione dei poteri né Stato di diritto.
Il PCC
in Cina coincide quasi con lo Stato, e rappresenta anche un segmento non
indifferente della società civile.
Non
vige in Cina alcuna forma di indipendenza della magistratura, che è espressione
dell’esecutivo e del Partito.
Il
presidente della Repubblica Popolare è anche segretario del Partito e capo
delle forze armate.
Il Politburo, il vertice supremo del Partito,
indirizza e controlla strettamente l’operato del governo.
La
singolarità del PCC è di essere nello stesso tempo Stato, Partito e società
civile.
L’élite
della società civile cinese governa lo Stato tramite il Partito Comunista, che
non è un’associazione politica come le altre ma un gruppo sociale di quasi
cento milioni di persone vagliate una per una attraverso metodi la cui selettività
cresce man mano che si va verso l’alto.
Alla
base il sistema è aperto a tutti, senza riguardo a privilegi di ricchezza e
potere.
L’ascesa
lungo i ranghi è fermamente meritocratica, con filtri e controlli periodici non
di facciata.
In teoria, chiunque può diventare presidente
della Repubblica o segretario del PCC.
In pratica, vige una prassi di cooptazione e
di corsie privilegiate per gli eredi e i sodali dei massimi dirigenti.
La
presenza del Partito è capillare, ubiqua.
Il PCC è il sistema nervoso della Cina.
Grazie alla sua componente civile, esso è sia
software che hardware.
È il Moderno principe di Antonio Gramsci, le
cui riflessioni sono una buona guida per la comprensione del sistema politico
cinese di ieri e di oggi.
Secondo
Gramsci, il Moderno principe è un Partito di intellettuali organici che
organizza il consenso della società, la “volontà collettiva” del popolo,
tramite la gestione dei beni comuni.
La stessa funzione svolta dai liberati, gli
shi, il corpo dei dignitari-filosofi che ha governato la Cina imperiale per
duemilacinquecento anni.
Pur
avendo ospitato la più grande economia di mercato del mondo, la Cina non ha mai
conosciuto, né nel suo passato remoto né oggi, il capitalismo.
La
Cina può essere definita capitalista solo rinunciando a usare la preziosa
distinzione tra la sfera del mercato, che è universale, da quel prodotto
squisitamente occidentale che è il capitalismo.
Dobbiamo
a “Braudel” la migliore definizione dei due separabili compagni.
Il
mercato ha a che fare con il mondo rumoroso e inquieto degli scambi e dei
luoghi di compravendita.
È
popolato da piccoli felini, audaci, mobili e orientati al profitto. Confucio li
chiamava “piccoli uomini” che dovevano essere lasciati in pace e se possibile
favoriti, perché fonte di graditi profitti aggiuntivi a quelli
dell’agricoltura.
Il
capitalismo, secondo “Braudel”, può sembrare simile al mercato, ma in realtà è
l’”anti mercato”, popolato dai grandi predatori che scorrazzano nella giungla
da essi stessi creata, spesso invisibili e lontani dai luoghi di accumulo delle
loro fortune.
“Adam
Smith” è stato celebrato, senza leggere bene i suoi scritti, come l’alfiere del
libero mercato e del capitalismo.
Nelle sue opere principali Smith sostiene, invece, che
il libero mercato deve essere uno strumento dello Stato, e cita proprio la Cina
come esempio di uno sviluppo “naturale” del mercato portatore di stabilità e di
ricchezza delle nazioni, in contrasto alla strada “innaturale” imboccata dagli
Stati europei nelle mani dei capitalisti e dei banchieri dediti allo
sfruttamento del commercio coloniale e delle guerre per la supremazia.
Il
modello di sviluppo cinese è crollato assieme alla Cina imperiale a metà
dell’Ottocento perché colpito nel suo tallone d’Achille della potenza militare.
Il modello è risorto nel 1949 con la
rivoluzione maoista ed è ridiventato con Deng Xiaoping un “socialismo di
mercato con caratteristiche cinesi”.
Un
sistema economico e politico che sopravanza per forza intrinseca, produttività
e saldezza il capitalismo americano dominato dalla finanza parassitaria e
pervenuto alla fase terminale della sua egemonia.
Questa
narrativa è l’argomento della terza parte di questo volume, il terzo “segreto”
della potenza della Cina odierna.
La
parte conclusiva di questo studio è dedicata alle conseguenze della rinascita
della Cina, ai suoi rapporti con gli Stati Uniti e con il sistema
internazionale.
Tento
qui di rispondere all’interrogativo sul possibile scontro armato tra le due
massime potenze del pianeta e alla domanda sul ruolo della Cina nel nuovo
ordine mondiale post-americano e post-occidentale che si va consolidando.
La mia
risposta alla prima domanda è netta, e risulterà scontata, quasi ovvia, per chi
si sia dato la pena di leggere anche poche pagine di questo volume.
Non
credo alla “trappola di Tucidide”, cioè a una guerra tra Cina e Stati Uniti per
la supremazia mondiale diventata inevitabile come quella tra Sparta e Atene del
iv secolo prima di Cristo.
Gli
ostacoli allo scontro nascono dal fatto che per fare la guerra bisogna essere
in due, e
dal fatto che il declino americano sta avvenendo in un contesto globale
sfavorevole all’uso della forza militare.
Quanto
al secondo interrogativo, cerco di mostrare nel capitolo finale come l’ascesa
cinese sia tutta interna a un riequilibrio storico dei rapporti tra il Nord e
il Sud del pianeta, e come la politica estera cinese sia coerente con il
profilo più equo e più pacifico del nuovo ordine multipolare.
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