La crisi dell’Europa e il suo riarmo.

 

La crisi dell’Europa e il suo riarmo.

 

 

Dall’austerity al riarmo:

la crisi del paradigma europeo.

 Voladora.noblogs.org – (8 – 10 – 2025) - Marco Baldassari – ci dice:

 

“L’Europa politica è in stallo.

Le retoriche dell’integrazione sembrano svuotate, mentre crescono le fratture tra centro e periferie, tra governance e rappresentanza.

 Un pericoloso e cieco rilancio attraverso il riarmo sta adombrando il vecchio continente”. “

Di questi temi tratta il corso che inaugura il nuovo anno della Libera Università del Sapere Critico” e ha come titolo “Nel labirinto dell’Unione europea”.

“Storia e critica dell’ideologia europeista” curato da Marco Baldassari.

Uno spettro si aggira per l’Europa: la russofobia e la retorica del riarmo. La costruzione del nemico, insieme allo “stato di eccezione” (la crisi per la sicurezza), rappresentano gli strumenti politici attraverso cui le classi dominanti cercano di affrontare la crisi del capitalismo e del suo processo di accumulazione.

 In questo senso, il passaggio dall’”austerity” al “war fare” che caratterizza gli ultimi quindici anni appare del tutto consequenziale e coerente con i tentativi di puntellare un edificio comunitario in fase di dissoluzione.

 Un declino che riguarda tanto l’UE quanto i suoi Stati membri, considerati singolarmente.

 Il destino che li accomuna all’interno di questa gabbia neoliberale del “vincolo esterno” è lo stesso che, in Italia in particolare ma non solo, si manifesta con un neoliberalismo conservatore, reazionario e antisociale:

 la variante “alt-right” di quello progressista, altrettanto esiziale e antidemocratico.

 Si potrebbe definire, a tutti gli effetti, un “liberalismo autoritario”.

 

L’Unione europea, nel corso degli ultimi decenni, si è configurata come un dispositivo istituzionale capace di trasformare in profondità le modalità di esercizio del potere statale.

 Il processo di integrazione, spesso narrato come un destino lineare, è stato in realtà un campo conflittuale:

 uno spazio in cui si è giocata una rinegoziazione costante tra sovranità nazionale e potere sovranazionale, tra rappresentanza democratica e razionalità tecnica, tra unità e differenza.

La costruzione europea, lungi dall’essere una “architettura neutrale”, ha operato come un paradigma normativo:

 ha selezionato obiettivi, delimitato spazi di decisione, costruito un linguaggio politico che ha finito per oscurare le alternative.

Concetti come “governance”, “coesione”, “solidarietà” sono stati impiegati come categorie assiomatiche, sottratte al conflitto politico.

 Il risultato è un’Unione che gestisce senza decidere, che amministra senza costituire, che legifera in assenza di una vera legittimazione popolare.

 

La crisi del paradigma integrazionista.

 

Oggi ci troviamo davanti a una crisi strutturale del paradigma integrazionista.

 Le recenti accelerazioni – dal “Next Generation EU” alle strategie per la difesa comune “Readiness 2030” – non rappresentano una rottura con la logica dominante, ma piuttosto il suo aggiornamento:

 la riproposizione di un’integrazione tecnica, presentata come soluzione necessaria alle sfide globali.

 

Tuttavia, oggi l’Europa si trova costretta a politicizzarsi.

 La retorica della resilienza, della doppia transizione (verde e digitale), dell’autonomia strategica non può più funzionare da semplice schermo ideologico.

La doppia crisi, di “accumulazione e geopolitica,” impone di ripensare l’Unione non più come un progetto meramente funzionalista, ma come “un sistema di sicurezza collettiva”.

È questa la retorica della “sovranità europea” declamata da figure come Draghi e Padoan, e che il mondo federalista – così come ingenuamente una parte del ceto medio – continua ad auspicare:

 “Ci vuole un’Europa più forte!”, “Servirebbe davvero una difesa comune, il problema è che siamo divisi”, e così via.

 

Eppure, questa “politicizzazione”, come molti hanno osservato – a partire ad esempio da “Barbara Spinelli”, figlia del celebre federalista celebrato come” padre fondatore dell’Europa unita” – non è altro che una forma di atlantismo, che ribadisce la subordinazione agli Stati Uniti.

Alla retorica di un europeismo travestito da atlantismo, la risposta più autenticamente europea è arrivata invece dalle” 44 barche della Global Sumud Flotilla” (liquidate con sufficienza dalle istituzioni europee) e dalle mobilitazioni oceaniche degli ultimi giorni.

 

A questa politicizzazione – i cui effetti nefasti e autodistruttivi si sentiranno presto – si rende necessaria la possibilità stessa di ripensare la forma politica dell’Europa.

La scelta che abbiamo davanti non è semplicemente tra “più Europa” e “meno Europa”:

 oggi la prima opzione è occupata strategicamente da forze regressive, e sostenerla significa, di fatto, portare acqua al mulino del neoliberismo. In poche parole: significa guerra.

Un’immagine plastica di questa deriva è offerta dall’”Alto Rappresentante UE per gli Affari Esteri”, “Kaja Kallas”, che ignora il ruolo decisivo di Russia e Cina nella Seconda guerra mondiale e si fa fotografare sorridente su un carro armato ucraino.

 

La questione, dunque, non è scegliere tra federalismo e nazionalismo, ma ricostruire lo spazio europeo come luogo di cooperazione fra Stati e di internazionalismo, a partire da una ri-democratizzazione degli stessi spazi nazionali, sempre più svuotati dai meccanismi di governance finanziaria.

 

Ciò implica, in primo luogo, una critica radicale agli attuali dispositivi istituzionali:

le modalità di produzione normativa, le fonti di legittimità, il rapporto tra cittadinanza e decisione.

 

Sovranità, pluralismo, differenziazione.

Una tale ricostruzione non può avvenire se non si affronta la questione della sovranità.

Il lessico politico contemporaneo ha, troppo spesso, contrapposto in modo meccanico sovranità nazionale e appartenenza europea, fingendo di ignorare che ogni trasferimento di potere comporta una nuova forma di legittimazione.

 Senza una ridefinizione condivisa di cosa significhi “decidere insieme”, il progetto europeo è destinato a rimanere fragile, esposto alla doppia trappola del centralismo tecnocratico e del sovranismo regressivo.

 

In questo contesto, risulta sempre più pertinente l’idea di un’Europa a geometria variabile:

 un sistema di cerchi concentrici, in cui coesistano diversi livelli di integrazione.

Una configurazione differenziata non come compromesso al ribasso, ma come forma legittima di pluralismo istituzionale, capace di riflettere le diverse volontà politiche, le differenti tradizioni costituzionali e le eterogeneità economiche e sociali.

 

Tale modello avrebbe il vantaggio di evitare tanto la forzatura dell’uniformità quanto la disgregazione.

Ma per funzionare richiede un quadro chiaro di diritti, competenze, responsabilità politiche:

una nuova grammatica costituzionale europea che non esiste ancora, ma che potrebbe emergere proprio da una fase di crisi costituente e dopo aver disinquinato i pozzi dal neoliberalismo.

Oltre il mercato: l’Europa come spazio di civiltà.

 

Per ripensare l’Unione, occorre superare la riduzione economicistica del progetto europeo.

 L’Europa non è – e non può essere – solo una costruzione giuridico-amministrativa o un’area di scambio regolato (tanto più se questo pone come fondamento il criterio concorrenziale dell’ordoliberalismo).  

Essa è anche un orizzonte di civiltà: un territorio culturale e simbolico, attraversato da conflitti, memorie, visioni del mondo.

 

Riconoscere questa dimensione significa accettare che l’unità europea non potrà mai essere un’unità omogenea, ma sarà sempre una composizione instabile, conflittuale, dialogica.

Da qui l’urgenza di restituire centralità alle dimensioni politiche, culturali e nazionali della legittimazione:

non basta “funzionare”, occorre anche “significare”.

Le istituzioni europee non possono limitarsi a produrre regole:

 devono costruire senso, appartenenza, riconoscimento reciproco e ciò non può certo avvenire top/down, ma attraverso un processo che la società civile deve produrre.

 

Il futuro dell’Unione europea dipenderà dalla capacità di pensarsi non come fine della storia istituzionale, ma come campo aperto di trasformazione politica.

In questa prospettiva, la vera questione non è se l’Europa sopravvivrà, ma quale Europa siamo disposti a costruire.

In gioco non c’è solo il destino dell’Unione, ma il modo in cui pensiamo oggi la democrazia, la sovranità, l’autogoverno dei popoli in un mondo interdipendente.

In questo senso, l’Europa è ancora un problema aperto e per questo, forse, il luogo più politico del nostro tempo.

 

 

 

 

Terrore e rabbia in UE se vince

la Le Pen: addio guerra a Mosca.

Maurizioblondet.it - Maurizio Blondet- (9 Ottobre 2025) - ci dice:

 

Vediamo cosa s’inventano per impedirlo.

Se l’estrema destra prendesse il controllo del parlamento nel secondo paese più grande dell’UE, l’Europa cambierebbe radicalmente.

Il presidente francese è sotto una pressione straordinaria dopo che l’ultimo tentativo del suo primo ministro di formare un governo funzionante è fallito in sole 14 ore.

 

PARIGI — Non agitatevi ancora, ma forse è il momento di preparare provviste di emergenza.

Il timore di Bruxelles che un membro fondatore dell’Unione Europea viri verso l’estrema destra si è improvvisamente riattivato questa settimana, mentre la crisi politica francese si aggravava, portando uno degli storici alleati del presidente francese Emmanuel Macron a unirsi al coro degli oppositori che gli chiedevano di dimettersi.

Il presidente francese è sotto una pressione straordinaria dopo che l’ultimo tentativo del suo primo ministro di formare un governo funzionante è fallito in sole 14 ore, e con nuove elezioni nei prossimi mesi, se non settimane, che sembrano sempre più probabili.

 

 Sia a livello presidenziale che parlamentare, la vittoria del “Rassemblement National” di Marine Le Pen è ora decisamente possibile, il che significa che una figura euroscettica di estrema destra potrebbe presto parlare a nome della Francia nelle principali istituzioni dell’UE, aggiungendosi a un coro crescente di voci populiste di destra.”

 

“Abbiamo un continente che ha vissuto la guerra, il lockdown, una sorta di dittatura leggera a Budapest, siamo abituati a continuare a funzionare nonostante molti shock”, ha affermato un funzionario della Commissione Europea, a cui, come altri citati in questo articolo, è stato concesso l’anonimato per parlare apertamente.

Ma “Le Pen è diversa”, ha affermato, riferendosi a una valutazione ampiamente condivisa a Bruxelles secondo cui un cambio radicale nella leadership francese avrebbe conseguenze di vasta portata per l’UE.

Mentre l’estrema destra ha esortato Macron a indire nuove elezioni parlamentari, gli eventi di questa settimana sollevano anche la prospettiva di elezioni presidenziali anticipate se Macron fosse costretto a dimettersi – cosa che ha sempre fermamente escluso, promettendo di rimanere in carica fino alla fine del suo mandato nel 2027.

Se il “Rassemblement National” accedesse al potere esecutivo in Francia, ciò aumenterebbe significativamente i grattacapi dell’UE, già impersonata al tavolo del Consiglio dall’ungherese “Viktor Orbán” e dallo slovacco “Robert Fico”, e probabilmente presto affiancata da “Andrej Babiš” dopo il suo recente trionfo elettorale nella “Repubblica Ceca”.

 

La rinnovata ondata populista minaccia di far deragliare le politiche dell’Unione in settori critici, con preoccupazioni particolarmente acute per la Russia e la politica di difesa.

Orbán e Fico si sono entrambi opposti ai tentativi dell’UE di imporre sanzioni a Mosca sin dalla sua invasione su vasta scala dell’Ucraina.

Babiš ha promesso di abbandonare l’iniziativa sulle munizioni per l’Ucraina, di contestare i piani della NATO di aumentare la spesa militare e di confrontarsi con la Commissione sul “Green Deal”, anch’esso nel mirino di Le Pen.

 

L’uomo di Marine Le Pen, “Jordan Bardella”, sarà in grado di rivendicare la carica di primo ministro e nominare un governo di estrema destra.

 Il francese di estrema destra si è costantemente espresso contro l’aumento degli aiuti a Kiev, accusando Macron di essere un guerrafondaio quando, ad esempio, si è opposto al pensiero europeo e ha suggerito di inviare truppe sul terreno in Ucraina.

 

Sebbene la Francia non sia stata il principale finanziatore di Kiev per gli aiuti militari, la “leadership” retorica di Macron sull’Ucraina è stata un importante motore di sostegno al paese in difficoltà e al rafforzamento delle difese europee, ha affermato un alto funzionario di un governo dell’UE.

Una volta che se ne sarà andato, “sarebbe completamente a rischio: sappiamo che Le Pen non continuerebbe sulla stessa linea”.

 

Il “Rassemblement National” si è opposto con veemenza alla visione di Macron per quanto riguarda la possibile condivisione dell’ombrello nucleare francese o la messa in comune delle risorse militari con l’espansione della guerra nel continente.

Alla domanda di recente sul canale televisivo “LCI “se le armi nucleari francesi potrebbero un giorno essere dislocate in Germania o in Polonia, Le Pen ha risposto in modo tagliente: “E poi?”.

 

Ha anche ribadito le promesse passate di lasciare il comando militare integrato della NATO, pur impegnandosi a continuare a collaborare con gli alleati, compresi gli Stati Uniti, in missioni militari chiave.

Lo scenario peggiore per gli eurofili potrebbe, ovviamente, non materializzarsi mai.

 Nonostante tutta la sua retorica ottimistica, il “Rassemblement National “deve ancora dimostrare di poter superare le barriere elettorali che lo hanno costantemente limitato.

 

Nel peculiare sistema elettorale francese a doppio turno, i partiti devono effettivamente ottenere il sostegno di oltre il 50% degli elettori al ballottaggio per vincere.

Questa soglia è stata particolarmente difficile da superare per Le Pen e i suoi sostenitori, con elettori di diverse convinzioni politiche finora motivati ​​a unirsi dietro i candidati tradizionali per tenere fuori l’estrema destra, sebbene con un margine in calo.

Tuttavia, il “Rassemblement National” ha ottenuto risultati straordinari ed è ora il partito di maggioranza della Camera bassa: 33 per cento!

(twitter.com/SirAfuera/status/1975462750005739910).

(Jordan Bardella propone un accordo di governo RN-LR (gollisti) per le prossime elezioni. “Sono in contatto con alcuni membri del LR. Alcuni lo desiderano. Se dovessimo avere una maggioranza assoluta, mi rivolgerò a loro.”

(RMC) Questo è senza precedenti.)

 

 

 

 

Perché il riarmo europeo è solo

business senza una politica estera.

Agendadigitale.eu – Walter Vannini – (26 marzo 2025) – ci dice:

 

(Walter Vannini. Data Protection Officer autore del podcast DataKnightmare – L'algoritmico è politico) - (spreaker.com/show/dataknightmare).

 

Difesa Ue.

Il riarmo europeo proposto dalla Commissione genera un debito di 800 miliardi senza chiarire il nemico comune né una strategia.

L’assenza di politica estera condivisa rischia di vanificare ogni sforzo finanziario, trasformando la difesa in opportunità commerciale per lobby nazionali

Quello che sta succedendo con gli USA è incredibile. Peccato che ne avessimo già parlato.

E a testimoniarlo, c’è un episodio della settima stagione, si chiama “Algo pirla” verso il “Reich Millenario” (contro il Lungo terminismo), nel quale, pur senza aspettarmi un simile livello di idiozia, dicevo:

 “siamo di fronte a un culto di stampo nazistoide a uso e consumo di ricchi “algo pirla tecno feticisti”.

 

E adesso veniamo a noi.

Indice degli argomenti.

Riarmo, l’incoerenza economica dell’Unione europea.

Il riarmo europeo e la mancanza di una strategia militare comune.

Il riarmo europeo e il rischio dello spreco economico.

Armarsi, ma contro chi?

I rischi geopolitici di un riarmo frammentato.

Riarmo europeo contro la Russia: deterrenza nucleare o soldati?

L’Europa tra Mediterraneo, Medio Oriente e NATO.

Il problema della dipendenza militare dagli USA.

Riarmo europeo e il fallimento strategico degli alleati.

Le incognite delle forniture militari USA.

Riarmo europeo: identificare il nemico prima di comprare armi.

Riarmarsi è inutile: l’UE già spende più della Russia.

Riarmo, l’incoerenza economica dell’Unione europea.

Abbiamo dovuto assistere anche alla vergogna del Parlamento Europeo che vota (ma in modo non vincolante, casomai avesse votato sbagliato) l’ideona della Von Der Leyen chiamata “ReArm Europe”.

 

Bello.

Bello perché in tutti questi anni la Commissione europea si è sempre detta contraria alla creazione di debito quando si trattava di cose futili come la sanità, la scuola, o altre infrastrutture.

Vi ricordate le lenzuolate sui giornali dove ci catechizzavamo sull’insanabile conflitto fra i Nord europei risparmiosi e i mediterranei scialacquoni?

Vi ricordate il famoso tetto del 3% nel rapporto tra debito pubblico e Pil, quello che è stata la scusa per decenni di austerity?

I neoliberisti ce lo hanno venduto come se fosse stato scritto per Mosé sulle tavole della legge.

Parlavano perfino di Paesi “virtuosi”, i suini.

Poi abbiamo scoperto che era un numero qualsiasi inventato a casaccio perché suonava bene.

Ecco, ora è tutto passato e la commissione europea ha intenzione di trovare 800 miliardi di euro a debito.

 Ed è necessario perché… Non si sa.

 

Il riarmo europeo e la mancanza di una strategia militare comune.

Non si sa.

Se andate appena al di là delle affermazioni generiche sul fatto che la Russia all’improvviso rappresenta un pericolo trovate il nulla assoluto.

Occorre riarmarsi, perché occorre riarmarsi.

Il problema è che riarmarsi non significa semplicemente comprare armi. Perché non tutte le armi sono uguali e perché non tutte le armi servono in tutti i casi.

 

Le armi servono quando hai una strategia militare.

Quando hai una strategia, allora capisci che armi ti servono.

Ma l’Unione Europea non ha una strategia militare, perché l’Unione Europea non è uno Stato federale e non ha una politica estera.

Il riarmo europeo e il rischio dello spreco economico.

Quindi questa idea di armarsi a membro di quadrupede abbaiante è solo fumo negli occhi e non porterà da nessuna parte, perché 26 Stati membri si armeranno secondo la loro individualissima percezione di cosa potrebbe essere uno scontro armato nel XXI secolo.

Il che è completa idiozia, ma ottima per il business perché si spenderà a destra e a manca senza alcun criterio logico, quindi chi introdurrà i venditori migliori e i lobbisti migliori, porterà a casa soldi.

 

E noi dovremmo sobbarcarci 800 miliardi di debito per questa stronzata?

Armarsi, ma contro chi?

Cominciamo a dire una cosa ovvia:

prima occorre definire chi è il nemico, e poi possiamo parlare di cosa serve per riarmarci.

Ma se stiamo parlando di Europa, il nemico deve essere comune, se no di cosa stiamo parlando.

 E definire un nemico comune significa che tutti gli Stati europei si decidono a trasferire le proprie competenze nell’ambito di difesa e politica estera al Parlamento Europeo e alla Commissione.

 

Cosa? Non ci fidiamo del Parlamento Europeo perché ci mandiamo gli scarti delle elezioni nazionali?

 

Forse potevamo pensarci prima, magari. Ad ogni modo, inutile pensarci prima del prossimo turno elettorale.

Quindi dicevamo, prima ci diamo una strategia di difesa comune, e poi parliamo di riarmo. Se vogliamo contare qualcosa nel mondo, l’Europa deve parlare come Europa, con una voce sola.

 

I rischi geopolitici di un riarmo frammentato.

Se invece preferiamo che a trattare per l’Europa ci vada Macron per gli interessi francesi, Merz per quelli tedeschi e Meloni per quelli italiani, allora tanto vale che lasciamo che Putin, Trump e la Cina ci dividano nelle loro sfere di influenza, e almeno risparmiamo il fiato.

 

Riarmo europeo contro la Russia: deterrenza nucleare o soldati?

E quale potrebbe essere, allora questa strategia di difesa?

Diciamo la Russia?

Bene, se vogliamo vedere la Russia come un avversario militare la sola cosa sensata da fare è dotarsi di una deterrenza nucleare. 

Ma c’è un piccolo problema: una potenza nucleare non sopporta bene un vicino nucleare.

Vi ricordo che quando i Russi cercarono di mettere dei missili a Cuba, gli americani arrivarono fino a mettere sul tavolo uno scontro armato con la marina sovietica.

E quando l’Ucraina sembrava vicina a entrare nella NATO, Putin l’ha invasa. E come la mettiamo con i baltici, se ci dotiamo di un arsenale nucleare?

O forse qualcuno vuole far fronte alla Russia con armi convenzionali.

Benissimo. Con quali soldati?

O magari volete reintrodurre la leva obbligatoria, visto che non abbiamo altri problemi.

 

L’Europa tra Mediterraneo, Medio Oriente e NATO.

Che poi, capisco parlare di Russia perché va di moda.

Ma l’Europa si affaccia su due mari e due continenti.

Cosa vogliamo fare col Mediterraneo e il Medio Oriente, li lasciamo alla politica di Washington e alla VI flotta statunitense, che tante gioie ci hanno dato in questi anni?

Anche se adesso non è una questione immediata, si porrà il problema di cosa fare delle forze USA di stanza in Europa.

Perché già Trump ha chiarito che la NATO è un’opinione, ma se parliamo con uno che vuole annettere il Canada e la Groenlandia, diventa una forza di occupazione. Anche questo è un problema di cui dovremo occuparci, e abbastanza presto.

 

Il problema della dipendenza militare dagli USA.

Poi diciamo che oltre alla deterrenza nucleare serve anche una capacità di signal intelligence e supporto operativo, che finora abbiamo lasciato ai satelliti e agli aerei-radar statunitensi.

Poi magari una rinforzatina all’aviazione, perché non siamo più nel XIX secolo.

E poi c’è il problema di cosa fare con gli USA.

Io non dico che siano un nemico, ma di sicuro abbiamo finalmente visto tutti i limiti della loro cosiddetta amicizia.

 Quindi vogliamo continuare a lasciare che da Ramstein intercettino mezza Europa?

Chiedo per un amico.

Ci sarebbe anche il problema per esempio di “Menwith Hill”, che è praticamente una sede di ascolto NSA in Inghilterra, ma quello è un problema degli inglesi.

 

Riarmo europeo e il fallimento strategico degli alleati.

E gli inglesi hanno scelto di uscire dall’Europa per “riprendere il controllo” del loro destino.

Dopodiché hanno scoperto di contare come il due di ghiande quando comanda bastoni, e adesso non sanno più come lisciare Trump, che non se li fila di striscio.

 

Benissimo.

Le incognite delle forniture militari USA.

Ma c’è un ma.

 Finora l’unica cosa sensata che ho letto riguardo a questa politica di riarmo è che USA, UK e Turchia sono fuori dalle commesse, a meno che non si impegnino per scritto a specifiche garanzie.

Ma di quali di garanzie vogliamo parlare, quando Trump alza il telefono e può bloccare l’afflusso di pezzi di ricambio e upgrade software?

Se veramente l’Unione Europea vuole spendere per riarmarsi, deve spendere in casa propria.

 Sentite cosa dice “Rasmus Jarlov”, ministro norvegese per l’economia e il commercio, qualche giorno fa, su Mastodon”:

“Non so se gli F35 siano dotati di un interruttore di sicurezza o meno. Come uno dei responsabili dell’acquisto degli F35 da parte della Danimarca, me ne rammarico”.

 

Gli Stati Uniti possono certamente disattivare gli aerei interrompendo la fornitura di pezzi di ricambio.

 Vogliono rafforzare la Russia e indebolire l’Europa e stanno dimostrando di essere disposti a danneggiare enormemente alleati pacifici e leali come il Canada, solo perché si ostinano a esistere come Paese.

Posso facilmente immaginare una situazione in cui gli Stati Uniti pretenderanno la Groenlandia dalla Danimarca e minacceranno di disattivare le nostre armi e di lasciare che la Russia ci attacchi quando rifiuteremo (cosa che faremo anche in quella situazione).

Pertanto, l’acquisto di armi americane è un rischio per la sicurezza che non possiamo correre.

 Nei prossimi anni faremo enormi investimenti nella difesa aerea, nei jet da combattimento, nell’artiglieria e in altre armi, e dobbiamo evitare le armi americane se possibile.

Invito i nostri alleati e amici a fare lo stesso.

 

E c’è chi l’ha capito anche in Italia.

L’ha capito Crosetto.

L’ha capito anche Meloni, nonostante continui a fingere che Trump abbia un occhio di riguardo per lei.

Salvini lo capirà appena esce la versione a fumetti.

Certo è un dilemma per quelli che si sono sempre visti come i cani da guardia degli americani contro il pericolo rosso.

 

Riarmo europeo: identificare il nemico prima di comprare armi.

Ma anche per loro i tempi cambiano. Se parli di Nazione, oggi, devi parlare di Europa.

Quindi vedete,

il primo problema è decidere “per cosa” dobbiamo riarmarci.

il secondo problema è ”come farlo”, cioè quali armi servono e da chi prenderle.

Riarmarsi è inutile: l’UE già spende più della Russia.

E poi c’è la chicca, che è il terzo problema.

E il terzo problema è che non abbiamo nessun bisogno di riarmarci come se non ci fosse un domani.

Perché l’Unione Europea ha già una spesa militare che supera di alcune volte quella della Federazione Russa.

Dati alla mano, nel 2024 i paesi della UE hanno speso in armamenti la bellezza di 326 miliardi di euro.

La Federazione Russa, 109 miliardi di dollari (Dati Banca Mondiale). E la federazione Russa sta bruciando uomini e mezzi in Ucraina a un tasso folle.

Certo, se vogliamo essere indipendenti dagli USA dovremo dotarci di qualche satellite e di un po’ di aerei radar in più.

 

Ma non c’è nessun bisogno di indebitarci fino al collo solo perché i nostri atlantisti “post mortem” hanno una crisi isterica e vedono il pericolo rosso perché non sanno immaginare nient’altro.

L’Europa vuole sicurezza ai confini. Anche la Russia.

 L’Europa ha bisogno del gas e del mercato russi, e la Russia ha bisogno di un partner commerciale che non veda il mondo in una prospettiva imperiale.

Quindi c’è già un terreno comune su cui fare politica sul serio, invece di lasciar fare agli americani e alle loro visioni imperiali.

Dipende solo dall’Europa essere presa sul serio o continuare a mostrarsi come il megafono degli USA anche quando gli USA cambiano discorso.

 

 

 

Riarmo Europeo: quale

paradigma di difesa?

Ispionline.it – (4 Apr. 2025) – Fabrizio Coticchia – ci dice:

 

Oltre alle diatribe sulla denominazione e l'aumento delle spese, l’Unione Europea deve capire se adottare o meno nuovo paradigma per la sua difesa.

Commentar Europa e governance globale.

 

Durante il Consiglio Europeo del 20 e 21 marzo, Ursula von der Leyen ha riferito delle richieste di Spagna e Italia di modificare il nome del programma di riarmo europeo (appunto “Re Arm EU”), poiché ritenuto troppo militaristico.

Pertanto, “Readiness 2030” (dal titolo del Libro Bianco della Difesa appena presentato dalla Commissione e dall’Alto Rappresentante) potrebbe essere il termine che l’Unione Europea (UE) utilizzerà in futuro.

Al di là delle schermaglie linguistiche – così tipiche del dibattito italiano sulla difesa, da anni avvezzo alle cosiddette “missioni di pace” – appare evidente che l’UE si trovi di fronte a una giuntura critica, una finestra di opportunità nella quale è possibile intraprendere un percorso diverso sui temi della difesa e della sicurezza, una traiettoria potenzialmente assai difforme rispetto al passato.

 Il fatto che la parola “militare” sia citata solo una volta del “Trattato sul funzionamento dell’UE”, e che il ruolo di Commissario della Difesa sia stato creato solo pochi mesi fa, ben illustrano il possibile impatto del cambiamento attuale.

Ma una giuntura critica – di fronte a trasformazioni domestiche e internazionali significative, dall’invasione russa dell’Ucraina alla destabilizzante seconda presidenza Trump – non significa di per sé un mutamento automatico.

 Né tantomeno rapido.

 

Occorre allora comprendere la direzione dell’attuale processo di trasformazione della Difesa in Europa, assieme ai principali incentivi e ostacoli, nonché agli obiettivi finali.

Il dibattito pubblico appare per adesso predominato da alcune questioni ricorrenti, come appunto l’aumento delle spese, nazionali ed europee, per la Difesa.

Possiamo evidenziare tre interrogativi che costantemente caratterizzano la discussione pubblica e una domanda – cruciale – che viene invece colpevolmente inevasa, nonostante la sua rilevanza.

Osservare in dettaglio tali aspetti – in relazione ai quali si divide la politica e l’opinione pubblica – consente forse di comprendere meglio i tratti del dibattito attuale, i suoi contenuti, e anche le sue mancanze.

Quale minaccia?

La prima domanda che sottende, come una premessa, l’attuale processo di trasformazione della Difesa europea attiene alla minaccia esterna.

Che tipo di sfida pone la Russia all’Europa?

Se sul revisionismo della politica di Mosca non sembrano esserci poi sostanziali disaccordi, il grado di minaccia militare concreta che la Russia porta all’Europa è percepito in modo molto difforme nell’UE, dal Baltico al Portogallo, in relazione a fattori geografici nonché storici.

 Il comportamento bellico di Mosca, cui in tre anni di invasione si può leggere sia nell’ottica della difficoltà a prevalere contro un avversario più debole ma anche attraverso la capacità di sostenere e promuovere, a livello di massa e tecnologia, una grande sforzo militare di fronte a un paese sostenuto dai preziosi aiuti forniti dai membri della NATO.

La Russia è un attore che vuole “solo” recuperare il controllo del suo vicinato – in contrasto al processo di allargamento dell’influenza occidentale nella “sua” area di influenza – o rappresenta piuttosto una sfida esistenziale per la sicurezza stessa dei paesi europei, anche a molti chilometri di distanza dalla frontiera russa o ucraina?

 La percezione della minaccia influenza ovviamente il tipo di risposta che essa richiede.

 Sul tema, gli italiani e gli spagnoli (a livello di opinione pubblica e di élite) hanno visioni assai diverse da quelle di estoni o svedesi.

 

Senza gli USA?

In secondo luogo, un ulteriore interrogativo al centro della riflessione pubblica e strategica riguarda gli Stati Uniti:

siamo davvero di fronte al “ritiro” americano dall’Europa?

L’erratica politica di Trump, apparentemente così ostile all’UE – e persino alla NATO, non certo percepita come Allenza – è solo parte di un approccio vocale e simbolico, per fini interni o commerciali, o è qualcosa di più?

 C’è davvero il rischio che gli Stati Uniti svuotino il continente dalla loro decennale presenza politica e militare.

 Se una tale “uscita dall’egemonia” appare un comportamento storicamente rarissimo, perché controproducente, per una potenza dominante, la volontà di Trump di smantellare l’ordine internazionale in tutte le sue componenti – quella economica (con i dazi), quella delle alleanze (con minacce e comportamenti espliciti) e quella del regime politico (con l’indubbio e drammatico processo di erosione della democrazia liberale negli Stati Uniti) – appare molto chiara, delineando un futuro ottocentesco fatto di rapporti di forza e spartizione tra grandi potenze.

Sarà però il grado percepito di “abbandono” americano dell’Europa (comunque in atto) a influenzare il livello di ambita autonomia strategica europea.

Anche perché il costo di sopperire totalmente alla presenza militare americana (che copre la netta maggioranza delle spese NATO, con mezzi e capacità ben più avanzati di quelli degli alleati, al di là dell’ombrello nucleare), sarebbe tale – nell’eventualità (ancora da dimostrare) di un suo ritiro completo dal continente – da richiedere un ripensamento totale della struttura economica e sociale dei paesi membri.

 

Quanto (e come) spendere?

Ciò porta al terzo quesito, quello relativo proprio alle spese, il tema “caldo” che comprensibilmente più attira l’attenzione mediatica.

Il livello di dipendenza da Washington – accresciuto dopo l’invasione russa dell’Ucraina, poiché molti stati (per esempio Polonia e Germania) hanno rapidamente acquisito mezzi che solo gli USA rendevano prontamente disponibili – è un fattore più o meno acclarato.

La discussione appare quindi più rivolta alla quantità di spese necessarie (dal “vecchio” 2% fino addirittura al 5% auspicato da alcuni), alla modalità con la quale finanziare tali aumenti (debito o meno?) e al tipo di capacità da recuperare dopo decenni di operazioni oltre confine non convenzionali:

il citato “Libro Bianco della Difesa UE” pone l’accento su difesa contraerea, munizionamento, missili, droni e mobilità militare.

 I recenti dibattiti parlamentari hanno poi dedicato particolare attenzione al “contenitore” di tale aumento di spesa, se nazionale o davvero europeo.

 La tempistica prevedibile per un reale processo di integrazione militare (anche al netto di una volontà politica condivisa per una politica estera e difesa comune, auspica anche da chi è critico rispetto al “Re Arm EU”, ma tuttora assente) non attiene al breve periodo.

Pertanto, il punto di partenza del riarmo appare – anche nei piani attuali della Commissione – quello nazionale.

In tal senso, il termine riarmo – al netto dei giochini lessicali – non pare in effetti il più adeguato, poiché da alcuni anni i paesi europei hanno incrementato le proprie spese (nazionali, al di là dello sviluppo di meccanismi comuni come la” PESCO”) per la difesa.

 In particolare, gli investimenti in programmi militari sono cresciuti esponenzialmente negli ultimi anni, sebbene ancora assai lontani dall’obiettivo di recuperare tutte quelle capacità militari accantonate per decenni in operazioni nelle quali servivano mezzi diversi: i veicoli blindati leggeri a Herat piuttosto che carri armati e munizioni in trincee novecentesche.

 Un recupero di capacità che riguarda il punto di vista quantitativo ma anche quello del grado di avanzamento tecnologico, al tempo di conflitti determinanti sia dalla massa che dall’innovazione in ambito di” Eletronic Warfare”.

 

Serve un nuovo paradigma?

Ma è proprio in relazione alla crescita degli investimenti che aleggia una domanda paradossalmente inevasa dal dibatto. Stiamo parlando di recuperare delle capacità, a fronte di crescenti minacce esterne e di crisi dell’Alleanza, oppure la volontà è quella di adottare un nuovo paradigma di difesa, di “deterrente and defense”, quella “difesa territoriale”, così centrale al tempo della Guerra Fredda, e ora tornato core task della NATO dopo anni di “Crisi Management”?

Come garantire oggi deterrenza all’Europa?

In sostanza, stiamo passando da un approccio che ha portato a schierare le forze armate in operazioni di risoluzione delle crisi internazionali a una visione di difesa del territorio (nazionale ed europeo) da un attacco militare convenzionale?

È questo il vero interrogativo che dobbiamo porci.

 Un quesito che impone un dibattito pubblico trasparente e dettagliato.

Come fare?

 

La letteratura illustra come il passaggio da un paradigma di difesa a un altro sia lento e complesso.

L’UE e i suoi membri vogliono davvero adottare un nuovo paradigma di difesa territoriale, modificando così mezzi, approcci e organizzazione delle forze armate, nonché della società?

 E la società europea è davvero pronta a fornire (e ad addestrare) cittadini in armi (così difficili da reclutare negli ultimi decenni) per confronti militari tradizionali?

Al di là delle decisioni politiche – che da diverse prospettive ideologiche possono fornire una risposta a tale inevaso quesito – occorre capire che una logica meramente funzionalista (“integriamo le armi spendendo un bel po’ come abbiamo fatto con il carbone e l’acciaio”) appare complessa, poiché strategicamente (nel senso di collegare coerentemente mezzi con obiettivi) problematica.

 Quali sono appunto gli scopi per i quali spendiamo in armamenti?

Quale il paradigma di difesa che l’Unione e i suoi membri voglio adottare, dopo anni (certo non di pace) ma di numerose operazioni di “Crisi Management”, di interventi (più o meno di combatto) di controinsorgenza, peacekeeping, peacebuilding.

I “fronti” nei quali siamo intervenuti in questi decenni – dal Mediterraneo allargato al Medio Oriente – non sono più rilevanti?

Lo sono meno?

In conclusione, quindi, più che discutere sui termini e sul linguaggio, in un continente sconvolto – a est – da guerre di conquista territoriale condotte da nostri avversari e da atrocità di massa – a sud – commesse da nostri alleati, sarebbe opportuno capire prima di tutto che paradigma di difesa vogliamo adottare.

 

 

 

 

Il riarmo e l’idea di Europa da difendere.

Aspeniaonline.it - Riccardo Pennisi – (Mar.28, 2025) – ci dice:

 

Il tema della difesa europea non è l’esercizio di stile su cui si giocano le capacità retoriche di politici o commentatori interessati a rinfacciarsi chi per primo ha detto che l’Ucraina sarebbe stata invasa, o per quale motivo vanno sostenute le rivendicazioni di Mosca o invece quelle di Kiev.

 Ci siamo lamentati negli ultimi anni perché gli Stati Uniti ci hanno messo sull’attenti di fronte alle loro posizioni e convenienze internazionali: ma il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca cambia brutalmente lo scenario.

Ora l’Europa viene considerata da Washington quasi una terra di rapina, da cui sottrarre territori o risorse, popolata da “parassiti” da rimbeccare, e verso cui rivolgersi con disprezzo e indifferenza:

 sembra perciò ragionevole pensare che gli USA abbiano accantonato l’idea che tenere con sé l’Europa faccia parte dei propri interessi.

È per questo che il problema della vulnerabilità del nostro continente si pone in maniera inevitabile e in termini enormi:

 in questo momento non c’è niente e nessuno che impedirebbe ai membri della UE di subire un’aggressione.

 

La nuova relazione con Washington.

 

Sotto, sotto si continuano a considerare poco serie le rivendicazioni di Donald Trump sulla Groenlandia.

 Il presidente degli Stati Uniti ha ribadito ormai decine di volte che “otterrà” quello che oggi è un territorio autonomo della Danimarca “in un modo o nell’altro”. Scherza?

 Ce lo possiamo chiedere mentre il “Vicepresidente JD Vance” e consigliere per la “Sicurezza nazionale Mike Waltz” visitano la base militare-spaziale di “Pituffik,” nel remoto settentrione dell’isola (si chiamava Thule fino a poco fa), tra i ghiacci e gli iceberg.

E peccato che sia stata cancellata la loro assistenza al campionato nazionale di cani da slitta, “sport che da sempre li appassiona”, aveva specificato la Casa Bianca, per paura di contestazioni, dopo le proteste ufficiali groenlandesi e danesi.

L’”Ultima Thule” esce così dalle nebbie del mito per entrare nel territorio della cruda realtà:

proprio da lì, dal suo fianco nord-ovest, dovrebbe cominciare l’Europa a enumerare i suoi punti deboli.

“Pituffik” è gestita dagli Stati Uniti nel quadro della NATO e in cooperazione con la Danimarca – sulla base sventola anche la bandiera rossa con la croce bianca – e ospita i sistemi che si occupano di sorvegliare i missili nucleari russi puntati verso il Nord Atlantico e l’Europa, piazzati sulla penisola di Kola.

Cosa succederebbe se i danesi fossero estromessi dalla base?

“Ci serve”, dice Trump.

Sì, ma a cosa che non possono fare già adesso?

 Se gli Stati Uniti annettessero la Groenlandia, condividerebbero le informazioni di sicurezza nucleare con i “parassiti” che tanto detestano?

 

Trump, Putin, Netanyahu.

 

Sotto i riflettori però, come sappiamo bene, prima dell’Artico c’è l’Est.

Resta più che legittimo pensare che la Russia sia stata trascinata dall’Occidente nell’invasione dell’Ucraina – avendo svolto operazioni militari di rilievo negli anni precedenti in maniera evidentemente casuale in Cecenia, Georgia, Siria e Libia, avendo inviato le proprie forze militari a reprimere rivolte popolari contro i regimi amici di Mosca in Kazakistan e Bielorussia, avendo consentito all’esercito dell’Azerbaijan di evacuare gli armeni dal Nagorno-Karabakh nonostante la presenza di un suo contingente di “pace”, avendo sparpagliato in decine di Paesi africani i propri mercenari.

E possiamo anche soprassedere sull’esperienza storica che mostra come la Russia tenda a trattare i piccoli Stati e i popoli vicini come pedine da spendere in un gioco diplomatico in cui Mosca si ritiene alla pari soltanto con le “grandi potenze”:

i casi sono innumerevoli, ma basti osservare al riguardo le trattative sul futuro dell’Ucraina, condotte in assenza… dell’Ucraina.

 

Soprassediamo pure.

 Resta però davanti a queste opinioni la presenza di un fatto ormai persino ammesso quasi apertamente:

la reciproca convenienza che sembra esservi tra Donald Trump e Vladimir Putin nel ridurre l’Europa a un bottino da spartire.

 Nel chiedersi perché Trump ceda a tutte le richieste negoziali di Putin (l’annessione delle quattro province parzialmente occupate, la garanzia che l’Ucraina non entrerà nella UE e nella NATO, che sarà senza difesa, senza flotta, senza industria, senza energia, che il prossimo presidente sarà gradito al Cremlino, che la Russia avrà libertà di manovra fino a Odessa e alla Transnistria…) una delle risposte potrebbe senz’altro essere che in cambio, in futuro, la Russia coadiuverà eventuali manovre americane per ricattare, dividere, piegare al proprio volere l’Europa.

 Come con le figurine: “Ucraina a me, Groenlandia a te…”

 

Perché ciò accada, l’Europa dev’essere debole e divisa in Stati che si avversano – prima dell’invasione del 2022 era abbastanza chiaro il sostegno di Vladimir Putin ai partiti politici europei che promuovevano un po’ ovunque il ritorno al nazionalismo delle piccole patrie.

 Oggi sono Trump, Musk e Vance a farlo, per lo stesso motivo, e alla luce del sole.

Il modello europeo di pluralismo politico e inclusione sociale – già indebolito in maniera davvero miope dall’interno della stessa Europa – dev’essere smantellato perché non costituisca più un’alternativa al modello sempre più dispotico e diseguale di Russia e Stati Uniti – pur nelle diversità di condizioni e dinamiche tra i due Paesi.

Si critica spesso giustamente l’Unione Europea perché “non esiste”, perché è imbelle, incapace di reagire, di costituirsi in soggetto politico influente:

ma chi sostiene queste posizioni cosa sta facendo, se non sottolineare l’esigenza di un rafforzamento della UE?

 

Si fatica a credere che la Russia, che non è ancora riuscita a sconfiggere, in tre anni, un’Ucraina militarmente nana, svuotata della sua popolazione, e malamente aiutata dall’Occidente, sia capace di condurre un’invasione su larga scala di un altro Paese europeo.

 Chi scrive condivide questa visione.

Però non si può nemmeno negare che i conflitti tendano ormai alla multiformità. Questa include la “guerra grigia” fatta di operazioni circoscritte e mirate, attacchi informatici, manovre di disturbo, sabotaggi di vario genere, che non hanno bisogno di un grande esercito per essere condotte, né di armamenti classici, né di una vera linea del fronte.

Da questo punto di vista, l’Europa è del tutto sguarnita:

non è un caso che l’idea del rafforzamento militare sia particolarmente popolare nei Paesi baltici e scandinavi che con la Russia confinano, non solo perché condividono una frontiera con una dittatura militarista e para-fascista che le frontiere tende a ignorarle (“la Russia non finisce mai”, specificò Putin parlando di geografia con un bambino), ma anche proprio perché già subiscono questo tipo di operazioni.

 

Nessuna considerazione sulla sicurezza europea può prescindere dalla situazione in Medio Oriente.

Se è stato semplice notare la deleteria convergenza tra la nuova Casa Bianca e il Cremlino, dovrebbe essere altrettanto semplice realizzare il potenziale nefasto dell’altro lato del triangolo politico internazionale che si sta costituendo:

quello tra Donald Trump e il premier israeliano Benjamin Netanyahu.

In una traiettoria “diplomatica” che ha molti paralleli con quanto accade con la Russia, la nuova amministrazione americana è arrivata a legittimare pienamente tutte le mosse e gli obiettivi dell’attuale governo israeliano:

la rottura unilaterale del cessate il fuoco a Gaza con la violenta ripresa della strage nella Striscia, l’ulteriore e sempre più sanguinosa offensiva dei coloni in Cisgiordania, l’idea della deportazione di massa dei Palestinesi, e l’isolamento dell’Iran come linea guida nella politica mediorientale, rafforzata dall’attacco congiunto agli “Houthi” in Yemen.

 

 Da parte sua Netanyahu, coerentemente con quanto accade negli Stati Uniti, ha rinfocolato la lotta per il controllo sugli altri organi di potere nazionali, aumentando così il tasso già non indifferente di instabilità interna a Israele – da sempre uno dei fattori che influenza negativamente la conflittualità regionale.

Sebbene cominci finalmente ad allargarsi in Europa la consapevolezza di doversi opporre a operazioni politico-militari che potrebbero dilagare in ampiezza (sebbene abbiano già tristemente raggiunto i peggiori picchi di intensità), e che ormai non ci si prende nemmeno più il disturbo di giustificare con motivi securitari o strategici, continua a mancare per gli Stati dell’Unione la possibilità di intervenire sul terreno con forze di interposizione adeguate.

Se proprio non si vogliono considerare i principi del diritto internazionale come motivo per schierarsi contro la linea Trump-Netanyahu (“…e Palestina a lui”), contino allora le considerazioni sulla stabilità regionale:

 già la guerra in Siria, con i suoi milioni di rifugiati, costò all’Europa una grave crisi interna con risvolti politici e ideologici che ancora pesano.

Figuriamoci cosa accadrebbe con un conflitto esteso a Beirut, Baghdad e Teheran.

La votazione all’Assemblea Generale dell’ONU su una risoluzione di condanna dell’invasione dell’Ucraina, il 25 febbraio 2025.

Stati Uniti, Russia e Israele votano contro il testo proposto dagli stati europei.

 Gli Stati membri dell’UE votano tutti a favore (esclusa l’Ungheria), insieme a Regno Unito, Canada, Svizzera, Norvegia, Serbia, Turchia.

 

Il fianco Sud.

 

Così è accaduto d’altronde in Libia, uno scenario dove a fronteggiarsi sono soprattutto forze armate russe e turche, dopo che l’intervento NATO nel 2011 ha provocato la fine del regime di Gheddafi.

Qui i Paesi europei, benché direttamente interessati, sono stati “calpestati” dagli stivali sul terreno di altri soldati, di potenze concorrenti, perdendo l’occasione per influire sulla stabilità e sul futuro di un territorio praticamente dirimpettaio.

 Curioso paradosso per il continente che aveva raggiunto ogni angolo del mondo con i propri imperi coloniali:

 oggi è quasi incapace di influire un metro oltre il proprio confine.

 

È una considerazione, questa, valida anche per l’Africa subsahariana:

la sfilza di colpi di stato portati a termine nel Sahel (otto dal 2019) con l’aiuto delle forze mercenarie russe, coadiuvate da una campagna politico-mediatica su larga scala guidata da Mosca, completa a meridione la ricognizione sui fronti sguarniti dell’Europa.

 Il tramonto davvero inglorioso dell’influenza francese sulla regione, dal Mali al Niger al Burkina Faso, deve far riflettere sulla strategia fallimentare seguita da Parigi.

Ma anche sull’incapacità di uno Stato europeo, da solo, di fronteggiare un attore come la Russia in uno scenario tanto impegnativo.

Vale per la Francia come per gli altri Paesi della UE: a questa scala, non c’è grandeur nazionale che non si rovesci in piccolezza.

 

Non si sottolinea mai abbastanza quanto la regione a Sud del Sahara sia fondamentale per gli equilibri europei;

Sahel significa “costa”:

con questo nome metaforico gli antichi viaggiatori del deserto chiamavano il luogo dove il mare di sabbia infine terminava.

A chiudere il cerchio che abbiamo percorso attorno all’Europa, un’”Ultima Thule” di dune bollenti invece che di pendii glaciali.

Non possiamo essere così ingenui da pensare, infatti, che il Cremlino si sia infilato nelle manovre politico-militari locali per dare un qualche impegno a miliziani e funzionari altrimenti annoiati a passeggiare lungo i ponti sulla Neva.

 No: nella “costa” che si stende tra l’Atlantico e il Mar Rosso ci sono risorse fondamentali come l’uranio e l’oro;

c’è la massima concentrazione mondiale di terrorismo jihadista;

da lì si controllano e si influenzano grandi traffici internazionali di persone, di armi, di energia:

 fenomeni con cui la Russia può esercitare pressione sugli stati europei – come ha già fatto con i migranti appositamente spinti verso le frontiere della UE passando dalla Bielorussia:

uno di quegli esempi di “guerra grigia” che l’Europa non ha nessuno strumento per fronteggiare.

Tra consenso e frammentazione.

Si dice giustamente che un’entità politica completa non può prescindere da strumenti atti a garantirne la difesa e la sicurezza.

Se l’Unione Europea vuole perseguire il suo progetto di riarmo, a completamento del progetto di integrazione europea, e in contrasto con la pretesa degli Stati Uniti e della Russia di farne fette di una torta da spartirsi o comunque da sottomettere al proprio volere, servono però delle condizioni di base.

Per prima cosa, la maturazione democratica della classe dirigente continentale (purtroppo viziata da decenni di decisioni prese nel segreto dei Consigli Europei), che deve avere il coraggio di presentare le proprie intenzioni davanti all’opinione pubblica e di confrontarsi con i diversi orientamenti in essa presenti.

 

Non servirà a molto nascondersi dietro qualche giro di parole, come la” pipa di Magritte”, per dire ”ceci ce n’est pas un réarmement” ma solo un banalissimo progetto come tanti altri che chiameremo… Preparazione 2030.

 Non servirà nemmeno far finta che il programma di costruzione degli armamenti non sia anche un sostegno pubblico verso storici comparti industriali che non si sa bene come rottamare, e che fino a pochi anni fa costituivano il fior fiore della potenza economica europea.

È poi lecito dubitare che il ricorso all’allarmismo psicologico, insomma l’idea di comunicare al pubblico l’imminenza di un conflitto aperto e generalizzato, non si riveli oltre che ben poco credibile anche controproducente.

E sarebbe infine indegno di un’organizzazione che si ritiene portatrice ed erede di principi liberal-democratici evitare il confronto nel parlamento europeo per affrettare decisioni su cui non dobbiamo affatto affrettarci, ma discutere il più possibile:

i pacchetti di sanzioni (ormai siamo a 16!) adottati dalla UE contro la Russia dovrebbero ricordarci dell’importanza di riflettere prima di fare, o mostrare di fare.

 

Le classi dirigenti europee non possono permettersi atteggiamenti simili su un tema fondante e cruciale come questo.

Un tema su cui cercano la propria legittimazione, di fronte alle tante forze politiche e sociali che le contestano da destra e da sinistra:

non va infatti dimenticato che l’Europa ha pagato un prezzo economico molto alto per la guerra in Ucraina, ma ora i suoi capi sembrano volerla prolungare. Un’equazione che elettoralmente non può quadrare:

non si può mostrare di aver paura della pace.

 

In Olanda, una mozione parlamentare ha bocciato il piano di Bruxelles, con l’estrema destra primo partito della coalizione di governo a votare contro, e i Socialisti, primo partito dell’opposizione, a favore.

In Germania il senso di shock e di urgenza – aggravato in maniera decisiva dal confronto videotrasmesso tra Trump, JD Vance e Zelensky, con la società a chiedersi “cosa farebbero gli Stati Uniti se al posto di Zelensky ci fossimo noi?” – ha portato all’abolizione dello storico “freno” costituzionale sul debito.

Una decisione epocale che ha coinciso con lo stanziamento di almeno 500 miliardi per la difesa, accompagnati da altri 500 destinati a interventi sociali, infrastrutturali e per la transizione ecologica – a riprova del fatto che il riarmo non deve andare per forza a discapito della spesa sociale.

Ma per farla passare, si è ricorsi all’escamotage di un voto nel parlamento uscente:

non era affatto sicuro che il nuovo parlamento, votato dalle elezioni del 23 febbraio e in cui la destra e la sinistra radicali sono più forti, l’avrebbe approvata.

 

Oltre a quella del consenso, emerge qui anche la questione degli equilibri all’interno dell’Europa.

La Germania è capace di stanziare, da sola, oltre 1000 miliardi per ricalibrare il proprio sistema socio-economico e produttivo.

Non è da escludere che questo programma comprenda lo sviluppo di armi atomiche:

sarebbe anzi logico, se il ritiro “imperiale” degli Stati Uniti dall’Unione “nata per fregarci”, come dicono Trump e Vance, dovesse compiersi fino in fondo.

Sappiamo bene che il sistema industriale tedesco non si limita alla Germania ma è profondamente integrato con quello dei Paesi settentrionali e orientali dell’Unione Europea, che dunque seguirebbero Berlino su quella strada.

 

Nella “nostra” parte d’Europa i programmi di riarmo sono visti con costernazione, scetticismo e opposizione dalla maggior parte dell’opinione pubblica:

 800 miliardi diviso 27 Paesi ci sembrano un peso intollerabile, e i governi gli cambiano il nome perché sennò suona male.

 Intanto, dall’altro capo del continente, nella Polonia in campagna elettorale si domanda la rottura unilaterale delle relazioni con la Russia, e il posizionamento di armi atomiche sul territorio nazionale – chiesto agli USA dai partiti trumpiani, alla Francia dai partiti europeisti.

Tra i Paesi dell’area si è da tempo d’accordo sulla costruzione anche fisica di una nuova cortina di ferro, e il maggior fabbricante europeo di armamenti, la tedesca “Rheinmetall”, annuncia profitti record (il suo valore in borsa è triplicato dalle elezioni americane, decuplicato da quando la Russia ha invaso l’Ucraina nel 2022) e l’”intenzione di rilevare gli stabilimenti Volkswagen” destinati alla chiusura per produrre carri armati e radar al posto delle automobili.

 Una sostituzione, questa, del cui potenziale l’industria europea è consapevole già da anni, ma a cui la guerra su larga scala scatenata da Vladimir Putin e l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca hanno offerto le ali per volare.

 

L’Europa, insomma, rischia una frammentazione e una divergenza molto profonda – proprio mentre ai suoi Paesi viene consentito di indebitarsi per costruire armamenti.

L’intero processo non può essere demandato ai singoli Stati, come sta accadendo, fingendo che non riguardi l’intero continente e il futuro dell’Unione Europea.

Non può essere gestito con la frivolezza e la superficialità di chi sta soltanto preparando la sua borsetta, come ha mostrato la Commissaria per la Parità, la Preparazione e la Gestione delle “Crisi Hadja Labib”.

Non può essere portato avanti senza il pieno coinvolgimento della cittadinanza europea e dei suoi rappresentanti:

cioè discutendo e stabilendo in maniera chiara ragioni, modalità, priorità, obiettivi del rafforzamento della difesa UE.

 Cosa c’è esattamente nel “kit di sopravvivenza” dell’Unione Europea?

Nessuno può davvero rispondere a questa domanda, nessuno al momento può davvero sapere a cosa serviranno o come saranno impiegate – o magari a chi saranno vendute – le armi che ci apprestiamo a costruire.

 

Servono dunque, ed è cruciale, organismi di coordinamento e controllo sovranazionale, dentro i quali gli Stati UE partecipino in maniera inclusiva, in cambio della propria assunzione di responsabilità, dato che l’aumento della spesa militare si consente utilizzando fondi comuni e sospendendo regole di bilancio finora considerate intoccabili.

Altrimenti si corrono due rischi importanti:

quello di appaltare alla Germania il ruolo lasciato scoperto dagli Stati Uniti, lasciando che sia il sistema politico-economico che ruota attorno a Berlino a stabilire priorità e obiettivi del riarmo.

Oppure, di fronte alla complessità di ciò che c’è oltre le frontiere europee, finire per limitarsi a rimpinguare 27 singoli e inefficienti eserciti di 27 stati che hanno interessi diversi, guidati da governi che sulla Russia o gli Stati Uniti hanno posizioni persino opposte tra loro:

l’Europa ha già commesso questo errore in passato.

 

 

 

 

 

Riarmo atlantico dell’Europa

e tramonto della diplomazia.

Ilmanifesto.it – (24 giugno 2025) - Marco Buscetta – ci dice:

 

Nato.

Per il decennale piano militarista la politica estera sarà solo veicolo di minacce e ultimatum tanto più credibili quanto più consistente sarà l’arsenale che si trova alle sue spalle.

C’è da scommettere che il vertice della Nato che si aprirà oggi in pompa magna all’Aia rivelerà una povertà di visione e una sicumera bellicista investita del compito di mascherare un sostanziale disorientamento e una totale incapacità di valutare la possibile evoluzione del disordine globale, salvo garantire il servile assoggettamento alle volubili decisioni di Trump.

 

Quando la situazione precipita, spiegare, prevedere, scovare la logica che sottende il caos, può essere un esercizio vano o inutile.

Tutto suona arbitrario, azzardato, effimero o pretestuoso.

Converrà allora attenersi ad alcune generiche evidenze che promettono di non dissolversi nel giro di pochi giorni o poche ore.

 

Cominciamo dall’Europa, tardivamente informata ma mai consultata dalle principali forze in campo sulle loro scelte e le loro azioni.

 Per nulla omogenea al suo interno, e non solo quanto alle risorse finanziarie attingibili, l’Unione europea impiegherà per sua stessa ammissione dieci anni e più per sviluppare quell’indispensabile potenziale bellico e quella “capacità di combattimento” che governi, ministri e generali reclamano con insistenza come urgenza massima e strada maestra senza alternative.

Ma anche la più superficiale valutazione delle circostanze concluderebbe che si tratta di un arco di tempo del tutto incompatibile con il ritmo assunto dalla crisi globale e dai conflitti in cui essa si manifesta.

A che punto saremo tra dieci anni?

 Il riarmo a quel tempo potrebbe essere stato reso superfluo da nuovi equilibri mondiali, impedito da una sconfitta preventiva o travolto da crisi interne dell’Unione o dei suoi singoli membri.

 

Se il “nostro Nemico”, la Russia, la Cina, i Brics o qualunque altro Satanasso, ragionasse come Israele e gli Usa a proposito del programma nucleare iraniano, allora provvederebbe ad attaccare sui suoi confini occidentali ben prima che il riarmo europeo abbia conseguito risultati significativi.

 Ma non lo farà per una semplice ragione:

semmai ne avesse l’intenzione (e nessuno è stato in grado di spiegarne il perché) non ne avrebbe comunque la forza anche allo stato attuale degli arsenali occidentali e degli assetti geopolitici.

 

Dunque l’enfasi e il budget posti sul programma di riarmo hanno uno scopo più culturale e politico che tecnico e militare, lasciando per un momento da parte gli enormi interessi economici che lo sospingono.

Quello culturale è ricondurre la guerra nell’orizzonte mentale dei cittadini europei, sottraendola a quello stato di aborrita eccezionalità in cui la seconda metà del Novecento l’aveva relegata.

 E, contestualmente, riottenere dalla popolazione la perduta disponibilità al sacrificio.

Il riemergere, quasi ovunque, delle proposte di ripristino della leva obbligatoria costituisce l’espressione più immediata di questa tendenza a revocare, previa condanna morale, i livelli di benessere conquistati con le lotte operaie, sociali e democratiche del dopoguerra.

 

Lo scopo politico è invece lo stravolgimento se non la cancellazione totale della sfera diplomatica.

 Quest’ultima, per vocazione e per ruolo, ha sempre avuto il disarmo, o perlomeno il controllo degli armamenti, come baricentro della sua azione.

 La corsa al riarmo, che è l’antitesi stessa di ogni logica diplomatica, si esprime invece in un linguaggio primitivo e privo di sfumature:

il linguaggio della deterrenza, fondato su una concezione quantitativamente crescente della forza.

Il decennale programma militarista europeo costituisce dunque una di quelle profezie che si autoavverano:

stabilisce che nel futuro la diplomazia non avrà più alcun ruolo, se non quello di farsi veicolo di minacce e ultimatum, tanto più credibili quanto più consistente sarà l’arsenale che si trova alle sue spalle.

Ma il tramonto della diplomazia, in quanto dialogo tra contendenti, corrisponde anche allo strapotere decisionista e autoreferenziale dell’esecutivo e dunque a un permanente pericolo di guerra.

 

Nei giorni che hanno preceduto l’attacco americano all’Iran molti attribuivano i tentennamenti di Trump alla contraddizione, tutta interna al suo schieramento, tra gli isolazionisti del Maga (decisamente contrari all’avventura bellica) e gli interventisti del suo gabinetto favorevoli a scendere in campo.

La decisione finale del capo conferma un fenomeno politico ben noto.

I regimi autoritari, e i fascismi in particolare, hanno sempre avuto bisogno di forze movimentiste per conquistare il potere (anche e soprattutto per via elettorale) ma immancabilmente le hanno dovute eliminare una volta insediati nel cuore dello stato per poterlo gestire senza intralci.

 È successo a Mussolini così come a Hitler.

E anche per Trump, i fanatici del Maga stanno diventando ingombranti.

 

Non è dunque un’America in ritirata dagli scacchieri globali, quella che si presenterà al vertice Nato dell’Aja.

 Ma per gli europei non è comunque una buona notizia.

In nome dell’escalation generale la pretesa che i paesi dell’Unione si facciano sempre più carico dei costi della difesa comune degli interessi occidentali sarà sostenuta da Washington con maggiore e ricattatoria insistenza.

Ma per quanto decida di dissanguarsi nella corsa al riarmo il peso dell’Europa su questo piano resterà modesto.

 Il tempo della competizione è corso via veloce.

 Le carte su cui gli europei avevano puntato erano altre e decisamente migliori.

 A cambiare gioco ora c’è tutto da perdere.

A esclusivo vantaggio di Putin, Trump e delle loro opache affinità elettive.

(Marco Buscetta).

 

 

 

 

 

«Il piano di riarmo europeo

produrrà più disuguaglianze».

Valori.it - Maurizio Bongioanni – (17.03.2025) – ci dice:

 

Secondo “Raul Caruso”, il piano di riarmo aumenterà il debito degli Stati.

 Che taglieranno sui servizi sociali, aumentando le disuguaglianze

“Re Arm Europe” è il piano di riarmo dell'Unione europea.

Una risoluzione di «sostegno incrollabile e incondizionato» all’Ucraina avanzata il 12 marzo al Parlamento europeo ha ottenuto 442 voti favorevoli, 98 contrari e 126 astensioni.

 Oltre ad accogliere la dichiarazione di Gedda sul cessate il fuoco di 30 giorni, decisione che deve essere approvata ora dalla Russia, il testo sottolinea che l’Unione europea e i suoi Stati membri sono diventati «i principali alleati strategici di Kiev».

 

L’Europarlamento, oltre ad aver accusato l’amministrazione Trump di aver «ricattato» il presidente ucraino Volodymyr Zelensky per forzarlo ad accettare l’accordo e denunciato la decisione di Washington di lasciare l’Unione europea fuori dai negoziati, ha anche approvato – con 419 voti favorevoli, 204 contrari e 46 astenuti – il Libro bianco della difesa dell’Unione europea, che riguarda un piano di riarmo da 800 miliardi di euro.

Il cosiddetto “Re Arm Europe”.

 

Il piano europeo per il riarmo produrrà più disuguaglianza.

Un piano che solleva interrogativi sulle sue implicazioni economiche e sociali. Soprattutto in relazione alla disparità tra i diversi Paesi dell’Unione.

A spiegarlo è “Raul Caruso”, professore ordinario di politica economica all’”Università Cattolica del Sacro Cuore”.

Il quale analizza la situazione in maniera critica, delineando scenari di possibili disuguaglianze tra le nazioni e i rischi di tagli alla spesa sociale.

Secondo il docente il piano, pur condividendo l’obiettivo di rafforzare la difesa comune europea, potrebbe avere effetti economici particolarmente gravi per i Paesi già in difficoltà.

 Come l’Italia e quelli più poveri dell’Est.

Questi ultimi sono anche quelli che si sentono più a rischio per la loro vicinanza alla Russia.

 

«I Paesi con un alto debito pubblico saranno quelli che pagheranno di più», afferma Caruso.

 «Questo perché, nonostante le deroghe alle regole fiscali per gli investimenti in difesa, i fondi necessari a finanziare l’iniziativa sono degli impegni di spesa che dovranno essere ripagati in futuro.

In poche parole, il piano di riarmo aumenterà ulteriormente il debito pubblico.

Così, i Paesi più piccoli e meno equipaggiati potrebbero trovarsi in una posizione svantaggiata. Creando nuove disuguaglianze tra le nazioni più ricche e quelle più vulnerabili».

 

Il riarmo porta sempre tagli alla spesa sociale.

A questo quadro si aggiungono le previsioni di tagli alla spesa sociale per far fronte agli impegni di difesa.

«Ogni volta che aumenta la spesa militare, quella per sanità, scuola e servizi sociali viene inevitabilmente ridotta.

Si tratta di un rapporto di proporzionalità inversa ampiamente dimostrato dagli studi accademici», continua il docente.

Mentre viene ignorato completamente l’impatto futuro sulla vita quotidiana dei cittadini, il riarmo viene presentato come una necessità politica.

 

Ma anche su questo “Caruso” invita a riflettere.

«Forse abbiamo considerato la minaccia di invasione russa al resto d’Europa un po’ frettolosamente.

Quel che è certo è che abbiamo trattato con superficialità i rapporti diplomatici.

E ora questo vuoto è stato colmato dall’imprevedibilità di Trump.

 In questo contesto, l’Europa, pur dotandosi di un piano di riarmo, rimarrà vulnerabile se non riuscirà a unirsi in modo realmente integrato.

Coordinando meglio le risorse e puntando su una politica estera comune.

L’Unione europea si presenta debole in politica estera proprio nel momento in cui dovrebbe dimostrarsi più forte».

 

Secondo il professore per fare fronte comune sarebbe necessario istituire un’organizzazione di difesa comune.

 Una sorta di agenzia con poteri simili alla Bce ma per quello che attiene all’industria delle armi.

«Un segnale che dimostri al resto del mondo che l’Europa è unita».

 Invece, il piano di riarmo dipenderà dalla dotazione dei singoli, dall’impegno di spesa che ciascun Stato membro sarà in grado di fissare.

 «Non è facile fare previsioni con numeri alla mano. Non sappiamo quante armi dobbiamo produrre, né quale sia il reale fabbisogno. Sappiamo che ci sarà un impatto a livello sociale, ma non sappiamo ancora dire quantificarlo».

Con le armi non si fa la pace.

In questo clima di incertezza, in Italia la proposta del ministro dell’economia “Giancarlo Giorgetti” sembra aver avuto un certo seguito:

creare un fondo di garanzia per la difesa europea, cercando di attrarre gli investimenti da parte dei privati.

«Una proposta singolare, diciamo, perché le aziende che producono armi sono praticamente pubbliche, quindi pensare che vi possano essere investimenti da parte di società private mi sembra quantomeno ottimistico».

 

L’idea di convertire il settore automobilistico alla produzione di armamenti – idea che circola anche in Italia – è stata presentata come una possibile soluzione a una crisi industriale.

Ma “Caruso” è scettico anche su questa proposta:

«Si tratta di una soluzione più simbolica che pratica – afferma -.

Considerando che le aziende automobilistiche non sono predisposte a un simile cambiamento.

La transizione, dunque, richiederebbe investimenti pubblici e rischierebbe di non portare alcun ritorno significativo».

 

Per quanto riguarda la gestione delle risorse l’analisi si concentra sulla questione della spesa.

 Se è vero che molte voci indicano la necessità di «spendere meglio» e non «di più», “Caruso sottolinea” che la storia ci insegna che la forza militare non ha mai portato a una pace duratura.

Il rischio è che un riarmo condotto senza una maggiore coesione politica, oltre ad aggravare le disuguaglianze e minare la stabilità economica dei Paesi più fragili, potrebbe portare a una maggiore instabilità.

Alimentando una corsa agli armamenti anziché garantire la sicurezza.

Invece di evocare il raggiungimento della pace attraverso la forza è necessario puntare su una pace attraverso la convinzione.

Basata su un’Unione europea più integrata e politicamente unita.

 

 

 

 

“L’era del riarmo è arrivata”.

Analisi e considerazioni sul piano

“Re Arm Europe” della Commissione Europea.

 Geopolitica.info - Davide Sotgia – (17/03/2025) – ci dice:

 

I mutamenti dello scenario internazionale, aggravato dai recenti sviluppi del conflitto in Ucraina, hanno portato molti attori ad impegnarsi per maggiori investimenti nella difesa ed a spingere per un più ampio coinvolgimento dell’Unione Europea nella sicurezza del continente europeo e delle aree limitrofe. Questo ha portato la Commissione europea a presentare un ambizioso progetto orientato al rapido riarmo dei suoi membri a garanzia di pace e sicurezza.

 

Il 4 marzo la Presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen ha presentato una proposta per un importante progetto di riarmo a livello nazionale e, soprattutto, a livello comunitario.

Il progetto “Re Arm Europe” è la risposta dell’Unione Europea, e dei suoi Paesi membri, alle sfide che il mutamento dello scenario internazionale propone all’Europa.

La Presidente Von der Leyen ha sottolineato, con le sue parole, che l’Europa è entrata “nell’era del riarmo” e che è necessario incrementare le spese dedicate alla difesa, per far sì che l’Unione si possa assumere maggiori responsabilità di sicurezza nel medio e nel lungo periodo.

Altra finalità è quella di permettere ai Paesi europei di continuare a supportare lo sforzo bellico ucraino nel breve e nel medio termine.

Tutto ciò è riassumibile con la dichiarazione della Presidente:

“ora è il momento dell’Europa e dobbiamo essere pronti”.

 

I punti del progetto.

 

Nelle intenzioni della Commissione il piano si divide in 5 punti.

Questi sono pensati per “mobilitare 800 miliardi di euro in risorse da spendere in settori legati alla difesa” tramite l’impiego di tutte le leve finanziarie a disposizione dell’Unione Europea e dei suoi Stati membri.

Questa scelta serve l’obiettivo di permettere ai Paesi membri di espandere le loro capacità nel campo della difesa nel modo più massiccio e veloce possibile.

 

Il primo punto vuole facilitare l’utilizzo di fondi pubblici degli Stati membri per investimenti nella difesa nazionale e quindi, di conseguenza, anche in quella comunitaria.

Per farlo si intende scorporare le spese dedicate alla difesa dai calcoli sul deficit del “patto di stabilità e crescita”, eliminando il rischio di incorrere nella procedura per debito eccessivo e quindi consentendo di spendere più risorse economiche.

 

Al secondo punto è riportata la creazione di un nuovo strumento, con in dotazione 150 miliari di euro, al fine di aiutare gli Stati membri a portare avanti nuove acquisizioni.

Lo strumento lavora nel contesto di acquisizioni comuni al fine di creare capacità pan-europee in alcuni settori critici (ad esempio mezzi aerei, difesa missilistica, droni, munizionamento, ecc.).

L’obiettivo è quello di lavorare secondo il motto “spending better e together”.

 

Il terzo punto vuole l’utilizzo di fondi dell’Unione, in particolare dei “fondi per la coesione”, per finanziare progetti con finalità legate alla difesa.

Con il quarto ed il quinto punto la Commissione vuole mobilitare il capitale privato e quello della Banca Europea degli Investimenti al fine di sostenere il riarmo del Continente.

 

Considerazioni sul progetto.

 

Il progetto della Commissione è pensato per avere un grande impatto sulle capacità di spesa dei Paesi membri dell’Unione Europea.

Parte della proposta, in particolare quanto indicato al primo punto, permetterà agli Stati membri di mobilitare enormi risorse pubbliche al fine di finanziare i programmi di riarmo nazionali.

 Questo andrà soprattutto a vantaggio di quegli Stati membri con una situazione finanziaria migliore (come, ad esempio, la Germania) che quindi hanno più “spazio di manovra” per incrementare il loro debito senza problemi eccessivi (questo è, invece, il caso dell’Italia).

È importante considerare che gli Stati, con ogni probabilità, dedicheranno la maggior parte di questi fondi per sostenere le loro imprese nazionali ed il loro tessuto industriale, contribuendo solo in termini relativi alla difesa dell’Unione Europea intesa come soggetto unitario.

 

La grande novità del progetto Re Arm Europe si trova negli altri punti, dove si parla di mobilitare le risorse proprie dell’Unione Europea per finanziare progetti infrastrutturali e di riarmo utili a livello comunitario.

Il principale strumento è il fondo da 150 miliardi per acquisti congiunti in materia di armamenti.

L’idea è quella di incentivare le acquisizioni comuni andando così a ridurre il costo, ad aumentare le quantità acquistabili ed a affrontare/attenuare la questione dell’eccesso di piattaforme esistenti nei vari eserciti e nei vari domini (ad esempio i paesi europei impiegano 16 piattaforme contro le 4 statunitensi) con importanti ricadute per quanto riguarda logistica, componenti di ricambio ed interoperabilità tra eserciti alleati.

 

In definitiva, il progetto presentato da Ursula Von der Leyen sembra essere adeguato a rispondere in modo concreto alle principali sfide del momento ed alle richieste di maggior responsabilità da parte degli alleati, in particolare dagli Stati Uniti.

 La Commissione intende fornire uno strumento che rappresenterebbe un importante precedente per tutto quello che riguarda la difesa comune del continente europeo e l’integrazione europea in generale.

Altro aspetto positivo riguarda le ricadute industriali e sociali che un progetto di questo calibro comporterebbe portando occupazione, innovazione e ricerca, andando così a contribuire in modo virtuoso alle economie dei Paesi dell’Unione Europea.

 

 

 

Francia: Lecornu lascia, conto alla rovescia per Macron?

Ispionline.it – Alessia De Luca – (6 ottobre 2025) – ci dice:

Il primo ministro Lecornu si dimette: “Non ci sono le condizioni per proseguire”.

“Daily Focus”, Europa e governance globale.

E ora davanti a Macron si aprono tre strade, tutte rischiose.

 

Sebastien Lecornu non ce l’ha fatta.

E con lui tramonta anche l’ultima speranza di Emmanuel Macron di dare forma al caos politico che agita la Francia.

Questa mattina, infatti, l’ex ministro delle Forze Armate e primo ministro in pectore ha rassegnato le dimissioni dopo soli 27 giorni a palazzo Matignon e meno di ventiquattro ore dopo aver annunciato la composizione del suo governo.

“Non c’erano le condizioni per restare”, ha dichiarato Lecornu, travolto dalle critiche dell’opposizione e della destra dopo aver anticipato parte della composizione dell’esecutivo, giudicato troppo simile a quello di “Francois Bayrou” che lo aveva preceduto e che, a sua volta, era stato costretto a dimettersi dopo 8 mesi di vita.

Da quell’esecutivo, Lecornu aveva preso dodici ministri su diciotto, tra cui Jean-Noël Barrot agli Esteri e Gérald Darmanin alla Giustizia.

Ma la nomina più discussa era stata quella di Bruno Le Maire, storico ministro dell’Economia dal 2017 al 2024, che avrebbe dovuto assumere la guida del ministero delle Forze armate, mentre a Roland Lescure sarebbe toccato il ruolo di titolare dell’Economia e delle Finanze, con il compito ingrato di presentare un bilancio credibile in un paese gravato da 3.300 miliardi di euro di debito, pari al 115% del Pil.

 “Siamo sbalorditi”, era stato il commento della leader del “Rassemblement National”, Marine Le Pen, che aveva definito “Le Maire ““l’uomo che ha mandato in rovina la Francia”.

Stoccate arrivate tanto dall’esterno quanto dall’interno della futura compagine di governo.

Una squadra che “non rispecchia la discontinuità promessa”, avevano lamentato i Républicains” minacciando di abbandonare l’esecutivo.

Una situazione che ha “costretto Lecornu ad anticiparli sul tempo, dimettendosi e diventando così il primo ministro con la vita più breve nella storia della V Repubblica.

Macron verso le dimissioni?

La decisione di Lecornu ha innescato una tempesta di reazioni politiche.

Il presidente del Rassemblement National, “Jordan Bardella”, ha chiesto a Macron di sciogliere l’Assemblea Nazionale e convocare nuove elezioni.

 “Non può esserci un ripristino della stabilità senza un ritorno alle urne e senza lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale”, ha dichiarato al suo arrivo alla sede del partito nazionalista.

“Il Rassemblement National”, guidato da “Marine Le Pen” e presieduto da “Bardella”, ha inoltre affermato che “il macronismo è morto”, chiedendo al presidente di scegliere “in fretta” tra le due opzioni sul tavolo:

 lo “scioglimento o le dimissioni”.

All’altro capo dello spettro politico, anche la “France Insoumise” (Lfi) ha sollecitato “l’esame immediato” della mozione di destituzione del presidente Macron.

“Dopo le dimissioni di Sébastien Lecornu, chiediamo l’esame immediato depositata da 104 deputati per la destituzione di Emmanuel Macron”, ha scritto in un messaggio su “X” il leader del partito della sinistra radicale,” Jean-Luc Mélenchon”.

“Il conto alla rovescia è iniziato. Macron deve andarsene”, ha dichiarato “Mathilde Panot”, esponente di spicco della sinistra radicale francese.

La decisione del presidente di sciogliere l’Assemblea Nazionale nel giugno 2024 continua ad avere effetti deleteri sulla vita politica ed economica del Paese, che nell’ultimo anno ha visto alternarsi tre primi ministri privi di un reale sostegno politico.

 

Ci sono altre strade possibili?

L’uscita di scena di Lecornu segna il tramonto dell’ennesimo, disperato tentativo di superare lo stallo politico in parlamento.

Nemmeno la promessa di abbandonare l’ipotesi di ricorrere all’articolo 49.3 della Costituzione – che consente al governo di approvare le leggi bypassando il parlamento – e le aperture a un dibattito senza precondizioni per l’adozione del nuovo bilancio sono riusciti a ripristinare la fiducia, ormai totalmente compromessa, tra i partiti e l’esecutivo.

Esattamente come i suoi predecessori, Lecornu si è trovato nell’impossibilità di unificare il proprio schieramento, di individuare compromessi di bilancio con i socialisti e di liberarsi dalle pressioni del capo dello Stato.

Ora tre strade possibili si aprono davanti all’inquilino dell’Eliseo, tutte rischiose e nessuna particolarmente allettante.

La prima, prevede la nomina di un nuovo primo ministro esterno al suo schieramento, data la crescente difficoltà di espandere la maggioranza verso sinistra o l’estrema destra.

Ma poiché anche la nomina di un moderato di sinistra metterebbe in discussione la sua riforma pensionistica, conquistata a fatica, alcuni analisti suggeriscono che la scelta potrebbe ricadere su un tecnocrate apartitico.

 La seconda include un nuovo scioglimento delle camere e il ritorno alle urne.

Una mossa azzardata, che secondo i sondaggi potrebbe dar vita a un altro parlamento spaccato, o potenzialmente all’insediamento di un governo di estrema destra.

E la terza strada, detestata dal Presidente della Repubblica, sarebbe quella delle sue dimissioni.

Nonostante Macron abbia più volte escluso l’idea di farsi da parte prima della scadenza del suo mandato nel 2027, con “Le Pen” che intuisce di avere la migliore possibilità di sempre di prendere il potere, sembra quest’ultima ipotesi a prendere il sopravvento nel dibattito di queste ore.

 

Parigi, malato d’Europa?

L’Europa intanto, intanto, assiste con sgomento misto a costernazione alla crisi della seconda economia più grande dell’eurozona.

I mercati hanno preso male la notizia delle dimissioni, mentre aumentano i timori che Parigi sia politicamente incapace di effettuare i miliardi di euro di tagli al bilancio necessari per uscire dalla crisi del debito, con i governi che crollano uno dopo l’altro perché non sono in grado di portare avanti le riforme.

 L’eventualità che la Francia debba ricorrere, berretto alla mano, al Fondo monetario internazionale per un prestito o chiedere l’intervento della Banca centrale europea, non è più un’utopia.

 E tutto questo sullo sfondo di turbolenze internazionali epocali:

la guerra in Ucraina, le tensioni con Mosca, il disimpegno degli Stati Uniti e l’inesorabile ascesa dei populismi.

Come ha affermato il commentatore politico “Nicolas Baverez”:

“In questo momento critico, in cui sono in gioco la sovranità e la libertà della Francia e dell’Europa, la Francia si ritrova paralizzata dal caos, dall’impotenza e dal debito”.

Macron insiste nel dire che può liberare il Paese da questa situazione critica, ma gli restano solo 18 mesi alla fine del suo secondo mandato.

“Una possibilità è che i punti di forza del paese – la sua ricchezza, le sue infrastrutture, la sua resilienza istituzionale temperino gli scossoni di una transizione che molti considerano storica – osserva “Baverez” –

 Ma c’è un altro scenario: che la Francia ne esca definitivamente indebolita, preda di estremisti di destra e di sinistra, un nuovo malato d’Europa”.

 

Il commento di “Antonio Villafranca”, Vice Presidente per la Ricerca ISPI.

 

“Lecornu si è dimesso perché la lista dei suoi Ministri non piaceva quasi a nessuno.

Ma dietro i ‘no’ si cela l’incapacità del sistema politico francese di guardare in faccia la realtà: crescita bassa, debito alto.

Per spezzare il circolo vizioso, servirebbe una stabilità politica che i partiti francesi non riescono a esprimere.

Il tempo di Macron sta collassando e i tentativi di rianimarlo servono solo a guadagnare (poco) tempo”.

 

 

 

Il tramonto di Macron,

e la Francia

prigioniera delle sue rigidità.

Linkiesta.it - Carlo Panella – (7 ottobre 2025) – ci dice:

Il Parlamento francese è paralizzato da partiti incapaci di trovare qualsiasi accordo a causa di un sistema politico bipolare.

Il presidente francese non ha più carte per formare un governo stabile.

(LaPresse).

 

Le dimissioni del governo di “Sébastien Lecornu”, restato in carica dodici ore possono segnare l’inizio della fine per Emmanuel Macron.

Non perché lo obblighino alle dimissioni, che sono chieste solo dall’arruffapopolo Jean-Luc Mélenchon, ma perché evidenziano errori politici tanto evidenti da segnarne un tramonto ineluttabile.

Due sono stati gli elementi di questa crisi politica della Francia e del declino parallelo del prestigio di Emmanuel Macron, che rischia ormai di fare la fine di Matteo Renzi:

passare in pochi anni dalla centralità nel sistema politico all’emarginazione minoritaria.

 

Il primo elemento è un’attitudine settaria, una rigidità dogmatica dei partiti, figlia di un sessantennio di bipolarismo netto, ma anche di un’arroganza ideologica di parte, tutta francese, che rende oggi a Parigi evidentemente impossibile non solo ogni governo di unità nazionale, ma anche una “Grosse Koalition “e, men che meno, un governo tecnico.

 I partiti francesi, anche quelli non estremisti di destra o di sinistra, si presentano infatti a Matignon per discutere di possibili programmi comuni, rigidi, inflessibili, indisposti alla mediazione, incapaci letteralmente di fare politica e tesi a dare solo testimonianza di sé stessi.

 

In questo contesto, sin dal verdetto delle elezioni europee del 2024, che hanno segnato l’avanzata delle estreme di Marine Le Pen e di Jean-Luc Mélenchon, e la perdita netta di voti e quindi di deputati della coalizione del presidente, Emmanuel Macron ha sbagliato visibilmente tutte le mosse.

 In più, con un atteggiamento di alterigia e arroganza che ora gli si rivolta contro.

Il primo suo errore è stata la decisione di sciogliere l’Assemblea Nazionale e indire elezioni anticipate.

Decisione presa con evidente stizza, da solo, senza neanche consultarsi con il suo premier “Gabriel Attali”, fino ad allora fidato collaboratore e, da quel momento in poi, deluso avversario.

Il risultato di quella mossa avventata è stato un trionfo al primo turno di Marine Le Pen, trionfo poi annullato al secondo turno da un ennesimo “Front Républicain,” che ha fatto blocco contro i suoi candidati con il meccanismo della desistenza, che ha visto elettori gollisti votare per candidati dell’estrema sinistra e viceversa, ma che ha poi prodotto un Parlamento nel quale nessuno schieramento ha una maggioranza.

A quel punto era evidente, nel contesto istituzionale francese, che gli attribuisce enormi poteri e la gestione diretta della politica estera e della difesa, che il presidente doveva gettare tutto il suo prestigio, tutto il suo impegno, tutta la sua visione politica in un serrato confronto tra i partiti di centro e quelli moderati di destra e di sinistra, per costruire con pazienza una grande coalizione o, almeno, un governo a guida tecnica forte di una solida maggioranza parlamentare.

 

Nulla di tutto ciò.

Emmanuel Macron ha mostrato un distacco evidente per quelle che giudicava poco interessanti beghe della politica interna e si è impegnato con maggiore esposizione personale sulla scena internazionale ed europea, tentando, senza riuscirci, di giocare un ruolo rilevante nella crisi ucraina come in quella mediorientale.

Ha quindi delegato la soluzione della crisi politica – che ormai aggravava anche la crisi economica – a un collaboratore o alleato dopo l’altro, mostrando un disinteresse per la trattativa tra i partiti.

 

Trattativa difficile, per la rigidità politica e programmatica delle forze politiche, i socialisti in primis, come abbiamo detto, ma che un presidente della Repubblica all’altezza del compito avrebbe potuto gestire con prestigio e saggezza, delineando e concretizzando con pazienza una strategia di governo fatta di piccoli, ma concreti passi, frutto di complesse, ma sagge mediazioni programmatiche. Godendo di poteri istituzionali più limitati, e usando la moral suasion, questo hanno fatto in Italia sia Giorgio Napolitano sia Sergio Mattarella.

 

Niente di tutto questo:

 nessun tavolo di trattative all’Eliseo, nessun impegno personale del presidente nella trattativa per delineare una strategia di gestione della politica interna e, men che meno, della crisi economica.

 Con regale disimpegno, Emmanuel Macron ha quindi bruciato come premier prima l’elegante “Michel Barnier”, durato poche settimane, poi l’alleato “François Bayrou”, che ha resistito solo sino a quando è stato protetto dall’impedimento costituzionale di sciogliere per un anno l’Assemblea Nazionale, e infine “Sébastien Lecornu”, suo fidato ministro, durato appunto dodici ore.

Tre governi di minoranza parlamentare che, di fatto, non hanno governato, con conseguente aggravamento della crisi economica e che hanno finito per favorire le estreme nell’elettorato francese.

 

Ora lo sbocco più probabile della crisi politica è un nuovo scioglimento del Parlamento e nuove elezioni anticipate, con una probabile vittoria di Marine Le Pen.

Il paradosso è che questa probabile vittoria dell’estrema destra è favorita proprio dal successo della prima avventura politica di Emmanuel Macron, che vinse il suo primo mandato disgregando e togliendo milioni di voti sia ai gollisti sia ai socialisti, a favore di un nuovo grande centro di Macron di ispirazione liberale e progressista.

Passati otto anni, quel progetto, che sembrava vincente ed egemonico, ma che si reggeva tutto e solo sulle spalle di Emmanuel Macron – che si sono rivelate inadeguate – è fallito e lascia sul terreno sei forze politiche del centro moderato e liberale, come della sinistra riformista, ognuna delle quali raggiunge a stento il dieci-quindici per cento e non è coalizzabile per le ragioni soggettive già esposte.

 

Questa frammentazione del quadro politico, a seguito del fallimento del progetto del presidente, produce una polarizzazione delle estreme.

A sinistra, l’estremismo venato di antisemitismo di “Jean-Luc Mélenchon” ha prodotto una rottura con i socialisti e la fine dell’improbabile “Nouveau Front Populaire”, mentre è promettente il nuovo movimento di “Raphaël Glucksmann “dalle caratteristiche lib-lab.

 A destra è egemone il “Rassemblement National di Marine Le Pen”, che ha attirato nella sua orbita una parte dei “gollisti di Éric Ciotti.”

 

Tutto indica, quindi, che in nuove elezioni anticipate, seguite al probabile scioglimento del Parlamento, vincerà l’estrema destra, perché è difficile ricostituire uno sbarramento di tutte le altre forze politiche al secondo turno, dopo che questo ha prodotto comunque un’Assemblea Nazionale ingovernabile.

Non è esclusa, quindi, una futura coabitazione tra “Emmanuel Macron” e “Marine Le Pen o Jordan Bardella”.

Questo, se Emmanuel Macron non si dimette: svolta tanto grave quanto improbabile, visto il carattere dell’uomo.

 A meno che il presidente non decida, con un gesto clamoroso, di abbandonare l’agone politico per ripresentarsi poi alle elezioni presidenziali del 2032, come la Costituzione gli permette, con la speranza di vincerle contando sull’eventuale fallimento di Marine Le Pen al potere in Francia.

 

 

 

Perché Macron ha rinominato premier

Lecornu: canto del cigno o astuzia politica?

Quotidiano.net – Daniel Peyronel – (11 ottobre 2025) – ci dice:

Francia, dopo una settimana rocambolesca, Emmanuel Macron ha scelto di riportare Sébastien Lecornu a Matignon.

Una decisione incomprensibile: per alcuni è il segno del tramonto politico del presidente, per altri si tratta di un'ulteriore prova del suo fiuto.

Roma, 11 ottobre 2025 – Sabato scorso, Sébastien Lecornu regolava gli ultimi dettagli prima di presentare la nuova squadra di governo ai francesi.

 Il seguito è noto:

levata di scudi generale, dimissioni di Lecornu con annessa caduta del governo più breve della storia francese, quarantotto ore di trattative per scongiurare nuove elezioni e una giornata di riunioni all’Eliseo per rinominare, in serata, lo stesso Lecornu.

 “Il presidente della Repubblica ha nominato primo ministro Sébastien Lecornu e l’ha incaricato di formare un governo”, recita il comunicato stampa dell’Eliseo, poco dopo le 22.

Una settimana dopo, l’ex ministro della Difesa francese si ritrova quindi con lo stesso arduo compito, ma in condizioni ancora peggiori:

 il partito dei Repubblicani, la formazione di destra guidata dall’ex ministro dell’Interno Bruno Retailleau, con cui le forze di centro governavano nel cosiddetto “zoccolo comune”, ha annunciato che non parteciperà al prossimo governo, promettendo solo un “sostegno testo per testo”.

Anche il gruppo del blocco centrista “Horizons”, fondato dall’ex premier” Édouard Philippe”, ha lasciato planare l’incertezza sul proprio sostegno.

Senza maggioranza, sotto la minaccia costante della sfiducia brandita dal “Rassemblement national”, prima forza politica all’Assemblea nazionale, dalla “France insoumise” di Mélenchon e dagli altri partiti di sinistra - che chiedono al premier la sospensione della riforma delle pensioni per evitare la censura - è difficile immaginare un esito diverso per il secondo governo Lecornu.

La solitudine del presidente.

La decisione di Emmanuel Macron di rinominare Lecornu ha destato scalpore e incomprensione in Francia e all’estero.

Venerdì, nel cortile dell’Eliseo dopo due ore di riunione, la leader dei Verdi Marine Tondelier ha parlato di un presidente sempre più isolato e arroccato sulle proprie posizioni:

 “più è solo, più si chiude nella sua idea iniziale”.

Per quanto responsabili anch’essi del blocco istituzionale del Paese, i partiti rimproverano al presidente di ignorare le richieste di cambiamento dei cittadini e di controllare il governo, influenzando la scelta dei nomi dei ministri e ponendo troppi limiti e condizioni al premier.

 “Matignon deve smettere di essere un’appendice dell’Eliseo”, avrebbe detto “Retailleau” al presidente durante la riunione, rinviando al mittente le critiche d’irresponsabilità di fronte alla gravità della situazione.

Consumata la frattura con il centrodestra, che ha comunque detto di non volere la caduta del futuro governo, il presidente conta sul sostegno dei socialisti, rifiutandosi però di prendere in considerazione le loro richieste.

Dopo aver chiuso alla “tassa Zucman”, il capo dello Stato si è detto aperto a un rinvio di un anno della riforma delle pensioni, anziché una sospensione e un’eventuale abrogazione voluta invece dai socialisti.

 

La normalità della crisi.

Se il tasso di popolarità del presidente è ormai ai minimi storici e i margini di manovra sono sempre più ridotti, Emmanuel Macron continua imperterrito a dirigere il Paese come al suo primo giorno di mandato, nel 2017.

 Questo perché, come sottolineano molti analisti politici francesi, Macron è abituato a cavalcare le crisi.

 Dai gilet gialli alla pandemia, dall’invasione russa dell’Ucraina fino a oggi, il presidente sfrutta il clima di incertezza e tensione per costringere le varie forze politiche collaborare.

La differenza rispetto al passato però, è che la crisi politica che attraversa la Francia è considerata opera sua da quasi tutta la classe dirigente francese, dopo la famigerata decisione di sciogliere il parlamento a giugno 2024:

“la lucidità e l’umiltà impongono di riconoscere che questa decisione ha creato più instabilità che serenità.

 Me ne assumo pienamente la responsabilità”, aveva finito per ammettere il presidente nel tradizionale discorso di fine anno.

Il risultato ottenuto dopo questa settimana folle, in un Paese considerato ancora fino a pochi anni fa il più stabile d’Europa, potrebbe in fin dei conti giovare al capo dello Stato:

senza “Bruno Retailleau “al governo, Macron toglie influenza e visibilità a uno dei candidati in ascesa alle prossime elezioni presidenziali.

 Inoltre, la decisione di “Sébastien Lecornu” di nominare solo profili senza mire sull’Eliseo, renderà il futuro esecutivo simile a un “governo tecnico”, con delle personalità provenienti da sensibilità politiche diverse.

 Un ulteriore modo per garantirsi il sostegno del centrodestra e del centrosinistra, senza il rischio di sconvolgere la politica del governo.

Al di là delle analisi di fondo, la scelta di rinominare” Sébastien Lecornu” a “Matignon”, è stata dettata soprattutto dall’urgenza di dotare la Francia di una legge di bilancio entro la fine dell’anno, per non ripetere l’errore del passato, con il rischio far esplodere i tassi d’interesse sul debito e paralizzare i servizi pubblici, in una situazione di "shutdown" come quella che attraversano ora gli Stati Uniti.

Il premier potrà presentare infatti anche senza una squadra di governo la propria bozza già pronta della manovra finanziaria questo lunedì, in modo che possa passare al vaglio del Parlamento entro il 31 dicembre 2025.

La Francia avrà quindi una legge di bilancio, ma forse né un premier, né un presidente.

 

 

Nobel Stile Pentagono: l’Occidente

Premia la Machado per

Preparare la Guerra.

Conoscenzealconfine.it – (12 Ottobre 2025) - Ferdinando Pastore – ci dice:

 

Il Nobel per la pace a Maria Corina Machado svela il disegno USA: legittimare un nuovo fronte di guerra in Venezuela.

L’Occidente, travestito da pacifista, celebra un premio che prepara l’aggressione, tra retorica anticomunista e ritorno del fascismo globale.

 

Il Nobel della Menzogna: Quando la Pace Serve a preparare la Guerra.

Il Nobel per la “pace” assegnato a “Maria Corina Machado” assolve alla precisa richiesta di Trump che lo avrebbe consegnato a sé stesso.

 Si va oltre le intenzioni di Washington perché con questa decisione si legittima il prossimo scenario di guerra a cui gli Stati Uniti stanno da tempo lavorando.

Nessun mistero sulla questione venezuelana.

Chi parla delle pecche con cui Maduro sta gestendo il suo socialismo, mente sapendo di mentire.

In Venezuela gli Stati Uniti hanno bisogno di una chiusura reazionaria del sistema perché le risorse di quel paese tornino a rappresentare un discount da saccheggiare per ingrossare i profitti privati delle multinazionali.

In secondo luogo gli Usa hanno la necessità di riprendere in mano le redini del proprio cortile di casa, il Sudamerica, troppo esposto a correnti sinistre.

 In quei luoghi la coscienza collettiva è vigile nel saper concatenare dittature militari e politiche neoliberiste.

 

Il Venezuela è il grande cruccio per il sistema statunitense, perché la caduta di Maduro rappresenterebbe una grande conquista anche simbolica.

Il “chavismo”, quel movimento di liberazione degli oppressi intriso di bolivarismo, di teologia della liberazione, di indipendenza patriottica, di sollevazione castrista, indusse un processo virtuoso in tutta l’America Latina con orizzonti di nuova speranza per gli ultimi, per i contadini, per i lavoratori.

Il Sudamerica ha rappresentato un faro per il socialismo internazionale con la sua declinazione populista;

un ultimo esempio concreto di conquista dello Stato che si è diffuso, con forme differenti dà luogo a luogo, in tutto il continente.

Con questo premio Nobel, l’Occidente collettivo esprime, ancora una volta e ancora di più, la sua propensione alla guerra che ormai ritiene destino ineluttabile. Trattasi di una resa dei conti globale che non concepisce sconti, non percepisce spazi di manovra alternativi.

E perché la guerra sia inglobata nel buon senso comune delle società occidentali si ricorre ancora una volta al fascismo.

 Tranquilli non quello delle camicie nere a Piazza Venezia.

Ma quello sionista, quello dell’est Europa da celebrare perché così fermamente anticomunista, quello sudamericano così attento al benessere delle grandi corporations private, quello di Bruxelles con i suoi gendarmi in completo blu.

E quello a stelle e strisce, lì dove la mentalità razzista, coloniale e imperiale si fece Stato pochi secoli fa.

(Ferdinando Pastore).

(kulturjam.it/in-evidenza/nobel-stile-pentagono-loccidente-premia-la-machado-per-preparare-la-guerra/).

 

 

 

 

Lo storico piano di pace di Trump

per la Palestina e la capitolazione

di Israele.

Lacrunadellago.net – (10/10/2025) – Cesare Sacchetti – ci dice:

 

Ora a Gaza, i bambini festeggiano e gridano di gioia.

Per la prima volta dal 7 ottobre del 2023, il popolo palestinese ha di fronte a sé un futuro che non sia quello di morte e distruzione che Israele gli ha inferto da due anni a questa parte.

Iniziò tutto con l’attacco da parte delle milizie di Hamas che ormai può considerarsi a tutti gli effetti come parte di un piano di Israele per iniziare la sua genocida campagna contro Gaza e annettersi i territori della Striscia.

A rivelarlo sono stati diversi militari israeliani che hanno confermato come ricevettero l’ordine da parte del proprio comando di non intervenire contro Hamas, e di lasciar passare le milizie che dovevano invadere quei confini tra i più sorvegliati al mondo.

Hamas “piomba” su Israele con i suoi parapendii.

 

L’esercito israeliano non solo non oppose alcuna resistenza ad Hamas, ma i suoi stessi membri piuttosto che difendere la vita dei comuni cittadini israeliani, aprirono il fuoco contro di essi.

Le forze armate israeliane avevano l’ordine non di proteggere i civili, ma di sparare contro di essi.

Il governo di Benjamin Netanyahu voleva che gli israeliani versassero il loro tributo di sangue per consentire al suo partito di mettersi sulle tracce del folle piano imperialista che il sionismo messianico rincorre da molto tempo, che altro non è che la” famigerata Grande Israele”.

 

A rivelarlo molti anni addietro, nel 1990, di fronte al consesso delle Nazioni Unite fu l’ex leader dell’OLP, “Yasser Arafat”, che mostrò che il disegno di questo impero israeliano che si estendeva per larghissime parti del Medio Oriente, era persino presente sulle monete e sulle divise dell’esercito di Israele.

Israele già allora inseguiva il suo impero nella spasmodica attesa del suo “moshiach”, una figura carismatica che secondo il sionismo un giorno guiderà lo stato di Israele verso il dominio del mondo.

 

Ad attendere questa figura sono molte sette sioniste, tra le quali la famigerata “Chabad Lubavitch”, che ha sussurrato all’orecchio di molti presidenti degli Stati Uniti e soprattutto a quello di Netanyahu che già da giovane aveva un rapporto molto stretto con il suo storico leader, il rabbino “Menachem Schneerson”.

 

“Menachem Schneerson.”

“Schneerson” disse prima di morire che dopo il governo di Netanyahu ci sarebbe stata l’attesa manifestazione del” moshiach,” perché il rabbino sapeva che il premier israeliano avrebbe cercato sin dal suo esordio nella politica israeliana nel 1995 di estendere i confini di Israele e di portarli verso l’annessione di Gaza, della Giordania, del Libano, di parti dell’Egitto e persino dell’Arabia Saudita.

 

La “corsa di Bibi al potere” fu spianata dalla morte di un altro leader israeliano, il sionista progressista, “Yitzhak Rabin”, ucciso nel 1995 da un esponente del sionismo messianico a detta di diverse fonti israeliane sostenuto dall’”intelligence israeliana della Shabak”.

La morte di Rabin permette la nascita di Netanyahu che sin da quell’istante aveva già chiaro qual era il suo fine ultimo.

 

Israele doveva far nascere il suo impero, e poco importa se ciò sarebbe costato la vita a diversi israeliani non molto appassionati da questa filosofia messianica, e soprattutto poco importa se a pagare il prezzo sarebbero stati i morti americani dell’11 settembre e quelli delle guerre scatenate dai guerrafondai sionisti neocon che dominavano l’amministrazione Bush.

 

Nessuna vita viene risparmiata da questo manipolo di pericolosi esponenti del sionismo messianico che hanno continuato a seminare caos e morte nel Medio Oriente anche negli anni successivi attraverso la creazione dell”’ISIS”, più che un gruppo terroristico, un vero e proprio “brand di tagliagole” sostenuti sin dall’inizio dalle monarchie del Golfo, all’epoca ancora vicine a Israele, e ovviamente dalla stessa Israele che si è servita di tali barbari assassini per colpire tutti coloro che erano contrati all’imperialismo israeliano.

 

La fine della supremazia sionista: l’epoca di Trump.

A mettere fine a questa continuità e a questa politica del caos permanente è stato Donald Trump.

Sin dai primi passi della sua parabola politica, il presidente degli Stati Uniti si è trovato a dover fare i conti con la potente rete sionista che già nel 1963 aveva deciso di eliminare il presidente Kennedy per la sua ferma opposizione al programma nucleare israeliano che costituiva, e costituisce, una grave minaccia per la pace in tutto il Medio Oriente.

Il tributo pagato da JFK è stato elevatissimo.

 

Il presidente fu ucciso sulla “Dealey Plaza di Dallas” per permettere al suo vicepresidente “Lyndon Johnson”, partecipe della cospirazione criminale, di salire al potere e di dare mano libera a Israele di procedere con il suo programma nucleare e di annettere parti degli Stati arabi limitrofi, come le alture del Golan, tuttora illegalmente occupate dallo stato ebraico dopo la famigerata guerra dei 6 giorni del 1967.

“Lyndon Johnson”.

Talmente profonda era la sottomissione di Johnson a Israele che quando questa attaccò, sempre in quell’anno, una nave americana, la “USS Liberty”, il presidente non mosse un dito contro l’”alleato” degli Stati Uniti, e continuò fino alla fine del suo mandato ad assicurare il suo pieno sostegno allo stato di Israele.

 

Trump doveva recidere ognuno dei fili che legavano gli Stati Uniti ad Israele, ma ha saputo farlo con abilità, astuzia e sagacia, conscio che l’intero apparato mediatico è saldamente nelle mani della rete sionista.

Se a parole ci sono state generiche dichiarazioni di “amicizia” nei riguardi di Tel Aviv, nei fatti a poco a poco Trump ha tolto allo stato ebraico l’ombrello militare americano già a partire dal primo ritiro delle truppe americane in Siria nel 2019, fino a proseguire l’opera negli anni del suo secondo, o terzo come dice lo stesso Trump, mandato.

 

Il presidente degli Stati Uniti in questo suo mandato ha messo fuori dalla porta l’”AIPAC”, la potentissima lobby filo-israeliana che ha deciso per decenni la politica estera di Washington, e tagliato i ponti con i ricchissimi coniugi “Adelson”, storici finanziatori sionisti del partito repubblicano che si sono visti ignorati dal presidente che ha messo al primo posto gli interessi americani e non quelli dello stato ebraico.

 

A Tel Aviv, erano, e sono, a dir poco furenti.

Se a parole Trump fa qualche dichiarazione di sostegno a Israele, nei fatti c’è una politica estera che non va per nulla nella direzione di Israele, ma piuttosto verso quella dei Paesi arabi.

 

Trump sta mettendo in atto quello che volle e non poté fare JFK.

Kennedy voleva inaugurare un nuovo corso di politica estera molto più vicino al mondo arabo perché gli Stati Uniti non hanno alcun interesse a sobillare le tensioni con i Paesi islamici, ma gli fu, come visto, impedito.

 

Trump ha ripreso in mano il filo di Arianna di JFK.

Washington sta assumendo una dimensione chiaramente più favorevole al mondo arabo, e il primo importantissimo segnale lo si è avuto nella scorsa primavera quando il presidente si recò a marzo in Medio Oriente, senza fermarsi a Tel Aviv, e condannò tutta la politica estera dei falchi sionisti neocon che affermavano di voler “esportare la democrazia” nei Paesi arabi, quando in realtà il sionismo voleva soltanto esportare la dottrina del “regime change” per togliere di mezzo i governi considerati avversari da Israele.

 

L’accordo di pace in Palestina è il completamento di questo cammino e la capitolazione di Israele.

Israele due anni orsono aveva tentato il tutto per tutto attraverso le false flag del 7 ottobre del 2023 nella disperata ricerca della agognata Grande Israele, ma è evidente che è mancato il sostegno di Washington per giungere a tale proposito, e lo stato ebraico senza l’America è meno di una tigre di carta.

 

Nulla può fare per soverchiare le forze armate o le milizie dei Paesi vicini, e se ne è avuta, ancora una volta, una conferma quando Tel Aviv invase il Libano nel 2024 per raccogliere soltanto umiliazioni dai miliziani ben addestrati di Hezbollah, fino alla altra folle campagna di bombardamenti contro l’Iran, culminata in una pioggia di missili balistici iraniani che hanno superato senza sforzo il colabrodo della contraerea israeliana, sempre più a secco da quando gli Stati Uniti hanno interrotto i rifornimenti.

 

Trump è stato molto chiaro verso Israele.

“Non potete vincere contro il mondo intero”, e questo è un messaggio netto e inequivocabile verso il sionismo che il presidente considera chiaramente come una minaccia verso gli Stati Uniti ma anche per il mondo intero, perché, in tale filosofia, come ha spiegato uno dei suoi esponenti, il ministro delle Finanze israeliano, “Bezalel Smotrich”, chi è ebreo appartiene al “popolo eletto”, e chi non lo è, è una sorta di essere inferiore, o un “goy” se si vuole ricorrere alla terminologia talmudica.

 

A poco a poco, con sapienza e astuzia, Donald Trump ha smontato l’apparato della potente rete sionista, e ora si appresta a completare attraverso un altro storico viaggio in Medio Oriente nel quale suggellerà la pace raggiunta.

Israele così capitola.

Nella notte, e dopo diversi rinvii per temporeggiare un po’, accetta finalmente il piano di pace che prevede il ritiro delle sue truppe, la costituzione di una sorta di tecnocrazia temporanea presieduta da Trump che si incaricherà di governare la Palestina in previsione futura della costituzione di una entità statuale che il presidente ora non vuole mettere subito sul tavolo, ma che già ventilò anni addietro.

 

Muore anche l’opposizione controllata di Hamas che Israele aveva costruito accuratamente nel corso degli ultimi 30 anni, poiché i miliziani dovranno abbandonare Gaza, e ora si apre un vuoto politico in Palestina che sarà riempito probabilmente da qualcosa di non gradito allo stato ebraico.

 

Israele verso la resa dei conti interna?

Nelle aule del governo israeliano, l’atmosfera è quindi inevitabilmente depressa.

I volti dei ministri e dei vari ufficiali governativi sono a dir poco terrei, e prima della ratifica dell’accordo, ci sono stati durissimi scontri in seno al gabinetto di Netanyahu.

 

Il citato ministro “Smotrich” aveva fatto sapere di essere contro il piano di pace, e assieme a lui si è unito un altro pericoloso esponente del sionismo messianico come il ministro della Sicurezza Nazionale,” Ben Gvir”, che soltanto due giorni prima si era recato alla moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme per recitare i versi del Talmud nella ennesima provocazione verso quel luogo, dove il sionismo vorrebbe ricostruire il suo Terzo Tempio, il posto nel quale un giorno dovrebbe entrare il tanto atteso, da costoro, “moshiach”.

 

“Ben Gvir” ha chiaramente detto che se Hamas non verrà smantellata, sarà lui a smantellare il governo, una metafora per dire che se l’esecutivo israeliano non è più in grado di far nascere la Grande Israele, l’esperienza governativa può considerarsi quindi conclusa.

Il governo Netanyahu, già privo della maggioranza assoluta nella Knesset, si avvia dunque con ogni probabilità alla conclusione.

Appare difficile decifrare ora il futuro della politica israeliana perché le fratture e soprattutto le faide sono molte, e in questo momento i vari partiti non sembrano avere un’idea chiara su quale corso deve seguire lo stato ebraico.

 

I sionisti messianici sono ancora furenti e divisi tra di loro perché il presidente Trump ha messo il veto sulla Grande Israele e fatto fallire il piano espansionista di Israele.

Le opposizioni centriste e progressiste sembrano voler voltare pagina, ma non è esattamente chiaro se saranno in grado di vincere le future elezioni e di governare il Paese, ma soprattutto non è chiaro se sapranno trovare un compromesso invece con il Likud e gli altri partiti del sionismo radicale.

 

Il malessere scorre profondo nella società israeliana.

 

La convivenza tra il talmudismo religioso e il sionismo secolare appare sempre più complicata, e alla fine sembra che i sogni di gloria che inseguiva il Likud si stiano per infrangere contro il muro di una guerra civile, che sotto certi aspetti è già in essere da diverso tempo, attraverso la manifestazione di strani attentati e sparatorie contro i civili israeliani, nemmeno rivendicate da nessuna presunta sigla terroristica.

Israele si ritrova al punto nel quale l’aveva lasciata Rabin prima della sua morte.

Divisa e incapace di trovare un accordo sul futuro e sul cammino da seguire.

 

Se lo stato ebraico vorrà avere qualche possibilità di vivere in un secolo ormai non più propriamente ebraico e sionista, a differenza del XX, dovrà guardarsi dentro e considerare la natura di uno stato che sin dalla sua creazione è stata una entità di destabilizzazione per il Medio Oriente e il mondo intero.

Il futuro saprà dare delle risposte più certe su quale direzione prenderà lo stato ebraico concepito da” Theodor Herzl”, ma intanto non si può fare a meno di notare una evidenza incontrovertibile.

 

Il sionismo ha esaurito il suo potere.

 Il sionismo non domina più gli Stati Uniti e la politica internazionale.

Il multipolarismo ha creato una dimensione nuova, nella quale non c’è più la supremazia degli imperi ma piuttosto la parità tra gli Stati nazionali.

Se Israele non saprà adattarsi a questa nuova realtà, difficilmente supererà la prova del XXI secolo.

 

Hitler aveva vinto

la guerra.

Unz.com - Hans Vogel – (8 ottobre 2025) – ci dice:

 

L'altro giorno, in attesa di un volo in coincidenza a Porto, in Portogallo, ho deciso di visitare il centro storico della città.

Fermandomi per un caffè in un bar locale, sono rimasto sorpreso di essere assistito da personale che si rivolgeva a me in inglese americano, nonostante avessi effettuato l'ordine in portoghese, anche se con un accento brasiliano.

Mentre le mie orecchie si riempivano di musica americana ritmica e senz'anima, mi chiedevo cosa fosse successo all'Europa.

Solo una generazione fa, i dipendenti dei bar di Porto parlavano ancora portoghese. Inoltre, non si sarebbe stati esposti a quel tipo di rumore insopportabile, simile al rumore dei macchinari in qualche impianto industriale, che nel mondo di oggi passa per musica.

 

Ovunque si vada oggi in Europa, la situazione è la stessa.

Il personale parla automaticamente inglese e la "musica" è la stessa ovunque.

 I gusti e le varietà locali sono stati spazzati via dalla spazzatura dell'industria musicale.

Se il caffè è bevibile, ci si può considerare fortunati, perché trovare un buon caffè in Europa oggi è difficile come lo è sempre stato negli Stati Uniti.

La musica e il caffè sono solo due tra una pletora di fenomeni che testimoniano fino a che punto l'Europa abbia perso la sua diversità originaria e si sia americanizzata a un livello inimmaginabile solo pochi anni fa.

La cosa più scioccante è il fatto che così tanti europei ora adottano automaticamente una sorta di inglese americano di seconda categoria, senza mai preoccuparsi di imparare altre lingue europee oltre a quella ufficiale del paese in cui sono nati.

Come gli indiani, i sudafricani, i tedeschi e i francesi di un tempo, avrebbero potuto sviluppare la loro versione dell'inglese.

Perché allora attenersi all'inglese americano?

Perché l'autoumiliazione culturale?

 

La risposta non è difficile da trovare:

perché l'Europa è sotto l'occupazione americana da quasi un secolo.

Con essa è arrivata una dominazione culturale a tutto spettro.

Nel 1945, i film americani furono imposti a un pubblico desideroso di intrattenimento e desideroso di dimenticare tutti i traumi della guerra.

La danza americana e la musica jazz, seguite dalla musica hawaiana e rock, trovarono un orecchio entusiasta tra il pubblico europeo.

 Così, i film e la musica leggera hanno gettato le basi per l'ulteriore anglicizzazione delle varie culture europee.

 

Oggi, il processo è stato quasi completato, poiché la maggior parte degli europei ha adottato la lingua e la cultura americana.

Non c'è da stupirsi che amino anche consumare fast food americani e caffè e bevande in stile americano.

Mentre gli europei possono ancora gustare le loro specialità tradizionali locali e nazionali (cibo, bevande, intrattenimento e musica), hanno dimenticato che anche i loro vicini europei hanno cibo, bevande, intrattenimento e musica che potrebbe valere la pena conoscere.

 L'Europa è stata ricoperta da un tappeto culturale americano che sta di fatto soffocando la cultura autoctona europea, ricca e diversificata a un livello che non si trova da nessun'altra parte.

 

Cos'è successo? Come mai?

Prima di rispondere a queste domande, c'è dell'altro.

L'Europa di oggi è molto diversa dall'Europa di un tempo, che è particolarmente evidente nelle grandi città e sempre più in quelle più piccole.

 Parigi, Berlino, Vienna, Bruxelles, Amsterdam, Milano e migliaia di altre città sono invase da barconi carichi di "richiedenti asilo" provenienti dal Nord Africa, dal Medio Oriente e dall'Afghanistan, la maggior parte dei quali giovani maschi e musulmani.

Da quando Angela Merkel ha aperto le frontiere nel 2015, più di dieci milioni di loro sono arrivati in Germania.

 Nello stesso periodo, 1,5 milioni di persone sono arrivate nei Paesi Bassi.

Ora ci sono decine di milioni di musulmani nell'UE, soprattutto in Germania e in Francia.

Anche in Spagna, che ha lottato per secoli per cacciarli, oggi ci sono quasi due milioni di musulmani.

El Cid e tutti gli altri eroi della “Reconquista” hanno appena sprecato il loro sudore e il loro sangue.

A Vienna, uno dei centri della cultura tradizionale europea, dove nel 1683 furono fermati gli invasori musulmani, oggi il 40% della popolazione è musulmana.

 Molte scuole del centro storico sono ormai quasi esclusivamente studenti stranieri (per lo più musulmani), pochi dei quali sanno parlare e capire (figuriamoci leggere o scrivere) anche un minimo di tedesco.

La maggior parte non vuole nemmeno leggere le lingue europee, ma spesso legge la propria lingua, compreso l'arabo coranico.

 Nei Paesi Bassi, le scuole di formazione per insegnanti hanno ora per lo più studenti che sanno a malapena parlare olandese.

 Intendiamoci, quegli studenti insegneranno presto ai giovani musulmani del Medio Oriente e del Nord Africa.

Sicuramente, questo è un modo molto efficace per uccidere una lingua e una cultura nazionale!

 

Essendo l'etnia più numerosa d'Europa e l'economia collettiva più forte e dinamica, i tedeschi hanno dovuto soffrire di più a causa di tutti questi cercatori di fortuna. Durante gli anni '80, quando la Germania Ovest era finalmente riuscita a riprendersi dopo la guerra e a raggiungere un livello soddisfacente di ricchezza e benessere, la città di Francoforte cadde nelle mani dei sindacati criminali jugoslavi e israeliani.

 Oggi, l'area della Ruhr, un tempo potenza economica del paese, ha saldamente il controllo delle famiglie criminali libanesi e siriane rivali, mentre la polizia e le autorità giudiziarie sono completamente impotenti.

Altrove in Germania e Austria, in Svezia, Francia, Belgio, Paesi Bassi e persino in Svizzera, intere sezioni in molte città sono diventate praticamente zone vietate.

Nella maggior parte delle città europee, le donne non sono più al sicuro per strada dopo il tramonto, essendo diventate il bersaglio preferenziale della feccia importata che disprezza il femminismo e odia le libertà in stile occidentale.

Se non è impotente, la polizia ha l'ordine di lasciare in pace i molestatori e gli stupratori e di essere riluttante a trattare qualsiasi accusa e denuncia.

 

In tutta l'Europa, le generazioni più giovani sembrano aver perso la fiducia nel futuro.

 Molti giovani adulti non hanno altra scelta se non quella di rimanere a vivere con i genitori perché non riescono a trovare un lavoro decente e un compagno adatto.

 I tassi di natalità sono diminuiti drasticamente, la maggior parte delle giovani coppie non può più permettersi di comprare una casa o di trovare una casa con un affitto decente.

 Le donne sposate devono trovare un lavoro perché le famiglie non possono più vivere con un solo stipendio.

 La classe operaia si sta impoverendo di giorno in giorno e le classi medie stanno scomparendo.

L'Europa sta rapidamente diventando una terra desolata deindustrializzata costellata di giganteschi mulini a vento che uccidono l'ambiente, la fauna selvatica e la vita degli insetti.

Basta guardare il modo in cui si vestono i nativi europei contemporanei: molte, tra cui uomini e donne anziani, si sono tatuate e hanno persino forato orecchie, naso, labbra, sopracciglia, guance e ombelico.

Un numero crescente di persone è grasso in modo sconveniente, ma sembra esserne orgoglioso, mostrando il proprio grasso al mondo, confezionato in indumenti attillati.

Altri sembrano pensare che i capelli tinti di rosa, malva, blu, verde o arancione brillante siano un segno di gusto raffinato.

Proprio mentre aspetti la tua coincidenza in qualche struttura di trasporto pubblico, puoi vedere tutte quelle persone che passano.

 Le uniche persone che tendono a vestirsi più o meno decentemente sono i tanti alieni sottoesposti intervallati dai nativi.

Sembra un po' un fenomeno da baraccone o, nel migliore dei casi, una sfilata di carnevale, non quello che è in realtà:

uno spaccato della moderna società europea.

A quanto pare, l'europeo medio ha perso la sua autostima e la fiducia nel futuro.

 

Perché? Cosa sta succedendo?

 

Quindi quale potrebbe essere la risposta alle domande di cui sopra?

In realtà, ci sono diverse risposte, ma la più plausibile è un po' controversa. Fondamentalmente, è perché Adolf Hitler ha perso la guerra.

 

La sconfitta divenne evidente solo verso la fine della guerra.

 Per molto tempo, non sembrò che Hitler avrebbe perso la guerra che non aveva nemmeno iniziato.

Godendo di un'enorme popolarità in Germania da quando salì al potere nel 1933, Hitler era ancora sostenuto da una vasta se non maggiore maggioranza nel 1939. Durante le fasi iniziali di quella che è stata chiamata Seconda Guerra Mondiale, quando gli eserciti tedeschi invasero un paese dopo l'altro, la popolarità di Hitler crebbe ancora di più.

Da quei giorni, solo pochissimi politici al mondo si sono avvicinati a raggiungere i tassi di approvazione di Hitler tra la fine degli anni '30 e l'inizio degli anni '40. Anche nelle nazioni sconfitte e occupate dalla Wehrmacht, la popolazione locale rispettava e ammirava la Germania, semplicemente perché i soldati si comportavano molto bene, erano di bell'aspetto ed estremamente amichevoli.

 A quei tempi sembrava proprio che il futuro dell'Europa sarebbe stato quello della Germania.

 

La popolarità di Hitler e della Germania in Europa raggiunse l'apice nell'estate del 1941, quando l'esercito tedesco invase l'Unione Sovietica.

Da quando l'ex generale dell'esercito della Germania Est “Bernd Schwipper” pubblicò la sua documentatissima monografia sull' “Operazione Barbarossa”, l'invasione tedesca, non c'è dubbio che, ordinandola, Hitler batté Stalin.

Interpretando una ricchezza di fonti originali dal punto di vista della scienza militare, “Schwipper” dimostra al di là di ogni dubbio che Stalin stava progettando di invadere la Germania nel luglio 1941.

Sarebbe stata una morte certa per la cultura europea se Stalin fosse stato in grado di eseguire il suo piano.

 Allo stesso tempo, spiega perché così tanti europei si sono allineati con i tedeschi quando hanno impedito che ciò accadesse invadendo per primi.

 Potrebbero aver avuto dei ripensamenti sul nazionalsocialismo, ma l'ultima cosa che desideravano era vivere sotto il comunismo.

Da quando i bolscevichi organizzarono il loro colpo di stato nel 1917, in un primo passo verso il piano globalista per il completo dominio del mondo, gli europei erano attanagliati dalla paura.

Nella maggior parte dei trattati storici, si dice che questa paura deriva dalla ristrettezza mentale piccolo-borghese.

 Le classi medie hanno semplicemente respinto le legittime richieste della classe operaia.

Tuttavia, il sostegno in Europa alla Germania dopo il giugno 1941 non si limitò alla classe media.

 In Francia, Belgio, Paesi Bassi, nelle repubbliche baltiche, nei Balcani e in Scandinavia, giovani di tutto lo spettro sociale si affrettarono a presentarsi per il servizio nell'esercito tedesco, in particolare nelle SS.

C'erano più europei che si arruolavano nelle SS e nella Wehrmacht di quanti ce ne fossero che si arruolavano in unità simili che facevano parte o combattevano insieme alle forze armate statunitensi e britanniche.

In effetti, essendo il servizio militare volontario l'ultima prova di lealtà, fino al 1945 gli europei erano più filo-tedeschi che filo-americani o filo-inglesi.

 

Il sostegno alla Germania si allargò e divenne più solido nel 1943 e nel 1944, quando la RAF e l'USAAF iniziarono a bombardare le città europee.

 Non sono state prese di mira solo le città tedesche, ma anche quelle dei Paesi Bassi, del Belgio, della Francia e dell'Italia.

Non va dimenticato che non solo milioni di civili tedeschi furono uccisi dai bombardamenti aerei alleati, ma anche centinaia di migliaia di civili francesi, italiani, olandesi e belgi.

In altre parole, le forze aeree alleate stavano conducendo una guerra non solo contro il popolo tedesco, ma contro tutti gli europei nel loro raggio d'azione.

 

Quando i nazionalsocialisti governarono la Germania (1933-39), la crescita economica fu impressionante, permettendo alla nazione di risalire dal profondo abisso economico in cui era precipitata, in gran parte a causa dei banchieri dell'Anglosfera.

 Durante questo periodo di ripresa, alcune materie prime sono rimaste scarse e costose.

Eppure c'erano molti lavori ben pagati.

Le donne sposate non dovevano trovare un lavoro, perché un solo stipendio poteva ancora sostenere una famiglia.

Gli alloggi erano per lo più sufficienti e le strade erano sicure.

 In questo modo siamo stati soddisfatti della richiesta di base per la maggior parte delle persone.

Quando le forze armate tedesche occuparono gran parte dell'Europa all'inizio del 1941, circa 60 milioni di europei erano stati portati sotto il diretto dominio tedesco, per un totale di 150 milioni di persone, tutte con lo stesso tenore di vita tedesco.

Gli alleati tedeschi includevano Francia, Italia, Spagna, Ungheria, Slovacchia, Croazia, Romania, Bulgaria e Finlandia (insieme quasi 150 milioni), Svezia, Svizzera e Portogallo (per un totale di quasi 20 milioni) erano neutrali, ma allo stesso tempo importanti alleati economici tedeschi che fornivano materie prime, servizi e prodotti vitali.

In altre parole, a parte i neutrali, nell'estate del 1941 solo i russi, i piccoli russi (ucraini), i russi bianchi, i lituani, i lettoni e gli estoni non erano ancora formalmente alleati con la Germania.

 Quindi, senza dubbio, la maggior parte degli europei era con Hitler.

 

Se non erano pro-Hitler, erano almeno filo-tedeschi, se non altro perché la Germania era la fonte della maggior parte dello sfarzoso intrattenimento contemporaneo.

 I film tedeschi erano molto ben fatti, molto divertenti e si rivolgevano a un vasto pubblico.

 Le band tedesche erano popolari ovunque e musicisti e artisti provenienti da tutta Europa si riversavano a Berlino per registrare e apparire in film e trasmissioni.

La leadership tedesca offriva anche maggiori opportunità di mercato per la cultura popolare europea nel suo complesso.

Bruxelles e Parigi divennero punti caldi per una distinta forma europea di musica jazz, mentre Budapest, Praga, Barcellona, Copenaghen, Zurigo e Stoccolma si svilupparono anch'esse in vivaci centri per la musica leggera e il jazz. L'occupazione tedesca si rivelò un periodo di massimo splendore per l'industria cinematografica francese, e i film francesi erano popolari anche altrove nell'Europa occupata dai tedeschi.

Anche la letteratura francese fiorì e in tutta Europa scrittori e poeti continuano a produrre opere di alta qualità, come lo scrittore italiano Curzio Malaparte, il cui resoconto personale degli anni della guerra, Kaputt, è un capolavoro ancora poco apprezzato nell'Anglosfera.

 

Le narrazioni standard del dopoguerra generalmente travisano o distorcono alcuni fatti storici chiave, uno di questi è che Hitler era un pazzo bellicoso e che fu lui a iniziare la Seconda Guerra Mondiale.

Hitler non voleva la guerra, men che meno con l'Inghilterra, e quasi nessuno oggi sa che dopo lo scoppio della guerra, arrivò a una cinquantina di volte con offerte per un accordo di pace.

 Piuttosto, Winston Churchill a Londra e Roosevelt a Washington DC erano decisi a fare una guerra con la Germania.

 

Naturalmente Hitler è particolarmente diffamato per aver presieduto al cosiddetto olocausto, l'omicidio in massa degli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale.

Dal momento che questo olocausto è il fondamento stesso su cui è stato creato lo Stato di Israele nel 1948, è per una di quelle ironiche stranezze della storia – come risultato dell'attuale genocidio israeliano a Gaza – che l'olocausto non può più essere considerato un evento così unico nella storia del mondo.

Chiunque voglia condannare Hitler per l'olocausto, dovrebbe condannare anche il primo ministro israeliano Bibi Netanyahu.

 Per dirla in modo diverso, con le sue azioni, Netanyahu ha contribuito molto a far apparire Hitler meno del mostro vile che è stato fatto apparire nella narrativa storica prevalente del dopoguerra.

 

Inoltre, nel confronto agli organizzatori e agli esecutori del “Grande Spettacolo del Covid”, che ha portato alla morte di milioni di persone a causa di un germe ingegnerizzato e di almeno venti milioni a causa delle "vaccinazioni" contro quel germe (con migliaia di persone in più che muoiono ogni giorno per le sue conseguenze), Hitler sembra nel migliore dei casi un dilettante ingenuo.

 Cioè, se è veramente responsabile di tutte le morti di cui è imputato.

 

All'improvviso, l'ampio sostegno popolare di cui Hitler godeva sia tra i tedeschi che tra gli europei sta diventando comprensibile.

Questo stesso sostegno potrebbe essere precisamente la ragione della coerente, persistente e totale denigrazione di Hitler dopo il 1945.

I politici del dopoguerra si resero conto che sarebbe stato praticamente impossibile ottenere un'accettazione popolare, anche minimamente simile, a quella di cui godeva Hitler.

 Forse il generale De Gaulle in Francia ci è andato vicino, ma è per questo che i signori americani dell'Europa lo hanno eliminato nella rivoluzione colorata del 1968.

 Il politico più popolare del Belgio,” Léon Degelle”, fu esiliato e gli fu impedito di tornare, mentre in Gran Bretagna “Oswald Mosley” fu ostacolato in ogni modo immaginabile.

Nel 2002 il politico olandese “Pim Fortuyn “è stato assassinato dal governo, come “Jörg Haider” nel 2008 in Austria.

Invariabilmente bollati come "fascisti" (e Mosley era in effetti), "estremisti di destra" o "populisti" (un termine senza senso coniato dai praticanti della pseudoscienza chiamata "scienza politica"), questi politici avevano programmi che andavano a beneficio del paese e del popolo in generale, proprio come facevano i nazionalsocialisti.

 Più specificamente, miravano a ridurre il potere delle banche e la loro morsa sull'economia e sulla società.

 

Con il governo globalista degli Stati Uniti e le grandi banche che dettavano legge in Europa dopo il 1945, non c'era, naturalmente, spazio per il tipo di politiche economiche messe in pratica per la prima volta da Hitler.

Allo stesso tempo, significava che anche le politiche sociali ampiamente benefiche erano un anatema.

 Tuttavia, durante la cosiddetta Guerra Fredda si è ritenuto necessario gettare un po' di ossa alla classe operaia e istituire quello che è stato chiamato uno stato sociale nella parte dell'Europa sotto occupazione americana.

 In caso contrario, i lavoratori locali potrebbero diventare comunisti e causare problemi troppo complessi e troppo costosi da risolvere.

Non sorprende che, dopo la caduta della cortina di ferro nel 1991, lo stato sociale europeo sia stato smantellato pezzo per pezzo.

 

La situazione economica, sociale e politica dell'Europa di oggi è diametralmente opposta a quella di Adolf Hitler.

Voleva un'Europa composta da entità politiche autonome, su base etnica, che lavoravano insieme lungo linee politiche parallele e con valori fondamentali comuni, verso obiettivi condivisi.

Un po' quello che De Gaulle una volta chiamava "L'Europe des patries", che si estendeva dall'Atlantico agli Urali.

 

Se la Germania non fosse stata sconfitta nel 1945, l'Europa sarebbe stata un luogo radicalmente diverso da quello che è oggi.

Le donne sarebbero state rispettate e incoraggiate a fare le casalinghe e le madri a tempo pieno.

Sarebbero stati in grado di uscire indisturbati, anche dopo il tramonto.

 Le scuole avrebbero impartito un'istruzione reale e utile, invece di fare solo il lavaggio del cervello ai bambini con la follia sveglia, di genere e climatica.

L'insegnamento di materie reali non sarebbe stato ostacolato da folle di giovani stranieri incapaci di comprendere ed esprimersi correttamente nella lingua della nazione ospitante.

 I treni sarebbero puntuali e, nel complesso, il trasporto pubblico funzionerebbe correttamente.

 L'industria prospererebbe e le condizioni di lavoro sarebbero le più pulite, sane e sicure possibili.

 I pensionati sarebbero rispettati e godrebbero di pensioni dignitose.

 La riduzione sarebbe trascurabile e la natura e l'ambiente sarebbero tutelati attraverso una legislazione efficiente.

Si potrebbe continuare all'infinito a nominare tutte le cose che sarebbero state migliori o addirittura grandi se Hitler avesse vinto la guerra.

Ma sarebbe anche deprimente. Tutto quello che possiamo davvero fare è respirare profondamente, sospirare e decidere di disfare ciò che i globalisti hanno fatto all'Europa.

 

 

 

Il finto piano di

pace di Trump.

Unz.com - Chris Hedges – (11 ottobre 2025) – ci dice:

 

Non mancano piani di pace falliti nella Palestina occupata, tutti caratterizzati da fasi e tempistiche dettagliate, risalenti alla presidenza di Jimmy Carter.

Finiscono tutti allo stesso modo.

 Israele ottiene inizialmente ciò che vuole – nell'ultimo caso, il rilascio degli ostaggi israeliani rimasti – mentre ignora e viola ogni altra fase fino a quando non riprende gli attacchi contro il popolo palestinese.

 

È un gioco sadico. Una giostra di morte.

 Questo cessate il fuoco, come quelli del passato, è una pausa pubblicitaria.

Un momento in cui al condannato è permesso fumare una sigaretta prima di essere ucciso a colpi di pistola.

Una volta liberati gli ostaggi israeliani, il genocidio continuerà.

Non so quanto presto.

Speriamo che il massacro di massa venga ritardato di almeno qualche settimana.

Ma una pausa nel genocidio è il massimo che possiamo aspettarci.

Israele è sul punto di svuotare Gaza, che è stata praticamente annientata da due anni di bombardamenti incessanti.

Non ha intenzione di fermarsi.

Questo è il culmine del sogno sionista.

Gli Stati Uniti, che hanno fornito a Israele la sbalorditiva cifra di 22 miliardi di dollari in aiuti militari dal 7 ottobre 2023, non chiuderanno il loro oleodotto, l'unico strumento che potrebbe fermare il genocidio.

 

Israele, come sempre, darà la colpa ad Hamas e ai palestinesi per non aver rispettato l'accordo, con ogni probabilità un rifiuto – vero o falso – di disarmare, come previsto dalla proposta.

Washington, condannando la presunta violazione di Hamas, darà a Israele il via libera per continuare il suo genocidio, realizzando la fantasia di Trump di una riviera di Gaza e di una "zona economica speciale", con il suo trasferimento "volontario" dei palestinesi in cambio di token digitali.

Tra le miriadi di piani di pace elaborati nel corso dei decenni, quello attuale è il meno serio.

A parte la richiesta che Hamas rilasci gli ostaggi entro 72 ore dall'inizio del cessate il fuoco, manca di dettagli e di tempistiche imposte.

 È pieno di clausole che consentono a Israele di abrogare l'accordo.

 Ed è proprio questo il punto.

Non è concepito per essere una via praticabile verso la pace, cosa che la maggior parte dei leader israeliani comprende.

Il quotidiano israeliano più diffuso, “Israel Hayom”W, fondato dal defunto magnate dei casinò “Sheldon Adelson” per fungere da portavoce del Primo Ministro Benjamin Netanyahu e da paladino del sionismo messianico, ha invitato i suoi lettori a non preoccuparsi del piano Trump perché è solo "retorica".

 

Israele, in un esempio della proposta, "non tornerà nelle aree da cui si è ritirato, finché Hamas applicherà pienamente l'accordo".

Chi decide se Hamas ha "pienamente attuato" l'accordo? Israele.

 C'è qualcuno che crede nella buona fede di Israele?

Ci si può fidare di Israele come arbitro obiettivo dell'accordo?

Se Hamas – demonizzato come gruppo terroristico – si oppone, qualcuno lo ascolterà?

Come è possibile che una proposta di pace ignori il parere consultivo della “Corte internazionale di giustizia del luglio 2024” , che ha ribadito che l'occupazione israeliana è illegale e deve cessare?

 

Come non menzionare il diritto dei palestinesi all'auto 

determinazione?

 

Perché ci si aspetta che i palestinesi, che hanno diritto, secondo il diritto internazionale, alla lotta armata contro una potenza occupante, si disarmino, mentre Israele, la forza occupante illegalmente, non lo fa?

Con quale autorità gli Stati Uniti possono istituire un "governo temporaneo di transizione" – il cosiddetto "Consiglio di Pace" di Trump e Tony Blair – mettendo da parte il diritto palestinese all'autodeterminazione?

 

Chi ha dato agli Stati Uniti l'autorità di inviare a Gaza una "Forza Internazionale di Stabilizzazione", un termine educato per l'occupazione straniera?

Come si suppone che i palestinesi si riconcilino con l'accettazione di una "barriera di sicurezza" israeliana ai confini di Gaza, la conferma che l'occupazione continuerà?

 

Come può una proposta ignorare il genocidio al rallentatore e l'annessione della Cisgiordania?

 

Perché Israele, che ha distrutto Gaza, non è tenuto a pagare le riparazioni?

Cosa dovrebbero pensare i palestinesi della richiesta contenuta nella proposta di una popolazione di Gaza "deradicalizzata"?

Come ci si aspetta che ciò venga realizzato?

Campi di rieducazione? Censura generalizzata?

Riscrittura del curriculum scolastico?

 Arresto degli imam colpevoli nelle moschee?

 

E che dire dell'affrontare la retorica incendiaria usata abitualmente dai leader israeliani che descrivono i palestinesi come " animali umani " e i loro figli come " piccoli serpenti "?

 

"Tutti gli abitanti di Gaza e ogni bambino di Gaza dovrebbero morire di fame", ha annunciato il rabbino israeliano Ronen Shaulov .

 "Non ho pietà per coloro che, tra qualche anno, cresceranno e non avranno pietà per noi.

Solo una stupida quinta colonna, un odiatore di Israele, ha pietà per i futuri terroristi, anche se oggi sono ancora giovani e affamati.

Spero che possano morire di fame, e se qualcuno ha un problema con quello che ho detto, è un problema suo".

 

Le violazioni degli accordi di pace da parte di Israele hanno precedenti storici.

Gli accordi di Camp David, firmati nel 1978 dal presidente egiziano Anwar Sadat e dal primo ministro israeliano Menachem Begin, senza la partecipazione dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP), portarono al trattato di pace tra Egitto e Israele del 1979, che normalizzò le relazioni diplomatiche tra Israele ed Egitto.

 

Le fasi successive degli accordi di Camp David, che includevano la promessa da parte di Israele di risolvere la questione palestinese insieme a Giordania ed Egitto, di consentire l'autogoverno palestinese in Cisgiordania e a Gaza entro cinque anni e di porre fine alla costruzione di colonie israeliane in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, non furono mai attuate.

 

Gli Accordi di Oslo del 1993, firmati nel 1993, videro l'OLP riconoscere il diritto di Israele all'esistenza e Israele riconoscere l'OLP come legittima rappresentante del popolo palestinese.

Tuttavia, ciò che seguì fu la perdita di potere dell'OLP e la sua trasformazione in una forza di polizia coloniale.

 Gli Accordi di Oslo II, firmati nel 1995, descrissero dettagliatamente il processo verso la pace e la creazione di uno Stato palestinese.

Ma anch'essi non ebbero successo.

 Stabilirono che qualsiasi discussione sugli "insediamenti" ebraici illegali sarebbe stata rinviata fino ai colloqui sullo status "definitivo".

A quel punto, il ritiro militare israeliano dalla Cisgiordania occupata avrebbe dovuto essere completato.

L'autorità di governo era pronta a essere trasferita da Israele all'Autorità Nazionale Palestinese, presumibilmente temporanea. Invece, la Cisgiordania fu divisa nelle Aree A, B e C.

L'Autorità Nazionale Palestinese aveva un'autorità limitata nelle Aree A e B, mentre Israele controllava tutta l'Area C, oltre il 60% della Cisgiordania.

 

Il diritto dei rifugiati palestinesi a tornare nelle terre storiche che i coloni ebrei avevano loro sottratto nel 1948, quando fu creato Israele – un diritto sancito dal diritto internazionale – fu rinunciato dal leader dell'OLP Yasser Arafat.

Ciò alienò immediatamente molti palestinesi, soprattutto quelli di Gaza, dove il 75% è costituito da rifugiati o discendenti di rifugiati.

Di conseguenza, molti palestinesi abbandonarono l'OLP in favore di Hamas.

 Edward Said definì gli Accordi di Oslo "uno strumento di resa palestinese, una Versailles palestinese" e criticò aspramente Arafat definendolo "il Pétain dei palestinesi".

 

I ritiri militari israeliani previsti dagli accordi di Oslo non hanno mai avuto luogo. Al momento della firma degli accordi di Oslo, in Cisgiordania c'erano circa 250.000 coloni ebrei. Oggi il loro numero è aumentato ad almeno 700.000.

 

Il giornalista “Robert Fisk” ha definito Oslo "una farsa, una menzogna, un trucco per indurre Arafat e l'OLP ad abbandonare tutto ciò che avevano cercato e per cui avevano lottato per oltre un quarto di secolo, un metodo per creare false speranze al fine di evirare l'aspirazione allo Stato".

 

Israele ha rotto unilateralmente l'ultimo cessate il fuoco, durato due mesi, il 18 marzo di quest'anno, lanciando attacchi aerei a sorpresa su Gaza. L'ufficio di Netanyahu ha affermato che la ripresa della campagna militare era una risposta al rifiuto di Hamas di rilasciare gli ostaggi, al rifiuto delle proposte di estensione del cessate il fuoco e ai suoi tentativi di riarmo.

 Israele ha ucciso più di 400 persone nell'assalto iniziale notturno e ne ha ferite oltre 500, massacrando e ferendo persone nel sonno.

L'attacco ha fatto naufragare la seconda fase dell'accordo, che avrebbe visto Hamas rilasciare gli ostaggi maschi ancora in vita, sia civili che soldati, in cambio di uno scambio di prigionieri palestinesi e dell'istituzione di un cessate il fuoco permanente, insieme alla successiva revoca del blocco israeliano su Gaza.

Israele ha condotto attacchi omicidi a Gaza per decenni, chiamando cinicamente il bombardamento "falciare il prato".

 Nessun accordo di pace o di cessate il fuoco si è mai messo in mezzo. Questo non farà eccezione.

Questa sanguinosa saga non è finita. Gli obiettivi di Israele rimangono invariati: l'espropriazione e la cancellazione dei palestinesi dalla loro terra.

L'unica pace che Israele intende offrire ai palestinesi è la pace della tomba.

 

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