La crisi dell’Europa e il suo riarmo.
La
crisi dell’Europa e il suo riarmo.
Dall’austerity
al riarmo:
la
crisi del paradigma europeo.
Voladora.noblogs.org – (8 – 10 – 2025) - Marco
Baldassari – ci dice:
“L’Europa
politica è in stallo.
Le
retoriche dell’integrazione sembrano svuotate, mentre crescono le fratture tra
centro e periferie, tra governance e rappresentanza.
Un pericoloso e cieco rilancio attraverso il
riarmo sta adombrando il vecchio continente”. “
Di
questi temi tratta il corso che inaugura il nuovo anno della Libera Università
del Sapere Critico” e ha come titolo “Nel labirinto dell’Unione europea”.
“Storia
e critica dell’ideologia europeista” curato da Marco Baldassari.
Uno
spettro si aggira per l’Europa: la russofobia e la retorica del riarmo. La
costruzione del nemico, insieme allo “stato di eccezione” (la crisi per la
sicurezza), rappresentano gli strumenti politici attraverso cui le classi
dominanti cercano di affrontare la crisi del capitalismo e del suo processo di
accumulazione.
In questo senso, il passaggio dall’”austerity” al “war
fare” che caratterizza gli ultimi quindici anni appare del tutto consequenziale
e coerente con i tentativi di puntellare un edificio comunitario in fase di
dissoluzione.
Un declino che riguarda tanto l’UE quanto i
suoi Stati membri, considerati singolarmente.
Il destino che li accomuna all’interno di
questa gabbia neoliberale del “vincolo esterno” è lo stesso che, in Italia in
particolare ma non solo, si manifesta con un neoliberalismo conservatore,
reazionario e antisociale:
la variante “alt-right” di quello
progressista, altrettanto esiziale e antidemocratico.
Si potrebbe definire, a tutti gli effetti, un
“liberalismo autoritario”.
L’Unione
europea, nel corso degli ultimi decenni, si è configurata come un dispositivo
istituzionale capace di trasformare in profondità le modalità di esercizio del
potere statale.
Il processo di integrazione, spesso narrato
come un destino lineare, è stato in realtà un campo conflittuale:
uno spazio in cui si è giocata una
rinegoziazione costante tra sovranità nazionale e potere sovranazionale, tra
rappresentanza democratica e razionalità tecnica, tra unità e differenza.
La
costruzione europea, lungi dall’essere una “architettura neutrale”, ha operato
come un paradigma normativo:
ha selezionato obiettivi, delimitato spazi di
decisione, costruito un linguaggio politico che ha finito per oscurare le
alternative.
Concetti
come “governance”, “coesione”, “solidarietà” sono stati impiegati come
categorie assiomatiche, sottratte al conflitto politico.
Il risultato è un’Unione che gestisce senza
decidere, che amministra senza costituire, che legifera in assenza di una vera
legittimazione popolare.
La
crisi del paradigma integrazionista.
Oggi
ci troviamo davanti a una crisi strutturale del paradigma integrazionista.
Le recenti accelerazioni – dal “Next
Generation EU” alle strategie per la difesa comune “Readiness 2030” – non
rappresentano una rottura con la logica dominante, ma piuttosto il suo
aggiornamento:
la riproposizione di un’integrazione tecnica,
presentata come soluzione necessaria alle sfide globali.
Tuttavia,
oggi l’Europa si trova costretta a politicizzarsi.
La retorica della resilienza, della doppia
transizione (verde e digitale), dell’autonomia strategica non può più
funzionare da semplice schermo ideologico.
La
doppia crisi, di “accumulazione e geopolitica,” impone di ripensare l’Unione
non più come un progetto meramente funzionalista, ma come “un sistema di
sicurezza collettiva”.
È
questa la retorica della “sovranità europea” declamata da figure come Draghi e
Padoan, e che il mondo federalista – così come ingenuamente una parte del ceto
medio – continua ad auspicare:
“Ci vuole un’Europa più forte!”, “Servirebbe
davvero una difesa comune, il problema è che siamo divisi”, e così via.
Eppure,
questa “politicizzazione”, come molti hanno osservato – a partire ad esempio da
“Barbara Spinelli”, figlia del celebre federalista celebrato come” padre
fondatore dell’Europa unita” – non è altro che una forma di atlantismo, che ribadisce
la subordinazione agli Stati Uniti.
Alla
retorica di un europeismo travestito da atlantismo, la risposta più
autenticamente europea è arrivata invece dalle” 44 barche della Global Sumud
Flotilla” (liquidate con sufficienza dalle istituzioni europee) e dalle mobilitazioni oceaniche
degli ultimi giorni.
A
questa politicizzazione – i cui effetti nefasti e autodistruttivi si sentiranno
presto – si rende necessaria la possibilità stessa di ripensare la forma
politica dell’Europa.
La
scelta che abbiamo davanti non è semplicemente tra “più Europa” e “meno
Europa”:
oggi la prima opzione è occupata strategicamente da
forze regressive, e sostenerla significa, di fatto, portare acqua al mulino del
neoliberismo. In poche parole: significa guerra.
Un’immagine
plastica di questa deriva è offerta dall’”Alto Rappresentante UE per gli Affari
Esteri”, “Kaja Kallas”, che ignora il ruolo decisivo di Russia e Cina nella
Seconda guerra mondiale e si fa fotografare sorridente su un carro armato ucraino.
La
questione, dunque, non è scegliere tra federalismo e nazionalismo, ma
ricostruire lo spazio europeo come luogo di cooperazione fra Stati e di
internazionalismo, a partire da una ri-democratizzazione degli stessi spazi
nazionali, sempre più svuotati dai meccanismi di governance finanziaria.
Ciò
implica, in primo luogo, una critica radicale agli attuali dispositivi
istituzionali:
le
modalità di produzione normativa, le fonti di legittimità, il rapporto tra
cittadinanza e decisione.
Sovranità,
pluralismo, differenziazione.
Una
tale ricostruzione non può avvenire se non si affronta la questione della
sovranità.
Il
lessico politico contemporaneo ha, troppo spesso, contrapposto in modo
meccanico sovranità nazionale e appartenenza europea, fingendo di ignorare che
ogni trasferimento di potere comporta una nuova forma di legittimazione.
Senza una ridefinizione condivisa di cosa
significhi “decidere insieme”, il progetto europeo è destinato a rimanere
fragile, esposto alla doppia trappola del centralismo tecnocratico e del
sovranismo regressivo.
In
questo contesto, risulta sempre più pertinente l’idea di un’Europa a geometria
variabile:
un sistema di cerchi concentrici, in cui
coesistano diversi livelli di integrazione.
Una
configurazione differenziata non come compromesso al ribasso, ma come forma
legittima di pluralismo istituzionale, capace di riflettere le diverse volontà
politiche, le differenti tradizioni costituzionali e le eterogeneità economiche
e sociali.
Tale
modello avrebbe il vantaggio di evitare tanto la forzatura dell’uniformità
quanto la disgregazione.
Ma per
funzionare richiede un quadro chiaro di diritti, competenze, responsabilità
politiche:
una
nuova grammatica costituzionale europea che non esiste ancora, ma che potrebbe
emergere proprio da una fase di crisi costituente e dopo aver disinquinato i
pozzi dal neoliberalismo.
Oltre
il mercato: l’Europa come spazio di civiltà.
Per
ripensare l’Unione, occorre superare la riduzione economicistica del progetto
europeo.
L’Europa non è – e non può essere – solo una
costruzione giuridico-amministrativa o un’area di scambio regolato (tanto più
se questo pone come fondamento il criterio concorrenziale
dell’ordoliberalismo).
Essa è
anche un orizzonte di civiltà: un territorio culturale e simbolico,
attraversato da conflitti, memorie, visioni del mondo.
Riconoscere
questa dimensione significa accettare che l’unità europea non potrà mai essere
un’unità omogenea, ma sarà sempre una composizione instabile, conflittuale,
dialogica.
Da qui
l’urgenza di restituire centralità alle dimensioni politiche, culturali e
nazionali della legittimazione:
non
basta “funzionare”, occorre anche “significare”.
Le
istituzioni europee non possono limitarsi a produrre regole:
devono costruire senso, appartenenza,
riconoscimento reciproco e ciò non può certo avvenire top/down, ma attraverso
un processo che la società civile deve produrre.
Il
futuro dell’Unione europea dipenderà dalla capacità di pensarsi non come fine
della storia istituzionale, ma come campo aperto di trasformazione politica.
In
questa prospettiva, la vera questione non è se l’Europa sopravvivrà, ma quale
Europa siamo disposti a costruire.
In
gioco non c’è solo il destino dell’Unione, ma il modo in cui pensiamo oggi la
democrazia, la sovranità, l’autogoverno dei popoli in un mondo interdipendente.
In
questo senso, l’Europa è ancora un problema aperto e per questo, forse, il
luogo più politico del nostro tempo.
Terrore
e rabbia in UE se vince
la Le
Pen: addio guerra a Mosca.
Maurizioblondet.it
- Maurizio Blondet- (9 Ottobre 2025) - ci dice:
Vediamo
cosa s’inventano per impedirlo.
Se
l’estrema destra prendesse il controllo del parlamento nel secondo paese più grande
dell’UE, l’Europa cambierebbe radicalmente.
Il
presidente francese è sotto una pressione straordinaria dopo che l’ultimo
tentativo del suo primo ministro di formare un governo funzionante è fallito in
sole 14 ore.
PARIGI
— Non agitatevi ancora, ma forse è il momento di preparare provviste di
emergenza.
Il
timore di Bruxelles che un membro fondatore dell’Unione Europea viri verso
l’estrema destra si è improvvisamente riattivato questa settimana, mentre la
crisi politica francese si aggravava, portando uno degli storici alleati del
presidente francese Emmanuel Macron a unirsi al coro degli oppositori che gli
chiedevano di dimettersi.
Il
presidente francese è sotto una pressione straordinaria dopo che l’ultimo
tentativo del suo primo ministro di formare un governo funzionante è fallito in
sole 14 ore, e con nuove elezioni nei prossimi mesi, se non settimane, che
sembrano sempre più probabili.
Sia a livello presidenziale che parlamentare, la
vittoria del “Rassemblement National” di Marine Le Pen è ora decisamente
possibile, il che significa che una figura euroscettica di estrema destra
potrebbe presto parlare a nome della Francia nelle principali istituzioni
dell’UE, aggiungendosi a un coro crescente di voci populiste di destra.”
“Abbiamo
un continente che ha vissuto la guerra, il lockdown, una sorta di dittatura
leggera a Budapest, siamo abituati a continuare a funzionare nonostante molti
shock”, ha affermato un funzionario della Commissione Europea, a cui, come
altri citati in questo articolo, è stato concesso l’anonimato per parlare
apertamente.
Ma “Le
Pen è diversa”, ha affermato, riferendosi a una valutazione ampiamente
condivisa a Bruxelles secondo cui un cambio radicale nella leadership francese
avrebbe conseguenze di vasta portata per l’UE.
Mentre
l’estrema destra ha esortato Macron a indire nuove elezioni parlamentari, gli
eventi di questa settimana sollevano anche la prospettiva di elezioni
presidenziali anticipate se Macron fosse costretto a dimettersi – cosa che ha
sempre fermamente escluso, promettendo di rimanere in carica fino alla fine del
suo mandato nel 2027.
Se il “Rassemblement
National” accedesse al potere esecutivo in Francia, ciò aumenterebbe
significativamente i grattacapi dell’UE, già impersonata al tavolo del
Consiglio dall’ungherese “Viktor Orbán” e dallo slovacco “Robert Fico”, e
probabilmente presto affiancata da “Andrej Babiš” dopo il suo recente trionfo
elettorale nella “Repubblica Ceca”.
La
rinnovata ondata populista minaccia di far deragliare le politiche dell’Unione
in settori critici, con preoccupazioni particolarmente acute per la Russia e la
politica di difesa.
Orbán
e Fico si sono entrambi opposti ai tentativi dell’UE di imporre sanzioni a
Mosca sin dalla sua invasione su vasta scala dell’Ucraina.
Babiš
ha promesso di abbandonare l’iniziativa sulle munizioni per l’Ucraina, di
contestare i piani della NATO di aumentare la spesa militare e di confrontarsi
con la Commissione sul “Green Deal”, anch’esso nel mirino di Le Pen.
L’uomo
di Marine Le Pen, “Jordan Bardella”, sarà in grado di rivendicare la carica di
primo ministro e nominare un governo di estrema destra.
Il francese di estrema destra si è
costantemente espresso contro l’aumento degli aiuti a Kiev, accusando Macron di
essere un guerrafondaio quando, ad esempio, si è opposto al pensiero europeo e
ha suggerito di inviare truppe sul terreno in Ucraina.
Sebbene
la Francia non sia stata il principale finanziatore di Kiev per gli aiuti
militari, la “leadership” retorica di Macron sull’Ucraina è stata un importante
motore di sostegno al paese in difficoltà e al rafforzamento delle difese
europee, ha affermato un alto funzionario di un governo dell’UE.
Una
volta che se ne sarà andato, “sarebbe completamente a rischio: sappiamo che Le
Pen non continuerebbe sulla stessa linea”.
Il “Rassemblement
National” si è opposto con veemenza alla visione di Macron per quanto riguarda
la possibile condivisione dell’ombrello nucleare francese o la messa in comune
delle risorse militari con l’espansione della guerra nel continente.
Alla
domanda di recente sul canale televisivo “LCI “se le armi nucleari francesi
potrebbero un giorno essere dislocate in Germania o in Polonia, Le Pen ha
risposto in modo tagliente: “E poi?”.
Ha
anche ribadito le promesse passate di lasciare il comando militare integrato
della NATO, pur impegnandosi a continuare a collaborare con gli alleati,
compresi gli Stati Uniti, in missioni militari chiave.
Lo
scenario peggiore per gli eurofili potrebbe, ovviamente, non materializzarsi
mai.
Nonostante tutta la sua retorica ottimistica,
il “Rassemblement National “deve ancora dimostrare di poter superare le
barriere elettorali che lo hanno costantemente limitato.
Nel
peculiare sistema elettorale francese a doppio turno, i partiti devono
effettivamente ottenere il sostegno di oltre il 50% degli elettori al
ballottaggio per vincere.
Questa
soglia è stata particolarmente difficile da superare per Le Pen e i suoi
sostenitori, con elettori di diverse convinzioni politiche finora motivati a
unirsi dietro i candidati tradizionali per tenere fuori l’estrema destra,
sebbene con un margine in calo.
Tuttavia,
il “Rassemblement National” ha ottenuto risultati straordinari ed è ora il
partito di maggioranza della Camera bassa: 33 per cento!
(twitter.com/SirAfuera/status/1975462750005739910).
(Jordan
Bardella propone un accordo di governo RN-LR (gollisti) per le prossime
elezioni. “Sono in contatto con alcuni membri del LR. Alcuni lo desiderano. Se
dovessimo avere una maggioranza assoluta, mi rivolgerò a loro.”
(RMC)
Questo è senza precedenti.)
Perché
il riarmo europeo è solo
business
senza una politica estera.
Agendadigitale.eu
– Walter Vannini – (26 marzo 2025) – ci dice:
(Walter
Vannini. Data Protection Officer autore del podcast DataKnightmare –
L'algoritmico è politico) - (spreaker.com/show/dataknightmare).
Difesa
Ue.
Il
riarmo europeo proposto dalla Commissione genera un debito di 800 miliardi
senza chiarire il nemico comune né una strategia.
L’assenza
di politica estera condivisa rischia di vanificare ogni sforzo finanziario,
trasformando la difesa in opportunità commerciale per lobby nazionali
Quello
che sta succedendo con gli USA è incredibile. Peccato che ne avessimo già
parlato.
E a
testimoniarlo, c’è un episodio della settima stagione, si chiama “Algo pirla”
verso il “Reich Millenario” (contro il Lungo terminismo), nel quale, pur senza
aspettarmi un simile livello di idiozia, dicevo:
“siamo di fronte a un culto di stampo
nazistoide a uso e consumo di ricchi “algo pirla tecno feticisti”.
E
adesso veniamo a noi.
Indice
degli argomenti.
Riarmo,
l’incoerenza economica dell’Unione europea.
Il
riarmo europeo e la mancanza di una strategia militare comune.
Il
riarmo europeo e il rischio dello spreco economico.
Armarsi,
ma contro chi?
I
rischi geopolitici di un riarmo frammentato.
Riarmo
europeo contro la Russia: deterrenza nucleare o soldati?
L’Europa
tra Mediterraneo, Medio Oriente e NATO.
Il
problema della dipendenza militare dagli USA.
Riarmo
europeo e il fallimento strategico degli alleati.
Le
incognite delle forniture militari USA.
Riarmo
europeo: identificare il nemico prima di comprare armi.
Riarmarsi
è inutile: l’UE già spende più della Russia.
Riarmo,
l’incoerenza economica dell’Unione europea.
Abbiamo
dovuto assistere anche alla vergogna del Parlamento Europeo che vota (ma in
modo non vincolante, casomai avesse votato sbagliato) l’ideona della Von Der
Leyen chiamata “ReArm Europe”.
Bello.
Bello
perché in tutti questi anni la Commissione europea si è sempre detta contraria
alla creazione di debito quando si trattava di cose futili come la sanità, la
scuola, o altre infrastrutture.
Vi
ricordate le lenzuolate sui giornali dove ci catechizzavamo sull’insanabile
conflitto fra i Nord europei risparmiosi e i mediterranei scialacquoni?
Vi
ricordate il famoso tetto del 3% nel rapporto tra debito pubblico e Pil, quello
che è stata la scusa per decenni di austerity?
I
neoliberisti ce lo hanno venduto come se fosse stato scritto per Mosé sulle
tavole della legge.
Parlavano
perfino di Paesi “virtuosi”, i suini.
Poi
abbiamo scoperto che era un numero qualsiasi inventato a casaccio perché
suonava bene.
Ecco,
ora è tutto passato e la commissione europea ha intenzione di trovare 800
miliardi di euro a debito.
Ed è necessario perché… Non si sa.
Il
riarmo europeo e la mancanza di una strategia militare comune.
Non si
sa.
Se
andate appena al di là delle affermazioni generiche sul fatto che la Russia
all’improvviso rappresenta un pericolo trovate il nulla assoluto.
Occorre
riarmarsi, perché occorre riarmarsi.
Il
problema è che riarmarsi non significa semplicemente comprare armi. Perché non
tutte le armi sono uguali e perché non tutte le armi servono in tutti i casi.
Le
armi servono quando hai una strategia militare.
Quando
hai una strategia, allora capisci che armi ti servono.
Ma
l’Unione Europea non ha una strategia militare, perché l’Unione Europea non è
uno Stato federale e non ha una politica estera.
Il
riarmo europeo e il rischio dello spreco economico.
Quindi
questa idea di armarsi a membro di quadrupede abbaiante è solo fumo negli occhi
e non porterà da nessuna parte, perché 26 Stati membri si armeranno secondo la
loro individualissima percezione di cosa potrebbe essere uno scontro armato nel
XXI secolo.
Il che
è completa idiozia, ma ottima per il business perché si spenderà a destra e a
manca senza alcun criterio logico, quindi chi introdurrà i venditori migliori e
i lobbisti migliori, porterà a casa soldi.
E noi
dovremmo sobbarcarci 800 miliardi di debito per questa stronzata?
Armarsi,
ma contro chi?
Cominciamo
a dire una cosa ovvia:
prima
occorre definire chi è il nemico, e poi possiamo parlare di cosa serve per
riarmarci.
Ma se
stiamo parlando di Europa, il nemico deve essere comune, se no di cosa stiamo
parlando.
E definire un nemico comune significa che
tutti gli Stati europei si decidono a trasferire le proprie competenze
nell’ambito di difesa e politica estera al Parlamento Europeo e alla
Commissione.
Cosa?
Non ci fidiamo del Parlamento Europeo perché ci mandiamo gli scarti delle
elezioni nazionali?
Forse
potevamo pensarci prima, magari. Ad ogni modo, inutile pensarci prima del
prossimo turno elettorale.
Quindi
dicevamo, prima ci diamo una strategia di difesa comune, e poi parliamo di
riarmo. Se vogliamo contare qualcosa nel mondo, l’Europa deve parlare come
Europa, con una voce sola.
I
rischi geopolitici di un riarmo frammentato.
Se
invece preferiamo che a trattare per l’Europa ci vada Macron per gli interessi
francesi, Merz per quelli tedeschi e Meloni per quelli italiani, allora tanto
vale che lasciamo che Putin, Trump e la Cina ci dividano nelle loro sfere di
influenza, e almeno risparmiamo il fiato.
Riarmo
europeo contro la Russia: deterrenza nucleare o soldati?
E
quale potrebbe essere, allora questa strategia di difesa?
Diciamo
la Russia?
Bene,
se vogliamo vedere la Russia come un avversario militare la sola cosa sensata
da fare è dotarsi di una deterrenza nucleare.
Ma c’è
un piccolo problema: una potenza nucleare non sopporta bene un vicino nucleare.
Vi
ricordo che quando i Russi cercarono di mettere dei missili a Cuba, gli
americani arrivarono fino a mettere sul tavolo uno scontro armato con la marina
sovietica.
E
quando l’Ucraina sembrava vicina a entrare nella NATO, Putin l’ha invasa. E
come la mettiamo con i baltici, se ci dotiamo di un arsenale nucleare?
O
forse qualcuno vuole far fronte alla Russia con armi convenzionali.
Benissimo.
Con quali soldati?
O
magari volete reintrodurre la leva obbligatoria, visto che non abbiamo altri
problemi.
L’Europa
tra Mediterraneo, Medio Oriente e NATO.
Che
poi, capisco parlare di Russia perché va di moda.
Ma
l’Europa si affaccia su due mari e due continenti.
Cosa
vogliamo fare col Mediterraneo e il Medio Oriente, li lasciamo alla politica di
Washington e alla VI flotta statunitense, che tante gioie ci hanno dato in
questi anni?
Anche
se adesso non è una questione immediata, si porrà il problema di cosa fare
delle forze USA di stanza in Europa.
Perché
già Trump ha chiarito che la NATO è un’opinione, ma se parliamo con uno che
vuole annettere il Canada e la Groenlandia, diventa una forza di occupazione.
Anche questo è un problema di cui dovremo occuparci, e abbastanza presto.
Il
problema della dipendenza militare dagli USA.
Poi
diciamo che oltre alla deterrenza nucleare serve anche una capacità di signal
intelligence e supporto operativo, che finora abbiamo lasciato ai satelliti e
agli aerei-radar statunitensi.
Poi
magari una rinforzatina all’aviazione, perché non siamo più nel XIX secolo.
E poi
c’è il problema di cosa fare con gli USA.
Io non
dico che siano un nemico, ma di sicuro abbiamo finalmente visto tutti i limiti
della loro cosiddetta amicizia.
Quindi vogliamo continuare a lasciare che da
Ramstein intercettino mezza Europa?
Chiedo
per un amico.
Ci
sarebbe anche il problema per esempio di “Menwith Hill”, che è praticamente una
sede di ascolto NSA in Inghilterra, ma quello è un problema degli inglesi.
Riarmo
europeo e il fallimento strategico degli alleati.
E gli
inglesi hanno scelto di uscire dall’Europa per “riprendere il controllo” del
loro destino.
Dopodiché
hanno scoperto di contare come il due di ghiande quando comanda bastoni, e
adesso non sanno più come lisciare Trump, che non se li fila di striscio.
Benissimo.
Le
incognite delle forniture militari USA.
Ma c’è
un ma.
Finora l’unica cosa sensata che ho letto
riguardo a questa politica di riarmo è che USA, UK e Turchia sono fuori dalle
commesse, a meno che non si impegnino per scritto a specifiche garanzie.
Ma di
quali di garanzie vogliamo parlare, quando Trump alza il telefono e può
bloccare l’afflusso di pezzi di ricambio e upgrade software?
Se
veramente l’Unione Europea vuole spendere per riarmarsi, deve spendere in casa
propria.
Sentite cosa dice “Rasmus Jarlov”, ministro
norvegese per l’economia e il commercio, qualche giorno fa, su Mastodon”:
“Non
so se gli F35 siano dotati di un interruttore di sicurezza o meno. Come uno dei
responsabili dell’acquisto degli F35 da parte della Danimarca, me ne rammarico”.
Gli
Stati Uniti possono certamente disattivare gli aerei interrompendo la fornitura
di pezzi di ricambio.
Vogliono rafforzare la Russia e indebolire
l’Europa e stanno dimostrando di essere disposti a danneggiare enormemente
alleati pacifici e leali come il Canada, solo perché si ostinano a esistere
come Paese.
Posso
facilmente immaginare una situazione in cui gli Stati Uniti pretenderanno la
Groenlandia dalla Danimarca e minacceranno di disattivare le nostre armi e di
lasciare che la Russia ci attacchi quando rifiuteremo (cosa che faremo anche in
quella situazione).
Pertanto,
l’acquisto di armi americane è un rischio per la sicurezza che non possiamo
correre.
Nei prossimi anni faremo enormi investimenti
nella difesa aerea, nei jet da combattimento, nell’artiglieria e in altre armi,
e dobbiamo evitare le armi americane se possibile.
Invito
i nostri alleati e amici a fare lo stesso.
E c’è
chi l’ha capito anche in Italia.
L’ha
capito Crosetto.
L’ha
capito anche Meloni, nonostante continui a fingere che Trump abbia un occhio di
riguardo per lei.
Salvini
lo capirà appena esce la versione a fumetti.
Certo
è un dilemma per quelli che si sono sempre visti come i cani da guardia degli
americani contro il pericolo rosso.
Riarmo
europeo: identificare il nemico prima di comprare armi.
Ma
anche per loro i tempi cambiano. Se parli di Nazione, oggi, devi parlare di
Europa.
Quindi
vedete,
il
primo problema è decidere “per cosa” dobbiamo riarmarci.
il
secondo problema è ”come farlo”, cioè quali armi servono e da chi prenderle.
Riarmarsi
è inutile: l’UE già spende più della Russia.
E poi
c’è la chicca, che è il terzo problema.
E il
terzo problema è che non abbiamo nessun bisogno di riarmarci come se non ci
fosse un domani.
Perché
l’Unione Europea ha già una spesa militare che supera di alcune volte quella
della Federazione Russa.
Dati
alla mano, nel 2024 i paesi della UE hanno speso in armamenti la bellezza di
326 miliardi di euro.
La
Federazione Russa, 109 miliardi di dollari (Dati Banca Mondiale). E la
federazione Russa sta bruciando uomini e mezzi in Ucraina a un tasso folle.
Certo,
se vogliamo essere indipendenti dagli USA dovremo dotarci di qualche satellite
e di un po’ di aerei radar in più.
Ma non
c’è nessun bisogno di indebitarci fino al collo solo perché i nostri atlantisti
“post mortem” hanno una crisi isterica e vedono il pericolo rosso perché non
sanno immaginare nient’altro.
L’Europa
vuole sicurezza ai confini. Anche la Russia.
L’Europa ha bisogno del gas e del mercato
russi, e la Russia ha bisogno di un partner commerciale che non veda il mondo
in una prospettiva imperiale.
Quindi
c’è già un terreno comune su cui fare politica sul serio, invece di lasciar
fare agli americani e alle loro visioni imperiali.
Dipende
solo dall’Europa essere presa sul serio o continuare a mostrarsi come il
megafono degli USA anche quando gli USA cambiano discorso.
Riarmo
Europeo: quale
paradigma
di difesa?
Ispionline.it
– (4 Apr. 2025) – Fabrizio Coticchia – ci dice:
Oltre
alle diatribe sulla denominazione e l'aumento delle spese, l’Unione Europea
deve capire se adottare o meno nuovo paradigma per la sua difesa.
Commentar
Europa e governance globale.
Durante
il Consiglio Europeo del 20 e 21 marzo, Ursula von der Leyen ha riferito delle
richieste di Spagna e Italia di modificare il nome del programma di riarmo
europeo (appunto “Re Arm EU”), poiché ritenuto troppo militaristico.
Pertanto,
“Readiness 2030” (dal titolo del Libro Bianco della Difesa appena presentato
dalla Commissione e dall’Alto Rappresentante) potrebbe essere il termine che
l’Unione Europea (UE) utilizzerà in futuro.
Al di
là delle schermaglie linguistiche – così tipiche del dibattito italiano sulla
difesa, da anni avvezzo alle cosiddette “missioni di pace” – appare evidente
che l’UE si trovi di fronte a una giuntura critica, una finestra di opportunità
nella quale è possibile intraprendere un percorso diverso sui temi della difesa
e della sicurezza, una traiettoria potenzialmente assai difforme rispetto al
passato.
Il fatto che la parola “militare” sia citata
solo una volta del “Trattato sul funzionamento dell’UE”, e che il ruolo di
Commissario della Difesa sia stato creato solo pochi mesi fa, ben illustrano il
possibile impatto del cambiamento attuale.
Ma una
giuntura critica – di fronte a trasformazioni domestiche e internazionali
significative, dall’invasione russa dell’Ucraina alla destabilizzante seconda
presidenza Trump – non significa di per sé un mutamento automatico.
Né tantomeno rapido.
Occorre
allora comprendere la direzione dell’attuale processo di trasformazione della
Difesa in Europa, assieme ai principali incentivi e ostacoli, nonché agli
obiettivi finali.
Il
dibattito pubblico appare per adesso predominato da alcune questioni
ricorrenti, come appunto l’aumento delle spese, nazionali ed europee, per la
Difesa.
Possiamo
evidenziare tre interrogativi che costantemente caratterizzano la discussione
pubblica e una domanda – cruciale – che viene invece colpevolmente inevasa,
nonostante la sua rilevanza.
Osservare
in dettaglio tali aspetti – in relazione ai quali si divide la politica e
l’opinione pubblica – consente forse di comprendere meglio i tratti del
dibattito attuale, i suoi contenuti, e anche le sue mancanze.
Quale
minaccia?
La
prima domanda che sottende, come una premessa, l’attuale processo di
trasformazione della Difesa europea attiene alla minaccia esterna.
Che
tipo di sfida pone la Russia all’Europa?
Se sul
revisionismo della politica di Mosca non sembrano esserci poi sostanziali
disaccordi, il grado di minaccia militare concreta che la Russia porta
all’Europa è percepito in modo molto difforme nell’UE, dal Baltico al
Portogallo, in relazione a fattori geografici nonché storici.
Il comportamento bellico di Mosca, cui in tre
anni di invasione si può leggere sia nell’ottica della difficoltà a prevalere
contro un avversario più debole ma anche attraverso la capacità di sostenere e
promuovere, a livello di massa e tecnologia, una grande sforzo militare di
fronte a un paese sostenuto dai preziosi aiuti forniti dai membri della NATO.
La
Russia è un attore che vuole “solo” recuperare il controllo del suo vicinato –
in contrasto al processo di allargamento dell’influenza occidentale nella “sua”
area di influenza – o rappresenta piuttosto una sfida esistenziale per la
sicurezza stessa dei paesi europei, anche a molti chilometri di distanza dalla
frontiera russa o ucraina?
La percezione della minaccia influenza
ovviamente il tipo di risposta che essa richiede.
Sul tema, gli italiani e gli spagnoli (a
livello di opinione pubblica e di élite) hanno visioni assai diverse da quelle
di estoni o svedesi.
Senza
gli USA?
In
secondo luogo, un ulteriore interrogativo al centro della riflessione pubblica
e strategica riguarda gli Stati Uniti:
siamo
davvero di fronte al “ritiro” americano dall’Europa?
L’erratica
politica di Trump, apparentemente così ostile all’UE – e persino alla NATO, non
certo percepita come Allenza – è solo parte di un approccio vocale e simbolico,
per fini interni o commerciali, o è qualcosa di più?
C’è davvero il rischio che gli Stati Uniti
svuotino il continente dalla loro decennale presenza politica e militare.
Se una tale “uscita dall’egemonia” appare un
comportamento storicamente rarissimo, perché controproducente, per una potenza
dominante, la volontà di Trump di smantellare l’ordine internazionale in tutte
le sue componenti – quella economica (con i dazi), quella delle alleanze (con
minacce e comportamenti espliciti) e quella del regime politico (con l’indubbio
e drammatico processo di erosione della democrazia liberale negli Stati Uniti)
– appare molto chiara, delineando un futuro ottocentesco fatto di rapporti di
forza e spartizione tra grandi potenze.
Sarà
però il grado percepito di “abbandono” americano dell’Europa (comunque in atto)
a influenzare il livello di ambita autonomia strategica europea.
Anche
perché il costo di sopperire totalmente alla presenza militare americana (che
copre la netta maggioranza delle spese NATO, con mezzi e capacità ben più
avanzati di quelli degli alleati, al di là dell’ombrello nucleare), sarebbe
tale – nell’eventualità (ancora da dimostrare) di un suo ritiro completo dal
continente – da richiedere un ripensamento totale della struttura economica e
sociale dei paesi membri.
Quanto
(e come) spendere?
Ciò
porta al terzo quesito, quello relativo proprio alle spese, il tema “caldo” che
comprensibilmente più attira l’attenzione mediatica.
Il
livello di dipendenza da Washington – accresciuto dopo l’invasione russa
dell’Ucraina, poiché molti stati (per esempio Polonia e Germania) hanno
rapidamente acquisito mezzi che solo gli USA rendevano prontamente disponibili
– è un fattore più o meno acclarato.
La
discussione appare quindi più rivolta alla quantità di spese necessarie (dal
“vecchio” 2% fino addirittura al 5% auspicato da alcuni), alla modalità con la
quale finanziare tali aumenti (debito o meno?) e al tipo di capacità da
recuperare dopo decenni di operazioni oltre confine non convenzionali:
il
citato “Libro Bianco della Difesa UE” pone l’accento su difesa contraerea,
munizionamento, missili, droni e mobilità militare.
I recenti dibattiti parlamentari hanno poi
dedicato particolare attenzione al “contenitore” di tale aumento di spesa, se
nazionale o davvero europeo.
La tempistica prevedibile per un reale
processo di integrazione militare (anche al netto di una volontà politica
condivisa per una politica estera e difesa comune, auspica anche da chi è
critico rispetto al “Re Arm EU”, ma tuttora assente) non attiene al breve
periodo.
Pertanto,
il punto di partenza del riarmo appare – anche nei piani attuali della
Commissione – quello nazionale.
In tal
senso, il termine riarmo – al netto dei giochini lessicali – non pare in
effetti il più adeguato, poiché da alcuni anni i paesi europei hanno
incrementato le proprie spese (nazionali, al di là dello sviluppo di meccanismi
comuni come la” PESCO”) per la difesa.
In particolare, gli investimenti in programmi militari
sono cresciuti esponenzialmente negli ultimi anni, sebbene ancora assai lontani
dall’obiettivo di recuperare tutte quelle capacità militari accantonate per
decenni in operazioni nelle quali servivano mezzi diversi: i veicoli blindati
leggeri a Herat piuttosto che carri armati e munizioni in trincee
novecentesche.
Un recupero di capacità che riguarda il punto
di vista quantitativo ma anche quello del grado di avanzamento tecnologico, al
tempo di conflitti determinanti sia dalla massa che dall’innovazione in ambito
di” Eletronic Warfare”.
Serve
un nuovo paradigma?
Ma è
proprio in relazione alla crescita degli investimenti che aleggia una domanda
paradossalmente inevasa dal dibatto. Stiamo parlando di recuperare delle
capacità, a fronte di crescenti minacce esterne e di crisi dell’Alleanza,
oppure la volontà è quella di adottare un nuovo paradigma di difesa, di “deterrente
and defense”, quella “difesa territoriale”, così centrale al tempo della Guerra
Fredda, e ora tornato core task della NATO dopo anni di “Crisi Management”?
Come
garantire oggi deterrenza all’Europa?
In
sostanza, stiamo passando da un approccio che ha portato a schierare le forze
armate in operazioni di risoluzione delle crisi internazionali a una visione di
difesa del territorio (nazionale ed europeo) da un attacco militare
convenzionale?
È
questo il vero interrogativo che dobbiamo porci.
Un quesito che impone un dibattito pubblico
trasparente e dettagliato.
Come
fare?
La
letteratura illustra come il passaggio da un paradigma di difesa a un altro sia
lento e complesso.
L’UE e
i suoi membri vogliono davvero adottare un nuovo paradigma di difesa
territoriale, modificando così mezzi, approcci e organizzazione delle forze
armate, nonché della società?
E la società europea è davvero pronta a
fornire (e ad addestrare) cittadini in armi (così difficili da reclutare negli
ultimi decenni) per confronti militari tradizionali?
Al di
là delle decisioni politiche – che da diverse prospettive ideologiche possono
fornire una risposta a tale inevaso quesito – occorre capire che una logica
meramente funzionalista (“integriamo le armi spendendo un bel po’ come abbiamo
fatto con il carbone e l’acciaio”) appare complessa, poiché strategicamente
(nel senso di collegare coerentemente mezzi con obiettivi) problematica.
Quali sono appunto gli scopi per i quali spendiamo in
armamenti?
Quale
il paradigma di difesa che l’Unione e i suoi membri voglio adottare, dopo anni
(certo non di pace) ma di numerose operazioni di “Crisi Management”, di
interventi (più o meno di combatto) di controinsorgenza, peacekeeping,
peacebuilding.
I
“fronti” nei quali siamo intervenuti in questi decenni – dal Mediterraneo
allargato al Medio Oriente – non sono più rilevanti?
Lo
sono meno?
In
conclusione, quindi, più che discutere sui termini e sul linguaggio, in un
continente sconvolto – a est – da guerre di conquista territoriale condotte da
nostri avversari e da atrocità di massa – a sud – commesse da nostri alleati, sarebbe opportuno capire prima di
tutto che paradigma di difesa vogliamo adottare.
Il
riarmo e l’idea di Europa da difendere.
Aspeniaonline.it
- Riccardo Pennisi – (Mar.28, 2025) – ci dice:
Il
tema della difesa europea non è l’esercizio di stile su cui si giocano le capacità
retoriche di politici o commentatori interessati a rinfacciarsi chi per primo
ha detto che l’Ucraina sarebbe stata invasa, o per quale motivo vanno sostenute
le rivendicazioni di Mosca o invece quelle di Kiev.
Ci siamo lamentati negli ultimi anni perché
gli Stati Uniti ci hanno messo sull’attenti di fronte alle loro posizioni e
convenienze internazionali: ma il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca
cambia brutalmente lo scenario.
Ora
l’Europa viene considerata da Washington quasi una terra di rapina, da cui
sottrarre territori o risorse, popolata da “parassiti” da rimbeccare, e verso
cui rivolgersi con disprezzo e indifferenza:
sembra perciò ragionevole pensare che gli USA
abbiano accantonato l’idea che tenere con sé l’Europa faccia parte dei propri
interessi.
È per
questo che il problema della vulnerabilità del nostro continente si pone in
maniera inevitabile e in termini enormi:
in questo momento non c’è niente e nessuno che
impedirebbe ai membri della UE di subire un’aggressione.
La nuova
relazione con Washington.
Sotto,
sotto si continuano a considerare poco serie le rivendicazioni di Donald Trump
sulla Groenlandia.
Il presidente degli Stati Uniti ha ribadito
ormai decine di volte che “otterrà” quello che oggi è un territorio autonomo
della Danimarca “in un modo o nell’altro”. Scherza?
Ce lo possiamo chiedere mentre il
“Vicepresidente JD Vance” e consigliere per la “Sicurezza nazionale Mike Waltz”
visitano la base militare-spaziale di “Pituffik,” nel remoto settentrione
dell’isola (si chiamava Thule fino a poco fa), tra i ghiacci e gli iceberg.
E
peccato che sia stata cancellata la loro assistenza al campionato nazionale di
cani da slitta, “sport che da sempre li appassiona”, aveva specificato la Casa
Bianca, per paura di contestazioni, dopo le proteste ufficiali groenlandesi e
danesi.
L’”Ultima
Thule” esce così dalle nebbie del mito per entrare nel territorio della cruda
realtà:
proprio
da lì, dal suo fianco nord-ovest, dovrebbe cominciare l’Europa a enumerare i
suoi punti deboli.
“Pituffik”
è gestita dagli Stati Uniti nel quadro della NATO e in cooperazione con la
Danimarca – sulla base sventola anche la bandiera rossa con la croce bianca – e
ospita i sistemi che si occupano di sorvegliare i missili nucleari russi
puntati verso il Nord Atlantico e l’Europa, piazzati sulla penisola di Kola.
Cosa
succederebbe se i danesi fossero estromessi dalla base?
“Ci
serve”, dice Trump.
Sì, ma
a cosa che non possono fare già adesso?
Se gli Stati Uniti annettessero la
Groenlandia, condividerebbero le informazioni di sicurezza nucleare con i
“parassiti” che tanto detestano?
Trump,
Putin, Netanyahu.
Sotto
i riflettori però, come sappiamo bene, prima dell’Artico c’è l’Est.
Resta
più che legittimo pensare che la Russia sia stata trascinata dall’Occidente
nell’invasione dell’Ucraina – avendo svolto operazioni militari di rilievo
negli anni precedenti in maniera evidentemente casuale in Cecenia, Georgia,
Siria e Libia, avendo inviato le proprie forze militari a reprimere rivolte
popolari contro i regimi amici di Mosca in Kazakistan e Bielorussia, avendo
consentito all’esercito dell’Azerbaijan di evacuare gli armeni dal
Nagorno-Karabakh nonostante la presenza di un suo contingente di “pace”, avendo
sparpagliato in decine di Paesi africani i propri mercenari.
E
possiamo anche soprassedere sull’esperienza storica che mostra come la Russia
tenda a trattare i piccoli Stati e i popoli vicini come pedine da spendere in
un gioco diplomatico in cui Mosca si ritiene alla pari soltanto con le “grandi
potenze”:
i casi
sono innumerevoli, ma basti osservare al riguardo le trattative sul futuro
dell’Ucraina, condotte in assenza… dell’Ucraina.
Soprassediamo
pure.
Resta però davanti a queste opinioni la
presenza di un fatto ormai persino ammesso quasi apertamente:
la
reciproca convenienza che sembra esservi tra Donald Trump e Vladimir Putin nel
ridurre l’Europa a un bottino da spartire.
Nel chiedersi perché Trump ceda a tutte le
richieste negoziali di Putin (l’annessione delle quattro province parzialmente
occupate, la garanzia che l’Ucraina non entrerà nella UE e nella NATO, che sarà
senza difesa, senza flotta, senza industria, senza energia, che il prossimo
presidente sarà gradito al Cremlino, che la Russia avrà libertà di manovra fino
a Odessa e alla Transnistria…) una delle risposte potrebbe senz’altro essere
che in cambio, in futuro, la Russia coadiuverà eventuali manovre americane per
ricattare, dividere, piegare al proprio volere l’Europa.
Come con le figurine: “Ucraina a me,
Groenlandia a te…”
Perché
ciò accada, l’Europa dev’essere debole e divisa in Stati che si avversano –
prima dell’invasione del 2022 era abbastanza chiaro il sostegno di Vladimir
Putin ai partiti politici europei che promuovevano un po’ ovunque il ritorno al
nazionalismo delle piccole patrie.
Oggi sono Trump, Musk e Vance a farlo, per lo
stesso motivo, e alla luce del sole.
Il
modello europeo di pluralismo politico e inclusione sociale – già indebolito in
maniera davvero miope dall’interno della stessa Europa – dev’essere smantellato
perché non costituisca più un’alternativa al modello sempre più dispotico e
diseguale di Russia e Stati Uniti – pur nelle diversità di condizioni e
dinamiche tra i due Paesi.
Si
critica spesso giustamente l’Unione Europea perché “non esiste”, perché è
imbelle, incapace di reagire, di costituirsi in soggetto politico influente:
ma chi
sostiene queste posizioni cosa sta facendo, se non sottolineare l’esigenza di
un rafforzamento della UE?
Si
fatica a credere che la Russia, che non è ancora riuscita a sconfiggere, in tre
anni, un’Ucraina militarmente nana, svuotata della sua popolazione, e malamente
aiutata dall’Occidente, sia capace di condurre un’invasione su larga scala di
un altro Paese europeo.
Chi scrive condivide questa visione.
Però
non si può nemmeno negare che i conflitti tendano ormai alla multiformità.
Questa include la “guerra grigia” fatta di operazioni circoscritte e mirate,
attacchi informatici, manovre di disturbo, sabotaggi di vario genere, che non
hanno bisogno di un grande esercito per essere condotte, né di armamenti
classici, né di una vera linea del fronte.
Da
questo punto di vista, l’Europa è del tutto sguarnita:
non è
un caso che l’idea del rafforzamento militare sia particolarmente popolare nei
Paesi baltici e scandinavi che con la Russia confinano, non solo perché
condividono una frontiera con una dittatura militarista e para-fascista che le
frontiere tende a ignorarle (“la Russia non finisce mai”, specificò Putin
parlando di geografia con un bambino), ma anche proprio perché già subiscono
questo tipo di operazioni.
Nessuna
considerazione sulla sicurezza europea può prescindere dalla situazione in
Medio Oriente.
Se è
stato semplice notare la deleteria convergenza tra la nuova Casa Bianca e il
Cremlino, dovrebbe essere altrettanto semplice realizzare il potenziale nefasto
dell’altro lato del triangolo politico internazionale che si sta costituendo:
quello
tra Donald Trump e il premier israeliano Benjamin Netanyahu.
In una
traiettoria “diplomatica” che ha molti paralleli con quanto accade con la
Russia, la nuova amministrazione americana è arrivata a legittimare pienamente
tutte le mosse e gli obiettivi dell’attuale governo israeliano:
la
rottura unilaterale del cessate il fuoco a Gaza con la violenta ripresa della
strage nella Striscia, l’ulteriore e sempre più sanguinosa offensiva dei coloni
in Cisgiordania, l’idea della deportazione di massa dei Palestinesi, e
l’isolamento dell’Iran come linea guida nella politica mediorientale,
rafforzata dall’attacco congiunto agli “Houthi” in Yemen.
Da parte sua Netanyahu, coerentemente con
quanto accade negli Stati Uniti, ha rinfocolato la lotta per il controllo sugli
altri organi di potere nazionali, aumentando così il tasso già non indifferente
di instabilità interna a Israele – da sempre uno dei fattori che influenza
negativamente la conflittualità regionale.
Sebbene
cominci finalmente ad allargarsi in Europa la consapevolezza di doversi opporre
a operazioni politico-militari che potrebbero dilagare in ampiezza (sebbene
abbiano già tristemente raggiunto i peggiori picchi di intensità), e che ormai
non ci si prende nemmeno più il disturbo di giustificare con motivi securitari
o strategici, continua a mancare per gli Stati dell’Unione la possibilità di
intervenire sul terreno con forze di interposizione adeguate.
Se
proprio non si vogliono considerare i principi del diritto internazionale come
motivo per schierarsi contro la linea Trump-Netanyahu (“…e Palestina a lui”),
contino allora le considerazioni sulla stabilità regionale:
già la guerra in Siria, con i suoi milioni di
rifugiati, costò all’Europa una grave crisi interna con risvolti politici e
ideologici che ancora pesano.
Figuriamoci
cosa accadrebbe con un conflitto esteso a Beirut, Baghdad e Teheran.
La
votazione all’Assemblea Generale dell’ONU su una risoluzione di condanna
dell’invasione dell’Ucraina, il 25 febbraio 2025.
Stati
Uniti, Russia e Israele votano contro il testo proposto dagli stati europei.
Gli Stati membri dell’UE votano tutti a favore
(esclusa l’Ungheria), insieme a Regno Unito, Canada, Svizzera, Norvegia,
Serbia, Turchia.
Il
fianco Sud.
Così è
accaduto d’altronde in Libia, uno scenario dove a fronteggiarsi sono
soprattutto forze armate russe e turche, dopo che l’intervento NATO nel 2011 ha
provocato la fine del regime di Gheddafi.
Qui i
Paesi europei, benché direttamente interessati, sono stati “calpestati” dagli
stivali sul terreno di altri soldati, di potenze concorrenti, perdendo
l’occasione per influire sulla stabilità e sul futuro di un territorio
praticamente dirimpettaio.
Curioso paradosso per il continente che aveva
raggiunto ogni angolo del mondo con i propri imperi coloniali:
oggi è quasi incapace di influire un metro
oltre il proprio confine.
È una
considerazione, questa, valida anche per l’Africa subsahariana:
la
sfilza di colpi di stato portati a termine nel Sahel (otto dal 2019) con
l’aiuto delle forze mercenarie russe, coadiuvate da una campagna
politico-mediatica su larga scala guidata da Mosca, completa a meridione la
ricognizione sui fronti sguarniti dell’Europa.
Il tramonto davvero inglorioso dell’influenza
francese sulla regione, dal Mali al Niger al Burkina Faso, deve far riflettere
sulla strategia fallimentare seguita da Parigi.
Ma
anche sull’incapacità di uno Stato europeo, da solo, di fronteggiare un attore
come la Russia in uno scenario tanto impegnativo.
Vale
per la Francia come per gli altri Paesi della UE: a questa scala, non c’è
grandeur nazionale che non si rovesci in piccolezza.
Non si
sottolinea mai abbastanza quanto la regione a Sud del Sahara sia fondamentale
per gli equilibri europei;
Sahel
significa “costa”:
con
questo nome metaforico gli antichi viaggiatori del deserto chiamavano il luogo
dove il mare di sabbia infine terminava.
A
chiudere il cerchio che abbiamo percorso attorno all’Europa, un’”Ultima Thule”
di dune bollenti invece che di pendii glaciali.
Non
possiamo essere così ingenui da pensare, infatti, che il Cremlino si sia
infilato nelle manovre politico-militari locali per dare un qualche impegno a
miliziani e funzionari altrimenti annoiati a passeggiare lungo i ponti sulla
Neva.
No: nella “costa” che si stende tra
l’Atlantico e il Mar Rosso ci sono risorse fondamentali come l’uranio e l’oro;
c’è la
massima concentrazione mondiale di terrorismo jihadista;
da lì
si controllano e si influenzano grandi traffici internazionali di persone, di
armi, di energia:
fenomeni con cui la Russia può esercitare
pressione sugli stati europei – come ha già fatto con i migranti appositamente
spinti verso le frontiere della UE passando dalla Bielorussia:
uno di
quegli esempi di “guerra grigia” che l’Europa non ha nessuno strumento per
fronteggiare.
Tra
consenso e frammentazione.
Si
dice giustamente che un’entità politica completa non può prescindere da
strumenti atti a garantirne la difesa e la sicurezza.
Se
l’Unione Europea vuole perseguire il suo progetto di riarmo, a completamento
del progetto di integrazione europea, e in contrasto con la pretesa degli Stati
Uniti e della Russia di farne fette di una torta da spartirsi o comunque da
sottomettere al proprio volere, servono però delle condizioni di base.
Per
prima cosa, la maturazione democratica della classe dirigente continentale
(purtroppo viziata da decenni di decisioni prese nel segreto dei Consigli
Europei), che deve avere il coraggio di presentare le proprie intenzioni
davanti all’opinione pubblica e di confrontarsi con i diversi orientamenti in
essa presenti.
Non
servirà a molto nascondersi dietro qualche giro di parole, come la” pipa di
Magritte”, per dire ”ceci ce n’est pas un réarmement” ma solo un banalissimo
progetto come tanti altri che chiameremo… Preparazione 2030.
Non servirà nemmeno far finta che il programma di
costruzione degli armamenti non sia anche un sostegno pubblico verso storici
comparti industriali che non si sa bene come rottamare, e che fino a pochi anni
fa costituivano il fior fiore della potenza economica europea.
È poi
lecito dubitare che il ricorso all’allarmismo psicologico, insomma l’idea di
comunicare al pubblico l’imminenza di un conflitto aperto e generalizzato, non
si riveli oltre che ben poco credibile anche controproducente.
E
sarebbe infine indegno di un’organizzazione che si ritiene portatrice ed erede
di principi liberal-democratici evitare il confronto nel parlamento europeo per
affrettare decisioni su cui non dobbiamo affatto affrettarci, ma discutere il
più possibile:
i
pacchetti di sanzioni (ormai siamo a 16!) adottati dalla UE contro la Russia
dovrebbero ricordarci dell’importanza di riflettere prima di fare, o mostrare
di fare.
Le
classi dirigenti europee non possono permettersi atteggiamenti simili su un
tema fondante e cruciale come questo.
Un
tema su cui cercano la propria legittimazione, di fronte alle tante forze
politiche e sociali che le contestano da destra e da sinistra:
non va
infatti dimenticato che l’Europa ha pagato un prezzo economico molto alto per
la guerra in Ucraina, ma ora i suoi capi sembrano volerla prolungare.
Un’equazione che elettoralmente non può quadrare:
non si
può mostrare di aver paura della pace.
In
Olanda, una mozione parlamentare ha bocciato il piano di Bruxelles, con
l’estrema destra primo partito della coalizione di governo a votare contro, e i
Socialisti, primo partito dell’opposizione, a favore.
In
Germania il senso di shock e di urgenza – aggravato in maniera decisiva dal
confronto videotrasmesso tra Trump, JD Vance e Zelensky, con la società a chiedersi “cosa
farebbero gli Stati Uniti se al posto di Zelensky ci fossimo noi?” – ha portato
all’abolizione dello storico “freno” costituzionale sul debito.
Una
decisione epocale che ha coinciso con lo stanziamento di almeno 500 miliardi
per la difesa, accompagnati da altri 500 destinati a interventi sociali,
infrastrutturali e per la transizione ecologica – a riprova del fatto che il
riarmo non deve andare per forza a discapito della spesa sociale.
Ma per
farla passare, si è ricorsi all’escamotage di un voto nel parlamento uscente:
non
era affatto sicuro che il nuovo parlamento, votato dalle elezioni del 23
febbraio e in cui la destra e la sinistra radicali sono più forti, l’avrebbe
approvata.
Oltre
a quella del consenso, emerge qui anche la questione degli equilibri
all’interno dell’Europa.
La
Germania è capace di stanziare, da sola, oltre 1000 miliardi per ricalibrare il
proprio sistema socio-economico e produttivo.
Non è
da escludere che questo programma comprenda lo sviluppo di armi atomiche:
sarebbe
anzi logico, se il ritiro “imperiale” degli Stati Uniti dall’Unione “nata per
fregarci”, come dicono Trump e Vance, dovesse compiersi fino in fondo.
Sappiamo
bene che il sistema industriale tedesco non si limita alla Germania ma è
profondamente integrato con quello dei Paesi settentrionali e orientali
dell’Unione Europea, che dunque seguirebbero Berlino su quella strada.
Nella
“nostra” parte d’Europa i programmi di riarmo sono visti con costernazione,
scetticismo e opposizione dalla maggior parte dell’opinione pubblica:
800 miliardi diviso 27 Paesi ci sembrano un
peso intollerabile, e i governi gli cambiano il nome perché sennò suona male.
Intanto, dall’altro capo del continente, nella
Polonia in campagna elettorale si domanda la rottura unilaterale delle
relazioni con la Russia, e il posizionamento di armi atomiche sul territorio
nazionale – chiesto agli USA dai partiti trumpiani, alla Francia dai partiti
europeisti.
Tra i
Paesi dell’area si è da tempo d’accordo sulla costruzione anche fisica di una
nuova cortina di ferro, e il maggior fabbricante europeo di armamenti, la
tedesca “Rheinmetall”, annuncia profitti record (il suo valore in borsa è
triplicato dalle elezioni americane, decuplicato da quando la Russia ha invaso
l’Ucraina nel 2022) e l’”intenzione di rilevare gli stabilimenti Volkswagen”
destinati alla chiusura per produrre carri armati e radar al posto delle
automobili.
Una sostituzione, questa, del cui potenziale
l’industria europea è consapevole già da anni, ma a cui la guerra su larga
scala scatenata da Vladimir Putin e l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca
hanno offerto le ali per volare.
L’Europa,
insomma, rischia una frammentazione e una divergenza molto profonda – proprio
mentre ai suoi Paesi viene consentito di indebitarsi per costruire armamenti.
L’intero
processo non può essere demandato ai singoli Stati, come sta accadendo,
fingendo che non riguardi l’intero continente e il futuro dell’Unione Europea.
Non
può essere gestito con la frivolezza e la superficialità di chi sta soltanto
preparando la sua borsetta, come ha mostrato la Commissaria per la Parità, la
Preparazione e la Gestione delle “Crisi Hadja Labib”.
Non
può essere portato avanti senza il pieno coinvolgimento della cittadinanza
europea e dei suoi rappresentanti:
cioè
discutendo e stabilendo in maniera chiara ragioni, modalità, priorità,
obiettivi del rafforzamento della difesa UE.
Cosa c’è esattamente nel “kit di
sopravvivenza” dell’Unione Europea?
Nessuno
può davvero rispondere a questa domanda, nessuno al momento può davvero sapere
a cosa serviranno o come saranno impiegate – o magari a chi saranno vendute –
le armi che ci apprestiamo a costruire.
Servono
dunque, ed è cruciale, organismi di coordinamento e controllo sovranazionale,
dentro i quali gli Stati UE partecipino in maniera inclusiva, in cambio della
propria assunzione di responsabilità, dato che l’aumento della spesa militare
si consente utilizzando fondi comuni e sospendendo regole di bilancio finora
considerate intoccabili.
Altrimenti
si corrono due rischi importanti:
quello
di appaltare alla Germania il ruolo lasciato scoperto dagli Stati Uniti,
lasciando che sia il sistema politico-economico che ruota attorno a Berlino a
stabilire priorità e obiettivi del riarmo.
Oppure,
di fronte alla complessità di ciò che c’è oltre le frontiere europee, finire
per limitarsi a rimpinguare 27 singoli e inefficienti eserciti di 27 stati che
hanno interessi diversi, guidati da governi che sulla Russia o gli Stati Uniti
hanno posizioni persino opposte tra loro:
l’Europa
ha già commesso questo errore in passato.
Riarmo
atlantico dell’Europa
e
tramonto della diplomazia.
Ilmanifesto.it
– (24 giugno 2025) - Marco Buscetta – ci dice:
Nato.
Per il
decennale piano militarista la politica estera sarà solo veicolo di minacce e
ultimatum tanto più credibili quanto più consistente sarà l’arsenale che si
trova alle sue spalle.
C’è da
scommettere che il vertice della Nato che si aprirà oggi in pompa magna all’Aia
rivelerà una povertà di visione e una sicumera bellicista investita del compito
di mascherare un sostanziale disorientamento e una totale incapacità di
valutare la possibile evoluzione del disordine globale, salvo garantire il
servile assoggettamento alle volubili decisioni di Trump.
Quando
la situazione precipita, spiegare, prevedere, scovare la logica che sottende il
caos, può essere un esercizio vano o inutile.
Tutto
suona arbitrario, azzardato, effimero o pretestuoso.
Converrà
allora attenersi ad alcune generiche evidenze che promettono di non dissolversi
nel giro di pochi giorni o poche ore.
Cominciamo
dall’Europa, tardivamente informata ma mai consultata dalle principali forze in
campo sulle loro scelte e le loro azioni.
Per nulla omogenea al suo interno, e non solo
quanto alle risorse finanziarie attingibili, l’Unione europea impiegherà per
sua stessa ammissione dieci anni e più per sviluppare quell’indispensabile
potenziale bellico e quella “capacità di combattimento” che governi, ministri e
generali reclamano con insistenza come urgenza massima e strada maestra senza
alternative.
Ma
anche la più superficiale valutazione delle circostanze concluderebbe che si
tratta di un arco di tempo del tutto incompatibile con il ritmo assunto dalla
crisi globale e dai conflitti in cui essa si manifesta.
A che
punto saremo tra dieci anni?
Il riarmo a quel tempo potrebbe essere stato
reso superfluo da nuovi equilibri mondiali, impedito da una sconfitta
preventiva o travolto da crisi interne dell’Unione o dei suoi singoli membri.
Se il
“nostro Nemico”, la Russia, la Cina, i Brics o qualunque altro Satanasso,
ragionasse come Israele e gli Usa a proposito del programma nucleare iraniano,
allora provvederebbe ad attaccare sui suoi confini occidentali ben prima che il
riarmo europeo abbia conseguito risultati significativi.
Ma non lo farà per una semplice ragione:
semmai
ne avesse l’intenzione (e nessuno è stato in grado di spiegarne il perché) non
ne avrebbe comunque la forza anche allo stato attuale degli arsenali
occidentali e degli assetti geopolitici.
Dunque
l’enfasi e il budget posti sul programma di riarmo hanno uno scopo più
culturale e politico che tecnico e militare, lasciando per un momento da parte
gli enormi interessi economici che lo sospingono.
Quello
culturale è ricondurre la guerra nell’orizzonte mentale dei cittadini europei,
sottraendola a quello stato di aborrita eccezionalità in cui la seconda metà
del Novecento l’aveva relegata.
E, contestualmente, riottenere dalla
popolazione la perduta disponibilità al sacrificio.
Il
riemergere, quasi ovunque, delle proposte di ripristino della leva obbligatoria
costituisce l’espressione più immediata di questa tendenza a revocare, previa
condanna morale, i livelli di benessere conquistati con le lotte operaie,
sociali e democratiche del dopoguerra.
Lo
scopo politico è invece lo stravolgimento se non la cancellazione totale della
sfera diplomatica.
Quest’ultima, per vocazione e per ruolo, ha
sempre avuto il disarmo, o perlomeno il controllo degli armamenti, come
baricentro della sua azione.
La corsa al riarmo, che è l’antitesi stessa di
ogni logica diplomatica, si esprime invece in un linguaggio primitivo e privo
di sfumature:
il
linguaggio della deterrenza, fondato su una concezione quantitativamente
crescente della forza.
Il
decennale programma militarista europeo costituisce dunque una di quelle
profezie che si autoavverano:
stabilisce
che nel futuro la diplomazia non avrà più alcun ruolo, se non quello di farsi
veicolo di minacce e ultimatum, tanto più credibili quanto più consistente sarà
l’arsenale che si trova alle sue spalle.
Ma il
tramonto della diplomazia, in quanto dialogo tra contendenti, corrisponde anche
allo strapotere decisionista e autoreferenziale dell’esecutivo e dunque a un
permanente pericolo di guerra.
Nei
giorni che hanno preceduto l’attacco americano all’Iran molti attribuivano i
tentennamenti di Trump alla contraddizione, tutta interna al suo schieramento,
tra gli isolazionisti del Maga (decisamente contrari all’avventura bellica) e
gli interventisti del suo gabinetto favorevoli a scendere in campo.
La
decisione finale del capo conferma un fenomeno politico ben noto.
I
regimi autoritari, e i fascismi in particolare, hanno sempre avuto bisogno di
forze movimentiste per conquistare il potere (anche e soprattutto per via
elettorale) ma immancabilmente le hanno dovute eliminare una volta insediati
nel cuore dello stato per poterlo gestire senza intralci.
È successo a Mussolini così come a Hitler.
E
anche per Trump, i fanatici del Maga stanno diventando ingombranti.
Non è
dunque un’America in ritirata dagli scacchieri globali, quella che si
presenterà al vertice Nato dell’Aja.
Ma per gli europei non è comunque una buona
notizia.
In
nome dell’escalation generale la pretesa che i paesi dell’Unione si facciano
sempre più carico dei costi della difesa comune degli interessi occidentali
sarà sostenuta da Washington con maggiore e ricattatoria insistenza.
Ma per
quanto decida di dissanguarsi nella corsa al riarmo il peso dell’Europa su
questo piano resterà modesto.
Il tempo della competizione è corso via veloce.
Le carte su cui gli europei avevano puntato
erano altre e decisamente migliori.
A cambiare gioco ora c’è tutto da perdere.
A
esclusivo vantaggio di Putin, Trump e delle loro opache affinità elettive.
(Marco
Buscetta).
«Il
piano di riarmo europeo
produrrà
più disuguaglianze».
Valori.it
- Maurizio Bongioanni – (17.03.2025) – ci dice:
Secondo
“Raul Caruso”, il piano di riarmo aumenterà il debito degli Stati.
Che taglieranno sui servizi sociali,
aumentando le disuguaglianze
“Re
Arm Europe” è il piano di riarmo dell'Unione europea.
Una risoluzione
di «sostegno incrollabile e incondizionato» all’Ucraina avanzata il 12 marzo al
Parlamento europeo ha ottenuto 442 voti favorevoli, 98 contrari e 126
astensioni.
Oltre ad accogliere la dichiarazione di Gedda
sul cessate il fuoco di 30 giorni, decisione che deve essere approvata ora
dalla Russia, il testo sottolinea che l’Unione europea e i suoi Stati membri
sono diventati «i principali alleati strategici di Kiev».
L’Europarlamento,
oltre ad aver accusato l’amministrazione Trump di aver «ricattato» il
presidente ucraino Volodymyr Zelensky per forzarlo ad accettare l’accordo e
denunciato la decisione di Washington di lasciare l’Unione europea fuori dai
negoziati, ha anche approvato – con 419 voti favorevoli, 204 contrari e 46
astenuti – il Libro bianco della difesa dell’Unione europea, che riguarda un
piano di riarmo da 800 miliardi di euro.
Il
cosiddetto “Re Arm Europe”.
Il
piano europeo per il riarmo produrrà più disuguaglianza.
Un
piano che solleva interrogativi sulle sue implicazioni economiche e sociali.
Soprattutto in relazione alla disparità tra i diversi Paesi dell’Unione.
A
spiegarlo è “Raul Caruso”, professore ordinario di politica economica
all’”Università Cattolica del Sacro Cuore”.
Il
quale analizza la situazione in maniera critica, delineando scenari di
possibili disuguaglianze tra le nazioni e i rischi di tagli alla spesa sociale.
Secondo
il docente il piano, pur condividendo l’obiettivo di rafforzare la difesa
comune europea, potrebbe avere effetti economici particolarmente gravi per i
Paesi già in difficoltà.
Come l’Italia e quelli più poveri dell’Est.
Questi
ultimi sono anche quelli che si sentono più a rischio per la loro vicinanza
alla Russia.
«I
Paesi con un alto debito pubblico saranno quelli che pagheranno di più»,
afferma Caruso.
«Questo perché, nonostante le deroghe alle
regole fiscali per gli investimenti in difesa, i fondi necessari a finanziare
l’iniziativa sono degli impegni di spesa che dovranno essere ripagati in
futuro.
In
poche parole, il piano di riarmo aumenterà ulteriormente il debito pubblico.
Così,
i Paesi più piccoli e meno equipaggiati potrebbero trovarsi in una posizione
svantaggiata. Creando nuove disuguaglianze tra le nazioni più ricche e quelle
più vulnerabili».
Il
riarmo porta sempre tagli alla spesa sociale.
A
questo quadro si aggiungono le previsioni di tagli alla spesa sociale per far
fronte agli impegni di difesa.
«Ogni
volta che aumenta la spesa militare, quella per sanità, scuola e servizi
sociali viene inevitabilmente ridotta.
Si
tratta di un rapporto di proporzionalità inversa ampiamente dimostrato dagli
studi accademici», continua il docente.
Mentre
viene ignorato completamente l’impatto futuro sulla vita quotidiana dei
cittadini, il riarmo viene presentato come una necessità politica.
Ma
anche su questo “Caruso” invita a riflettere.
«Forse
abbiamo considerato la minaccia di invasione russa al resto d’Europa un po’
frettolosamente.
Quel
che è certo è che abbiamo trattato con superficialità i rapporti diplomatici.
E ora
questo vuoto è stato colmato dall’imprevedibilità di Trump.
In questo contesto, l’Europa, pur dotandosi di
un piano di riarmo, rimarrà vulnerabile se non riuscirà a unirsi in modo
realmente integrato.
Coordinando
meglio le risorse e puntando su una politica estera comune.
L’Unione
europea si presenta debole in politica estera proprio nel momento in cui
dovrebbe dimostrarsi più forte».
Secondo
il professore per fare fronte comune sarebbe necessario istituire
un’organizzazione di difesa comune.
Una sorta di agenzia con poteri simili alla
Bce ma per quello che attiene all’industria delle armi.
«Un
segnale che dimostri al resto del mondo che l’Europa è unita».
Invece, il piano di riarmo dipenderà dalla
dotazione dei singoli, dall’impegno di spesa che ciascun Stato membro sarà in
grado di fissare.
«Non è facile fare previsioni con numeri alla
mano. Non sappiamo quante armi dobbiamo produrre, né quale sia il reale
fabbisogno. Sappiamo che ci sarà un impatto a livello sociale, ma non sappiamo
ancora dire quantificarlo».
Con le
armi non si fa la pace.
In
questo clima di incertezza, in Italia la proposta del ministro dell’economia “Giancarlo
Giorgetti” sembra aver avuto un certo seguito:
creare
un fondo di garanzia per la difesa europea, cercando di attrarre gli
investimenti da parte dei privati.
«Una
proposta singolare, diciamo, perché le aziende che producono armi sono
praticamente pubbliche, quindi pensare che vi possano essere investimenti da
parte di società private mi sembra quantomeno ottimistico».
L’idea
di convertire il settore automobilistico alla produzione di armamenti – idea
che circola anche in Italia – è stata presentata come una possibile soluzione a
una crisi industriale.
Ma “Caruso”
è scettico anche su questa proposta:
«Si
tratta di una soluzione più simbolica che pratica – afferma -.
Considerando
che le aziende automobilistiche non sono predisposte a un simile cambiamento.
La
transizione, dunque, richiederebbe investimenti pubblici e rischierebbe di non
portare alcun ritorno significativo».
Per
quanto riguarda la gestione delle risorse l’analisi si concentra sulla
questione della spesa.
Se è vero che molte voci indicano la necessità
di «spendere meglio» e non «di più», “Caruso sottolinea” che la storia ci
insegna che la forza militare non ha mai portato a una pace duratura.
Il
rischio è che un riarmo condotto senza una maggiore coesione politica, oltre ad
aggravare le disuguaglianze e minare la stabilità economica dei Paesi più
fragili, potrebbe portare a una maggiore instabilità.
Alimentando
una corsa agli armamenti anziché garantire la sicurezza.
Invece
di evocare il raggiungimento della pace attraverso la forza è necessario
puntare su una pace attraverso la convinzione.
Basata
su un’Unione europea più integrata e politicamente unita.
“L’era
del riarmo è arrivata”.
Analisi
e considerazioni sul piano
“Re
Arm Europe” della Commissione Europea.
Geopolitica.info - Davide Sotgia – (17/03/2025) – ci
dice:
I
mutamenti dello scenario internazionale, aggravato dai recenti sviluppi del
conflitto in Ucraina, hanno portato molti attori ad impegnarsi per maggiori
investimenti nella difesa ed a spingere per un più ampio coinvolgimento
dell’Unione Europea nella sicurezza del continente europeo e delle aree
limitrofe. Questo ha portato la Commissione europea a presentare un ambizioso
progetto orientato al rapido riarmo dei suoi membri a garanzia di pace e
sicurezza.
Il 4
marzo la Presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen ha
presentato una proposta per un importante progetto di riarmo a livello
nazionale e, soprattutto, a livello comunitario.
Il
progetto “Re Arm Europe” è la risposta dell’Unione Europea, e dei suoi Paesi
membri, alle sfide che il mutamento dello scenario internazionale propone
all’Europa.
La
Presidente Von der Leyen ha sottolineato, con le sue parole, che l’Europa è
entrata “nell’era del riarmo” e che è necessario incrementare le spese dedicate
alla difesa, per far sì che l’Unione si possa assumere maggiori responsabilità
di sicurezza nel medio e nel lungo periodo.
Altra
finalità è quella di permettere ai Paesi europei di continuare a supportare lo
sforzo bellico ucraino nel breve e nel medio termine.
Tutto
ciò è riassumibile con la dichiarazione della Presidente:
“ora è
il momento dell’Europa e dobbiamo essere pronti”.
I
punti del progetto.
Nelle
intenzioni della Commissione il piano si divide in 5 punti.
Questi
sono pensati per “mobilitare 800 miliardi di euro in risorse da spendere in
settori legati alla difesa” tramite l’impiego di tutte le leve finanziarie a
disposizione dell’Unione Europea e dei suoi Stati membri.
Questa
scelta serve l’obiettivo di permettere ai Paesi membri di espandere le loro
capacità nel campo della difesa nel modo più massiccio e veloce possibile.
Il
primo punto vuole facilitare l’utilizzo di fondi pubblici degli Stati membri
per investimenti nella difesa nazionale e quindi, di conseguenza, anche in
quella comunitaria.
Per
farlo si intende scorporare le spese dedicate alla difesa dai calcoli sul
deficit del “patto di stabilità e crescita”, eliminando il rischio di incorrere nella procedura per debito
eccessivo e quindi consentendo di spendere più risorse economiche.
Al
secondo punto è riportata la creazione di un nuovo strumento, con in dotazione
150 miliari di euro, al fine di aiutare gli Stati membri a portare avanti nuove
acquisizioni.
Lo
strumento lavora nel contesto di acquisizioni comuni al fine di creare capacità
pan-europee in alcuni settori critici (ad esempio mezzi aerei, difesa
missilistica, droni, munizionamento, ecc.).
L’obiettivo
è quello di lavorare secondo il motto “spending better e together”.
Il
terzo punto vuole l’utilizzo di fondi dell’Unione, in particolare dei “fondi
per la coesione”, per finanziare progetti con finalità legate alla difesa.
Con il
quarto ed il quinto punto la Commissione vuole mobilitare il capitale privato e
quello della Banca Europea degli Investimenti al fine di sostenere il riarmo
del Continente.
Considerazioni
sul progetto.
Il
progetto della Commissione è pensato per avere un grande impatto sulle capacità
di spesa dei Paesi membri dell’Unione Europea.
Parte
della proposta, in particolare quanto indicato al primo punto, permetterà agli
Stati membri di mobilitare enormi risorse pubbliche al fine di finanziare i
programmi di riarmo nazionali.
Questo andrà soprattutto a vantaggio di quegli
Stati membri con una situazione finanziaria migliore (come, ad esempio, la
Germania) che quindi hanno più “spazio di manovra” per incrementare il loro
debito senza problemi eccessivi (questo è, invece, il caso dell’Italia).
È
importante considerare che gli Stati, con ogni probabilità, dedicheranno la
maggior parte di questi fondi per sostenere le loro imprese nazionali ed il
loro tessuto industriale, contribuendo solo in termini relativi alla difesa
dell’Unione Europea intesa come soggetto unitario.
La
grande novità del progetto Re Arm Europe si trova negli altri punti, dove si
parla di mobilitare le risorse proprie dell’Unione Europea per finanziare
progetti infrastrutturali e di riarmo utili a livello comunitario.
Il
principale strumento è il fondo da 150 miliardi per acquisti congiunti in
materia di armamenti.
L’idea
è quella di incentivare le acquisizioni comuni andando così a ridurre il costo,
ad aumentare le quantità acquistabili ed a affrontare/attenuare la questione
dell’eccesso di piattaforme esistenti nei vari eserciti e nei vari domini (ad
esempio i paesi europei impiegano 16 piattaforme contro le 4 statunitensi) con
importanti ricadute per quanto riguarda logistica, componenti di ricambio ed
interoperabilità tra eserciti alleati.
In
definitiva, il progetto presentato da Ursula Von der Leyen sembra essere
adeguato a rispondere in modo concreto alle principali sfide del momento ed
alle richieste di maggior responsabilità da parte degli alleati, in particolare
dagli Stati Uniti.
La Commissione intende fornire uno strumento
che rappresenterebbe un importante precedente per tutto quello che riguarda la
difesa comune del continente europeo e l’integrazione europea in generale.
Altro
aspetto positivo riguarda le ricadute industriali e sociali che un progetto di
questo calibro comporterebbe portando occupazione, innovazione e ricerca,
andando così a contribuire in modo virtuoso alle economie dei Paesi dell’Unione
Europea.
Francia:
Lecornu lascia, conto alla rovescia per Macron?
Ispionline.it
– Alessia De Luca – (6 ottobre 2025) – ci dice:
Il
primo ministro Lecornu si dimette: “Non ci sono le condizioni per proseguire”.
“Daily
Focus”, Europa e governance globale.
E ora
davanti a Macron si aprono tre strade, tutte rischiose.
Sebastien
Lecornu non ce l’ha fatta.
E con
lui tramonta anche l’ultima speranza di Emmanuel Macron di dare forma al caos
politico che agita la Francia.
Questa
mattina, infatti, l’ex ministro delle Forze Armate e primo ministro in pectore
ha rassegnato le dimissioni dopo soli 27 giorni a palazzo Matignon e meno di
ventiquattro ore dopo aver annunciato la composizione del suo governo.
“Non
c’erano le condizioni per restare”, ha dichiarato Lecornu, travolto dalle
critiche dell’opposizione e della destra dopo aver anticipato parte della
composizione dell’esecutivo, giudicato troppo simile a quello di “Francois
Bayrou” che lo aveva preceduto e che, a sua volta, era stato costretto a
dimettersi dopo 8 mesi di vita.
Da
quell’esecutivo, Lecornu aveva preso dodici ministri su diciotto, tra cui
Jean-Noël Barrot agli Esteri e Gérald Darmanin alla Giustizia.
Ma la
nomina più discussa era stata quella di Bruno Le Maire, storico ministro
dell’Economia dal 2017 al 2024, che avrebbe dovuto assumere la guida del
ministero delle Forze armate, mentre a Roland Lescure sarebbe toccato il ruolo
di titolare dell’Economia e delle Finanze, con il compito ingrato di presentare
un bilancio credibile in un paese gravato da 3.300 miliardi di euro di debito,
pari al 115% del Pil.
“Siamo sbalorditi”, era stato il commento
della leader del “Rassemblement National”, Marine Le Pen, che aveva definito “Le
Maire ““l’uomo che ha mandato in rovina la Francia”.
Stoccate
arrivate tanto dall’esterno quanto dall’interno della futura compagine di
governo.
Una
squadra che “non rispecchia la discontinuità promessa”, avevano lamentato i
Républicains” minacciando di abbandonare l’esecutivo.
Una
situazione che ha “costretto Lecornu ad anticiparli sul tempo, dimettendosi e
diventando così il primo ministro con la vita più breve nella storia della V
Repubblica.
Macron
verso le dimissioni?
La
decisione di Lecornu ha innescato una tempesta di reazioni politiche.
Il
presidente del Rassemblement National, “Jordan Bardella”, ha chiesto a Macron
di sciogliere l’Assemblea Nazionale e convocare nuove elezioni.
“Non può esserci un ripristino della stabilità
senza un ritorno alle urne e senza lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale”,
ha dichiarato al suo arrivo alla sede del partito nazionalista.
“Il
Rassemblement National”, guidato da “Marine Le Pen” e presieduto da “Bardella”,
ha inoltre affermato che “il macronismo è morto”, chiedendo al presidente di
scegliere “in fretta” tra le due opzioni sul tavolo:
lo “scioglimento o le dimissioni”.
All’altro
capo dello spettro politico, anche la “France Insoumise” (Lfi) ha sollecitato
“l’esame immediato” della mozione di destituzione del presidente Macron.
“Dopo
le dimissioni di Sébastien Lecornu, chiediamo l’esame immediato depositata da
104 deputati per la destituzione di Emmanuel Macron”, ha scritto in un
messaggio su “X” il leader del partito della sinistra radicale,” Jean-Luc
Mélenchon”.
“Il
conto alla rovescia è iniziato. Macron deve andarsene”, ha dichiarato “Mathilde
Panot”, esponente di spicco della sinistra radicale francese.
La
decisione del presidente di sciogliere l’Assemblea Nazionale nel giugno 2024
continua ad avere effetti deleteri sulla vita politica ed economica del Paese,
che nell’ultimo anno ha visto alternarsi tre primi ministri privi di un reale
sostegno politico.
Ci
sono altre strade possibili?
L’uscita
di scena di Lecornu segna il tramonto dell’ennesimo, disperato tentativo di
superare lo stallo politico in parlamento.
Nemmeno
la promessa di abbandonare l’ipotesi di ricorrere all’articolo 49.3 della
Costituzione – che consente al governo di approvare le leggi bypassando il
parlamento – e le aperture a un dibattito senza precondizioni per l’adozione
del nuovo bilancio sono riusciti a ripristinare la fiducia, ormai totalmente
compromessa, tra i partiti e l’esecutivo.
Esattamente
come i suoi predecessori, Lecornu si è trovato nell’impossibilità di unificare
il proprio schieramento, di individuare compromessi di bilancio con i
socialisti e di liberarsi dalle pressioni del capo dello Stato.
Ora
tre strade possibili si aprono davanti all’inquilino dell’Eliseo, tutte
rischiose e nessuna particolarmente allettante.
La
prima, prevede la nomina di un nuovo primo ministro esterno al suo
schieramento, data la crescente difficoltà di espandere la maggioranza verso
sinistra o l’estrema destra.
Ma
poiché anche la nomina di un moderato di sinistra metterebbe in discussione la
sua riforma pensionistica, conquistata a fatica, alcuni analisti suggeriscono
che la scelta potrebbe ricadere su un tecnocrate apartitico.
La seconda include un nuovo scioglimento delle
camere e il ritorno alle urne.
Una
mossa azzardata, che secondo i sondaggi potrebbe dar vita a un altro parlamento
spaccato, o potenzialmente all’insediamento di un governo di estrema destra.
E la
terza strada, detestata dal Presidente della Repubblica, sarebbe quella delle
sue dimissioni.
Nonostante
Macron abbia più volte escluso l’idea di farsi da parte prima della scadenza
del suo mandato nel 2027, con “Le Pen” che intuisce di avere la migliore
possibilità di sempre di prendere il potere, sembra quest’ultima ipotesi a
prendere il sopravvento nel dibattito di queste ore.
Parigi,
malato d’Europa?
L’Europa
intanto, intanto, assiste con sgomento misto a costernazione alla crisi della
seconda economia più grande dell’eurozona.
I
mercati hanno preso male la notizia delle dimissioni, mentre aumentano i timori
che Parigi sia politicamente incapace di effettuare i miliardi di euro di tagli
al bilancio necessari per uscire dalla crisi del debito, con i governi che
crollano uno dopo l’altro perché non sono in grado di portare avanti le
riforme.
L’eventualità che la Francia debba ricorrere,
berretto alla mano, al Fondo monetario internazionale per un prestito o
chiedere l’intervento della Banca centrale europea, non è più un’utopia.
E tutto questo sullo sfondo di turbolenze
internazionali epocali:
la
guerra in Ucraina, le tensioni con Mosca, il disimpegno degli Stati Uniti e
l’inesorabile ascesa dei populismi.
Come
ha affermato il commentatore politico “Nicolas Baverez”:
“In
questo momento critico, in cui sono in gioco la sovranità e la libertà della
Francia e dell’Europa, la Francia si ritrova paralizzata dal caos,
dall’impotenza e dal debito”.
Macron
insiste nel dire che può liberare il Paese da questa situazione critica, ma gli
restano solo 18 mesi alla fine del suo secondo mandato.
“Una
possibilità è che i punti di forza del paese – la sua ricchezza, le sue
infrastrutture, la sua resilienza istituzionale temperino gli scossoni di una
transizione che molti considerano storica – osserva “Baverez” –
Ma c’è un altro scenario: che la Francia ne esca
definitivamente indebolita, preda di estremisti di destra e di sinistra, un
nuovo malato d’Europa”.
Il
commento di “Antonio Villafranca”, Vice Presidente per la Ricerca ISPI.
“Lecornu
si è dimesso perché la lista dei suoi Ministri non piaceva quasi a nessuno.
Ma
dietro i ‘no’ si cela l’incapacità del sistema politico francese di guardare in
faccia la realtà: crescita bassa, debito alto.
Per
spezzare il circolo vizioso, servirebbe una stabilità politica che i partiti
francesi non riescono a esprimere.
Il
tempo di Macron sta collassando e i tentativi di rianimarlo servono solo a
guadagnare (poco) tempo”.
Il tramonto
di Macron,
e la
Francia
prigioniera
delle sue rigidità.
Linkiesta.it
- Carlo Panella – (7 ottobre 2025) – ci dice:
Il
Parlamento francese è paralizzato da partiti incapaci di trovare qualsiasi
accordo a causa di un sistema politico bipolare.
Il
presidente francese non ha più carte per formare un governo stabile.
(LaPresse).
Le
dimissioni del governo di “Sébastien Lecornu”, restato in carica dodici ore
possono segnare l’inizio della fine per Emmanuel Macron.
Non
perché lo obblighino alle dimissioni, che sono chieste solo dall’arruffapopolo
Jean-Luc Mélenchon, ma perché evidenziano errori politici tanto evidenti da
segnarne un tramonto ineluttabile.
Due
sono stati gli elementi di questa crisi politica della Francia e del declino
parallelo del prestigio di Emmanuel Macron, che rischia ormai di fare la fine
di Matteo Renzi:
passare
in pochi anni dalla centralità nel sistema politico all’emarginazione
minoritaria.
Il
primo elemento è un’attitudine settaria, una rigidità dogmatica dei partiti,
figlia di un sessantennio di bipolarismo netto, ma anche di un’arroganza
ideologica di parte, tutta francese, che rende oggi a Parigi evidentemente
impossibile non solo ogni governo di unità nazionale, ma anche una “Grosse
Koalition “e, men che meno, un governo tecnico.
I partiti francesi, anche quelli non
estremisti di destra o di sinistra, si presentano infatti a Matignon per
discutere di possibili programmi comuni, rigidi, inflessibili, indisposti alla
mediazione, incapaci letteralmente di fare politica e tesi a dare solo
testimonianza di sé stessi.
In
questo contesto, sin dal verdetto delle elezioni europee del 2024, che hanno
segnato l’avanzata delle estreme di Marine Le Pen e di Jean-Luc Mélenchon, e la
perdita netta di voti e quindi di deputati della coalizione del presidente,
Emmanuel Macron ha sbagliato visibilmente tutte le mosse.
In più, con un atteggiamento di alterigia e
arroganza che ora gli si rivolta contro.
Il
primo suo errore è stata la decisione di sciogliere l’Assemblea Nazionale e
indire elezioni anticipate.
Decisione
presa con evidente stizza, da solo, senza neanche consultarsi con il suo
premier “Gabriel Attali”, fino ad allora fidato collaboratore e, da quel
momento in poi, deluso avversario.
Il
risultato di quella mossa avventata è stato un trionfo al primo turno di Marine
Le Pen, trionfo poi annullato al secondo turno da un ennesimo “Front
Républicain,” che ha fatto blocco contro i suoi candidati con il meccanismo
della desistenza, che ha visto elettori gollisti votare per candidati
dell’estrema sinistra e viceversa, ma che ha poi prodotto un Parlamento nel
quale nessuno schieramento ha una maggioranza.
A quel
punto era evidente, nel contesto istituzionale francese, che gli attribuisce
enormi poteri e la gestione diretta della politica estera e della difesa, che
il presidente doveva gettare tutto il suo prestigio, tutto il suo impegno,
tutta la sua visione politica in un serrato confronto tra i partiti di centro e
quelli moderati di destra e di sinistra, per costruire con pazienza una grande
coalizione o, almeno, un governo a guida tecnica forte di una solida
maggioranza parlamentare.
Nulla
di tutto ciò.
Emmanuel
Macron ha mostrato un distacco evidente per quelle che giudicava poco
interessanti beghe della politica interna e si è impegnato con maggiore
esposizione personale sulla scena internazionale ed europea, tentando, senza
riuscirci, di giocare un ruolo rilevante nella crisi ucraina come in quella
mediorientale.
Ha
quindi delegato la soluzione della crisi politica – che ormai aggravava anche
la crisi economica – a un collaboratore o alleato dopo l’altro, mostrando un
disinteresse per la trattativa tra i partiti.
Trattativa
difficile, per la rigidità politica e programmatica delle forze politiche, i
socialisti in primis, come abbiamo detto, ma che un presidente della Repubblica
all’altezza del compito avrebbe potuto gestire con prestigio e saggezza,
delineando e concretizzando con pazienza una strategia di governo fatta di
piccoli, ma concreti passi, frutto di complesse, ma sagge mediazioni
programmatiche. Godendo di poteri istituzionali più limitati, e usando la moral
suasion, questo hanno fatto in Italia sia Giorgio Napolitano sia Sergio
Mattarella.
Niente
di tutto questo:
nessun tavolo di trattative all’Eliseo, nessun
impegno personale del presidente nella trattativa per delineare una strategia
di gestione della politica interna e, men che meno, della crisi economica.
Con regale disimpegno, Emmanuel Macron ha
quindi bruciato come premier prima l’elegante “Michel Barnier”, durato poche
settimane, poi l’alleato “François Bayrou”, che ha resistito solo sino a quando
è stato protetto dall’impedimento costituzionale di sciogliere per un anno
l’Assemblea Nazionale, e infine “Sébastien Lecornu”, suo fidato ministro,
durato appunto dodici ore.
Tre
governi di minoranza parlamentare che, di fatto, non hanno governato, con
conseguente aggravamento della crisi economica e che hanno finito per favorire
le estreme nell’elettorato francese.
Ora lo
sbocco più probabile della crisi politica è un nuovo scioglimento del
Parlamento e nuove elezioni anticipate, con una probabile vittoria di Marine Le
Pen.
Il
paradosso è che questa probabile vittoria dell’estrema destra è favorita
proprio dal successo della prima avventura politica di Emmanuel Macron, che
vinse il suo primo mandato disgregando e togliendo milioni di voti sia ai
gollisti sia ai socialisti, a favore di un nuovo grande centro di Macron di
ispirazione liberale e progressista.
Passati
otto anni, quel progetto, che sembrava vincente ed egemonico, ma che si reggeva
tutto e solo sulle spalle di Emmanuel Macron – che si sono rivelate inadeguate
– è fallito e lascia sul terreno sei forze politiche del centro moderato e
liberale, come della sinistra riformista, ognuna delle quali raggiunge a stento
il dieci-quindici per cento e non è coalizzabile per le ragioni soggettive già
esposte.
Questa
frammentazione del quadro politico, a seguito del fallimento del progetto del
presidente, produce una polarizzazione delle estreme.
A
sinistra, l’estremismo venato di antisemitismo di “Jean-Luc Mélenchon” ha
prodotto una rottura con i socialisti e la fine dell’improbabile “Nouveau Front
Populaire”, mentre è promettente il nuovo movimento di “Raphaël Glucksmann “dalle
caratteristiche lib-lab.
A destra è egemone il “Rassemblement National
di Marine Le Pen”, che ha attirato nella sua orbita una parte dei “gollisti di
Éric Ciotti.”
Tutto
indica, quindi, che in nuove elezioni anticipate, seguite al probabile
scioglimento del Parlamento, vincerà l’estrema destra, perché è difficile
ricostituire uno sbarramento di tutte le altre forze politiche al secondo
turno, dopo che questo ha prodotto comunque un’Assemblea Nazionale
ingovernabile.
Non è
esclusa, quindi, una futura coabitazione tra “Emmanuel Macron” e “Marine Le Pen
o Jordan Bardella”.
Questo,
se Emmanuel Macron non si dimette: svolta tanto grave quanto improbabile, visto
il carattere dell’uomo.
A meno che il presidente non decida, con un
gesto clamoroso, di abbandonare l’agone politico per ripresentarsi poi alle
elezioni presidenziali del 2032, come la Costituzione gli permette, con la
speranza di vincerle contando sull’eventuale fallimento di Marine Le Pen al
potere in Francia.
Perché
Macron ha rinominato premier
Lecornu:
canto del cigno o astuzia politica?
Quotidiano.net
– Daniel Peyronel – (11 ottobre 2025) – ci dice:
Francia,
dopo una settimana rocambolesca, Emmanuel Macron ha scelto di riportare
Sébastien Lecornu a Matignon.
Una
decisione incomprensibile: per alcuni è il segno del tramonto politico del
presidente, per altri si tratta di un'ulteriore prova del suo fiuto.
Roma,
11 ottobre 2025 – Sabato scorso, Sébastien Lecornu regolava gli ultimi dettagli
prima di presentare la nuova squadra di governo ai francesi.
Il seguito è noto:
levata
di scudi generale, dimissioni di Lecornu con annessa caduta del governo più
breve della storia francese, quarantotto ore di trattative per scongiurare
nuove elezioni e una giornata di riunioni all’Eliseo per rinominare, in serata,
lo stesso Lecornu.
“Il presidente della Repubblica ha nominato
primo ministro Sébastien Lecornu e l’ha incaricato di formare un governo”,
recita il comunicato stampa dell’Eliseo, poco dopo le 22.
Una
settimana dopo, l’ex ministro della Difesa francese si ritrova quindi con lo
stesso arduo compito, ma in condizioni ancora peggiori:
il partito dei Repubblicani, la formazione di
destra guidata dall’ex ministro dell’Interno Bruno Retailleau, con cui le forze
di centro governavano nel cosiddetto “zoccolo comune”, ha annunciato che non
parteciperà al prossimo governo, promettendo solo un “sostegno testo per
testo”.
Anche
il gruppo del blocco centrista “Horizons”, fondato dall’ex premier” Édouard
Philippe”, ha lasciato planare l’incertezza sul proprio sostegno.
Senza
maggioranza, sotto la minaccia costante della sfiducia brandita dal
“Rassemblement national”, prima forza politica all’Assemblea nazionale, dalla
“France insoumise” di Mélenchon e dagli altri partiti di sinistra - che
chiedono al premier la sospensione della riforma delle pensioni per evitare la
censura - è difficile immaginare un esito diverso per il secondo governo
Lecornu.
La
solitudine del presidente.
La
decisione di Emmanuel Macron di rinominare Lecornu ha destato scalpore e
incomprensione in Francia e all’estero.
Venerdì,
nel cortile dell’Eliseo dopo due ore di riunione, la leader dei Verdi Marine
Tondelier ha parlato di un presidente sempre più isolato e arroccato sulle
proprie posizioni:
“più è solo, più si chiude nella sua idea
iniziale”.
Per
quanto responsabili anch’essi del blocco istituzionale del Paese, i partiti
rimproverano al presidente di ignorare le richieste di cambiamento dei
cittadini e di controllare il governo, influenzando la scelta dei nomi dei
ministri e ponendo troppi limiti e condizioni al premier.
“Matignon deve smettere di essere un’appendice
dell’Eliseo”, avrebbe detto “Retailleau” al presidente durante la riunione,
rinviando al mittente le critiche d’irresponsabilità di fronte alla gravità
della situazione.
Consumata
la frattura con il centrodestra, che ha comunque detto di non volere la caduta
del futuro governo, il presidente conta sul sostegno dei socialisti,
rifiutandosi però di prendere in considerazione le loro richieste.
Dopo
aver chiuso alla “tassa Zucman”, il capo dello Stato si è detto aperto a un
rinvio di un anno della riforma delle pensioni, anziché una sospensione e
un’eventuale abrogazione voluta invece dai socialisti.
La
normalità della crisi.
Se il
tasso di popolarità del presidente è ormai ai minimi storici e i margini di
manovra sono sempre più ridotti, Emmanuel Macron continua imperterrito a dirigere
il Paese come al suo primo giorno di mandato, nel 2017.
Questo perché, come sottolineano molti
analisti politici francesi, Macron è abituato a cavalcare le crisi.
Dai gilet gialli alla pandemia, dall’invasione
russa dell’Ucraina fino a oggi, il presidente sfrutta il clima di incertezza e
tensione per costringere le varie forze politiche collaborare.
La
differenza rispetto al passato però, è che la crisi politica che attraversa la
Francia è considerata opera sua da quasi tutta la classe dirigente francese,
dopo la famigerata decisione di sciogliere il parlamento a giugno 2024:
“la
lucidità e l’umiltà impongono di riconoscere che questa decisione ha creato più
instabilità che serenità.
Me ne assumo pienamente la responsabilità”,
aveva finito per ammettere il presidente nel tradizionale discorso di fine
anno.
Il
risultato ottenuto dopo questa settimana folle, in un Paese considerato ancora
fino a pochi anni fa il più stabile d’Europa, potrebbe in fin dei conti giovare
al capo dello Stato:
senza “Bruno
Retailleau “al governo, Macron toglie influenza e visibilità a uno dei
candidati in ascesa alle prossime elezioni presidenziali.
Inoltre, la decisione di “Sébastien Lecornu”
di nominare solo profili senza mire sull’Eliseo, renderà il futuro esecutivo
simile a un “governo tecnico”, con delle personalità provenienti da sensibilità
politiche diverse.
Un ulteriore modo per garantirsi il sostegno
del centrodestra e del centrosinistra, senza il rischio di sconvolgere la
politica del governo.
Al di
là delle analisi di fondo, la scelta di rinominare” Sébastien Lecornu” a “Matignon”,
è stata dettata soprattutto dall’urgenza di dotare la Francia di una legge di
bilancio entro la fine dell’anno, per non ripetere l’errore del passato, con il
rischio far esplodere i tassi d’interesse sul debito e paralizzare i servizi
pubblici, in una situazione di "shutdown" come quella che
attraversano ora gli Stati Uniti.
Il
premier potrà presentare infatti anche senza una squadra di governo la propria
bozza già pronta della manovra finanziaria questo lunedì, in modo che possa
passare al vaglio del Parlamento entro il 31 dicembre 2025.
La
Francia avrà quindi una legge di bilancio, ma forse né un premier, né un
presidente.
Nobel
Stile Pentagono: l’Occidente
Premia
la Machado per
Preparare
la Guerra.
Conoscenzealconfine.it
– (12 Ottobre 2025) - Ferdinando Pastore – ci dice:
Il
Nobel per la pace a Maria Corina Machado svela il disegno USA: legittimare un
nuovo fronte di guerra in Venezuela.
L’Occidente,
travestito da pacifista, celebra un premio che prepara l’aggressione, tra
retorica anticomunista e ritorno del fascismo globale.
Il
Nobel della Menzogna: Quando la Pace Serve a preparare la Guerra.
Il
Nobel per la “pace” assegnato a “Maria Corina Machado” assolve alla precisa
richiesta di Trump che lo avrebbe consegnato a sé stesso.
Si va oltre le intenzioni di Washington perché
con questa decisione si legittima il prossimo scenario di guerra a cui gli
Stati Uniti stanno da tempo lavorando.
Nessun
mistero sulla questione venezuelana.
Chi
parla delle pecche con cui Maduro sta gestendo il suo socialismo, mente sapendo
di mentire.
In
Venezuela gli Stati Uniti hanno bisogno di una chiusura reazionaria del sistema
perché le risorse di quel paese tornino a rappresentare un discount da
saccheggiare per ingrossare i profitti privati delle multinazionali.
In
secondo luogo gli Usa hanno la necessità di riprendere in mano le redini del
proprio cortile di casa, il Sudamerica, troppo esposto a correnti sinistre.
In quei luoghi la coscienza collettiva è
vigile nel saper concatenare dittature militari e politiche neoliberiste.
Il
Venezuela è il grande cruccio per il sistema statunitense, perché la caduta di
Maduro rappresenterebbe una grande conquista anche simbolica.
Il
“chavismo”, quel movimento di liberazione degli oppressi intriso di
bolivarismo, di teologia della liberazione, di indipendenza patriottica, di
sollevazione castrista, indusse un processo virtuoso in tutta l’America Latina
con orizzonti di nuova speranza per gli ultimi, per i contadini, per i
lavoratori.
Il
Sudamerica ha rappresentato un faro per il socialismo internazionale con la sua
declinazione populista;
un
ultimo esempio concreto di conquista dello Stato che si è diffuso, con forme
differenti dà luogo a luogo, in tutto il continente.
Con
questo premio Nobel, l’Occidente collettivo esprime, ancora una volta e ancora
di più, la sua propensione alla guerra che ormai ritiene destino ineluttabile.
Trattasi di una resa dei conti globale che non concepisce sconti, non
percepisce spazi di manovra alternativi.
E
perché la guerra sia inglobata nel buon senso comune delle società occidentali
si ricorre ancora una volta al fascismo.
Tranquilli non quello delle camicie nere a
Piazza Venezia.
Ma
quello sionista, quello dell’est Europa da celebrare perché così fermamente
anticomunista, quello sudamericano così attento al benessere delle grandi
corporations private, quello di Bruxelles con i suoi gendarmi in completo blu.
E
quello a stelle e strisce, lì dove la mentalità razzista, coloniale e imperiale
si fece Stato pochi secoli fa.
(Ferdinando
Pastore).
(kulturjam.it/in-evidenza/nobel-stile-pentagono-loccidente-premia-la-machado-per-preparare-la-guerra/).
Lo
storico piano di pace di Trump
per la
Palestina e la capitolazione
di
Israele.
Lacrunadellago.net
– (10/10/2025) – Cesare Sacchetti – ci dice:
Ora a
Gaza, i bambini festeggiano e gridano di gioia.
Per la
prima volta dal 7 ottobre del 2023, il popolo palestinese ha di fronte a sé un
futuro che non sia quello di morte e distruzione che Israele gli ha inferto da
due anni a questa parte.
Iniziò
tutto con l’attacco da parte delle milizie di Hamas che ormai può considerarsi
a tutti gli effetti come parte di un piano di Israele per iniziare la sua
genocida campagna contro Gaza e annettersi i territori della Striscia.
A
rivelarlo sono stati diversi militari israeliani che hanno confermato come
ricevettero l’ordine da parte del proprio comando di non intervenire contro
Hamas, e di lasciar passare le milizie che dovevano invadere quei confini tra i
più sorvegliati al mondo.
Hamas
“piomba” su Israele con i suoi parapendii.
L’esercito
israeliano non solo non oppose alcuna resistenza ad Hamas, ma i suoi stessi
membri piuttosto che difendere la vita dei comuni cittadini israeliani,
aprirono il fuoco contro di essi.
Le
forze armate israeliane avevano l’ordine non di proteggere i civili, ma di
sparare contro di essi.
Il
governo di Benjamin Netanyahu voleva che gli israeliani versassero il loro
tributo di sangue per consentire al suo partito di mettersi sulle tracce del
folle piano imperialista che il sionismo messianico rincorre da molto tempo,
che altro non è che la” famigerata Grande Israele”.
A
rivelarlo molti anni addietro, nel 1990, di fronte al consesso delle Nazioni
Unite fu l’ex leader dell’OLP, “Yasser Arafat”, che mostrò che il disegno di
questo impero israeliano che si estendeva per larghissime parti del Medio
Oriente, era persino presente sulle monete e sulle divise dell’esercito di
Israele.
Israele
già allora inseguiva il suo impero nella spasmodica attesa del suo “moshiach”,
una figura carismatica che secondo il sionismo un giorno guiderà lo stato di Israele
verso il dominio del mondo.
Ad
attendere questa figura sono molte sette sioniste, tra le quali la famigerata
“Chabad Lubavitch”, che ha sussurrato all’orecchio di molti presidenti degli
Stati Uniti e soprattutto a quello di Netanyahu che già da giovane aveva un
rapporto molto stretto con il suo storico leader, il rabbino “Menachem
Schneerson”.
“Menachem
Schneerson.”
“Schneerson”
disse prima di morire che dopo il governo di Netanyahu ci sarebbe stata
l’attesa manifestazione del” moshiach,” perché il rabbino sapeva che il premier
israeliano avrebbe cercato sin dal suo esordio nella politica israeliana nel
1995 di estendere i confini di Israele e di portarli verso l’annessione di
Gaza, della Giordania, del Libano, di parti dell’Egitto e persino dell’Arabia
Saudita.
La “corsa
di Bibi al potere” fu spianata dalla morte di un altro leader israeliano, il
sionista progressista, “Yitzhak Rabin”, ucciso nel 1995 da un esponente del
sionismo messianico a detta di diverse fonti israeliane sostenuto dall’”intelligence
israeliana della Shabak”.
La
morte di Rabin permette la nascita di Netanyahu che sin da quell’istante aveva
già chiaro qual era il suo fine ultimo.
Israele
doveva far nascere il suo impero, e poco importa se ciò sarebbe costato la vita
a diversi israeliani non molto appassionati da questa filosofia messianica, e
soprattutto poco importa se a pagare il prezzo sarebbero stati i morti
americani dell’11 settembre e quelli delle guerre scatenate dai guerrafondai
sionisti neocon che dominavano l’amministrazione Bush.
Nessuna
vita viene risparmiata da questo manipolo di pericolosi esponenti del sionismo
messianico che hanno continuato a seminare caos e morte nel Medio Oriente anche
negli anni successivi attraverso la creazione dell”’ISIS”, più che un gruppo
terroristico, un vero e proprio “brand di tagliagole” sostenuti sin dall’inizio
dalle monarchie del Golfo, all’epoca ancora vicine a Israele, e ovviamente
dalla stessa Israele che si è servita di tali barbari assassini per colpire
tutti coloro che erano contrati all’imperialismo israeliano.
La
fine della supremazia sionista: l’epoca di Trump.
A
mettere fine a questa continuità e a questa politica del caos permanente è
stato Donald Trump.
Sin
dai primi passi della sua parabola politica, il presidente degli Stati Uniti si
è trovato a dover fare i conti con la potente rete sionista che già nel 1963 aveva
deciso di eliminare il presidente Kennedy per la sua ferma opposizione al
programma nucleare israeliano che costituiva, e costituisce, una grave minaccia
per la pace in tutto il Medio Oriente.
Il
tributo pagato da JFK è stato elevatissimo.
Il
presidente fu ucciso sulla “Dealey Plaza di Dallas” per permettere al suo
vicepresidente “Lyndon Johnson”, partecipe della cospirazione criminale, di
salire al potere e di dare mano libera a Israele di procedere con il suo
programma nucleare e di annettere parti degli Stati arabi limitrofi, come le
alture del Golan, tuttora illegalmente occupate dallo stato ebraico dopo la
famigerata guerra dei 6 giorni del 1967.
“Lyndon
Johnson”.
Talmente
profonda era la sottomissione di Johnson a Israele che quando questa attaccò,
sempre in quell’anno, una nave americana, la “USS Liberty”, il presidente non
mosse un dito contro l’”alleato” degli Stati Uniti, e continuò fino alla fine
del suo mandato ad assicurare il suo pieno sostegno allo stato di Israele.
Trump
doveva recidere ognuno dei fili che legavano gli Stati Uniti ad Israele, ma ha
saputo farlo con abilità, astuzia e sagacia, conscio che l’intero apparato
mediatico è saldamente nelle mani della rete sionista.
Se a
parole ci sono state generiche dichiarazioni di “amicizia” nei riguardi di Tel
Aviv, nei
fatti a poco a poco Trump ha tolto allo stato ebraico l’ombrello militare
americano già a partire dal primo ritiro delle truppe americane in Siria nel
2019, fino a proseguire l’opera negli anni del suo secondo, o terzo come dice
lo stesso Trump, mandato.
Il
presidente degli Stati Uniti in questo suo mandato ha messo fuori dalla porta
l’”AIPAC”, la potentissima lobby filo-israeliana che ha deciso per decenni la
politica estera di Washington, e tagliato i ponti con i ricchissimi coniugi “Adelson”,
storici finanziatori sionisti del partito repubblicano che si sono visti
ignorati dal presidente che ha messo al primo posto gli interessi americani e
non quelli dello stato ebraico.
A Tel
Aviv, erano, e sono, a dir poco furenti.
Se a
parole Trump fa qualche dichiarazione di sostegno a Israele, nei fatti c’è una
politica estera che non va per nulla nella direzione di Israele, ma piuttosto
verso quella dei Paesi arabi.
Trump
sta mettendo in atto quello che volle e non poté fare JFK.
Kennedy
voleva inaugurare un nuovo corso di politica estera molto più vicino al mondo
arabo perché gli Stati Uniti non hanno alcun interesse a sobillare le tensioni
con i Paesi islamici, ma gli fu, come visto, impedito.
Trump
ha ripreso in mano il filo di Arianna di JFK.
Washington
sta assumendo una dimensione chiaramente più favorevole al mondo arabo, e il
primo importantissimo segnale lo si è avuto nella scorsa primavera quando il
presidente si recò a marzo in Medio Oriente, senza fermarsi a Tel Aviv, e
condannò tutta la politica estera dei falchi sionisti neocon che affermavano di
voler “esportare la democrazia” nei Paesi arabi, quando in realtà il sionismo
voleva soltanto esportare la dottrina del “regime change” per togliere di mezzo
i governi considerati avversari da Israele.
L’accordo
di pace in Palestina è il completamento di questo cammino e la capitolazione di
Israele.
Israele
due anni orsono aveva tentato il tutto per tutto attraverso le false flag del 7
ottobre del 2023 nella disperata ricerca della agognata Grande Israele, ma è
evidente che è mancato il sostegno di Washington per giungere a tale proposito, e lo stato ebraico senza l’America
è meno di una tigre di carta.
Nulla
può fare per soverchiare le forze armate o le milizie dei Paesi vicini, e se ne
è avuta, ancora una volta, una conferma quando Tel Aviv invase il Libano nel
2024 per raccogliere soltanto umiliazioni dai miliziani ben addestrati di
Hezbollah, fino alla altra folle campagna di bombardamenti contro l’Iran,
culminata in una pioggia di missili balistici iraniani che hanno superato senza
sforzo il colabrodo della contraerea israeliana, sempre più a secco da quando
gli Stati Uniti hanno interrotto i rifornimenti.
Trump
è stato molto chiaro verso Israele.
“Non
potete vincere contro il mondo intero”, e questo è un messaggio netto e
inequivocabile verso il sionismo che il presidente considera chiaramente come
una minaccia verso gli Stati Uniti ma anche per il mondo intero, perché, in
tale filosofia, come ha spiegato uno dei suoi esponenti, il ministro delle
Finanze israeliano, “Bezalel Smotrich”, chi è ebreo appartiene al “popolo
eletto”, e chi non lo è, è una sorta di essere inferiore, o un “goy” se si
vuole ricorrere alla terminologia talmudica.
A poco
a poco, con sapienza e astuzia, Donald Trump ha smontato l’apparato della
potente rete sionista, e ora si appresta a completare attraverso un altro
storico viaggio in Medio Oriente nel quale suggellerà la pace raggiunta.
Israele
così capitola.
Nella
notte, e dopo diversi rinvii per temporeggiare un po’, accetta finalmente il
piano di pace che prevede il ritiro delle sue truppe, la costituzione di una sorta di
tecnocrazia temporanea presieduta da Trump che si incaricherà di governare la
Palestina in previsione futura della costituzione di una entità statuale che il
presidente ora non vuole mettere subito sul tavolo, ma che già ventilò anni
addietro.
Muore
anche l’opposizione controllata di Hamas che Israele aveva costruito
accuratamente nel corso degli ultimi 30 anni, poiché i miliziani dovranno
abbandonare Gaza, e ora si apre un vuoto politico in Palestina che sarà
riempito probabilmente da qualcosa di non gradito allo stato ebraico.
Israele
verso la resa dei conti interna?
Nelle
aule del governo israeliano, l’atmosfera è quindi inevitabilmente depressa.
I
volti dei ministri e dei vari ufficiali governativi sono a dir poco terrei, e
prima della ratifica dell’accordo, ci sono stati durissimi scontri in seno al
gabinetto di Netanyahu.
Il
citato ministro “Smotrich” aveva fatto sapere di essere contro il piano di
pace, e assieme a lui si è unito un altro pericoloso esponente del sionismo
messianico come il ministro della Sicurezza Nazionale,” Ben Gvir”, che soltanto
due giorni prima si era recato alla moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme per
recitare i versi del Talmud nella ennesima provocazione verso quel luogo, dove
il sionismo vorrebbe ricostruire il suo Terzo Tempio, il posto nel quale un
giorno dovrebbe entrare il tanto atteso, da costoro, “moshiach”.
“Ben
Gvir” ha chiaramente detto che se Hamas non verrà smantellata, sarà lui a
smantellare il governo, una metafora per dire che se l’esecutivo israeliano non
è più in grado di far nascere la Grande Israele, l’esperienza governativa può
considerarsi quindi conclusa.
Il
governo Netanyahu, già privo della maggioranza assoluta nella Knesset, si avvia
dunque con ogni probabilità alla conclusione.
Appare
difficile decifrare ora il futuro della politica israeliana perché le fratture
e soprattutto le faide sono molte, e in questo momento i vari partiti non
sembrano avere un’idea chiara su quale corso deve seguire lo stato ebraico.
I
sionisti messianici sono ancora furenti e divisi tra di loro perché il presidente Trump ha messo il veto
sulla Grande Israele e fatto fallire il piano espansionista di Israele.
Le
opposizioni centriste e progressiste sembrano voler voltare pagina, ma non è
esattamente chiaro se saranno in grado di vincere le future elezioni e di
governare il Paese, ma soprattutto non è chiaro se sapranno trovare un
compromesso invece con il Likud e gli altri partiti del sionismo radicale.
Il
malessere scorre profondo nella società israeliana.
La
convivenza tra il talmudismo religioso e il sionismo secolare appare sempre più
complicata, e alla fine sembra che i sogni di gloria che inseguiva il Likud si
stiano per infrangere contro il muro di una guerra civile, che sotto certi
aspetti è già in essere da diverso tempo, attraverso la manifestazione di
strani attentati e sparatorie contro i civili israeliani, nemmeno rivendicate
da nessuna presunta sigla terroristica.
Israele
si ritrova al punto nel quale l’aveva lasciata Rabin prima della sua morte.
Divisa
e incapace di trovare un accordo sul futuro e sul cammino da seguire.
Se lo
stato ebraico vorrà avere qualche possibilità di vivere in un secolo ormai non
più propriamente ebraico e sionista, a differenza del XX, dovrà guardarsi
dentro e considerare la natura di uno stato che sin dalla sua creazione è stata
una entità di destabilizzazione per il Medio Oriente e il mondo intero.
Il
futuro saprà dare delle risposte più certe su quale direzione prenderà lo stato
ebraico concepito da” Theodor Herzl”, ma intanto non si può fare a meno di
notare una evidenza incontrovertibile.
Il
sionismo ha esaurito il suo potere.
Il sionismo non domina più gli Stati Uniti e
la politica internazionale.
Il
multipolarismo ha creato una dimensione nuova, nella quale non c’è più la
supremazia degli imperi ma piuttosto la parità tra gli Stati nazionali.
Se
Israele non saprà adattarsi a questa nuova realtà, difficilmente supererà la
prova del XXI secolo.
Hitler
aveva vinto
la
guerra.
Unz.com
- Hans Vogel – (8 ottobre 2025) – ci dice:
L'altro
giorno, in attesa di un volo in coincidenza a Porto, in Portogallo, ho deciso
di visitare il centro storico della città.
Fermandomi
per un caffè in un bar locale, sono rimasto sorpreso di essere assistito da
personale che si rivolgeva a me in inglese americano, nonostante avessi
effettuato l'ordine in portoghese, anche se con un accento brasiliano.
Mentre
le mie orecchie si riempivano di musica americana ritmica e senz'anima, mi
chiedevo cosa fosse successo all'Europa.
Solo
una generazione fa, i dipendenti dei bar di Porto parlavano ancora portoghese.
Inoltre, non si sarebbe stati esposti a quel tipo di rumore insopportabile,
simile al rumore dei macchinari in qualche impianto industriale, che nel mondo
di oggi passa per musica.
Ovunque
si vada oggi in Europa, la situazione è la stessa.
Il
personale parla automaticamente inglese e la "musica" è la stessa
ovunque.
I gusti e le varietà locali sono stati
spazzati via dalla spazzatura dell'industria musicale.
Se il
caffè è bevibile, ci si può considerare fortunati, perché trovare un buon caffè
in Europa oggi è difficile come lo è sempre stato negli Stati Uniti.
La
musica e il caffè sono solo due tra una pletora di fenomeni che testimoniano
fino a che punto l'Europa abbia perso la sua diversità originaria e si sia
americanizzata a un livello inimmaginabile solo pochi anni fa.
La
cosa più scioccante è il fatto che così tanti europei ora adottano
automaticamente una sorta di inglese americano di seconda categoria, senza mai
preoccuparsi di imparare altre lingue europee oltre a quella ufficiale del
paese in cui sono nati.
Come
gli indiani, i sudafricani, i tedeschi e i francesi di un tempo, avrebbero
potuto sviluppare la loro versione dell'inglese.
Perché
allora attenersi all'inglese americano?
Perché
l'autoumiliazione culturale?
La
risposta non è difficile da trovare:
perché
l'Europa è sotto l'occupazione americana da quasi un secolo.
Con
essa è arrivata una dominazione culturale a tutto spettro.
Nel
1945, i film americani furono imposti a un pubblico desideroso di
intrattenimento e desideroso di dimenticare tutti i traumi della guerra.
La
danza americana e la musica jazz, seguite dalla musica hawaiana e rock,
trovarono un orecchio entusiasta tra il pubblico europeo.
Così, i film e la musica leggera hanno gettato
le basi per l'ulteriore anglicizzazione delle varie culture europee.
Oggi,
il processo è stato quasi completato, poiché la maggior parte degli europei ha
adottato la lingua e la cultura americana.
Non
c'è da stupirsi che amino anche consumare fast food americani e caffè e bevande
in stile americano.
Mentre
gli europei possono ancora gustare le loro specialità tradizionali locali e
nazionali (cibo, bevande, intrattenimento e musica), hanno dimenticato che
anche i loro vicini europei hanno cibo, bevande, intrattenimento e musica che
potrebbe valere la pena conoscere.
L'Europa è stata ricoperta da un tappeto
culturale americano che sta di fatto soffocando la cultura autoctona europea,
ricca e diversificata a un livello che non si trova da nessun'altra parte.
Cos'è
successo? Come mai?
Prima
di rispondere a queste domande, c'è dell'altro.
L'Europa
di oggi è molto diversa dall'Europa di un tempo, che è particolarmente evidente
nelle grandi città e sempre più in quelle più piccole.
Parigi, Berlino, Vienna, Bruxelles, Amsterdam,
Milano e migliaia di altre città sono invase da barconi carichi di
"richiedenti asilo" provenienti dal Nord Africa, dal Medio Oriente e
dall'Afghanistan, la maggior parte dei quali giovani maschi e musulmani.
Da
quando Angela Merkel ha aperto le frontiere nel 2015, più di dieci milioni di
loro sono arrivati in Germania.
Nello stesso periodo, 1,5 milioni di persone
sono arrivate nei Paesi Bassi.
Ora ci
sono decine di milioni di musulmani nell'UE, soprattutto in Germania e in
Francia.
Anche
in Spagna, che ha lottato per secoli per cacciarli, oggi ci sono quasi due
milioni di musulmani.
El Cid
e tutti gli altri eroi della “Reconquista” hanno appena sprecato il loro sudore
e il loro sangue.
A
Vienna, uno dei centri della cultura tradizionale europea, dove nel 1683 furono
fermati gli invasori musulmani, oggi il 40% della popolazione è musulmana.
Molte scuole del centro storico sono ormai
quasi esclusivamente studenti stranieri (per lo più musulmani), pochi dei quali
sanno parlare e capire (figuriamoci leggere o scrivere) anche un minimo di
tedesco.
La
maggior parte non vuole nemmeno leggere le lingue europee, ma spesso legge la
propria lingua, compreso l'arabo coranico.
Nei Paesi Bassi, le scuole di formazione per
insegnanti hanno ora per lo più studenti che sanno a malapena parlare olandese.
Intendiamoci, quegli studenti insegneranno
presto ai giovani musulmani del Medio Oriente e del Nord Africa.
Sicuramente,
questo è un modo molto efficace per uccidere una lingua e una cultura
nazionale!
Essendo
l'etnia più numerosa d'Europa e l'economia collettiva più forte e dinamica, i
tedeschi hanno dovuto soffrire di più a causa di tutti questi cercatori di
fortuna. Durante gli anni '80, quando la Germania Ovest era finalmente riuscita
a riprendersi dopo la guerra e a raggiungere un livello soddisfacente di
ricchezza e benessere, la città di Francoforte cadde nelle mani dei sindacati
criminali jugoslavi e israeliani.
Oggi, l'area della Ruhr, un tempo potenza
economica del paese, ha saldamente il controllo delle famiglie criminali
libanesi e siriane rivali, mentre la polizia e le autorità giudiziarie sono
completamente impotenti.
Altrove
in Germania e Austria, in Svezia, Francia, Belgio, Paesi Bassi e persino in
Svizzera, intere sezioni in molte città sono diventate praticamente zone
vietate.
Nella
maggior parte delle città europee, le donne non sono più al sicuro per strada
dopo il tramonto, essendo diventate il bersaglio preferenziale della feccia
importata che disprezza il femminismo e odia le libertà in stile occidentale.
Se non
è impotente, la polizia ha l'ordine di lasciare in pace i molestatori e gli
stupratori e di essere riluttante a trattare qualsiasi accusa e denuncia.
In
tutta l'Europa, le generazioni più giovani sembrano aver perso la fiducia nel
futuro.
Molti giovani adulti non hanno altra scelta se
non quella di rimanere a vivere con i genitori perché non riescono a trovare un
lavoro decente e un compagno adatto.
I tassi di natalità sono diminuiti
drasticamente, la maggior parte delle giovani coppie non può più permettersi di
comprare una casa o di trovare una casa con un affitto decente.
Le donne sposate devono trovare un lavoro
perché le famiglie non possono più vivere con un solo stipendio.
La classe operaia si sta impoverendo di giorno
in giorno e le classi medie stanno scomparendo.
L'Europa
sta rapidamente diventando una terra desolata deindustrializzata costellata di
giganteschi mulini a vento che uccidono l'ambiente, la fauna selvatica e la
vita degli insetti.
Basta
guardare il modo in cui si vestono i nativi europei contemporanei: molte, tra
cui uomini e donne anziani, si sono tatuate e hanno persino forato orecchie,
naso, labbra, sopracciglia, guance e ombelico.
Un
numero crescente di persone è grasso in modo sconveniente, ma sembra esserne
orgoglioso, mostrando il proprio grasso al mondo, confezionato in indumenti
attillati.
Altri
sembrano pensare che i capelli tinti di rosa, malva, blu, verde o arancione
brillante siano un segno di gusto raffinato.
Proprio
mentre aspetti la tua coincidenza in qualche struttura di trasporto pubblico,
puoi vedere tutte quelle persone che passano.
Le uniche persone che tendono a vestirsi più o
meno decentemente sono i tanti alieni sottoesposti intervallati dai nativi.
Sembra
un po' un fenomeno da baraccone o, nel migliore dei casi, una sfilata di
carnevale, non quello che è in realtà:
uno
spaccato della moderna società europea.
A
quanto pare, l'europeo medio ha perso la sua autostima e la fiducia nel futuro.
Perché?
Cosa sta succedendo?
Quindi
quale potrebbe essere la risposta alle domande di cui sopra?
In
realtà, ci sono diverse risposte, ma la più plausibile è un po' controversa.
Fondamentalmente, è perché Adolf Hitler ha perso la guerra.
La
sconfitta divenne evidente solo verso la fine della guerra.
Per molto tempo, non sembrò che Hitler avrebbe
perso la guerra che non aveva nemmeno iniziato.
Godendo
di un'enorme popolarità in Germania da quando salì al potere nel 1933, Hitler
era ancora sostenuto da una vasta se non maggiore maggioranza nel 1939. Durante
le fasi iniziali di quella che è stata chiamata Seconda Guerra Mondiale, quando
gli eserciti tedeschi invasero un paese dopo l'altro, la popolarità di Hitler
crebbe ancora di più.
Da
quei giorni, solo pochissimi politici al mondo si sono avvicinati a raggiungere
i tassi di approvazione di Hitler tra la fine degli anni '30 e l'inizio degli
anni '40. Anche nelle nazioni sconfitte e occupate dalla Wehrmacht, la
popolazione locale rispettava e ammirava la Germania, semplicemente perché i
soldati si comportavano molto bene, erano di bell'aspetto ed estremamente
amichevoli.
A quei tempi sembrava proprio che il futuro
dell'Europa sarebbe stato quello della Germania.
La
popolarità di Hitler e della Germania in Europa raggiunse l'apice nell'estate
del 1941, quando l'esercito tedesco invase l'Unione Sovietica.
Da
quando l'ex generale dell'esercito della Germania Est “Bernd Schwipper”
pubblicò la sua documentatissima monografia sull' “Operazione Barbarossa”,
l'invasione tedesca, non c'è dubbio che, ordinandola, Hitler batté Stalin.
Interpretando
una ricchezza di fonti originali dal punto di vista della scienza militare, “Schwipper”
dimostra al di là di ogni dubbio che Stalin stava progettando di invadere la
Germania nel luglio 1941.
Sarebbe
stata una morte certa per la cultura europea se Stalin fosse stato in grado di
eseguire il suo piano.
Allo stesso tempo, spiega perché così tanti
europei si sono allineati con i tedeschi quando hanno impedito che ciò
accadesse invadendo per primi.
Potrebbero aver avuto dei ripensamenti sul
nazionalsocialismo, ma l'ultima cosa che desideravano era vivere sotto il
comunismo.
Da
quando i bolscevichi organizzarono il loro colpo di stato nel 1917, in un primo
passo verso il piano globalista per il completo dominio del mondo, gli europei
erano attanagliati dalla paura.
Nella
maggior parte dei trattati storici, si dice che questa paura deriva dalla
ristrettezza mentale piccolo-borghese.
Le classi medie hanno semplicemente respinto
le legittime richieste della classe operaia.
Tuttavia,
il sostegno in Europa alla Germania dopo il giugno 1941 non si limitò alla
classe media.
In Francia, Belgio, Paesi Bassi, nelle
repubbliche baltiche, nei Balcani e in Scandinavia, giovani di tutto lo spettro
sociale si affrettarono a presentarsi per il servizio nell'esercito tedesco, in
particolare nelle SS.
C'erano
più europei che si arruolavano nelle SS e nella Wehrmacht di quanti ce ne
fossero che si arruolavano in unità simili che facevano parte o combattevano
insieme alle forze armate statunitensi e britanniche.
In
effetti, essendo il servizio militare volontario l'ultima prova di lealtà, fino
al 1945 gli europei erano più filo-tedeschi che filo-americani o filo-inglesi.
Il
sostegno alla Germania si allargò e divenne più solido nel 1943 e nel 1944,
quando la RAF e l'USAAF iniziarono a bombardare le città europee.
Non sono state prese di mira solo le città
tedesche, ma anche quelle dei Paesi Bassi, del Belgio, della Francia e
dell'Italia.
Non va
dimenticato che non solo milioni di civili tedeschi furono uccisi dai
bombardamenti aerei alleati, ma anche centinaia di migliaia di civili francesi,
italiani, olandesi e belgi.
In
altre parole, le forze aeree alleate stavano conducendo una guerra non solo
contro il popolo tedesco, ma contro tutti gli europei nel loro raggio d'azione.
Quando
i nazionalsocialisti governarono la Germania (1933-39), la crescita economica
fu impressionante, permettendo alla nazione di risalire dal profondo abisso
economico in cui era precipitata, in gran parte a causa dei banchieri
dell'Anglosfera.
Durante questo periodo di ripresa, alcune
materie prime sono rimaste scarse e costose.
Eppure
c'erano molti lavori ben pagati.
Le
donne sposate non dovevano trovare un lavoro, perché un solo stipendio poteva
ancora sostenere una famiglia.
Gli
alloggi erano per lo più sufficienti e le strade erano sicure.
In questo modo siamo stati soddisfatti della
richiesta di base per la maggior parte delle persone.
Quando
le forze armate tedesche occuparono gran parte dell'Europa all'inizio del 1941,
circa 60 milioni di europei erano stati portati sotto il diretto dominio
tedesco, per un totale di 150 milioni di persone, tutte con lo stesso tenore di
vita tedesco.
Gli
alleati tedeschi includevano Francia, Italia, Spagna, Ungheria, Slovacchia,
Croazia, Romania, Bulgaria e Finlandia (insieme quasi 150 milioni), Svezia,
Svizzera e Portogallo (per un totale di quasi 20 milioni) erano neutrali, ma
allo stesso tempo importanti alleati economici tedeschi che fornivano materie
prime, servizi e prodotti vitali.
In
altre parole, a parte i neutrali, nell'estate del 1941 solo i russi, i piccoli
russi (ucraini), i russi bianchi, i lituani, i lettoni e gli estoni non erano
ancora formalmente alleati con la Germania.
Quindi, senza dubbio, la maggior parte degli
europei era con Hitler.
Se non
erano pro-Hitler, erano almeno filo-tedeschi, se non altro perché la Germania
era la fonte della maggior parte dello sfarzoso intrattenimento contemporaneo.
I film tedeschi erano molto ben fatti, molto
divertenti e si rivolgevano a un vasto pubblico.
Le band tedesche erano popolari ovunque e
musicisti e artisti provenienti da tutta Europa si riversavano a Berlino per
registrare e apparire in film e trasmissioni.
La
leadership tedesca offriva anche maggiori opportunità di mercato per la cultura
popolare europea nel suo complesso.
Bruxelles
e Parigi divennero punti caldi per una distinta forma europea di musica jazz,
mentre Budapest, Praga, Barcellona, Copenaghen, Zurigo e Stoccolma si
svilupparono anch'esse in vivaci centri per la musica leggera e il jazz.
L'occupazione tedesca si rivelò un periodo di massimo splendore per l'industria
cinematografica francese, e i film francesi erano popolari anche altrove
nell'Europa occupata dai tedeschi.
Anche
la letteratura francese fiorì e in tutta Europa scrittori e poeti continuano a
produrre opere di alta qualità, come lo scrittore italiano Curzio Malaparte, il
cui resoconto personale degli anni della guerra, Kaputt, è un capolavoro ancora
poco apprezzato nell'Anglosfera.
Le
narrazioni standard del dopoguerra generalmente travisano o distorcono alcuni
fatti storici chiave, uno di questi è che Hitler era un pazzo bellicoso e che
fu lui a iniziare la Seconda Guerra Mondiale.
Hitler
non voleva la guerra, men che meno con l'Inghilterra, e quasi nessuno oggi sa
che dopo lo scoppio della guerra, arrivò a una cinquantina di volte con offerte
per un accordo di pace.
Piuttosto, Winston Churchill a Londra e
Roosevelt a Washington DC erano decisi a fare una guerra con la Germania.
Naturalmente
Hitler è particolarmente diffamato per aver presieduto al cosiddetto olocausto,
l'omicidio in massa degli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale.
Dal
momento che questo olocausto è il fondamento stesso su cui è stato creato lo
Stato di Israele nel 1948, è per una di quelle ironiche stranezze della storia
– come risultato dell'attuale genocidio israeliano a Gaza – che l'olocausto non
può più essere considerato un evento così unico nella storia del mondo.
Chiunque
voglia condannare Hitler per l'olocausto, dovrebbe condannare anche il primo
ministro israeliano Bibi Netanyahu.
Per dirla in modo diverso, con le sue azioni,
Netanyahu ha contribuito molto a far apparire Hitler meno del mostro vile che è
stato fatto apparire nella narrativa storica prevalente del dopoguerra.
Inoltre,
nel confronto agli organizzatori e agli esecutori del “Grande Spettacolo del
Covid”, che ha portato alla morte di milioni di persone a causa di un germe
ingegnerizzato e di almeno venti milioni a causa delle "vaccinazioni"
contro quel germe (con migliaia di persone in più che muoiono ogni giorno per
le sue conseguenze), Hitler sembra nel migliore dei casi un dilettante ingenuo.
Cioè, se è veramente responsabile di tutte le
morti di cui è imputato.
All'improvviso,
l'ampio sostegno popolare di cui Hitler godeva sia tra i tedeschi che tra gli
europei sta diventando comprensibile.
Questo
stesso sostegno potrebbe essere precisamente la ragione della coerente,
persistente e totale denigrazione di Hitler dopo il 1945.
I
politici del dopoguerra si resero conto che sarebbe stato praticamente
impossibile ottenere un'accettazione popolare, anche minimamente simile, a
quella di cui godeva Hitler.
Forse il generale De Gaulle in Francia ci è
andato vicino, ma è per questo che i signori americani dell'Europa lo hanno
eliminato nella rivoluzione colorata del 1968.
Il politico più popolare del Belgio,” Léon
Degelle”, fu esiliato e gli fu impedito di tornare, mentre in Gran Bretagna “Oswald
Mosley” fu ostacolato in ogni modo immaginabile.
Nel
2002 il politico olandese “Pim Fortuyn “è stato assassinato dal governo, come “Jörg
Haider” nel 2008 in Austria.
Invariabilmente
bollati come "fascisti" (e Mosley era in effetti), "estremisti
di destra" o "populisti" (un termine senza senso coniato dai
praticanti della pseudoscienza chiamata "scienza politica"), questi
politici avevano programmi che andavano a beneficio del paese e del popolo in
generale, proprio come facevano i nazionalsocialisti.
Più specificamente, miravano a ridurre il
potere delle banche e la loro morsa sull'economia e sulla società.
Con il
governo globalista degli Stati Uniti e le grandi banche che dettavano legge in
Europa dopo il 1945, non c'era, naturalmente, spazio per il tipo di politiche
economiche messe in pratica per la prima volta da Hitler.
Allo
stesso tempo, significava che anche le politiche sociali ampiamente benefiche
erano un anatema.
Tuttavia, durante la cosiddetta Guerra Fredda
si è ritenuto necessario gettare un po' di ossa alla classe operaia e istituire
quello che è stato chiamato uno stato sociale nella parte dell'Europa sotto
occupazione americana.
In caso contrario, i lavoratori locali
potrebbero diventare comunisti e causare problemi troppo complessi e troppo
costosi da risolvere.
Non
sorprende che, dopo la caduta della cortina di ferro nel 1991, lo stato sociale
europeo sia stato smantellato pezzo per pezzo.
La
situazione economica, sociale e politica dell'Europa di oggi è diametralmente
opposta a quella di Adolf Hitler.
Voleva
un'Europa composta da entità politiche autonome, su base etnica, che lavoravano
insieme lungo linee politiche parallele e con valori fondamentali comuni, verso
obiettivi condivisi.
Un po'
quello che De Gaulle una volta chiamava "L'Europe des patries", che
si estendeva dall'Atlantico agli Urali.
Se la
Germania non fosse stata sconfitta nel 1945, l'Europa sarebbe stata un luogo
radicalmente diverso da quello che è oggi.
Le
donne sarebbero state rispettate e incoraggiate a fare le casalinghe e le madri
a tempo pieno.
Sarebbero
stati in grado di uscire indisturbati, anche dopo il tramonto.
Le scuole avrebbero impartito un'istruzione
reale e utile, invece di fare solo il lavaggio del cervello ai bambini con la
follia sveglia, di genere e climatica.
L'insegnamento
di materie reali non sarebbe stato ostacolato da folle di giovani stranieri
incapaci di comprendere ed esprimersi correttamente nella lingua della nazione
ospitante.
I treni sarebbero puntuali e, nel complesso,
il trasporto pubblico funzionerebbe correttamente.
L'industria prospererebbe e le condizioni di
lavoro sarebbero le più pulite, sane e sicure possibili.
I pensionati sarebbero rispettati e godrebbero
di pensioni dignitose.
La riduzione sarebbe trascurabile e la natura
e l'ambiente sarebbero tutelati attraverso una legislazione efficiente.
Si
potrebbe continuare all'infinito a nominare tutte le cose che sarebbero state
migliori o addirittura grandi se Hitler avesse vinto la guerra.
Ma
sarebbe anche deprimente. Tutto quello che possiamo davvero fare è respirare
profondamente, sospirare e decidere di disfare ciò che i globalisti hanno fatto
all'Europa.
Il
finto piano di
pace
di Trump.
Unz.com
- Chris Hedges – (11 ottobre 2025) – ci dice:
Non
mancano piani di pace falliti nella Palestina occupata, tutti caratterizzati da
fasi e tempistiche dettagliate, risalenti alla presidenza di Jimmy Carter.
Finiscono
tutti allo stesso modo.
Israele ottiene inizialmente ciò che vuole –
nell'ultimo caso, il rilascio degli ostaggi israeliani rimasti – mentre ignora
e viola ogni altra fase fino a quando non riprende gli attacchi contro il
popolo palestinese.
È un
gioco sadico. Una giostra di morte.
Questo cessate il fuoco, come quelli del
passato, è una pausa pubblicitaria.
Un
momento in cui al condannato è permesso fumare una sigaretta prima di essere
ucciso a colpi di pistola.
Una
volta liberati gli ostaggi israeliani, il genocidio continuerà.
Non so
quanto presto.
Speriamo
che il massacro di massa venga ritardato di almeno qualche settimana.
Ma una
pausa nel genocidio è il massimo che possiamo aspettarci.
Israele
è sul punto di svuotare Gaza, che è stata praticamente annientata da due anni
di bombardamenti incessanti.
Non ha
intenzione di fermarsi.
Questo
è il culmine del sogno sionista.
Gli
Stati Uniti, che hanno fornito a Israele la sbalorditiva cifra di 22 miliardi
di dollari in aiuti militari dal 7 ottobre 2023, non chiuderanno il loro
oleodotto, l'unico strumento che potrebbe fermare il genocidio.
Israele,
come sempre, darà la colpa ad Hamas e ai palestinesi per non aver rispettato
l'accordo, con ogni probabilità un rifiuto – vero o falso – di disarmare, come
previsto dalla proposta.
Washington,
condannando la presunta violazione di Hamas, darà a Israele il via libera per
continuare il suo genocidio, realizzando la fantasia di Trump di una riviera di
Gaza e di una "zona economica speciale", con il suo trasferimento
"volontario" dei palestinesi in cambio di token digitali.
Tra le
miriadi di piani di pace elaborati nel corso dei decenni, quello attuale è il
meno serio.
A
parte la richiesta che Hamas rilasci gli ostaggi entro 72 ore dall'inizio del
cessate il fuoco, manca di dettagli e di tempistiche imposte.
È pieno di clausole che consentono a Israele
di abrogare l'accordo.
Ed è proprio questo il punto.
Non è
concepito per essere una via praticabile verso la pace, cosa che la maggior
parte dei leader israeliani comprende.
Il
quotidiano israeliano più diffuso, “Israel Hayom”W, fondato dal defunto magnate
dei casinò “Sheldon Adelson” per fungere da portavoce del Primo Ministro
Benjamin Netanyahu e da paladino del sionismo messianico, ha invitato i suoi
lettori a non preoccuparsi del piano Trump perché è solo "retorica".
Israele,
in un esempio della proposta, "non tornerà nelle aree da cui si è
ritirato, finché Hamas applicherà pienamente l'accordo".
Chi
decide se Hamas ha "pienamente attuato" l'accordo? Israele.
C'è qualcuno che crede nella buona fede di
Israele?
Ci si
può fidare di Israele come arbitro obiettivo dell'accordo?
Se
Hamas – demonizzato come gruppo terroristico – si oppone, qualcuno lo
ascolterà?
Come è
possibile che una proposta di pace ignori il parere consultivo della “Corte
internazionale di giustizia del luglio 2024” , che ha ribadito che
l'occupazione israeliana è illegale e deve cessare?
Come
non menzionare il diritto dei palestinesi all'auto
determinazione?
Perché
ci si aspetta che i palestinesi, che hanno diritto, secondo il diritto
internazionale, alla lotta armata contro una potenza occupante, si disarmino,
mentre Israele, la forza occupante illegalmente, non lo fa?
Con
quale autorità gli Stati Uniti possono istituire un "governo temporaneo di
transizione" – il cosiddetto "Consiglio di Pace" di Trump e Tony
Blair – mettendo da parte il diritto palestinese all'autodeterminazione?
Chi ha
dato agli Stati Uniti l'autorità di inviare a Gaza una "Forza
Internazionale di Stabilizzazione", un termine educato per l'occupazione
straniera?
Come
si suppone che i palestinesi si riconcilino con l'accettazione di una
"barriera di sicurezza" israeliana ai confini di Gaza, la conferma
che l'occupazione continuerà?
Come
può una proposta ignorare il genocidio al rallentatore e l'annessione della
Cisgiordania?
Perché
Israele, che ha distrutto Gaza, non è tenuto a pagare le riparazioni?
Cosa
dovrebbero pensare i palestinesi della richiesta contenuta nella proposta di
una popolazione di Gaza "deradicalizzata"?
Come
ci si aspetta che ciò venga realizzato?
Campi
di rieducazione? Censura generalizzata?
Riscrittura
del curriculum scolastico?
Arresto degli imam colpevoli nelle moschee?
E che
dire dell'affrontare la retorica incendiaria usata abitualmente dai leader
israeliani che descrivono i palestinesi come " animali umani " e i
loro figli come " piccoli serpenti "?
"Tutti gli abitanti di Gaza e ogni
bambino di Gaza dovrebbero morire di fame", ha annunciato il rabbino
israeliano Ronen Shaulov .
"Non ho pietà per coloro che, tra qualche
anno, cresceranno e non avranno pietà per noi.
Solo
una stupida quinta colonna, un odiatore di Israele, ha pietà per i futuri
terroristi, anche se oggi sono ancora giovani e affamati.
Spero
che possano morire di fame, e se qualcuno ha un problema con quello che ho
detto, è un problema suo".
Le
violazioni degli accordi di pace da parte di Israele hanno precedenti storici.
Gli
accordi di Camp David, firmati nel 1978 dal presidente egiziano Anwar Sadat e dal
primo ministro israeliano Menachem Begin, senza la partecipazione
dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP), portarono al
trattato di pace tra Egitto e Israele del 1979, che normalizzò le relazioni
diplomatiche tra Israele ed Egitto.
Le
fasi successive degli accordi di Camp David, che includevano la promessa da
parte di Israele di risolvere la questione palestinese insieme a Giordania ed
Egitto, di consentire l'autogoverno palestinese in Cisgiordania e a Gaza entro
cinque anni e di porre fine alla costruzione di colonie israeliane in
Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, non furono mai attuate.
Gli
Accordi di Oslo del 1993, firmati nel 1993, videro l'OLP riconoscere il diritto
di Israele all'esistenza e Israele riconoscere l'OLP come legittima
rappresentante del popolo palestinese.
Tuttavia,
ciò che seguì fu la perdita di potere dell'OLP e la sua trasformazione in una
forza di polizia coloniale.
Gli Accordi di Oslo II, firmati nel 1995,
descrissero dettagliatamente il processo verso la pace e la creazione di uno
Stato palestinese.
Ma
anch'essi non ebbero successo.
Stabilirono che qualsiasi discussione sugli
"insediamenti" ebraici illegali sarebbe stata rinviata fino ai
colloqui sullo status "definitivo".
A quel
punto, il ritiro militare israeliano dalla Cisgiordania occupata avrebbe dovuto
essere completato.
L'autorità
di governo era pronta a essere trasferita da Israele all'Autorità Nazionale
Palestinese, presumibilmente temporanea. Invece, la Cisgiordania fu divisa
nelle Aree A, B e C.
L'Autorità
Nazionale Palestinese aveva un'autorità limitata nelle Aree A e B, mentre
Israele controllava tutta l'Area C, oltre il 60% della Cisgiordania.
Il
diritto dei rifugiati palestinesi a tornare nelle terre storiche che i coloni
ebrei avevano loro sottratto nel 1948, quando fu creato Israele – un diritto
sancito dal diritto internazionale – fu rinunciato dal leader dell'OLP Yasser
Arafat.
Ciò
alienò immediatamente molti palestinesi, soprattutto quelli di Gaza, dove il
75% è costituito da rifugiati o discendenti di rifugiati.
Di
conseguenza, molti palestinesi abbandonarono l'OLP in favore di Hamas.
Edward Said definì gli Accordi di Oslo
"uno strumento di resa palestinese, una Versailles palestinese" e
criticò aspramente Arafat definendolo "il Pétain dei palestinesi".
I
ritiri militari israeliani previsti dagli accordi di Oslo non hanno mai avuto
luogo. Al momento della firma degli accordi di Oslo, in Cisgiordania c'erano
circa 250.000 coloni ebrei. Oggi il loro numero è aumentato ad almeno 700.000.
Il
giornalista “Robert Fisk” ha definito Oslo "una farsa, una menzogna, un
trucco per indurre Arafat e l'OLP ad abbandonare tutto ciò che avevano cercato
e per cui avevano lottato per oltre un quarto di secolo, un metodo per creare
false speranze al fine di evirare l'aspirazione allo Stato".
Israele
ha rotto unilateralmente l'ultimo cessate il fuoco, durato due mesi, il 18
marzo di quest'anno, lanciando attacchi aerei a sorpresa su Gaza. L'ufficio di
Netanyahu ha affermato che la ripresa della campagna militare era una risposta
al rifiuto di Hamas di rilasciare gli ostaggi, al rifiuto delle proposte di
estensione del cessate il fuoco e ai suoi tentativi di riarmo.
Israele ha ucciso più di 400 persone
nell'assalto iniziale notturno e ne ha ferite oltre 500, massacrando e ferendo
persone nel sonno.
L'attacco
ha fatto naufragare la seconda fase dell'accordo, che avrebbe visto Hamas
rilasciare gli ostaggi maschi ancora in vita, sia civili che soldati, in cambio
di uno scambio di prigionieri palestinesi e dell'istituzione di un cessate il
fuoco permanente, insieme alla successiva revoca del blocco israeliano su Gaza.
Israele
ha condotto attacchi omicidi a Gaza per decenni, chiamando cinicamente il
bombardamento "falciare il prato".
Nessun accordo di pace o di cessate il fuoco
si è mai messo in mezzo. Questo non farà eccezione.
Questa
sanguinosa saga non è finita. Gli obiettivi di Israele rimangono invariati:
l'espropriazione e la cancellazione dei palestinesi dalla loro terra.
L'unica
pace che Israele intende offrire ai palestinesi è la pace della tomba.
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