Lo smartphone può essere una droga?

 

Lo smartphone può essere una droga?

 

 

Il cellulare? Dà dipendenza come una droga. Lo studio: «Se si spegne lo smartphone per 72 ore il cervello soffre di astinenza».

Ilmessaggero.it – (12 marzo 2025) – Prof. Giulio Maira – Redazione - ci dice:

(Professore di Neurochirurgia Humanitas, Milano;

(Presidente Fondazione Atena Onlus, Roma)

 

Lo studio dell'Università di Heidelbergh.

Di dipendenze si parla spesso, ma il problema è così attuale e serio che ogni nuova informazione può essere utile per capire meglio una delle problematiche più critiche del mondo in cui viviamo.

Tutti noi siamo strettamente legati ai nostri smartphone, anche se si parla spesso dei rischi del loro uso eccessivo e del loro impatto sulla nostra psiche.

 

I TEST.

Per saperne di più, Schmitgen e colleghi dell'Università di Heidelbergh, hanno chiesto a dei volontari, di età fra i 18 e i 30 anni, di sospendere l'uso dello smartphone e sottoporsi a dei test.

Studiando le loro attività cerebrali con una risonanza magnetica, hanno visto che rinunciare allo smartphone, anche per solo 72 ore, attivava i recettori delle dipendenze, come succede con l'astinenza da tabacco, droghe e alcol.

Agli stessi volontari venivano poi mostrate immagini varie, come fiori o barche; se presentate su uno smartphone, esse attivavano alcune parti del cervello collegate al meccanismo della ricompensa.

Il cellulare, insomma, si comportava come se fosse una droga.

LE RISPOSTE -APPROFONDIMENTI.

In un altro studio di qualche anno fa, “Ward” e collaboratori dell'Università del Texas, hanno sottoposto dei volontari a una serie di test cognitivi associati a localizzazioni variabili del loro cellulare;

per alcuni questo veniva lasciato su un tavolo, per altri in una tasca o in una borsa, per altri in un'altra stanza.

 

Al termine dei vari test si è avuto un esito cognitivo migliore se lo smartphone era in una stanza separata, con un decrescere progressivo delle risposte in relazione alla sua accessibilità.

In pratica, indipendentemente dal fatto che fosse acceso o spento, quanto più lo smartphone era vicino e individuabile, tanto più le capacità cognitive diminuivano.

LE RISORSE.

La semplice presenza apprezzabile era sufficiente a spegnere, almeno parzialmente, il cervello, non perché si pensasse coscientemente allo smartphone, ma il semplice fatto di percepirne la presenza attivava il cosiddetto "brain drain", un processo di riduzione delle risorse cognitive, limitando così l'abilità di una persona a focalizzarsi sulle attività mentali richieste dai test.

 Un altro dato importante era che, se i partecipanti al sondaggio si astenevano dall'usare internet, limitandosi solo a chiamate e messaggi, evidenziavano miglioramenti significativi nell'attenzione, l'ansia diminuiva e la capacità di concentrazione aumentava.

LE ABILITÀ.

I risultati di questi test ci dicono che lo smartphone, per quanto utile, certamente limita le nostre funzioni e abilità cognitive.

Tutto questo può avere ricadute sull'apprendimento scolastico.

Un consiglio per tutti: spegniamolo di tanto in tanto il nostro smartphone, come un digiuno a intermittenza, e dedichiamo un po' di tempo alla lettura di qualche pagina di un libro.

Il cervello ne trarrà certamente un grande vantaggio.

(Professore di Neurochirurgia Humanitas, Milano.)

“Presidente Fondazione Atena Onlus, Roma.)

 

 

 

Knesset, il Monologo di Trump

Interrotto dal Grido di Due Parlamentari:

“Riconoscete la Palestina.”

Conoscenzealconfine.it – (14 Ottobre 2025) - Francesco Fustaneo – ci dice:

 

Mentre il tycoon rivendicava il suo ruolo nella tregua – da lui definita “pace” – trasformando la politica in una soap opera familiare (“Ivanka si è convertita per amore di Israele”), “Ayman Odeh” e “Ofer Kassif” hanno riportato tutti alla realtà: quella del “genocidio” e dell’”apartheid”.

 

Durante il suo discorso alla Knesset, il parlamento israeliano, Donald Trump ha proclamato al mondo il suo ruolo nell’accordo di “pace”, intrecciando armi, affari e racconti personali, arrivando persino a strumentalizzare la conversione all’ebraismo della figlia Ivanka come prova del suo “amore per Israele”.

 In quel momento, due parlamentari hanno riportato l’attenzione della platea alla realtà dei fatti.

 

“Ayman Odeh”, arabo-israeliano, leader del partito “Hadash” e della “Lista Comune”, e “Ofer Kassif”, deputato ebreo dello stesso partito, hanno compiuto un gesto di disobbedienza politica che, nel contesto israeliano, assume un peso ancora maggiore rispetto a qualsiasi altro analogo fatto in un parlamento occidentale.

Alzandosi in piedi, hanno sventolato davanti al presidente statunitense e a tutto l’emiciclo un cartello con la scritta “Riconoscete la Palestina”, mostrando anche fogli con la parola “genocidio”: frasi inaccettabili per l’esecutivo israeliano e la propaganda al suo seguito.

 

La reazione è stata immediata:

 le forze di sicurezza li hanno allontanati fisicamente dall’aula.

 La loro colpa?

Aver ricordato l’occupazione, la pulizia etnica a Gaza, mentre Trump elogiava “la pace attraverso la forza” e si vantava delle armi fornite a Israele – “alcune delle quali non avevo mai sentito nominare” – definendo il massacro a Gaza un “incredibile trionfo”.

 

La risposta di Trump, una volta rimossi i dissidenti, è stata rivelatrice: “E’ stato molto efficiente...”

Un’ammissione perfetta: la macchina del potere deve scorrere senza intoppi, cancellando ogni forma di dissenso.

Da un punto di vista mediatico, invece è stato un colpo inferto all’ingranaggio celebrativo del tycoon e, di riflesso, alle autorità israeliane.

In quel momento, due rappresentazioni della realtà – antitetiche – si sono guardate in faccia:

da una parte, quella di Trump e Netanyahu, fatta di aneddoti familiari, accordi normalizzatori e arsenali militari;

 dall’altra, quella di “Odeh” e “Kassif”, che con un semplice cartello hanno urlato la verità di un popolo umiliato, quello palestinese, che da decenni subisce apartheid, soprusi di ogni tipo, ormai stremato da mesi di bombardamenti, afflitto dalla fame indotta e costretto a condizioni sanitarie indicibili.

Il loro gesto è stato forse l’unico atto di lucidità in un teatro di rivendicazione dell’assurdo.

(Francesco Fustaneo).

(lantidiplomatico.it/dettnews-knesset_il_monologo_di_trump_interrotto_dal_grido_di_due_parlamentari_riconoscete_la_palestina/45289_63034/).

 

 

 

 

Dipendenza da smartphone:

ecco come gestirla.

Fondazioneveronesi.it - Caterina Fazion – (05.10.2023) – Redazione – ci dice:

 

Come prevenire, riconoscere e attenuare l’uso eccessivo degli smartphone nei ragazzi?

La parola all’esperta.

 

Da cosa è caratterizzata la “dipendenza” da smartphone?

Qual è la portata del fenomeno?

Perché gli adolescenti sono i più colpiti?

Perché i contenuti per ragazzi creano questa grande dipendenza?

Quali sono i campanelli di allarme a cui prestare attenzione?

Perché lo smartphone è un oggetto così indispensabile per i ragazzi?

Come prevenire e risolvere la dipendenza?

Quali consigli può dare ai genitori su come gestire figli dipendenti da smartphone?

 

Vista la grande diffusione di smartphone e tablet, il rischio di andare incontro a un uso smodato dei dispostivi elettronici, soprattutto per i ragazzi, è alto.

 Ma è corretto parlare di vera e propria dipendenza da smartphone?

In realtà questo disturbo non rientra in nessuna sezione del DSM-5, il “Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali “più aggiornato;

ad ogni modo, chi fa un uso eccessivo dello smartphone presenta caratteristiche condivise con chi soffre di altre dipendenze, come alcol e droghe, quali perdita di controllo e astinenza.

 

Per capire come prevenire, riconoscere e attenuare questo disturbo nei ragazzi abbiamo parlato con la dottoressa “Adelia Lucattini”, membro della Società Psicoanalitica Italiana.

 

Da cosa è caratterizzata la “dipendenza” da smartphone?

La “dipendenza” da smartphone è caratterizzata principalmente da un uso compulsivo del mezzo.

Parliamo dello smartphone perché è il dispositivo digitale a cui i giovani hanno maggior accesso.

 Si tratta di uno strumento ubiquitario, usato anche dalla popolazione più giovane, e non a caso si sta diffondendo sempre più il termine “nomofobia”, proprio per indicare la paura di restare senza il proprio telefono.

La dipendenza, però, non è dall'oggetto in sé, ma dai suoi contenuti, di cui i ragazzi usufruiscono tramite internet, dipendenza che in questo caso è riportata nel manuale “DSM-5”.

 

Qual è la portata del fenomeno?

Tra i ragazzi della “Generazione Z”, in Italia, ad avere lo smartphone prima degli 11 anni sono in sette su dieci, e sono sei, in media, le ore di utilizzo del cellulare al giorno;

anche se il 25,4% dei giovani supera le 8 ore.

 Dato che il problema della dipendenza, maggiore nelle ragazze, non è legato all’oggetto in sé, ma ai contenuti che esso può veicolare grazie all’accesso a internet, in Italia sono quasi 100mila i ragazzi che presentano caratteristiche compatibili con la presenza di una “dipendenza da Social Media”.

 

Perché gli adolescenti sono i più colpiti?

Il motivo per cui gli adolescenti sono così soggetti ad un uso smodato degli smartphone è in realtà dovuto a più fattori.

 Da un lato vi è la costruzione ad hoc delle applicazioni per ragazzi, dei giochi e dei vari contenuti che, di per sé, ingenerano dipendenza, andando ad incidere sul sistema dopaminergico, che regola il circuito della gratificazione-frustrazione.

Si tratta di contenuti estremamente colorati, psicostimolanti ed eccitanti.

Tutti, dunque, sono a rischio di dipendenza anche se non hanno problematiche pregresse.

Inoltre, dobbiamo considerare il periodo particolare dell’adolescenza:

 i cambiamenti, i turbamenti e le ansie sono tanti, gli adolescenti sono in crescita e positivamente esuberanti.

Sperimentano per la prima volta emozioni forti in un corpo che cambia:

 hanno delle pulsioni che non riescono a gestire e che spesso placano attraverso i contenuti dello smartphone che hanno sempre con sé, anche a scuola.

Perché i contenuti per ragazzi creano questa grande dipendenza?

Gli adolescenti vivono una turbolenza emotiva che li preoccupa costantemente, e spesso trovano nello smartphone una consolazione che li placa.

Correre, studiare, leggere e recitare sono sempre stati ottimi metodi per controllare l’ansia.

Al giorno d’oggi, invece, i turbamenti tendono ad essere attenuati osservando le storie degli altri.

 Ci sono tutta una serie di contenuti ingannevoli che da un lato calmano e dall'altro eccitano:

per esempio il contenuto calma, ma la frequenza e la velocità con cui viene visto, eccita i ragazzi.

 Si crea una stabilità emotiva che spinge a stare su quel contenuto per cercare i minuti di calma, senza rendersi conto che c'è invece un effetto eccitatorio provocato dal contenuto stesso.

 

Quali sono i campanelli di allarme a cui prestare attenzione?

Si può parlare di “dipendenza” da smartphone quando se ne fa un uso compulsivo, indipendente dalla volontà:

quello di connettersi e guardare il telefono è un impulso incontrollabile.

Quando i ragazzi non hanno accesso allo smartphone perché scarico oppure rotto, per cui hanno l'oggetto ma non possono usufruire dei contenuti, presentano sintomi simili all’astinenza da alcune sostanze stupefacenti come ansia, insonnia, inappetenza, agitazione fisica, irritabilità.

 Spesso i ragazzi sono irrequieti, urlano e fanno di tutto per farsi aggiustare il mezzo, o ricaricarlo, il prima possibile.

 

Un altro effetto molto negativo dell’uso smodato dello smartphone è l'insonnia, perché la dipendenza non ha orario.

L'ansia esplode solitamente al risveglio e prima di andare a dormire per cui c’è la tendenza ad utilizzarlo di notte, ma soprattutto a tenerlo acceso.

 Il risultato?

Al minimo suono o vibrazione i ragazzi si svegliano per controllare le notifiche e al mattino faticheranno a svegliarsi a causa del sonno frammentario della notte.

 I ragazzi che sperimentano una dipendenza non si separano mai dallo smartphone, lo portano in bagno, anche quando fanno la doccia.

Al mare, per esempio, potrebbero decidere di non immergersi in acqua per non dover lasciare il telefono.

 Inoltre, in situazioni di socialità, hanno sempre lo smartphone acceso con le varie notifiche attivate, che non riescono ad evitare di controllare continuamente per paura di perdersi qualcosa.

Alcuni ragazzi si rifiutano di consegnarlo a scuola o, addirittura, ne hanno due in modo tale che possano consegnarne uno, ma avere sempre con sé l’altro.

Perché lo smartphone è un oggetto così indispensabile per i ragazzi?

I ragazzi ritengono così utile lo smartphone perché spesso si sentono soli.

È vero che, soprattutto dopo la pandemia, sono aumentati i casi di ansia e depressione, ma esiste un elemento costante, presente da ben prima del lockdown: la solitudine.

Questo è dovuto a tanti fenomeni come il fatto che tutti, figli e genitori, siano costretti a stare numerose ore fuori casa.

 I genitori a causa del lavoro o, pur lavorando da casa, non riescano a dedicare sufficiente attenzione mentale ai figli.

Certo, i genitori hanno sempre lavorato, ma un tempo le famiglie erano più numerose e si abitava tutti più vicini.

C'era sempre la presenza di qualcuno fidato su cui poter contare.

Dire che i genitori utilizzino il cellulare come babysitter trovo sia ingiusto e rischioso per i bambini.

 Certo, qualcuno lo farà, ma la maggior parte dei genitori si accorgono che i figli, una volta che hanno a disposizione il loro cellulare, sono più tranquilli.

La verità è che i più piccoli sono gelosi dello smartphone, oggetto che cattura l’attenzione dei genitori, con cui entrano in competizione, da cui desiderano allontanarli e per questo cercano di sottrarglielo.

Nel momento in cui hanno questo oggetto colorato tra le mani ne restano incuriositi e attratti.

È l'inizio di un crinale molto pericoloso.

Come prevenire e risolvere la dipendenza?

L'educazione all'utilizzo degli smartphone è il modo migliore per prevenirne la dipendenza.

 Se fin da piccoli i bambini avessero dei loro semplici dispositivi digitali, senza accesso a internet, ma in cui sono disponibili giochi adatti alla loro età, sarebbe il modo migliore per impedire una futura dipendenza.

Se una cosa è proibita, infatti, viene ricercata;

se una cosa invece è permessa, ma controllata, diventa parte integrante della quotidianità.

Per aiutare questi ragazzi a superare la dipendenza dallo smartphone lo studio, la lettura, la musica, lo sport e la scuola in generale, hanno un ruolo fondamentale. Da non sottovalutare anche l’utilizzo dello smartphone come supporto alla didattica per veicolare contenuti scolastici.

 Inoltre, nelle diverse scuole andrebbero implementati corsi per avvicinare bambini e ragazzi al coding, alla robotica e al mondo della programmazione e del digitale. Capire cosa c'è dietro la tecnologia rende più consapevoli e impedisce di usarla in modo patologico.

 

Quali consigli può dare ai genitori su come gestire figli dipendenti da smartphone?

I genitori dovrebbero dare delle regole per limitare l’uso dello smartphone, soprattutto in determinati contesti.

Ad esempio dovrebbe esserne disincentivato l’utilizzo a tavola.

Ritirare lo smartphone come punizione, purché non sia umiliante o offensiva, se necessario, potrebbe essere una soluzione;

 l’importante è che la punizione sia reversibile.

A questo proposito funziona bene il sistema premiante:

alla punizione, come il ritiro dello smartphone per una settimana, il ragazzo può rimediare svolgendo lavoretti utili in casa o aiutando un fratello o una sorella nello svolgimento dei compiti.

 Inoltre, va tenuto conto che il telefono come strumento per garantire la sicurezza di bambini e ragazzi è necessario.

Avere un cellulare senza accesso a internet, contenente soltanto i numeri dei genitori e delle forze dell’ordine, potrebbe essere fornito già a partire dalla terza elementare, intorno agli otto anni.

Per quanto riguarda lo smartphone, invece, bisognerebbe aspettare i quindici anni prima di averne uno, limitandone il consumo ad un massimo di tre ore giornaliere.

Da non dimenticare lo “strumento del parental control”, o filtro famiglia, un sistema che consente ai genitori di monitorare le attività dei figli in rete e di limitare oppure bloccare l’accesso a determinati siti, attività o categorie di contenuti.

Questo strumento ci consente di tutelare la loro sicurezza in rete, aiutando l'autodisciplina, ma senza essere persecutorio.

(Caterina Fazion).

 

 

 

 

Quando internet e smartphone sono una droga.

 

Benessere-magazine.it - Marco Maroni – (2 maggio 2025) – ci dice:

Dalla nomofobia, cioè il terrore di restare senza telefonino, alla schiavitù del sesso virtuale:

 lo psicoterapeuta Pietro Scurti spiega che a dilagare è lo” Iad”, il nuovo disturbo da dipendenze verso il mondo digitale.

 

C’è chi non riesce più ad avere relazioni d'amicizia al di fuori della Rete, chi si sente perso quando non è connesso, e c'è anche la sindrome della vibrazione fantasma, che è la tendenza a controllare compulsivamente il telefono cellulare immaginando l'arrivo di messaggi o chiamate.

Sono comportamenti tipici della dipendenza da internet, in sigla” Iad” (Internet addiction disorder).

Le conseguenze sono isolamento emotivo, difficoltà relazionali, perdita delle motivazioni e della capacità di concentrazione, ma anche problemi fisici come disturbi del sonno, affaticamento, problemi visivi e muscolari.

A spiegare le caratteristiche delle nuove dipendenze è il “libro Internet Addiction Disorder”.

” Social, emozioni e identità alternative” (FrancoAngeli), scritto da “Pietro Scurti”, dirigente dell'”Asl Napoli 2 Nord”, psicologo e psicoterapeuta con una lunga esperienza clinica sul tema.

Lo “Iad” è ormai considerato, per le modalità in cui si instaura, la vastità del fenomeno e le conseguenze, simile alla dipendenza da sostanze stupefacenti o alla ludopatia.

«Internet non è il male», dice l'autore, ma «sempre più spesso i nostri figli e noi stessi rischiamo di trasformare il navigare alla scoperta della Rete in un naufragio delle emozioni, del contatto fisico e delle relazioni autentiche».

Chi casca nella Rete diventa incapace di mettere da parte lo smartphone e tende a sostituire il mondo reale con la frequentazione compulsiva di quello virtuale. L'essere legati al telefonino, tanto che quando ce lo scordiamo a casa ci sentiamo un po' “isolati” non è una malattia. Essere connessi fa parte dello stile di vita contemporaneo. Le cose sono diverse quando quella di usare lo smartphone e di connettersi ai social network diventa una necessità costante e incontrollata.

 

(Maurizio Corbetta: «Emozioni e valori per non subire l’intelligenza artificiale»)

Gli effetti collaterali delle nuove forme di dipendenza patologica sono sempre gli stessi, cioè disagio interiore, difficoltà nelle relazioni e nel rendimento a scuola o al lavoro, ma i comportamenti patologici che la caratterizzano non sono tutti uguali. Ecco, di seguito, anche nella terminologia anglosassone corrente, quali sono i disturbi più comuni riportati nel libro di Scurti.

 

Nomofobia.

Dall'espressione anglosassone “No mobile phobia”, detta anche “sindrome da disconnessione”, è il disagio provocato dall'assenza del telefono, dall'esaurimento della batteria o dalla mancanza del segnale.

 Una vasta letteratura scientifica ha mostrato conseguenze sia fisiche sia psichiche. Tra le prime:

 insonnia, tensione, aumento dell'acido gamma ammino-butirrico, un inibitore del sistema nervoso centrale, con deterioramento delle funzioni cognitive.

Tra i danni psichici, ansia, depressione, disturbi ossessivo-compulsivi.

 

Vampirizzazione.

È la tendenza, tipica degli utenti più giovani, a trascorrere le ore notturne utilizzando lo smartphone.

Ci si dedica a giochi, si condividono post e messaggi, si guardano video.

Nel 2014, un articolo del New York Times che ha indagato questa abitudine ha definito chi vi si dedica “vampiri dei social media”.

Una ricerca dell'Osservatorio nazionale sull'adolescenza ha rivelato che circa il 60% degli adolescenti e circa il 40% dei pre-adolescenti ammette di rimanere spesso sveglio anche fino all'alba per dialogare o divertirsi online.

 È un'attività che comporta l'alterazione dei ritmi circadiani e della secrezione della melatonina, compromettendo la capacità di addormentarsi.

 

“Phubbing.”

A chi non è capitato di ignorare il mondo circostante per dedicarsi qualche minuto a quello virtuale anche quando è in compagnia?

Può succedere anche in famiglia, per esempio quando ci si ritrova attorno alla tavola.

L'espressione deriva dalla fusione delle parole anglosassoni phone (telefono) e snobbing (snobbare/ignorare).

Un comportamento che diventa patologico quando il cellulare è un mezzo per isolarsi ed evadere dalle relazioni personali più prossime.

Una ricerca del 2020 dell'Università di Aarhus (Danimarca) ha evidenziato che questa abitudine è socialmente accettata benché ritenuta spiacevole e irrispettosa.

Il phubbing denota una difficoltà a costruire e mantenere relazioni sociali.

 

Ringxiety e vibranxiety.

È la percezione illusoria di aver sentito squillare o vibrare il telefono.

Ha sia una causa fisiologica, data dall'eccessiva quantità di stimoli cui è sottoposto oggi il nostro organismo, che tende a confondere la capacità percettiva, sia una più psicologica, legata all'insicurezza emotiva e al timore di essere ignorati.

 Il messaggio ricevuto diventa una valida conferma del proprio valore nel mondo;

il costante, ansioso, controllo del telefono è un tentativo di assicurarsi che nessuna richiesta di contatto sia trascurata.

 

Fomo.

È un acronimo da termini inglesi (Fear of missing out) che si potrebbero tradurre in italiano con la “paura di essere esclusi”, di essere tagliati fuori dalle novità.

Anche qui c'è il timore di essere trascurati, di valere meno degli altri.

La ricerca ha evidenziato che la sindrome è più frequente nei maschi giovani e che è associata a un'insoddisfazione per la propria vita in generale.

Questa ansia sociale porta a interagire con maggiore frequenza nei social network ed è spesso associata a” ringanxiety” e “vibranxiety”.

 

Sovraccarico di informazioni.

L’eccesso di input rende difficile prendere una decisione o focalizzare l'attenzione su un singolo problema.

 I sentimenti di stress che l'accompagnano hanno un impatto negativo sul benessere e sulla produttività lavorativa.

La dipendenza?

Quando diventa difficile liberarsi dal flusso di comunicazioni, anche se il contenuto non rientra negli interessi più immediati.

 

Dipendenza cyber-relazionale.

È il bisogno di stabilire relazioni in Rete a scapito di quelle reali.

Ci si rifugia dall'ansia sociale affidandosi alle più facili gratificazioni digitali, ritrovandosi col tempo a provare vergogna nelle relazioni del mondo reale, che diventano progressivamente meno importanti.

Si finisce nella trappola che gli psicologi chiamano de-individuazione.

Quella che viene proposta agli altri è infatti una versione virtuale del proprio io, ritenuta più accattivante di quella reale, soprattutto per chi ha già difficoltà nelle interazioni con gli altri perché si sente goffo e insicuro.

Grazie all'anonimato e alla mediazione fornita dello schermo l'utente si sente “protetto” o “nascosto” e quindi anche più libero di esprimersi, al sicuro dalle critiche e dal controllo delle norme sociali.

Circostanza che tende peraltro a favorire la violazione delle norme sociali, con comportamenti ingiuriosi, violenza verbale, e il cosiddetto “body shaming” (derisione delle caratteristiche fisiche altrui).

 

Dipendenza dal cybersesso.

È la dipendenza da attività sessuali virtuali, in termini di visione compulsiva di contenuti pornografici e di ricerca di gratificazione sessuale online.

Anche in questo caso, a scapito dell'investimento in relazioni reali.

I soggetti dipendenti dal sesso online arrivano a dedicarvi fino a 45 ore alla settimana.

Tra le conseguenze della dipendenza dal “cyber sex” ci sono solitudine e isolamento, senso di colpa e vergogna e, per chi ha una famiglia, anche la compromissione del rapporto di coppia e con i figli.

L'estrema facilità di accesso al materiale pornografico in Rete pone inoltre il serio problema dell'esposizione precoce ai contenuti sessualmente espliciti:

le conseguenze più gravi, in termini di autostima e percezione distorta dei rapporti affettivi, sono ancora una volta per i più giovani.

 

 

 

 

Lo smartphone può sviluppare dipendenza,

 come altre fissazioni.

Tre giorni di disintossicazione.

Droghe.aduc.it - Primo Mastrantoni – (8 aprile 2025) – ci dice:

  L'uso eccessivo del cellulare (ESU- Excessive Smartphone Use) viene ritenuto come un vero e proprio processo di dipendenza, paragonabile a quello riscontrabile in altri ambiti, come la ludopatia.

In altre parole, l’uso costante e incontrollato degli smartphone non è solo una cattiva abitudine, ma comporta delle implicazioni neurobiologiche e comportamentali simili a quelle che si verificano con l'assunzione delle droghe.

 

Uno studio condotto dal professor “Mike M. Schmitgen e suoi colleghi, dell’Università di Heidelberg (Germania), riporta i risultati di un test  sulla restrizione dell’uso del cellulare per 72 ore e come questa influenzi l’attività cerebrale, in particolare nelle aree legate al sistema della ricompensa.

La ricerca ha utilizzato la risonanza magnetica funzionale (fMRI) adottando un modello di “reattività ai suggerimenti, ” nel quale venivano presentate immagini di smartphone in stato di attività e inattività, confrontate con stimoli neutri.

 Dopo tre giorni di limitazione sono emerse modifiche significative nelle regioni cerebrali, in particolare nel “nucleo accumbens”, nella corteccia cingolata anteriore e nella corteccia parietale.

Tali zone sono note per il loro ruolo nella valutazione della ricompensa, nell’elaborazione delle emozioni e nel controllo dell’inibizione motoria.

Il “nucleo accumbens”, per esempio, è fondamentale per i processi legati al piacere, mentre la corteccia cingolata e la corteccia parietale partecipano a funzioni cognitive ed emotive che influenzano il desiderio, caratteristica tipica del comportamento dipendente.

 

Un ulteriore aspetto riguarda l’impatto neurochimico:

i risultati indicano, infatti, una forte associazione con l'attività dei neurotrasmettitori quali la dopamina e la serotonina.

 Questi messaggeri chimici sono noti per regolare il circuito del desiderio e del piacere, contribuendo a quello che viene definito il “craving”, ovvero il forte bisogno di utilizzare il dispositivo.

 Il fatto che un periodo di restrizione limitato a 72 ore possa determinare modificazioni in queste aree e nei relativi sistemi neurochimici, rafforza l’idea che l’ESU, analogamente ad altre dipendenze, non sia un semplice comportamento abitudinario ma un fenomeno intrinsecamente legato al funzionamento del cervello.

 

Lo smartphone non è soltanto uno strumento di comunicazione e lavoro, ma può assumere caratteristiche di “droga” se esageratamente impiegato. 

Le evidenze scientifiche raccolte – grazie a schemi sperimentali basati su fMRI e a un’approfondita analisi psico-comportamentale – suggeriscono che l’impiego incontrollato del cellulare attivi circuiti cerebrali analoghi a quelli osservati nelle dipendenze.

Questo implica che, al di là delle normali interazioni quotidiane, è importante considerare interventi mirati e preventivi per mitigare potenzialmente i rischi legati a un utilizzo eccessivo.

È un tema di crescente attualità e interesse sia dal punto di vista clinico che sociale.

L'analisi apre la strada a riflessioni più ampie: ad esempio, quali interventi possono aiutare a ripristinare un equilibrio sano nell’uso della tecnologia?

In che modo la crescente integrazione degli smartphone nella vita quotidiana potrebbe modellare - nel lungo periodo - i circuiti neurali legati alla ricompensa e al desiderio?

Questi interrogativi sono alla base di ricerche in evoluzione che non soltanto contribuiscono a comprendere le dinamiche della dipendenza tecnologica, ma indicano nuovi possibili approcci preventivi e terapeutici per fronteggiarla.

 

 

 

Trump dichiara guerra ai cartelli

della droga, ovunque essi siano.

Droghe.aduc.it - Redazione – (3 ottobre 2025) – Amer Madhani – Lisa Mascaro – ci dicono:

 

  Il presidente Donald Trump ha dichiarato che i cartelli della droga sono combattenti illegali e afferma che gli Stati Uniti sono ora in un "conflitto armato" con loro, secondo un promemoria dell'amministrazione Trump ottenuto dall'Associated Press giovedì, in seguito ai recenti attacchi statunitensi alle imbarcazioni nei Caraibi.

 

Il promemoria sembra rappresentare una straordinaria affermazione dei poteri di guerra presidenziali, con Trump che dichiara di fatto che il traffico di droga negli Stati Uniti equivale a un conflitto armato che richiede l'uso della forza militare: una nuova giustificazione per azioni passate e future.

"Il Presidente ha stabilito che gli Stati Uniti sono in un conflitto armato non internazionale con queste organizzazioni terroristiche designate", si legge nel promemoria.

Trump ha ordinato al Pentagono di "condurre operazioni contro di loro in conformità con il diritto dei conflitti armati".

"Gli Stati Uniti hanno ormai raggiunto un punto critico in cui dobbiamo ricorrere alla forza per autodifesa e per difendere gli altri dagli attacchi in corso da parte di queste organizzazioni terroristiche designate", si legge nel promemoria.

 

Oltre a segnalare un potenziale nuovo momento nel programma "America First" dichiarato da Trump, che favorisce il non intervento all'estero, la dichiarazione solleva seri interrogativi su quanto la Casa Bianca intenda usare i suoi poteri di guerra e se il Congresso eserciterà la sua autorità per approvare, o vietare, tali azioni militari.

"Gli Stati Uniti stanno prendendo una decisione molto più drastica, che ritengo rappresenti un'estrema violazione del diritto internazionale e una scelta pericolosa", ha affermato “Matthew Waxman”, ex funzionario della sicurezza nazionale durante l'amministrazione di George W. Bush.

"Significa che gli Stati Uniti possono colpire i membri di quei cartelli con la forza letale.

Significa che gli Stati Uniti possono catturarli e detenerli senza processo".

 

Dichiarazione dopo gli attacchi alle imbarcazioni nei Caraibi.

Il mese scorso, l'esercito statunitense ha effettuato tre attacchi mortali contro imbarcazioni nei Caraibi, accusate dall'amministrazione di trasportare droga. Almeno due di queste operazioni sono state effettuate su imbarcazioni provenienti dal Venezuela.

Questi attacchi hanno fatto seguito a un rafforzamento delle forze marittime statunitensi nei Caraibi senza precedenti negli ultimi tempi.

 La presenza della Marina nella regione – otto navi da guerra con oltre 5.000 marinai e marines – è rimasta piuttosto stabile per settimane, secondo due funzionari della Difesa, che hanno parlato in condizione di anonimato per discutere delle operazioni in corso.

Il promemoria non includeva un “time stamp”, ma faceva riferimento a un attacco statunitense del 15 settembre che "provocò la distruzione della nave, del traffico di stupefacenti illeciti e la morte di circa 3 combattenti illegali".

 

"Come abbiamo detto più volte, il Presidente ha agito in conformità con il diritto dei conflitti armati per proteggere il nostro Paese da coloro che cercano di portare veleno mortale sulle nostre coste, e sta mantenendo la promessa di affrontare i cartelli ed eliminare queste minacce alla sicurezza nazionale, impedendo loro di uccidere più americani", ha affermato la Casa Bianca.

 

Mercoledì, funzionari del Pentagono hanno informato i senatori sugli attacchi, secondo una fonte vicina alla vicenda, che non era autorizzata a commentare pubblicamente e ha parlato a condizione di mantenere l'anonimato. Il Pentagono ha inoltrato le domande alla Casa Bianca.

 Ciò che l'amministrazione Trump ha esposto nel briefing riservato al Campidoglio è stato percepito da diversi senatori come la ricerca di un nuovo quadro giuridico che ha sollevato interrogativi in particolare riguardo al ruolo del Congresso nell'autorizzare tali azioni, ha affermato la persona in questione.

Secondo un'altra persona che è stata informata dell'incontro e che ha parlato a condizione di mantenere l'anonimato, la scorsa settimana i funzionari del Pentagono hanno informato lo staff della Camera sugli attacchi.

Il promemoria, riportato in precedenza dal “New York Times”, espone una motivazione che viene vista sia come giustificazione dell'amministrazione per gli attacchi militari già intrapresi contro le imbarcazioni nei Caraibi, che hanno sollevato preoccupazioni tra i legislatori in quanto potenzialmente illegali, sia per qualsiasi azione futura.

 

Un funzionario della Casa Bianca, non autorizzato a rilasciare dichiarazioni pubbliche e che ha parlato in condizione di anonimato, ha affermato che il promemoria è stato inviato al Congresso il 18 settembre e non contiene nuove informazioni.

 La persona a conoscenza del briefing del Senato ha affermato che è stato trasmesso questa settimana.

 

Non sono stati forniti dettagli sui cartelli presi di mira.

Trump ha designato diversi cartelli della droga latinoamericani come organizzazioni terroristiche straniere e l'amministrazione aveva precedentemente giustificato l'azione militare come un'escalation necessaria per arginare il flusso di droga negli Stati Uniti.

I funzionari del Pentagono non sono stati in grado di fornire un elenco delle organizzazioni terroristiche designate come centro del conflitto, una questione che ha causato grande frustrazione ad alcuni dei legislatori informati questa settimana, secondo una delle persone a conoscenza dei briefing.

Sebbene "nazioni straniere amiche abbiano compiuto notevoli sforzi per combattere queste organizzazioni", si legge nel promemoria, i gruppi "sono ormai transnazionali e conducono attacchi continui in tutto l'emisfero occidentale come cartelli organizzati". Il promemoria si riferisce ai membri del cartello come "combattenti illegali".

 L'amministrazione Trump sta cercando di giustificare l'uso della forza militare contro i cartelli della droga nello stesso modo in cui l'amministrazione Bush ha giustificato la guerra contro al-Qaida dopo gli attacchi dell'11 settembre, ha affermato Waxman, che ha prestato servizio nei dipartimenti di Stato e della Difesa e nel Consiglio per la sicurezza nazionale sotto Bush.

Bush, tuttavia, aveva l'autorizzazione del Congresso, a differenza di Trump.

 L'amministrazione Trump sostiene di non dover più considerare le circostanze individuali dell'uso della forza, ha affermato “Waxman,” che ora presiede il “National Security Law Program” della “Columbia Law School”.

"In pratica, significa: 'Non dobbiamo prendere decisioni caso per caso'", ha detto Waxman.

"Tutte queste navi che trasportano personale nemico possono essere prese di mira, indipendentemente dal fatto che siano dirette verso gli Stati Uniti o meno".

 

Waxman ha affermato di aspettarsi altri attacchi e "vedremo se gli Stati Uniti faranno il prossimo grande passo e ricorreranno alla forza letale o alla forza armata sul territorio di un altro Stato".

I legislatori di entrambi i principali partiti politici hanno fatto pressione su Trump affinché ottenga dal Congresso l'autorizzazione a esercitare poteri di guerra per le operazioni contro presunti trafficanti di droga.

Diversi senatori e gruppi per i diritti umani hanno messo in dubbio la legalità degli attacchi, definendoli un potenziale abuso di potere da parte dell'esecutivo, in parte perché l'esercito è stato utilizzato per scopi di polizia.

 

Il senatore “Jack Reed” del “Rhode Island”, il principale esponente democratico della Commissione per i servizi armati del Senato, ha affermato che i cartelli della droga sono "spregevoli", ma l'amministrazione Trump non ha fornito "alcuna giustificazione legale credibile, prova o informazione di intelligence per questi attacchi".

 “Reed,” ex ufficiale dell'esercito, ha affermato che "ogni americano dovrebbe allarmarsi perché il suo presidente ha deciso di poter condurre guerre segrete contro chiunque consideri un nemico".

(AAMER MADHANI e LISA MASCARO).

 

 

 

 

Il cellulare crea dipendenza come

la droga, nel parlano gli psicologi.

 Gazzettadalba.it – (31 Maggio 2025) - Redazione – Ansa – ci dice:

 

Il cellulare crea dipendenza come la droga, nel parlano gli psicologi.

TORINO. Lo smartphone può creare dipendenza come se fosse droga? È successo a un quindicenne a cui i genitori avevano tolto il cellulare esasperati dall’uso ossessivo dello strumento, però la privazione aveva scatenato nel ragazzo una crisi di astinenza tanto da richiedere l’accesso al Pronto soccorso.

 

L’episodio che risale a due anni fa è stato trattato durante un convegno medico sul disagio psicologico e sulla salute mentale.

“Gianluca Rosso”, docente di psichiatria all’Università di Torino, era in servizio nel reparto d’urgenza dell’ospedale San Luigi di Orbassano al momento dell’arrivo del ragazzo.

Il ragazzo presentava esattamente gli stessi sintomi di una persona in crisi di astinenza da sostanze come alcol, sigarette o stupefacenti, ma a mancargli in modo psicotropo, era lo smartphone, ha detto il medico esponendo il caso ai colleghi.

 

Le sostanze, come l’uso smodato del cellulare, portano a uno stimolo continuo del “sistema dopaminergico”, al quale il cervello si abitua e del quale poi sente la necessità, spiega lo psicologo.

 L’adolescente venne trattato come in una classica crisi d’astinenza da sostanze:

con ansiolitici somministrati sia per via intramuscolare sia endovenosa e una volta superata la crisi, fu dimesso e rimandato a casa.

(Ansa).

 

 

La droga digitale: il cellulare

distrugge i nostri ragazzi.

Giornalelavoce.it – Lara Ballurio – (2 giugno 2025) – ci dice:

 

Le ricerche del 2025 svelano un legame inquietante tra dipendenza da smartphone e disturbi mentali, fisici e sociali.

Serve agire ora, prima che sia troppo tardi.

Dipendenza da smartphone.

Prigionieri dello schermo: la dipendenza da smartphone incatena mente e corpo.

Il 2025 è l’anno in cui la scienza ha squarciato definitivamente il velo su un problema che serpeggiava da anni nelle famiglie di tutto il mondo:

 la dipendenza da smartphone nei bambini e adolescenti.

Non più solo una questione di “capricci” o di ore rubate ai compiti, ma una condizione con effetti fisici e psichici che, secondo i dati raccolti, in molti casi somiglia pericolosamente all’abuso di alcol e droghe.

 

“Sky TG24” e “Open” hanno riportato un caso emblematico accaduto nella provincia di Torino:

 un quindicenne ricoverato in ospedale dopo una grave crisi di astinenza da smartphone, con sintomi come panico, tremori e agitazione psicomotoria.

Il professor Gianluca Rosso, psichiatra dell’Università di Torino, ha spiegato che l’uso compulsivo dello smartphone stimola il sistema dopaminergico, lo stesso coinvolto nelle tossicodipendenze, portando a comportamenti compulsivi e perdita di controllo.

 

Il quadro generale è confermato da uno studio coreano pubblicato su PMC (Pub Med Central), che ha evidenziato come gli adolescenti con dipendenza da smartphone abbiano un rischio maggiore del 57% di sviluppare dipendenze da droghe rispetto ai coetanei non dipendenti, rischio che sale ulteriormente in presenza di consumo di alcol o fumo. Secondo “USC Today” - la piattaforma ufficiale di comunicazione della “University of Southern California” - la stimolazione ripetuta del circuito cerebrale della ricompensa genera una spirale difficile da spezzare.

Il quotidiano britannico “The Times” ha segnalato uno studio sugli studenti di medicina:

il 40% mostrava segni di dipendenza, tra ansia, irritabilità, stress e insonnia.

Ma è il “New York Post”, riportando i dati di “Sapien Labs”, a spaventare di più:

 oltre 10.000 adolescenti tra 13 e 17 anni intervistati, e il 37% dei tredicenni ammetteva episodi di aggressività, il 20% dichiarava allucinazioni.

 Sempre secondo “Sapien Labs”, l’uso eccessivo di questi dispositivi è associato a un incremento significativo delle ideazioni e dei tentativi suicidari.

“L’esperienza iper-immersiva dello schermo sfuma i confini tra realtà e fantasia nei momenti chiave dello sviluppo”, ha spiegato al “Post “lo psicologo “Nicholas Kardaras”.

“Sapien Labs” ha anche sottolineato come i più giovani - quelli che hanno ricevuto lo smartphone già a 10 anni - siano più vulnerabili agli effetti negativi rispetto ai coetanei più grandi.

 

Ma cosa sta facendo l’Italia di concreto per affrontare questa emergenza?

 Secondo fonti del Ministero della Salute, nel 2025 sono partiti progetti pilota in alcune scuole medie e superiori, con laboratori di educazione digitale, sessioni guidate da psicologi e campagne informative rivolte ai genitori.

 Il Ministero dell’Istruzione, ha annunciato un piano sperimentale per inserire moduli di “benessere digitale” nei programmi scolastici, con l’obiettivo di insegnare ai ragazzi come gestire lo stress da social e ridurre il tempo davanti agli schermi.

Inoltre, alcune regioni, come il Piemonte e la Lombardia, hanno attivato sportelli di ascolto specifici per adolescenti e famiglie, con team specializzati nella gestione delle dipendenze digitali.

Tuttavia, secondo l’Istituto Superiore di Sanità, queste iniziative restano frammentarie e insufficienti a livello nazionale:

serve una strategia coordinata, con linee guida chiare, formazione per gli insegnanti e campagne su scala larga per sensibilizzare tutta la popolazione.

 

Non sono solo i sintomi psicologici a preoccupare.” The Guardian” ha pubblicato una vasta analisi su 335.000 partecipanti, mostrando che ogni ora aggiuntiva davanti a uno schermo aumenta del 21% il rischio di sviluppare miopia, una condizione destinata a colpire, secondo le proiezioni, circa il 40% dei giovani entro il 2050.

 Il professor “Chris Hammond del King’s College “di Londra ha spiegato che il rischio di miopia aumenta in modo esponenziale con l’aumento delle ore davanti allo schermo, anche a causa della ridotta esposizione alla luce naturale.

 

E poi vi è il corpo che cambia: dai problemi posturali legati al cosiddetto “tech neck”, deformazioni cervicali dovute alla posizione inclinata del collo, stanno diventando cronici tra i più giovani.

 A ciò si aggiungono disturbi del sonno legati alla luce blu emessa dagli schermi e un aumento della sedentarietà che contribuisce ai tassi crescenti di obesità infantile.

Eppure, non tutto è nero.

 Uno studio dell’”Università della Florida del Sud” ha rivelato che i bambini con smartphone tendono a riportare meno sintomi di depressione e ansia e trascorrono più tempo con gli amici rispetto ai coetanei senza telefono.

Tuttavia, il pericolo aumenta drasticamente quando i ragazzi iniziano a postare sui social, specialmente se finiscono vittime di cyberbullismo: quasi sei bambini su dieci dichiarano di aver subito almeno un insulto online negli ultimi tre mesi, e questi riportano tassi di depressione e rabbia molto più alti rispetto a chi non ha subito attacchi.

 

Sul piano della ricerca, l’”Università di Cambridge”, insieme a otto prestigiose università britanniche, sta guidando un progetto su mandato del governo per comprendere a fondo l’impatto degli smartphone sulla salute mentale dei giovani.

Come spiegato da “Amy Orben”, responsabile del progetto e citata sul sito ufficiale dell’università, “è fondamentale raccogliere dati causali solidi per orientare le future decisioni politiche, perché il mondo tecnologico evolve a una velocità a cui la ricerca deve saper tenere il passo”.

 

Anche la “Stanford Medicine” ha pubblicato uno studio sorprendente: non vi è alcuna correlazione significativa tra l’età in cui i bambini ricevono il primo smartphone e il loro benessere, misurato in termini di rendimento scolastico, sonno e sintomi depressivi.

 La vera discriminante, sottolineano i ricercatori su “med.stanford.edu”, sembra essere l’uso concreto che i ragazzi fanno del telefono e il ruolo del contesto familiare.

 

Alla luce di tutti questi dati, il messaggio che emerge è chiaro:

non è lo smartphone in sé il nemico, ma come viene usato, quanto viene usato e soprattutto in quale contesto educativo e affettivo viene inserito. I rischi sono reali e crescenti, e la somiglianza con le dipendenze da sostanze non può più essere ignorata.

Ma vietare, proibire o demonizzare non è la strada:

serve un’educazione digitale capace di promuovere un uso consapevole e responsabile, limitando il tempo davanti allo schermo, stimolando attività fisiche e incoraggiando relazioni autentiche.

“Peter Kyle”, ministro della tecnologia britannico.

 

Come ha detto “Peter Kyle”, ministro della tecnologia britannico, citato dall’Università di Cambridge, “garantire un ambiente online sicuro per i giovani deve essere una priorità:

 solo così potremo proteggere e rafforzare la prossima generazione, offrendo loro un futuro digitale sano e positivo”.

 

 

 

L'isolazionismo "soft" del tycoon iperattivo.

L'America torna leader.

Ilgiornale.it - Francesco Giubilei – (14 ottobre 2025) – ci dice:

 

 

Guerra in Israele.

È il vero protagonista dell'intesa. Ha imposto la sua visione e convinto gli altri leader riottosi.

L'isolazionismo "soft" del tycoon iperattivo. L'America torna leader.

Il principale vincitore della pace in Medioriente ha un nome e un cognome: Donald J. Trump.

 Il risultato ottenuto dal presidente degli Stati Uniti ma anche le trattative e le modalità con cui si è arrivati alla fine della guerra a Gaza sono destinate a rimanere nei libri di storia.

 Già nel suo primo mandato da presidente Trump aveva improntato la propria politica estera sul mantenimento della pace evitando di iniziare nuove guerre con una linea molto diversa dal partito Repubblicano guidato da George W. Bush che aveva avviato la guerra in Irak e Afghanistan.

Senza dubbio era un periodo storico diverso successivo all'11 settembre ma, a essere differente, era anche il Dna del partito Repubblicano a trazione neo-con e perciò più interventista in politica estera.

 La linea Maga (Make America Great Again) è invece caratterizzata da quello che potremmo definire "isolazionismo temperato" reso del tutto evidente dalle modalità con cui ha agito Trump per arrivare all'accordo tra Israele e Hamas.

Non un isolazionismo tradizionale per cui gli Stati Uniti si interessano solo alle questioni di politica interna, bensì un attivismo in politica estera basato sulla minaccia ma non sull'effettivo utilizzo dell'hard power.

 

 Da qui l'annuncio dei giorni scorsi "non invieremo soldati americani a Gaza" perché, nella visione trumpiana, l'uso di truppe statunitensi rappresenta un enorme costo economico e un rischio in termini di vite umane.

Proprio l'aspetto economico è l'altro elemento da tenere in considerazione per comprendere la politica estera trumpiana, non bisogna mai dimenticare che, prima di essere un politico, Trump è un imprenditore e la sua forma mentis rimane quella.

Nella pace e nella stabilizzazione del Medioriente vede una grande opportunità per le aziende americane sia con la ricostruzione di Gaza sia con la ripresa dei patti di Abramo.

 Non a caso il presidente americano lo scorso maggio aveva fatto una visita in Medioriente annunciando importanti accordi economici con i Paesi arabi che hanno un ruolo centrale come spiega “Mark Leonard”, direttore dell'”European Council on Foreign Relations”:

"Senza Trump sarebbe stato impossibile mettere pressione a Israele per arrivare alla pace ma senza il mondo arabo e il supporto europeo sarà difficile mantenere una pace duratura".

 

Ci sono però alcuni momenti chiave negli ultimi mesi che hanno permesso di arrivare alla storica giornata di ieri in cui ha giocato un ruolo anche l'Italia.

Lo scorso 24 luglio infatti, in uno yacht al largo della Costa Smeralda, è avvenuto un incontro tra il ministro israeliano degli Affari strategici,” Ron Dermer”, e il primo ministro del Qatar, “Mohammed bin Abdulrahman Al-Thani” mediato dall'inviato della Casa Bianca “Steve Witkoff”.

Come spiegano al Giornale alcune fonti israeliane "in quell'occasione l'accordo sembrava raggiunto, poi d'improvviso Hamas ha raddoppiato le proprie richieste facendo saltare il banco".

"Gli americani si sono sentiti presi in giro anche dal Qatar che aveva il ruolo di convincere Hamas.

 Non a caso a inizio settembre è arrivato l'attacco di Israele al Qatar a cui Trump aveva dato la luce verde".

Da lì in poi le trattative hanno accelerato fino ad arrivare alla visita di Netanyahu alla Casa Bianca, alla scena in cui Trump gli ha detto di chiamare il Qatar per scusarsi, infine all'accordo siglato ieri.

 

Un altro momento chiave è stato l'attacco di Israele all'Iran e l'utilizzo dei bombardieri americani per colpire i siti nucleari della Repubblica Islamica, un'azione mirata a cui è seguito un accordo mediato da Trump ma il segnale è stato chiarissimo: possiamo colpirvi come e quando vogliamo.

Un'immagine di debolezza del principale sostenitore del Qatar che ha contribuito ad accelerare i negoziati.

 Un vero capolavoro politico e diplomatico.

 

 

 

TRUMP: “L’AMERICA È TORNATA.”

 Opinione.it - Eugenio Vittorio – (05 marzo 2025) – ci dice:

 

Trump: “L’America è tornata.”

È tornato l’american dream.

“L’America è tornata, sta crescendo, più grande e migliore che mai”. Donald Trump apre così il suo primo discorso sullo stato dell’Unione dopo il ritorno alla Casa Bianca, tra applausi scroscianti dei repubblicani e facce tese nei banchi democratici.

Un intervento fiume, il più lungo mai pronunciato da un presidente americano davanti al Congresso:

100 minuti, battendo il record di 89’ di Bill Clinton nel 2000.

 Il tasso di gradimento del discorso, secondo la “Cbs” è stato del 73 per cento, mentre per la “Cnn” del 66 per cento.

Dati sorprendenti, vista la grande polarizzazione del Paese.

Ma la “bomba” arriva quasi alla fine: svolta sul conflitto in Ucraina.

Il tycoon lascia tutti a bocca aperta rivelando di aver ricevuto una lettera da Volodymyr Zelensky.

Il leader ucraino si dice pronto a sedersi al tavolo delle trattative “il prima possibile”, con l’obiettivo di raggiungere “una pace duratura”. Non solo:

Kiev sarebbe pronta a firmare “in qualsiasi momento” l’accordo sulle terre rare con gli Stati Uniti.

Un cambio di rotta netto, che Zelensky aveva già accennato su X, ma che ora assume il peso di una missiva ufficiale.

 E la sorpresa non finisce qui:

anche Mosca ha mandato segnali di apertura.

“Abbiamo ricevuto forti segnali”, dice Trump, parlando di “discussioni serie” con la Russia.

Nessun dettaglio sulle trattative, ma The Donald si prende il merito di un disgelo che sembrava impensabile fino a poche ore fa.

 

Eppure, nel bel mezzo di questa possibile svolta diplomatica, Trump non rinuncia ad attaccare Europa e l’ex presidente Joe Biden.

 “L’Europa ha speso più soldi per acquistare petrolio e gas russi di quanto ne abbia spesi per difendere l’Ucraina”, accusa, rilanciando la narrazione di una Nato che ha lasciato gli Stati Uniti a fare il lavoro sporco.

E poi la stoccata al predecessore:

“Joe Biden ha speso più soldi dell’Europa”, senza ottenere risultati. L’agenda economica di Trump non fa sconti.

 Il presidente difende la sua guerra dei dazi, che ha mandato in tilt i mercati finanziari, sostenendo che le tariffe non servono solo a proteggere l’industria americana, ma anche “l’anima del nostro Paese”. Sì, ammette, ci saranno “piccoli scompigli”, ma gli Stati Uniti non si tireranno indietro:

“Risponderemo dazio su dazio, tassa su tassa”.

E il messaggio è chiaro anche per i vicini di casa:

Messico e Canada “devono fare di più per fermare il traffico di fentanyl e l’ingresso di clandestini”.

Non è solo una questione economica.

Trump punta anche a riportare l’influenza americana dove ritiene sia stata indebolita.

Primo obiettivo: il Canale di Panama.

 In parte, dice, è già stato “strappato ai cinesi” grazie all’acquisto di due porti strategici da parte di “BlackRock.

Ma il vero colpo di scena è il ritorno dell’idea più “originale” della sua presidenza: la Groenlandia.

Trump torna a parlare di un’eventuale annessione, senza entrare nei dettagli, ma lasciando intendere che gli Stati Uniti faranno la loro mossa.

“In un modo o nell’altro”, dice, aggiungendo che la popolazione avrà comunque voce in capitolo.

Da segnalare anche la forma di protesta dei democratici.

Alcuni disertano l’aula, altri lo interrompono più volte.

Un deputato viene addirittura espulso, mentre le parlamentari democratiche si presentano vestite di rosa per protestare contro le politiche di Trump sui diritti riproduttivi.

E poi il cartello più discusso: “Musk steals”.

L’attacco diretto a Elon Musk non passa inosservato, ma Trump non ci sta.

Ringrazia il miliardario e difende i suoi tagli alla burocrazia, che hanno fatto risparmiare al Paese circa 65 miliardi di dollari finora.

Criticando una classe dirigente di non eletti che spreca denaro pubblico. “Abbiamo realizzato più in 43 giorni di quanto la maggior parte delle amministrazioni realizzi in quattro od otto anni, e abbiamo appena iniziato”, afferma con enfasi.

“Torno in quest’aula stasera per riferire che lo slancio dell’America è tornato.

Il nostro spirito è tornato. Il nostro orgoglio è tornato.

La nostra fiducia è tornata.

E il sogno americano sta crescendo, più grande e migliore che mai.

Il sogno americano non si può fermare, e il nostro Paese è vicino a una rimonta come il mondo non ha mai visto e forse non vedrà mai più”.

E per chi pensava che il discorso fosse finito, arriva il “coup de théatre” finale:

“Pianteremo la bandiera americana su Marte e oltre”.

Standing ovation dei repubblicani, gelo tra i democratici.

Trump è tornato. Sipario.

 

LA RICERCA USA SOTTO

MINACCIA CINESE.

Opinione.it - Pierpaolo Arzilla – (15 ottobre 2025) – ci dice:

 

La ricerca Usa sotto minaccia cinese

Dopo due generazioni di non banale collaborazione, il Congresso Usa vuole smantellare i legami accademici con la Cina.

La commissione speciale della Camera sul Partito comunista cinese considera una priorità la protezione della ricerca americana, e accusa Pechino di strumentalizzarla, per trasformarla in un “canale di talenti stranieri e modernizzazione militare”.

Lo scorso settembre, la commissione ha pubblicato tre rapporti, ognuno su un tema specifico:

 la ricerca finanziata dal Pentagono che coinvolge studiosi cinesi legati all’esercito;

gli istituti congiunti Usa-Cina che formano talenti Stem per la Cina;

le politiche sui visti che hanno portato studenti cinesi legati all’esercito a programmi di dottorato presso università americane.

I rapporti raccomandano una legislazione più rigorosa per proteggere la ricerca statunitense, politiche sui visti più severe per controllare studenti e studiosi cinesi e la fine delle collaborazioni accademiche che potrebbero essere sfruttate per rafforzare la potenza militare della Cina.

Per molti anni, studiosi americani e cinesi hanno lavorato fianco a fianco su tecnologie all’avanguardia e una ricerca aperta, che permette a tutti di accedere e condividere i risultati.

Un’apertura che ora sta mettendo in allarme alcuni membri del Congresso.

Il timore è che la Cina, considerata una minaccia al predominio militare americano, stia sfruttando la ricerca aperta per raggiungere, e magari superare, gli Stati Uniti in materia di tecnologia militare.

“Per troppo tempo, i nostri avversari hanno sfruttato le università americane per promuovere i propri interessi, mettendo a rischio la nostra sicurezza nazionale e l’innovazione”, ha detto all’”Associated press” il senatore “Tom Cotton,” repubblicano dell’Arkansas e “presidente della commissione intelligence” del Senato.

 Cotton ha presentato una proposta di legge per imporre nuove restrizioni alla collaborazione di ricerca finanziata a livello federale con accademici di diverse istituzioni cinesi che collaborano con l’esercito cinese, nonché con istituzioni di altri Paesi considerati avversari degli interessi statunitensi.

 

“Gli avversari stranieri stanno sfruttando sempre più l’ambiente aperto e collaborativo delle istituzioni accademiche statunitensi per il proprio tornaconto”, ha dichiarato poi all’”Ap” “James Cangialosi”, direttore del “National counter intelligence and security Center”, che ad agosto ha pubblicato un bollettino in cui esortava le università a fare di più per proteggere la ricerca dalle ingerenze straniere.

 I legami tra la ricerca cinese e statunitense, come si accennava, sono molto consolidati.

Tra università e istituti, sono infatti oltre 500 gli enti Usa che in questi anni hanno collaborato con ricercatori militari cinesi, aiutando Pechino a sviluppare tecnologie avanzate con applicazioni militari, come le comunicazioni anti-jamming e i veicoli ipersonici, secondo un rapporto del gruppo di intelligence privato statunitense “Strider technologies”.

 

I rapporti del Congresso hanno individuato quasi 2.500 pubblicazioni prodotte nel 2024, in collaborazione tra entità statunitensi e istituti di ricerca cinesi affiliati all’esercito sulla “ricerca Stem”, che include fisica, ingegneria, scienza dei materiali, informatica, biologia, medicina e geologia.

Sebbene il numero abbia raggiunto il picco di oltre 3.500 nel 2019, prima dell’entrata in vigore di alcune nuove misure restrittive, il livello di collaborazione rimane elevato, afferma il rapporto.

E si tratta di collaborazioni che non solo facilitano “il potenziale trasferimento illecito di conoscenze”, ma sostengono anche “gli sforzi diretti dallo Stato cinese per reclutare i migliori talenti internazionali, spesso a scapito degli interessi nazionali degli Stati Uniti”, sfruttando la ricerca americana e rubando segreti per utilizzarli in contesti militari e commerciali.

Promuovere un clima di solida ricerca accademica richiede finanziamenti e supporto a lungo termine.

Rubare i frutti di questo lavoro, tuttavia, può essere facile, come hackerare una rete universitaria, assumere ricercatori o appropriarsi della ricerca stessa, avverte il Congresso.

Ecco perché, osserva, è così allettante per gli avversari americani che cercano di trarre vantaggio dalle istituzioni e dalla ricerca statunitensi.

 Il mondo della ricerca guarda però con preoccupazione alla “stretta” di Washington, e ricorda che esistono già delle barriere per la ricerca finanziata a livello federale, volte a proteggere le informazioni classificate e tutto ciò che è considerato sensibile.

Limitare la collaborazione con Pechino, si avverte, potrebbe però essere controproducente e allontanare i talenti.

Gli interessi della sicurezza nazionale e la competitività economica americana sarebbero meglio tutelati continuando, se non aumentando, i finanziamenti alla ricerca piuttosto che implementando costose restrizioni alla ricerca, dicono gli esperti.

In particolare, nel settore tecnologico, la preoccupazione nasce dal fatto che gli sforzi per proteggere la ricerca statunitense rischiano di soffocare il progresso se si spingono troppo oltre e impediscono alle università o alle startup statunitensi di condividere informazioni su tecnologie nuove ed emergenti.

 

Tenere il passo con la Cina, insomma, richiederà anche forti investimenti per proteggere l’innovazione, che significa incoraggiare sì la ricerca e lo sviluppo, senza tuttavia rivelare segreti ai nemici dell’America, in un contesto globale in cui gli Usa considerano i suoi confini digitali “sotto assedio”.

Secondo i dati del dipartimento di giustizia, circa l’80 per cento di tutti i casi di spionaggio economico perseguiti negli Stati Uniti riguarda presunti atti che potrebbero avvantaggiare la Cina.

 

 

 

ENERGIA SOTTO TIRO:

PERCHÉ LA CRISI UCRAINA

RIGUARDA TUTTO IL CONTINENTE.

 Opinione.it - Renato Caputo (*) – (15 ottobre 2025) – ci dice:

(*- Docente universitario di Diritto internazionale

 e normative per la sicurezza.)

 

Energia sotto tiro: perché la crisi ucraina riguarda tutto il continente.

Gli attacchi russi contro le infrastrutture energetiche ucraine non rappresentano soltanto una minaccia per Kyiv, ma un problema strategico per l’intera Europa.

La distruzione sistematica di centrali elettriche, impianti di stoccaggio del gas, condotte e snodi della rete energetica, non mira soltanto a fiaccare la resistenza ucraina:

 serve a destabilizzare il mercato energetico europeo, a creare scarsità, a far salire i prezzi e, in ultima analisi, a erodere la coesione politica dei Paesi dell’Unione.

Ogni volta che la Russia colpisce la rete ucraina, le conseguenze si propagano a catena:

la produzione interna di gas cala drasticamente, l’Ucraina è costretta a importare grandi volumi dall’Europa, la domanda cresce e i costi dell’energia tornano a impennarsi in tutto il continente.

 È un effetto domino che colpisce non solo chi vive ai confini orientali, ma anche i mercati e le famiglie dell’Europa occidentale, ancora segnate dagli aumenti di prezzo degli ultimi anni.

Il problema è che Il settore energetico è stato un campo di battaglia fondamentale da quando la Russia ha lanciato la sua guerra di aggressione su vasta scala.

Ogni anno, la Russia ha cercato di paralizzare la rete elettrica ucraina prima della rigida stagione invernale, apparentemente sperando di erodere il morale della popolazione.

 

Le temperature invernali vanno da fine ottobre a marzo, con gennaio e febbraio come mesi più freddi.

Il problema è aggravato dalle barriere che ancora ostacolano l’integrazione energetica fra l’Ucraina e i Paesi vicini.

 Restrizioni all’export, tariffe elevate per il trasporto, vincoli tecnici spesso più politici che reali impediscono un flusso efficiente di energia e riducono la capacità di risposta collettiva.

In alcuni casi, come quello della Romania, le limitazioni all’esportazione di gas vengono giustificate da differenze nella qualità del prodotto, ma il risultato concreto è un sistema regionale frammentato e vulnerabile, dove ogni Paese pensa a proteggere i propri interessi immediati invece di costruire una sicurezza comune.

Questa mancanza di cooperazione non fa che amplificare l’impatto della strategia russa, che punta proprio a sfruttare le divisioni e le debolezze interne dell’Europa.

La guerra energetica di Mosca è diventata parte integrante della sua offensiva contro l’Occidente.

Colpire le infrastrutture ucraine significa ridurre la capacità di quel Paese di esportare o di partecipare pienamente al mercato energetico europeo, ma significa anche frenare i piani di diversificazione che l’Europa aveva avviato dopo il 2022.

Anche se l’Ucraina non è più un Paese di transito per il gas russo, resta un nodo strategico.

Se la sua rete viene compromessa, l’intero sistema continentale perde capacità di equilibrio e sicurezza:

le forniture diventano più costose, meno prevedibili e più esposte alle pressioni di attori autoritari.

Allo stesso tempo, gli Stati Uniti trovano difficoltà a far arrivare in modo efficiente il loro gas naturale liquefatto ai mercati dell’Europa centrale e orientale, poiché le infrastrutture interne restano congestionate e i colli di bottiglia non vengono risolti.

In questo scenario, la risposta europea deve andare oltre l’emergenza.

 

Servono scelte politiche coordinate, la rimozione delle restrizioni che ostacolano gli scambi energetici con l’Ucraina, l’ampliamento delle capacità di stoccaggio e di trasporto e un vero impegno per proteggere le infrastrutture civili dagli attacchi aerei.

Alcuni ipotizzano persino la creazione di zone di protezione aerea limitate per difendere centrali e snodi energetici cruciali, ma finora l’Europa non ha mostrato il coraggio di fare questo passo.

Il timore di uno scontro diretto con la Russia ha prevalso sulla necessità di difendere la propria sicurezza strategica.

Eppure, ignorare la dimensione europea di questi attacchi equivale a lasciare che la Russia stabilisca i termini del confronto.

 L’inverno alle porte potrebbe trasformarsi in una prova durissima non solo per gli ucraini, ma per tutto il continente, se le forniture dovessero ridursi e i prezzi tornare a crescere.

L’energia è oggi uno dei fronti principali della guerra, e chi pensa che si tratti di un problema confinato oltre il “Dnipro” commette un grave errore.

Solo un’Europa unita, capace di agire come un sistema integrato e solidale, può evitare che la distruzione delle infrastrutture ucraine si trasformi in un collasso della sicurezza energetica europea.

 

 

 

L’UE USERÀ I FONDI

RUSSI PER KYIV?

 Opinione.it - Renato Caputo – (14 ottobre 2025) – ci dice:

 

L’Ue userà i fondi russi per Kyiv?

Dopo quasi quattro anni di guerra, cresce a Bruxelles la convinzione che sia giusto e doveroso impiegare i circa 200 miliardi di euro di riserve della Banca centrale russa congelate in Europa per sostenere l’Ucraina.

Più che una misura meramente economica, l’iniziativa viene ormai vista come un atto politico e morale, una scelta che punta a trasformare il principio di responsabilità in azione concreta:

far sì che le risorse della Russia, in quanto aggressore, contribuiscano ai costi della guerra che essa stessa ha provocato, anziché restare inutilizzate nei conti europei. In questo modo, l’Unione rivendicherebbe non solo il proprio ruolo di partner economico, ma anche quello di garante di un ordine internazionale fondato sul diritto e sulla giustizia.

L’idea è di trasformare questo patrimonio immobilizzato in un meccanismo di prestiti da circa 140 miliardi destinati all’Ucraina, che verrebbero rimborsati solo se – e quando – Mosca accettasse di risarcire i danni di guerra.

In pratica, un’anticipazione sul futuro risarcimento.

 Per tutelarsi da eventuali rivalse legali, l’Unione europea valuta la possibilità di fornire a “Euro clear”, la camera di compensazione belga che custodisce gran parte dei fondi, una garanzia diretta o attraverso un gruppo di Stati membri che agirebbe in forma coordinata.

 

Il piano non è però privo di ostacoli.

 Il Belgio, per ora, resta freddo:

vuole certezze giuridiche sulle garanzie e teme che un passo falso possa esporre l’Europa a cause miliardarie.

Anche tra gli altri Stati membri le posizioni divergono:

 c’è chi spinge per destinare le risorse alla difesa, come la Polonia e gli Stati baltici, e chi, come Francia e Germania, preferirebbe destinarli a sostegni economici, alla ricostruzione civile e alle infrastrutture ucraine.

Nel frattempo, la pressione su Bruxelles cresce.

Gli Stati Uniti hanno chiarito che continueranno a fornire il supporto necessario all’Ucraina, a condizione che l’Europa si faccia carico di sostenere lo sforzo bellico e la stabilità economica del Paese.

Tuttavia, sebbene l’Ucraina avesse quantificato un fabbisogno di armamenti pari a un miliardo di dollari al mese, finora solo sei Paesi hanno contribuito con poco più di due miliardi complessivi, sollevando preoccupazioni sulla lentezza dei rifornimenti.

 

Anche oltre Atlantico, il tema divide.

 Donald Trump si dice ora pronto a fornire missili Tomahawk a Kyiv, ma solo dopo aver “parlato con Vladimir Putin” nel tentativo – al momento poco realistico – di chiudere il conflitto.

 Il Cremlino, viceversa, non mostra alcuna intenzione di negoziare e minaccia ritorsioni nel caso in cui l’Occidente tocchi i suoi beni congelati. La partita si gioca dunque su un equilibrio sottile:

da un lato la necessità politica e morale di sostenere un Paese aggredito, dall’altro il timore di violare principi di diritto internazionale e scatenare una nuova tempesta finanziaria.

Bruxelles, intanto, cerca di muoversi in sintonia con il G7, che detiene complessivamente circa 300 miliardi di dollari di riserve russe bloccate e che sta discutendo nuove sanzioni contro l’energia di Mosca.

Se il piano andrà in porto, sarà una svolta storica:

 per la prima volta i beni di una potenza mondiale verrebbero trasformati in strumento di ricostruzione per la sua vittima.

Ma sarà anche una prova di forza per un’Europa chiamata a decidere se vuole davvero essere, non solo nelle parole, il pilastro della libertà ucraina.

 

 

 

 

L’OMBRA RUSSA

NEL MEDITERRANEO.

Opinione.it - Renato Caputo – (13 ottobre 2025) – ci dice:

 

L’ombra russa nel Mediterraneo.

La presenza della Russia si muove silenziosa sotto la superficie del Mediterraneo.

Dall’analisi dei movimenti del sottomarino” Novorossiysk” – classe Kilo, progetto 636.3 – tra luglio e settembre 2025 emerge una strategia spregiudicata e calcolata, il volto oscuro di una potenza che non accetta limiti né confini.

Dietro la patina diplomatica delle cosiddette “missioni di cooperazione” con Paesi come Egitto e Algeria, il reale obiettivo sembra essere duplice: scortare e proteggere la “flotta ombra” di petroliere russe impegnate nel commercio di petrolio, e condurre attività di intelligence e sorveglianza subacquea.

 Il “Novorossiysk”, partito dal Baltico e transitato attraverso Gibilterra all’inizio di luglio, ha attraversato il Mediterraneo con un comportamento tipicamente opaco:

periodi prolungati di immersione alternati a misteriosi incontri con il rimorchiatore” Jakob Grebelsky”, un vecchio “Goryn class” trasformato in piattaforma logistica e nave civetta.

 Ogni suo movimento appare studiato per proteggere le petroliere, garantendo autonomia, silenzio operativo e capacità di monitoraggio.

 Dove le rotte commerciali internazionali si incrociano, Mosca invia le sue sentinelle sommerse, che non portano aiuti né cooperazione ma tensione, controllo e raccolta di informazioni.

 

Le aree in cui il sottomarino si è concentrato coincidono con punti nevralgici per energia e comunicazioni:

 dalle coste egiziane di “El Dabaa” e “Alamein”, al largo di “Cipro” e “Tartus”, fino al cuore del Mediterraneo centrale e al tratto più sensibile tra Sicilia e Ionio, dove scorrono condotte strategiche e cavi sottomarini europei.

I movimenti del rimorchiatore, utilizzato come copertura, disegnano un quadro preciso:

 un’operazione di tre mesi, con circa quaranta giorni di immersione e presenza costante vicino alle rotte marittime occidentali.

Dopo aver perso la “base siriana di Tartus”, la Russia sembra impegnata a ricostruire nel Mediterraneo una rete di appoggi “amichevoli”, sfruttando porti come Alessandria e Algeri, che diventano veri e propri punti di sostegno per una flotta senza trasparenza e senza controllo.

Non si tratta di semplici scali tecnici, ma di atti politici:

dimostrazioni di influenza in Paesi dove il Cremlino cerca di consolidare legami, mentre la guerra in Ucraina continua a dissanguare il Paese sul piano militare ed economico.

Ciò che inquieta non è soltanto la capacità tecnica del” Novorossiysk” di lanciare missili da crociera “Kalibr” – già utilizzati contro obiettivi civili in Ucraina –ma la logica che guida il suo impiego.

La Russia considera il mare non come spazio di cooperazione, ma come campo d’azione segreto, dove le regole della convivenza internazionale valgono solo per gli altri.

Ogni missione del genere aumenta i rischi di incidente e accentua la sensazione che Mosca stia preparando un livello di confronto più subdolo e più pericoloso: quello delle profondità.

 

I sottomarini che scortano la “flotta ombra” russa sono oggi simbolo di una politica che ignora ogni principio di responsabilità.

Non c’è nulla di difensivo in un’operazione di questo tipo.

Mentre il mondo cerca di mantenere un fragile equilibrio, la Russia sceglie la via della provocazione, trasformando il Mediterraneo in un campo di manovra per i propri sottomarini e diplomazie parallele.

Sotto la superficie del mare, tra correnti e fondali, si muove un’ombra che parla la lingua della sfida.

 È la stessa ombra che accompagna la Russia da anni nelle guerre ibride, nelle interferenze e nelle ambiguità.

 Più a lungo resterà indisturbata, più il Mediterraneo – da spazio di incontro tra civiltà – rischia di riflettere le sue acque più torbide: quelle dell’arroganza e dell’inganno russo.

 

 

 

DOPO LA COREA DEL NORD,

MOSCA PUNTA SU CUBA.

Opinione.it - Renato Caputo – (10 ottobre 2025) ci dice:

 

Dopo la Corea del Nord, Mosca punta su Cuba.

La Russia sembra fare sempre più affidamento su combattenti stranieri per sostenere il proprio sforzo bellico in Ucraina, un segnale evidente di difficoltà a mantenere un esercito nazionale stabile e sufficientemente numeroso.

Decine di migliaia di cittadini cubani sarebbero stati reclutati, attratti da stipendi fino a cento volte superiori al salario medio locale, una cifra che rende l’offerta irresistibile per molti in un contesto di grave crisi economica a Cuba.

Durante un briefing al Congresso Usa, il portavoce dell’intelligence militare ucraina (Hur), “Andriy Yusov”, ha dichiarato che il numero di cubani già “reclutati e con i documenti pronti” si aggira intorno ai 20mila, ma potrebbe salire fino a 25mila se si considerano i reclutamenti ancora in corso e le operazioni già avviate da Mosca.

Tra coloro che hanno firmato contratti ufficiali, il numero individuato dagli ucraini tra giugno 2023 e febbraio 2024 era di circa 1.038 persone.

Il compenso offerto ai mercenari cubani è di circa 2mila dollari al mese, un importo che equivale a cento volte la media mensile di 20 dollari a Cuba, evidenziando come la Russia stia giocando sulla disperazione economica di un Paese in difficoltà per reclutare combattenti.

 

L’età media dei mercenari cubani è di circa 35 anni, un dato che suggerisce una selezione di uomini già adulti, con una certa esperienza lavorativa ma anche più esposti ai rischi fisici di un conflitto intenso.

 Le autorità ucraine hanno documentato almeno 39 cubani deceduti, pur precisando che si tratta di una stima parziale:

il numero reale potrebbe essere molto più alto.

 Il governo cubano nega qualsiasi coinvolgimento diretto, pur ammettendo che alcuni cittadini possano essere stati coinvolti in attività di arruolamento illegale.

Tuttavia, secondo Kyiv, un’operazione di tali dimensioni difficilmente potrebbe svolgersi senza il tacito consenso delle autorità cubane, mettendo in luce una ambiguità diplomatica che permette a Mosca di aggirare eventuali sanzioni o pressioni internazionali.

Oltre ai cubani, la Russia ha fatto ricorso anche a truppe nordcoreane. Secondo stime di “Reuters” e “Bbc”, i soldati della Corea del Nord impegnati sul fronte – soprattutto nella regione russa di “Kursk” – sarebbero tra gli 11mila e i 12mila, con circa 4mila tra morti, feriti, catturati o dispersi.

Diverse fonti di intelligence occidentale sostengono che questi militari siano impiegati principalmente come truppe d’assalto, subendo perdite elevate in operazioni dirette contro le linee ucraine.

“Vladimir Putin” e “Kim Jong-un” hanno confermato pubblicamente la partecipazione di militari nordcoreani, un gesto che rappresenta non solo un rafforzamento della cooperazione militare tra Mosca e Pyongyang, ma anche un chiaro messaggio politico:

la Russia, incapace di sostenere da sola il proprio apparato militare, si affida a partner internazionali disposti a pagare il prezzo umano della guerra.

 

Molti aspetti restano incerti, ma la presenza di contratti firmati, passaporti e liste di nomi reali suggerisce un reclutamento straniero organizzato e sistematico.

Anche per i nordcoreani, il quadro diventa più chiaro dopo le ammissioni ufficiali, ma resta difficile verificare con certezza le perdite e il numero totale di combattenti impiegati.

 A questi contingenti principali si aggiungono presenze minori provenienti da Paesi dell’Africa e dell’Asia centrale, segnalando come la Russia stia creando una vera e propria “armata internazionale” di mercenari e soldati stranieri per compensare le carenze interne.

 Il ricorso massiccio a combattenti stranieri riflette in maniera drammatica le difficoltà della Russia nel mantenere i propri arruolamenti interni.

Dopo oltre tre anni e mezzo di guerra, il bacino di volontari e coscritti russi – in particolare nelle regioni più povere e remote del Paese – sembra essersi ridotto drasticamente, riducendo le opzioni di Mosca per rimpiazzare perdite crescenti.

 L’affidamento a contingenti esterni appare così come un chiaro indicatore di logoramento:

un tentativo di compensare uomini e risorse che la macchina bellica russa non riesce più a garantire autonomamente.

 

L’impiego di mercenari stranieri assume anche una valenza simbolica: segnala la crescente pressione interna sulla Russia, sia dal punto di vista sociale sia politico.

Mentre la popolazione russa subisce le conseguenze di una mobilitazione sempre più estesa e di una guerra logorante, il Cremlino appare costretto a cercare personale altrove, mettendo in luce la fragilità del reclutamento nazionale e l’insostenibilità di una guerra prolungata senza un sostegno umano sufficiente.

Inoltre, l’utilizzo di combattenti stranieri introduce rischi significativi: differenze culturali e linguistiche, minore disciplina, possibili problemi di lealtà e integrazione con le unità russe.

Questi fattori potrebbero incidere negativamente sull’efficacia operativa delle forze di Mosca, amplificando le difficoltà logistiche e tattiche sul campo.

L’approccio della Russia evidenzia così non solo un deficit numerico, ma anche una crescente vulnerabilità strutturale del suo apparato militare.

In definitiva, l’affidamento su mercenari cubani, nordcoreani e altri combattenti stranieri è molto più di un espediente tattico:

 rappresenta un chiaro segnale della crisi interna della Russia, delle difficoltà di mobilitare risorse umane e della necessità di sopperire alle perdite con personale esterno.

 Questo fenomeno riflette il logoramento progressivo del sistema militare russo e l’urgenza per Mosca di mantenere in vita una macchina bellica sempre più costosa, sanguinosa e socialmente insostenibile.

La guerra in Ucraina, ormai da anni, non è solo una prova militare:

 è anche un indicatore della fragilità politica, economica e morale della Russia, costretta a dipendere da combattenti stranieri per continuare a sostenere il proprio progetto aggressivo.

 

 

 

EUROPA SBAGLIATA:

L'OTTIMA PACE DI TRUMP.

 Opinione.it - Francesca Romana Fantetti – (15 ottobre 2025) – ci dice:

 

Europa sbagliata: l'ottima pace di Trump.

Notizia positiva.

 Dopo il suo impegno e lavoro determinato e indefesso, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha siglato l’accordo di pace tra i palestinesi e gli israeliani.

 Genti che si sono barbaramente ammazzate e uccise.

All’incontro della firma in Egitto non era presente l’Unione europea nella persona di Ursula von der Leyen, ritenuta responsabile, affatto velatamente, di avere aizzato e aizzare la guerra, anziché la pace.

 Il presidente eletto Usa sta già lavorando all’altra pace da costruire, quella non meno difficile tra la Russia e l’Ucraina.

 Anche in quella il ruolo dell’attuale Europa di von der Leyen non brilla. Si è scoperto così che la pace non è poi così voluta come si sarebbe dovuto.

Mandare armi in conflitti è chiaramente aizzare e volere la continuazione della guerra e dei conflitti.

Siccome poi la pace è stata raggiunta da Donald Trump, è per taluni meno “pace”, anzi per niente tale, derubricata rattamente in mera e piccola “tregua”;

poi ci sono quelli che dicono che i punti della pace scritti sono venti e ne sono stati firmati solo due, e via dicendo.

 Sminuire la pace raggiunta è come continuare a volere la guerra, più o meno.

 

Allora sì, alla firma dei mille punti inventati e scritti per avere la pace, dicono quelli con l’elmetto degli altri – e le bombe e i morti sempre degli altri – si sarebbe potuto dare a Trump il Nobel per la pace.

E via dicendo.

I fatti, tuttavia, sono duri e non demordono.

 La pace continua a essere la pace. E si fa.

Grazie a Trump, che l’ha raggiunta nella veste di presidente eletto a maggioranza dagli americani in Usa.

Finalmente una notizia positiva.

 Una notizia felice che dovrebbe sollevare i nostri animi.

Altre notizie positive sono il fatto che presto anche la querelle russo-ucraina finirà, sempre grazie a Trump.

L’Italia è uno dei pochi Stati membri europei che ha parteggiato per la pace, letteralmente dribblando questa Europa sbagliata.

Esemplificativo è, in tal senso, Emmanuel Macron, uscente per tutti i francesi.

Una nuova leadership europea eletta si impone come necessaria.

 Si dice tanto di parlare di buone notizie e, appena ce ne è una – e che buona notizia, la pace! – le si fanno le pulci fino persino a non ammetterla.

La pace è la pace. La migliore notizia nel mondo e per il mondo.

 

 

 

IL FIUME SELVAGGIO E LA

NUOVA RELIGIONE DEL CONTROLLO.

Opinione.it - Sandro Scoppa – (15 ottobre 2025) – ci dice:

Il fiume selvaggio e la nuova religione del controll.o

Quando la natura diventa soggetto di diritti, l’uomo torna suddito. L’ultimo fiume libero d’Europa rivela il volto autoritario dell’ambientalismo contemporaneo.

 

Ogni epoca ha la sua ideologia dominante.

 La nostra ha scelto l’ambientalismo, elevato a nuova religione civile. Nell’epoca attuale non si parla più di libertà, ma di “diritti della natura”; non si discute di limiti al potere, piuttosto di limiti all’uomo.

 Il caso del fiume “Vjosa”, in Albania ‒ l’ultimo grande corso d’acqua europeo rimasto intatto, ora sotto tutela Unesco ‒ è diventato il simbolo di questo rovesciamento.

Per proteggere un fiume, si teorizza che la natura debba essere soggetto di diritto.

Tuttavia, tutte le volte che si spoglia l’individuo della sua centralità, si prepara il terreno a un nuovo dominio:

quello di chi, in nome della natura, parla e decide per tutti.

 

Il fiume indicato, lungo 190 chilometri, scorre libero dai monti del Pindo fino all’Adriatico.

 È un ecosistema prezioso, ma anche un territorio abitato da secoli, plasmato dal lavoro umano.

Agricoltura, pesca, piccoli insediamenti e forme di economia locale hanno reso viva la sua valle.

Oggi, invece, le comunità che vi vivono rischiano di essere marginalizzate:

la tutela internazionale si traduce in vincoli, divieti, permessi, regolamenti che spesso proteggono più la burocrazia che la biodiversità.

 

Non è un caso isolato.

La storia è piena di “tutele” che, nel nome del bene comune, hanno finito per sottrarre agli individui la gestione dei propri luoghi.

In epoca romana, ad esempio, le terre considerate “pubbliche” ‒ le “ager publicus” ‒ finirono presto nelle mani dei pochi che avevano accesso al potere, mentre i piccoli proprietari, privati delle loro parcelle, scivolarono nella dipendenza.

Ogni volta che la proprietà si allontana dalle mani di chi lavora, la cura del territorio scompare.

 

Qualcosa di simile è accaduto nel Medioevo, quando le foreste dichiarate “demaniali” dal sovrano non erano più spazi naturali, bensì territori di privilegio:

 i contadini non potevano cacciare, tagliare legna o pascolare il bestiame senza autorizzazione.

 Le leggi forestali inglesi, nate per proteggere i cervi del re, sono diventate presto un simbolo di arbitrio.

 E ancora nel Novecento, in nome dell’interesse collettivo, regimi e burocrazie hanno pianificato, e continuano a farlo, fiumi, laghi e campagne con la pretesa di “razionalizzare” la natura, ottenendo al contrario desertificazione, degrado e miseria.

 

L’idea che l’ambiente si salvi attraverso la centralizzazione è dunque antica quanto falsa.

Ogni volta che si affida a un’autorità esterna la gestione della terra, la responsabilità individuale si dissolve.

Il vero motore della conservazione è la proprietà privata, perché solo chi possiede ha interesse a mantenere, migliorare, tramandare.

Le Alpi italiane ne offrono un esempio eloquente:

per secoli le vicinie e le comunità montane, basate su diritti di uso collettivo ma fondati sulla responsabilità personale, hanno saputo custodire boschi e pascoli meglio di qualsiasi ente pubblico.

E quando nel Novecento la gestione è stata burocratizzata, l’abbandono ha preso il posto della cura.

 

Ora si ripete lo stesso errore su scala globale. In nome della “Madre Terra” ‒ concetto introdotto per la prima volta nella Costituzione dell’Ecuador nel 2008 ‒ si moltiplicano dichiarazioni solenni, mentre i problemi concreti restano intatti.

In Bolivia, dove la “Legge della Natura” è diventata simbolo politico, lo sfruttamento delle miniere e la deforestazione proseguono indisturbati. È la dimostrazione che la deificazione dell’ambiente non salva la natura, serve unicamente a legittimare nuove forme di potere.

 

In buona sostanza, la vicenda del Vjosa che si commenta mostra con chiarezza questa ambiguità.

Dietro il linguaggio della tutela si nasconde una struttura di controllo che regola ogni attività umana:

costruzioni, prelievi, estrazioni, perfino il turismo.

Tutto dev’essere “autorizzato”, “monitorato”, “certificato”.

 Si crea così un sistema in cui la libertà economica e la responsabilità individuale vengono sostituite dalla sorveglianza.

La natura diventa pretesto per estendere l’amministrazione.

 

Ma l’ambiente non si protegge con i decreti.

Si protegge con la libertà, la conoscenza diffusa, l’iniziativa personale. La storia economica lo conferma:

dove il diritto di proprietà è chiaro e sicuro, le risorse sono gestite meglio.

Gli studi di “Elinor Ostrom”, nota per i suoi studi pionieristici sui “commons” e per essere stata la prima donna a ricevere il Premio Nobel per l’Economia, nel 2009, condiviso con “Oliver E. Williamson”, sui beni comuni mostrano che le comunità autonome, senza intervento statale, sanno stabilire regole efficaci per l’uso dell’acqua, dei boschi e dei pascoli.

 È la prova che l’ordine spontaneo ‒ non la pianificazione ‒ garantisce equilibrio e sostenibilità.

 

Anche il mercato, quando non è ostacolato, è un alleato della tutela. L’innovazione tecnologica, gli investimenti privati, la concorrenza tra imprese hanno ridotto inquinamento e sprechi più di qualsiasi conferenza sul clima.

L’energia pulita, il risparmio idrico, la gestione efficiente dei rifiuti nascono da incentivi, non da proibizioni.

 

Ecco perché il destino del Vjosa non dovrebbe essere consegnato a decreti o organismi sovranazionali, ma alle persone che vivono lungo le sue rive.

 A chi lo conosce, lo usa, lo ama.

Il fiume sarà davvero libero solo se liberi saranno i suoi abitanti: proprietari, non sudditi; custodi, non sorvegliati.

Attribuire diritti alla natura significa, in realtà, togliere diritti a chi ne è parte.

È l’ennesima forma di collettivismo mascherata da virtù.

La vera sfida del nostro tempo non è dare voce ai fiumi, ma restituirla agli uomini.

 

 

 

ARGENTINA, UNA SVOLTA

 ISTITUZIONALE.

 Opinione.it - Sandro Scoppa – (12 giugno 2025) – ci dice:

 

Argentina, una svolta istituzionale.

Con la sentenza del 10 giugno 2025, la “Corte suprema di Giustizia della Nazione dell’Argentina” ha confermato la condanna dell’ex presidente “Cristina Fernández de Kirchner” a sei anni di reclusione effettiva e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici.

La decisione riguarda il reato di amministrazione fraudolenta in danno dello Stato, per l’assegnazione irregolare di 51 appalti pubblici a imprese legate a” Lázaro Báez” nella “provincia di Santa Cruz”.

 La Suprema Corte ha respinto il ricorso straordinario presentato dalla difesa, sottolineando che non sono state violate né le garanzie costituzionali né il principio del giusto processo.

 Secondo i giudici, la sentenza è stata fondata su un solido quadro probatorio e una altrettanto corretta valutazione dei fatti, compiuta in due gradi di giudizio.

 Le critiche sollevate dalla difesa sono state considerate prive di autonoma motivazione e incapaci di incidere sull’esito del processo.

Si tratta di una pronuncia destinata a fare storia, non solo per la rilevanza della figura condannata, ma anche per il messaggio istituzionale che veicola:

nessuno è al di sopra della legge.

Il procedimento, complesso e articolato, si è sviluppato nell’arco di anni, attraversando diverse fasi e confermando l’efficacia, in questo caso, del sistema giudiziario.

Il contesto in cui si inserisce la decisione è profondamente mutato rispetto al passato.

 Il governo guidato da “Javier Milei” ha più volte espresso la volontà di rompere con le logiche del passato, promuovendo un’azione politica centrata su legalità, rigore e trasparenza.

Pur non interferendo con l’autonomia della giustizia, il nuovo clima istituzionale ha certamente favorito una maggiore determinazione nel perseguire le responsabilità.

 

L’esito di questo processo rafforza la fiducia nello Stato di diritto e rappresenta un segnale importante per la società argentina.

 In una democrazia matura, le istituzioni devono poter operare senza condizionamenti, garantendo giustizia anche nei confronti di chi ha ricoperto i più alti incarichi pubblici.

 

C’era da aspettarsi che Pechino

utilizzasse il monopolio delle terre rare per

rispondere a Trump.

Ilfattoquotidiano.it – (14 ottobre 2025) – Gianluigi Perrone – ci dice:

 

Per chi ha qualcosa da dire.

La prima cosa che ha fatto Trump una volta appreso di non aver vinto il tanto ambito Nobel per la Pace è dare addosso a Pechino.

C’era da aspettarsi che Pechino utilizzasse il monopolio delle terre rare per rispondere a Trump.

La prima cosa che ha fatto Trump una volta appreso di non aver vinto il tanto ambito Nobel per la Pace (a favore di una sua supporter, diciamolo) è dare addosso a Pechino, cancellando l’incontro con il Presidente Xi Jinping al prossimo APEC in Corea del Sud la settimana prossima.

Una decisione che ha la gravità di una dichiarazione di guerra.

In un momento così delicato per la questione mediorientale, Pechino ha voluto tirare fuori dal cappello la risposta cinese alla “Trade War”, propedeutica per Trump a isolare la Cina dal mercato globale.

 C’era da aspettarsi che Pechino utilizzasse la carta del monopolio delle terre rare (17 elementi primari più i magneti) come risposta.

Non era una questione di “se” ma di “quando”.

In breve, la Cina rivendica il controllo commerciale non solo sulla esportazione degli elementi in sé ma anche sui prodotti che li contengono, ovvero tutto.

Tutto ciò che è tecnologia.

 Questo vuol dire che se la Cina fa pressioni sul governo italiano per allontanarsi dalle proprie posizioni filo-americane, filo-israeliane, filo-ucraine o quel che è, le conseguenze di un rifiuto potrebbero essere il tagliarsi fuori dall’innovazione tecnologica per decenni, se non per sempre.

 

E non è allarmismo da social.

Qui in Cina l’adozione dell’intelligenza artificiale e della robotica è già a livelli irraggiungibili.

L’evoluzione del “machine learning” ha tempistiche esponenziali, e ha una richiesta incessante di hardware (per i semiconduttori, i chip, che si fanno con le terre rare) e di energia (quella che la Russia ci vendeva a noi e ora vende alla Cina e agli USA).

 Essere tagliati fuori non vuol dire doversi arrangiare con le automobili, i computer, i telefonini, che abbiamo adesso.

Vuol dire tornare ad andare in giro con il carretto e l’asinello.

 

A Xi Jinping, o chi per lui, non interessa fare pressione sull’Italia. All’imprenditoria cinese sembra oggi non interessare più cosa sta succedendo in Europa, oramai data per spacciata.

Possono fare pressione sul Giappone.

Sulla Corea del Sud. Sugli alleati americani nell’Indopacifico.

Possono fare pressione sugli Stati Uniti stessi.

Perché va da sé che questi elementi sono di vitale importanza per costruire la tecnologia militare.

Quelle armi che gli Stati Uniti stanno vendendo all’Europa per il riarmo.

Ma se l’Italia spende 140 miliardi di euro per il riarmo, poi come verranno assemblate queste armi?

Si stabilisce un’economia di guerra senza le materie prime per costruire le armi?

Oppure la Cina si trasforma da fabbrica del Mondo a fabbrica militare del Mondo, fondando il “Complesso Militare Industriale più mastodontico della Storia dell’Umanità”, dal quale devono servirsi tutti. Inclusa l’Italia.

Inclusa l’Europa, Inclusi gli Stati Uniti.

(E su questo vi invito a seguire l’approfondimento sul mio canale “Genda Giada”.)

Saranno poi gli Stati Uniti a comprare le armi dalla Cina e a venderle a noi al triplo del prezzo come stanno facendo con il gas russo?

Non è detto visto che tra Pechino e Washington ora volano gli stracci. Cosa ha a che fare questo con il Nobel mancato a Trump?

Tutto e niente, perché qui entra in gioco l’umore dell’uomo Donald, con il suo genuino e imprevedibile narcisismo fanciullesco, estremamente deluso dal risultato non raggiunto.

In passato persino Hitler, Stalin e Mussolini erano stati candidati al Nobel per la Pace.

 Il Nobel definisce la politica di una amministrazione, e ne conferisce prestigio e longevità.

 Forse questo riconoscimento avrebbe permesso a Trump (e alla sua legacy che potrebbe andare da Vance a Barron) di continuare la trasformazione del sistema statunitense in modo pacifico.

 Forse, relegando il Dipartimento della Difesa (anzi della Guerra) a ranghi più mansueti, “perché abbiamo qui sulla scrivania questo bel Nobel per la Pace, non possiamo mica andare a bombardare la Cina”.

 Invece no.

Come ha commentato il portavoce della Casa Bianca, “Steven Cheung”, “il Nobel ha preferito la politica alla pace”.

E questa è una minaccia.

La minaccia della “Terza Guerra Mondiale militare”.

 

 

 

La Cina stringe la presa sulle terre

 rare: novità e potenziali impatti.

Ispionline.it – (9 ottobre 2025) – Alberto Prina Cerai – ci dice:

Il Ministero del Commercio cinese ha nuovamente aggiornato il regolamento sui controlli all’export di questi materiali critici e strategici. Si tratta di una mossa che anticipa la visita di Trump e Xi, ma che fa parte di una strategia geoeconomica più ampia.

 

Nella giornata di giovedì 9 ottobre, il Ministero del Commercio cinese (MOFCOM) ha annunciato una nuova stretta sull’industria delle terre rare (REE) e non solo.

Secondo quanto riportato da una nota del Ministero, nel quadro dell’”Export Control Law e dei Regolamenti sull’export di tecnologie dual-use” – che, ricordiamo, la Cina richiama in osservanza dei “Trattati di non proliferazione siglati nel 1968” – il MOFCOM richiederà alle industrie coinvolte di ottemperare ai controlli, che riguardano buona parte degli elementi di terre rare (REE) e i materiali composti impiegati in magneti e altre applicazioni che vengono utilizzati nell’industria civile e militare.

 

Questa nuovo aggiornamento, in realtà, si aggiunge a quanto pubblicato lo scorso aprile, che aveva proprio introdotto come elemento di novità rispetto ai regolamenti precedenti un focus specifico su lutezio, disprosio, terbio, gadolinio, scandio, samario e ittrio.

Elementi che il governo cinese ha individuato in quanto potenzialmente impiegati in dispositivi militari di varia natura che potrebbero urtare la sicurezza nazionale cinese.

Nell’ultimo round di incontri tra i rappresentanti di Cina e Stati Uniti, lo scorso giugno a Londra, una bozza di accordo era stata approvata per il parziale “rilassamento” di queste restrizioni, che avevano avuto l’effetto non previsto – almeno considerando le intenzioni cinesi – di colpire, per via di ritardi sulle consegne, impianti di produzione in Europa e negli USA (soprattutto legati all’auto motive).

La ratio era quella di portare sul tavolo delle trattative i dazi ma soprattutto ridiscutere gli export control statunitensi su chip avanzati per l’IA e tecnologie di produzione.

 

Le nuove misure di controllo che riguarderanno, complessivamente, le esportazioni di materiali, componenti e tecnologie per la processazione di terre rare certificano l’oramai conclamata weaponization dell’industria.

 Le aree a cui si estendono i controlli riguardano:

 equipaggiamento e reagenti per terre rare, in particolare separazione e linee di produzione dei magneti NdFeB;

l’aggiunta di ulteriori 5 elementi di REE (olmio, erbio, tulio, europio e itterbio) e i rispettivi composti (ossidi, metalli).

 

Ma sono due gli importanti elementi di novità che emergono dalla nota del MOFCOM e che riguardano l’approccio ai controlli.

Da lato cinese, si aggiungerà il divieto esplicito di esportazione ad entità ritenute un rischio per la sicurezza nazionale ̶   dunque, andando oltre l’obbligo di licenza (che è differente dal concetto applicato, per esempio negli USA, di presumption of denial che prevede la non concessione della licenza a meno che si dimostri di non avere come clienti aziende o entità ritenuti un rischio per la sicurezza nazionale).

 Proprio con questa distinzione, le autorità cinesi avevano concesso, o meno, tali licenze a partire da aprile scorso caso per caso, in funzione degli utilizzi finali con l’esportatore che doveva richiedere l’autorizzazione attraverso un vaglio molto farraginoso – soprattutto per i requisiti tecnici imposti dal regolamento sul contenuto minimo delle terre rare ‘magnetiche’ che definisce, in parole povere, quanto quel prodotto sia utilizzabile in determinate componenti.

 In questi mesi, è presumibile che con tale processo le autorità cinesi abbiano raccolto informazioni di intelligence e di scrutinio per capire effettivamente chi fossero gli utilizzatori end-use dei prodotti contenenti quei materiali, con un occhio di riguardo soprattutto sul Pentagono.

 C’è comunque da notare come, in generale, il settore della difesa americano sia poco rilevante sulla domanda globale di terre rare (circa lo 0,1%), ma non per questo poco rilevante da un punto di vista strategico.

 

Il secondo elemento di novità è più legato alle dinamiche della “supply chain”, dove si concretizza il controllo effettivo sull’industria da parte della Cina.

Seppur le tecnologie per l’estrazione, processazione, separazione e metallizzazione delle terre rare (ovvero i due step più critici per l’emergere di una filiera alternativa) fossero già all’interno del regolamento di controllo, sono stati aggiunti anche software e know-how per la manutenzione e funzionamento di specifici impianti, ad esempio per la colata rapida delle leghe metalliche o i processi di macinazione a getto delle polveri magnetiche.

 Inoltre, anche prodotti con solo lo 0,1% di materiali di provenienza cinese saranno sottoposti ai controlli: un requisito che probabilmente è volto a prevenire, dove possibile, anche le attività di contrabbando. In sostanza, qualunque società “terza parte” che produca al di fuori della Cina componenti con più dello 0,1% di una qualsiasi delle 12 terre rare sopra indicate e ceda il prodotto risultante a una “quarta parte”, sarà nuovamente necessaria una licenza rilasciata dal MOFCOM, oltre a una lettera di conformità.

 

Dunque, è proprio nell’estensione dei controlli oltre i confini della Cina che giace l’aspetto più rilevante: anche le componenti (leghe o magneti, o probabilmente anche metalli) che utilizzeranno tecnologia o materiali cinesi (quindi, fuori dal perimetro nazionale) saranno sottoposti al regolamento del MOFCOM.

Un regime di controlli che in qualche modo si specchia, per la profondità e l’extraterritorialità a cui ambisce, a quello imposto dagli USA sui semiconduttori avanzati negli scorsi anni, seppur l’efficacia e gli obiettivi siano ancora del tutto difficili da anticipare.

 

Le tempistiche sembrano suggerire una mossa ai fini geoeconomici. L’annuncio precede di qualche settimana l’incontro previsto tra Trump e Xi Jinping all’”Asia-Pacific Economic Cooperation” (APEC) in Corea del Sud:

un segnale che Pechino vuole mettere massima pressione sugli Stati Uniti in previsione dell’incontro, così come fatto poco prima della rinegoziazione dei dazi lo scorso giugno.

Qualora si raggiungesse un accordo simile, è del tutto improbabile che Pechino decida di ritirare gli export control, considerando che anche per altri minerali e materiali (gallio, germanio, grafite etc.) sono tuttora in vigore. Al di là del target implicito (gli USA), la natura e la complessità dell’industria rende complesso evitare ricadute lungo la filiera, come accaduto per l’industria automotive europea anche qualora possano essere previste eccezioni.

Dunque, è più che verosimile che il regolamento del MOFCOM sia disegnato per servire più obiettivi.

Dalla prospettiva americana e occidentale, questa decisione del Ministero del Commercio cinese rappresenta sicuramente un tentativo di disarticolare o frenare il tentativo di decoupling messo in atto (seppur complesso), con nuovi investimenti lungo la supply chain per sganciarsi dalla Cina per lo meno sui super-magneti che rappresentano sicuramente l’asset più strategico per industrie come EV, robotica e naturalmente le applicazioni militari.

Il caso più eclatante è quello di “MP Materials “su cui l’amministrazione Trump è intervenuta per supportare il piano industriale (10X) dell’unica azienda – oltre all’australiana “Lynas Corporation” – che gestisce un deposito attivo di terre rare negli USA, con l’obiettivo di integrare le attività per una capacità di produzione di circa 9.000 tonnellate di magneti.

Ma grandi incognite soprattutto sulla carenza di materiali magnetici quali samario e disprosio, controllati al 100% dalla Cina.

 

Quello che ci si potrà aspettare nelle prossime settimane prima che l’inasprimento delle restrizioni entri in vigore (il 1° dicembre 2025) sarà, almeno in teoria, una corsa ad acquistare e stoccare i materiali in anticipo anche se sarà difficile prevedere quali saranno gli utilizzi finali (sicuramente ex-post dall’entrata in vigore dei meccanismi di controllo, considerando i tempi di consegna e di fabbricazione).

Già nelle settimane scorse i prezzi di alcuni materiali (neodimio e praseodimio, due elementi non inclusi nella lista cinese) hanno segnalato movimenti al rialzo, in concomitanza con alcuni annunci roboanti fatti da società di estrazione ed esplorazione con il governo americano ma probabilmente legati ad un contesto in cui rimane complesso muoversi all’interno delle restrizioni.

 

In conclusione, se c’è un chiaro effetto che il nuovo regolamento avrà è quello di confermare ancor di più l’urgenza e l’imperativo per l’Occidente di costruirsi – a costi notevolissimi rispetto al business-as-usual, considerando che da ora in poi sarà sempre più complesso accedere ai materiali, componenti, tecnologie di processo cinesi – un’industria mine-to-magnet che possa garantire quantomeno il fabbisogno in settori critici.

Se c’è un prezzo da pagare, le mosse di Pechino hanno rivelato il security premium.

Tuttavia, le nuove prescrizioni del regolamento del MOFCOM fanno presagire che, ormai, tutte le terre rare e le loro applicazioni (dunque, non solo quelle incluse nel documento di aprile) siano ormai parte della strategia cinese di coercizione e risposta all’offensiva americana.

Affrancarsi non sarà semplice:

parte di questo processo si è avviato, ma non sarà un percorso immediato e privo di ostacoli qualora la competizione tecnologica e geopolitica tra USA e Cina portasse a misure di ulteriore escalation, con impatti su aziende che hanno interessi da ambo le parti.

(Alberto Prina Cerai).

(ISPI Junior Research Fellow).

 

 

 

Aspettando immagini di sottomissione

abietta che non appare.

Unz.com - Alastair Crooke – (13 ottobre 2025) – ci dice:

 

Il continuo "dominio" degli Stati Uniti richiede di colpire in più direzioni, perché la guerra unidirezionale contro la Russia è inaspettatamente fallita.

Trump : " Questo problema con il Vietnam... Abbiamo smesso di lottare per vincere. Avremmo vinto facilmente.

Avremmo vinto l'Afghanistan facilmente. Avrebbe vinto ogni guerra facilmente.

Ma siamo diventati politicamente corretti: 'Ah, prendiamocela comoda!'.

 È che non siamo più politicamente corretti.

 Solo perché tu capisca: vinciamo. Ora vinciamo ".

Tutto questo sarebbe stato facile, insieme all'Afghanistan.

 

Quale era il significato del riferimento di Trump al Vietnam?

" Quello che stava dicendo è che 'noi' avremmo vinto il Vietnam facilmente, se non fossimo stati svegli e DEI".

Alcuni veterani potrebbero amplificare:

" Sai: avevamo abbastanza potenza di fuoco: avremmo potuto uccidere tutti".

 

"Non importa dove tu vada", Trump aggiunge: " Non importa quello che si pensa, non c'è niente come la forza combattente che abbiamo [inclusa] Roma ... Nessuno dovrebbe mai voler iniziare una lotta con gli Stati Uniti".

Il punto è che nei circoli di Trump di oggi, non solo non c'è paura della guerra, ma c'è questa illusione infondata della potenza militare americana.

 Hegseth ha detto: " Siamo l'esercito più potente nella storia del pianeta, nessuno escluso. Nessun altro può nemmeno avvicinarsi ad esso ".

Al che Trump aggiunge: " Anche il nostro mercato è il più grande del mondo, nessuno può vivere senza di esso".

L'Anglo-US L'"impero" si sta trascinando nell'angolo del "declino terminale", come dice il filosofo francese Emmanuel Todd.

Trump sta tentando, da un lato, di costringere ad essere una nuova "Bretton Woods" al fine di ricreare l'egemonia del dollaro attraverso minacce, spacconate e dazi – o la guerra, se necessario.

Todd crede che, come l'Anglo-US L'impero cade a pezzi, gli Stati Uniti si scagliano contro il mondo con furia e si stanno divorando attraverso il tentativo di ricolonizzare le proprie colonie (cioè l'Europa) per una rapida rissa finanziaria.

 

La visione di Trump di una forza militare inarrestabile degli Stati Uniti equivale a una dottrina di dominio e sottomissione.

Un discorso che va contro tutti i precedenti discorsi narrativi sui valori occidentali. Ciò che è chiaro è che questo cambiamento di politica è "unito all'anca" con le credenze escatologiche ebraiche ed evangeliche.

Condivide con i nazionalisti ebrei la convinzione che anche loro, in alleanza con Trump, rasentano il dominio quasi universale:

 

"Abbiamo schiacciato i progetti nucleari e balistici dell'Iran, sono ancora lì, ma li abbiamo ripresi con l'aiuto del presidente Trump ", si vanta Netanyahu.

Abbiamo un'alleanza precisa, nel quadro della quale abbiamo condiviso l'onere [con gli Stati Uniti] e abbiamo ottenuto la neutralizzazione dell'Iran ".

Secondo Netanyahu, "Israele è emerso da questo evento come la potenza dominante in Medio Oriente, ma abbiamo ancora qualcosa da fare: ciò che è iniziato a Gaza finirà a Gaza".

 

"Dobbiamo 'deradicalizzare' Gaza – come è stato fatto in Germania dopo la seconda guerra mondiale o in Giappone". Netanyahu ha insistito con” Euro news” . La sottomissione, tuttavia, si sta rivelando sfuggente.

 

Il continuo "dominio" degli Stati Uniti, tuttavia, richiede di colpire in più direzioni, perché la guerra unidirezionale contro la Russia – che avrebbe dovuto fornire al mondo una lezione pratica sul "mestiere" del dominio anglo-sionista è inaspettatamente fallita.

E ora il tempo sta per scadere sulla crisi del deficit e del debito americano.

Questo, sebbene articolato come il desiderio trumpiano di dominio, sta anche lanciando impulsi nichilisti per la guerra e allo stesso tempo sta fratturando le strutture occidentali.

Aspre tensioni stanno sorgendo in tutto il mondo.

 Il quadro generale è che la Russia ha visto la scritta sul muro: il vertice dell'Alaska non ha dato frutti; Trump non è serio nel voler rimodellare le relazioni con Mosca.

 

L'aspettativa a Mosca è ora orientata verso l'aspettativa di un'escalation degli Stati Uniti in Ucraina; un attacco più devastante contro l'Iran; o qualche azione punitiva e performativa in Venezuela – o entrambi.

Sembra che la squadra di Trump stia parlando di sé stessa in un'eccitazione psichica di stato.

 

Gli oligarchi ebrei e l'ala destra del gabinetto in Israele, in questo quadro emergente, esistono praticamente col bisogno che l'America rimanga un temuto egemone militare (proprio come promette Trump).

 Senza l'"inarrestabile" randello militare americano e in assenza della centralità dell'uso del dollaro nel commercio, la supremazia ebraica diventa nient'altro che una chimera escatologica.

Una crisi di de-dollarizzazione, o un'esplosione del mercato obbligazionario – giustapposta all'ascesa della Cina, della Russia e dei BRICS – diventa una minaccia esistenziale per la "fantasia" suprematista.

 

Nel luglio 2025, Trump ha detto al suo gabinetto: " I BRICS sono stati istituiti per farci del male; I BRICS sono stati istituiti per degenerare il nostro dollaro e prendere il nostro dollaro... come standard".

Quindi cosa viene dopo? Chiaramente, l'obiettivo iniziale degli Stati Uniti e di Israele è quello di "bruciare" la psiche di Hamas con la sconfitta; e se non c'è un'espressione visibile di totale sottomissione, l'obiettivo generale sarà probabilmente quello di cacciare tutti i palestinesi da Gaza e di installare coloni ebrei al loro posto.

 

Il ministro israeliano” Smotrich” – alcuni anni fa – sosteneva che il completo sfollamento della popolazione palestinese e araba non sottomessa sarebbe stato finalmente raggiunto solo durante "una grande crisi o una grande guerra" – come accadde nel 1948, quando 800.000 palestinesi furono espulsi dalla loro casa.

Ma oggi, nonostante i due anni di massacri, i palestinesi non sono fuggiti, né si sono sottomessi.

 

Così Israele, nonostante tutto ciò che Netanyahu si vanta di aver schiacciato Hamas, deve ancora sconfiggere i palestinesi di Gaza – e alcuni media ebraici trovano l'”Accordo di Sharm el-Sheik” "una sconfitta per Israele".

 

Le ambizioni di Netanyahu e della destra israeliana non sono circoscritte a Gaza.

 Si estendono molto oltre: cercano di stabilire uno Stato sulla piena "Terra di Israele", vale a dire il Grande Israele.

La loro definizione di questo progetto coloniale è ambigua, ma probabilmente vogliono il Libano meridionale fino al fiume Litani; probabilmente la maggior parte della Siria meridionale (fino a Damasco); parti del Sinai; e forse parti della Cisgiordania, che ora appartengono alla Giordania.

 

Così, nonostante due anni di guerra, ciò che Israele vuole ancora, secondo il professore “Mearsheimer”, è un Grande Israele libero dai palestinesi.

"Inoltre", Il professor “Mearsheimer” aggiunge:

"Bisogna pensare a ciò che vogliono nei confronti dei loro vicini.

Vogliono vicini deboli. Vogliono dividere i loro vicini.

 Vogliono fare all'Iran quello che hanno fatto in Siria.

È molto importante capire che [mentre] la questione nucleare è di importanza centrale per gli israeliani in Iran, hanno obiettivi più ampi - che è quello di distruggere l'Iran, trasformarlo in una serie di piccoli stati".

 

"E poi gli stati che non si dividono - come l'Egitto e la Giordania - vogliono che siano economicamente dipendenti dallo Zio Sam, in modo che lo Zio Sam abbia un'enorme influenza coercitiva su di loro.

Quindi, stanno pensando seriamente a come trattare con tutti i loro vicini e assicurarsi che siano deboli e non rappresentino alcun tipo di minaccia per Israele".

Israele cerca chiaramente il collasso e la neutralizzazione dell'Iran – come ha sottolineato Netanyahu:

 

"Abbiamo schiacciato i progetti nucleari e balistici dell'Iran – sono ancora lì, ma li abbiamo ripresi con l'aiuto del presidente Trump ...

L'Iran sta sviluppando missili balistici intercontinentali con una gittata di 8.000 km. Aggiungine altri 3.000 e possono puntare a New York City, Washington, Boston, Miami, Mar-a-Lago ".

 

Mentre un possibile accordo di cessate il fuoco inizia a prendere forma in Egitto, il quadro regionale più ampio è che gli Stati Uniti e Israele sembrano intenzionati a provocare un confronto tra sunniti e sciiti per circondare e indebolire l'Iran.

 La dichiarazione congiunta” UE-CCG” dei giorni scorsi sulle rivendicazioni degli Emirati Arabi Uniti di possedere la sovranità su Abu Musa e le isole Tunb riflette una crescente analisi a Teheran secondo cui le potenze occidentali stanno ancora una volta utilizzando le monarchie del Golfo come strumenti per fomentare l'instabilità regionale.

 

In breve, non si tratta delle isole o del petrolio, ma di creare un nuovo fronte per indebolire l'Iran.

E con tutti questi progetti per il riordino della regione per acconsentire all'egemonia di Israele, i grandi donatori ebrei vogliono garantire una situazione in cui gli Stati Uniti sostengono Israele incondizionatamente – da qui i grandi diretti ai media mainstream e ai social media per garantire un sostegno a tutta la società per Israele in America.

 

Il 7 ottobre, in occasione del secondo anniversario, pone una domanda: a che punto è il bilancio?

La partnership tra Stati Uniti e Israele è riuscita a distruggere la Siria, trasformandola in un inferno di omicidi intestini;

La Russia ha perso il suo punto d'appoggio nella regione;

L'ISIS è stato rianimato; Il settarismo è in ascesa.

Hezbollah è stato decapitato ma non distrutto.

La regione è stata balcanizzata, frammentata e brutalizzata.

 

Il “JCPOA” Snap back per l'Iran è stato attivato e il 18 ottobre scade il JCPOA stesso.

Trump si ritrova quindi con un "foglio bianco" su cui può scrivere un ultimatum che chiede la capitolazione iraniana, o un'azione militare (se lo desidera).

 

Dall'altro lato del racconto, se dovessimo guardare indietro agli obiettivi iniziali della Resistenza di esaurire militarmente Israele; creare guerre intestinali all'interno di Israele; e mettendo in discussione il principio del sionismo che conferisce diritti speciali a un gruppo di popolazione rispetto a un altro, allora si potrebbe dire che la Resistenza – a un costo molto alto – ha avuto un certo successo.

La cosa più significativa è che le sanguinose guerre di Israele hanno già fatto perdere una generazione di giovani americani, che non torneranno.

Qualunque siano le circostanze dell'uccisione di Charlie Kirk, la sua morte ha permesso al genio del dominio "israeliano prima" nella politica repubblicana di uscire libero dalla bottiglia.

Israele ha già perso gran parte dell'Europa, e negli Stati Uniti, l'intollerante insistenza di Trump e degli israeliani sulla fedeltà a Israele e alle sue azioni ha innescato un intenso respingimento del Primo promettente.

Questo mette Israele sulla buona strada per "liberare" l'America.

 E questo potrebbe essere esistenziale per Israele, che potrebbe aver bisogno di rivalutare radicalmente la natura del sionismo (che era, ovviamente, l'obiettivo dichiarato di (Seyed Nasrallah”).

Come sarebbe? Accelerare la migrazione – lasciando un mosaico di resistenze sioniste per sopravvivere in mezzo a un'economia stagnante e all'isolamento globale.

È sostenibile?

Quale sarà il futuro che preannuncia i nipoti di Israele?

 

L'escalation del panico dei droni

 in Europa: quando la paura

 diventa un'arma politica.

Unz.com - J. Ricardo Martins – (13 ottobre 2025) – ci dice:

 

Una manciata di droni a basso costo ora detta budget da miliardi di euro e agenda dei vertici.

 L'isteria dell'Europa nei cieli dice meno sul potere di Mosca che sulla sua stessa perdita di compostezza.

Una strana isteria si è impadronita dell'Europa.

 Non si tratta di carri armati al confine o di missili sulle città, ma di droni: piccoli droni non verificati, spesso innocui.

Appaiono e scompaiono nei cieli sopra la Danimarca, la Germania o la Polonia, e nel giro di poche ore i titoli dei giornali gridano di "guerra ibrida" e "incursioni nello spazio aereo".

Gli aeroporti chiudono, i vertici vengono convocati e i ministri stanno davanti alle telecamere promettendo nuove difese.

Ciò che una volta poteva essere liquidato come motivo di irritazione è diventato uno strumento politico e una giustificazione per la nuova era di riarmo dell'Europa.

 

La paura come strategia e opportunità politiche.

Nelle parole del ministro della Difesa tedesco “Boris Pistorius”, l'Europa ha bisogno di "una valutazione calma della situazione".

Il suo appello, fatto a Handelsblatt , rimase in gran parte inascoltato.

La stessa settimana, l'aeroporto di Monaco è stato messo a terra due volte e Berlino si è affrettata ad annunciare un "centro di difesa anti-droni".

Eppure nessuno è stato in grado di confermare chi abbia inviato questi droni o se provenissero dalla Russia.

Questa è l'essenza dell'odierno discorso europeo sulla sicurezza: l'esecuzione della minaccia senza provare, la coreografia della paura.

Mosca non ha bisogno di distruggere nulla per vincere; ha solo bisogno che l'Europa si faccia prendere dal panico.

Un drone da 5.000 a 50.000 euro può costringere la NATO a lanciare un missile da 1 milione di euro, o meglio ancora, ad approvare miliardi di nuovi bilanci per la difesa.

 

In questo processo, l'Europa sta barattando il benessere con gli armamenti, la diplomazia con la deterrenza e l'unità con il panico.

Come hanno notato il “Mosca Times” e la “Reuters” , la strategia ibrida di Putin si basa meno sulla tecnologia che sulla psicologia.

Lanciando piccole provocazioni, la Russia mette alla prova i nervi dell'Europa e mette a nudo le sue linee di faglia.

Ogni drone non identificato, ogni piccolo attacco informatico a un'azienda di logistica o a un aeroporto, serve a confermare la narrativa secondo cui l'Europa è sotto assedio e che solo l'espansione militare può garantire la sicurezza.

 

La politica del panico: il riarmo e il compromesso del welfare.

 

La reazione europea è rivelatrice.

La Polonia chiede un "muro dei droni" che si estende lungo il suo confine orientale.

La Germania discute le modifiche costituzionali per consentire al suo esercito di abbattere aerei senza pilota sullo spazio aereo nazionale.

La Commissione europea, sotto la guida di Ursula von der Leyen, promuove un'iniziativa anti-droni da 1,5 miliardi di euro.

Eppure i dati non giustificano tale frenesia.

La maggior parte degli incidenti coinvolge droni di livello commerciale o avvistamenti non verificati.

 

Ma "l'ansia collettiva", come ha detto il “Guardian,”  e l'isteria politica hanno la loro utilità.

In un continente stanco della vendita al dettaglio, degli scioperi e dell'austerità, i droni sono diventati una narrazione conveniente. Uniscono gli elettorati attorno al linguaggio della "sicurezza" e mettono a tacere il dissenso sull'erosione dello stato sociale.

 

L'Europa ha già stanziato circa 800 miliardi di euro per la difesa nei prossimi quattro anni.

Questi fondi non finanzieranno ospedali o transizioni verdi;

 serviranno ad acquistare radar, missili e F-35 americani.

In questo senso, il panico da droni non è solo emotivo; è fiscale. Giustifica ciò che Donald Trump chiedeva da tempo:

che gli europei "pagassero di più" per la NATO.

E lo stanno facendo a spese di quel tessuto sociale che un tempo caratterizzava l'Europa del dopoguerra.

 

I beneficiari politici sono chiari.

I governi a guida sociale sono stanchi e i partiti populisti di destra stanno vincendo le elezioni – l'ultima è stata in Repubblica Ceca.

I partiti di estrema destra, dall'AfD in Germania alla Lega in Italia, approfittano del senso di insicurezza per chiedere confini più saldi e leggi più severe in materia di asilo.

 La paura, in altre parole, è diventata la nuova politica industriale europea.

 

Il vero gioco della Russia: vincere la guerra psicologica.

Se la Russia è davvero dietro alcune di queste incursioni di droni, la sua strategia è di un'efficacia devastante.

 Come scrive” Rafael Loss” dell'”European Council on Foreign Relations” , Mosca opera nella "zona grigia" – tra pace e guerra, dove piccole provocazioni creano effetti politici sproporzionati.

Come ha detto senza mezzi termini il ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani, "Putin non vuole la Terza Guerra Mondiale". Direi che il vero obiettivo della Russia è più sottile: mantenere l'Europa distratta, divisa ed economicamente prosciugata.

 

Al “Valdai Club”, all'inizio di questo mese, il presidente Putin ha ridicolizzato l'idea che la Russia intenda attaccare la NATO, definendola "una sciocchezza" e accusando i leader occidentali di usare l'isteria per giustificare la loro militarizzazione.

 Dietro l'ironia si nasconde il calcolo.

Ogni reazione esagerata europea convalida la sua tesi secondo cui l'Occidente è paranoico e politicamente fragile.

 

Nel frattempo, i droni e le sonde informatiche russe fungono anche da operazioni di raccolta di informazioni, mappando le difese della NATO e la velocità decisionale.

Ogni falso allarme rivela più informazioni sulle catene di comando europee che sulle capacità della Russia.

Il risultato è un gioco asimmetrico in cui il Cremlino detta il ritmo e l'Europa danza nervosamente a ogni ronzio nel cielo.

Cieli divisi, Europa divisa.

Il panico ha anche messo in luce le divisioni politiche dell'Europa.

Al vertice di Copenaghen del 1° ottobre 2025, i leader si sono scontrati su chi dovesse coordinare la "difesa dei droni" del continente, Bruxelles o le capitali nazionali.

La Francia ha messo in guardia contro "muri semplicistici";

Grecia e Italia hanno protestato affermando che i nuovi sistemi avrebbero protetto solo il fianco orientale;

l'Ungheria ha bloccato ulteriori sanzioni.

Una fregata tedesca ha ostentatamente ancorato nel porto di Copenaghen, simbolo di forza anche mentre l'unità si sgretola.

 

Qui sta la debolezza più profonda dell'Europa:

 il riflesso di militarizzarsi senza strategia.

 I droni sono diventati metafore di ogni insicurezza:

migrazione, dipendenza energetica, ritardo tecnologico, e la risposta è sempre la stessa:

spendere di più, centralizzare di più e fidarsi della NATO per salvare la situazione.

 Eppure la stessa NATO è perseguitata da dubbi sull'affidabilità degli Stati Uniti.

 

Il rilancio dei discorsi di Trump di "prendere" la Groenlandia dalla Danimarca, membro dell'UE e della NATO, ha silenziosamente riacceso i timori europei che la garanzia americana sia condizionata e transazionale.

Il recente attacco israeliano a Doha – e la mancanza di reazione da parte della vicina base militare statunitense – ha aggiunto un altro livello di sfiducia nei confronti di Washington.

Questa incertezza gioca direttamente a favore di Mosca.

 Ogni disputa sui finanziamenti o sull'autorità di comando conferma che la deterrenza della NATO non è meccanica ma psicologica e vulnerabile. L'Europa tremerà non a causa dei droni russi, ma perché non crede più nella propria resilienza.

 

Conclusione: il riflesso della paura in Europa.

 

Il grande panico europeo per i droni non riguarda i droni.

Riguarda la perdita di compostezza strategica dell'Europa.

 Una manciata di oggetti ronzanti, reali o immaginari, hanno innescato bilanci miliardari, dibattiti costituzionali e teatri politici.

Nel frattempo, l'Europa sta barattando il welfare con gli armamenti, la diplomazia con la deterrenza e l'unità con il panico.

Putin lo capisce perfettamente.

 Il suo obiettivo non è bombardare Berlino o invadere Varsavia, ma mantenere l'Europa nervosamente in bilico su sé stessa, convinta che ogni ombra nel cielo sia una minaccia esistenziale.

La tragedia è che non deve indebolire l'Europa;

l'Europa lo sta facendo da sola, un "vertice anti-droni" alla volta.

(Ricardo Martins. Specializzato in Relazioni Internazionali e Geopolitica).

 

 

 

 

 

L'America ha bisogno di un partito

politico che rappresenti gli americani.

Unz.com - Paul Craig Roberts – (15 ottobre 2025) – ci dice:

 

Nel XX secolo, la differenza tra repubblicani e democratici era tra un partito che vuole che i cittadini siano premiati in base al merito e un partito che vuole che i cittadini siano premiati in base ai bisogni.

Sono stati i democratici a dare ai bisognosi i diritti di proprietà, a volte chiamati diritti, attraverso la tassazione, il controllo degli affitti e altri metodi redistributivi sulla redditività dei contribuenti.

I bisognosi e i loro bisogni si espansero rapidamente, rendendo necessarie ulteriori violazioni dei diritti di proprietà costituzionalmente protetti.

Oggi un americano che guadagna 300.000 dollari all'anno paga un terzo del suo reddito in imposte federali sul reddito, a cui si aggiungono le imposte statali sul reddito, le imposte sulle vendite e le accise, le tasse su servizi come l'elettricità e il telefono e le tasse sulla proprietà per pagare l'istruzione dei figli di altre persone.

Oggi un americano della classe media, i pochi che ancora rimangono, si trova di fronte a un diritto maggiore sul suo reddito di quanto i signori feudali debbano sul lavoro dei servi della gleba.

Fino alla riduzione dell'aliquota fiscale di Reagan, i ricchi americani avevano un diritto minore sui prodotti del loro lavoro rispetto agli schiavi del XIX secolo in una piantagione di cotone.

In molte occasioni ho fatto notare in un articolo del 15 aprile che gli americani pensano di essere liberi, ma in realtà non hanno più diritto al loro lavoro dei servi feudali e degli schiavi del XIX secolo.

 Poiché la definizione storica di persona libera è una persona che possiede il proprio lavoro, le persone libere non esistono più in nessun paese con un'imposta sul reddito.

 

La conseguenza della ridistribuzione coercitiva dei diritti di proprietà ai bisognosi è che ogni società occidentale "libera e democratica" è una società del "benessere", un termine curioso dato che le società occidentali non sono molto bene.

In effetti, i diritti dei bisognosi ora includono i diritti degli immigrati illegali di entrare in una società occidentale e di essere mantenuti a spese dei cittadini contribuenti.

 L'Oregon, ad esempio, spende più soldi dei contribuenti per fornire assistenza sanitaria gratuita agli immigrati-invasori che non sono cittadini di quanto spenda per le forze di polizia statali.

 Gli immigrati-invasori hanno acquisito il diritto de facto di stuprare le ragazze di etnia britannica e svedese e di vedere le accuse contro di loro per stupro respinte come crimini d'odio basati sulla razza.

Attualmente, negli Stati Uniti i sindaci e i governatori democratici sono in attiva insurrezione contro il governo degli Stati Uniti bloccando la deportazione dei clandestini, ma la politica di non distinguere tra cittadini e immigrati illegali è ora così radicata che i democratici non vengono arrestati per insurrezione.

 

Non c'è alcuna prospettiva che l'America o qualsiasi altro paese occidentale abbia un partito politico impegnato a far risorgere un popolo libero come storicamente definito.

In qualsiasi momento, i nostri diritti di proprietà sono limitati a ciò che non è stato ancora assegnato ad altri.

I nostri diritti residui al nostro lavoro continueranno a diminuire fino a quando i bisogni dei bisognosi supereranno in quantità i redditi dei produttivi.

Quando dico che gli americani hanno bisogno di un partito politico che li serva, intendo solo in senso limitato.

 Cominciamo col chiederci chi servono Democratici e Repubblicani. Entrambi i partiti servono i donatori dei fondi delle loro campagne politiche.

La Corte Suprema degli Stati Uniti ha autorizzato le lobby organizzate ad acquistare il governo degli Stati Uniti attraverso contributi elettorali.

Ce ne sono molte:

Big Pharma, il complesso militare/di sicurezza è così via.

Non è insolito che le lobby acquistino membri di entrambi i partiti.

Una volta in carica, i "nostri" rappresentanti eletti servono Big Pharma, il complesso militare/di sicurezza e il resto.

Non si può fare nulla al riguardo finché la sentenza della Corte Suprema non verrà ribaltata e i fondi non verranno ritirati dalla politica.

 

Finora mi sono occupato di interessi materiali.

Ci sono altri tipi di interessi, come quelli filosofici.

Ad esempio, le diverse opinioni che “Thomas Jefferson” e “Alexander Hamilton” avevano sul governo e sul suo ruolo.

 Ci sono poi interessi ideologici/religiosi.

 

Oggi il Partito Democratico, un tempo partito che rappresentava la classe operaia in contrapposizione al Partito Repubblicano che rappresentava le imprese, è diventato un partito ideologico il cui programma è una Torre di Babele alla Sodoma e Gomorra.

 I Democratici sono stati convinti dalla teoria critica della razza e dal razzismo avversivo che le etnie bianche siano razziste nei confronti delle persone di colore e che storicamente le abbiano sottoposte a sfruttamento e abusi.

Il “Progetto 1619” del “New York Times” esemplifica la convinzione che l'America sia stata fondata sul razzismo, non sulla libertà.

 

Per fare ammenda a persone che non sono mai state schiave a spese di persone che non hanno mai posseduto schiavi, negli ultimi 60 anni gli americani bianchi, in particolare i maschi eterosessuali, in violazione dell'uguale protezione della legge del 14° emendamento, sono stati soggetti a discriminazioni nell'ammissione all'università, nell'occupazione e nella promozione.

 Questa palese violazione della Costituzione degli Stati Uniti è definita eufemisticamente "Affermative Action", una politica federale creata non dalla legislazione, ma da un uomo, un ebreo di nome “Alfred Blumrosen” dell'EEOC.

Questo è tutto ciò che è servito superare per il requisito della Costituzione degli Stati Uniti di uguale protezione e il divieto del “Civil Rights Act” del 1964 sulle quote razziali.

I privilegi razziali illegali creati da Blumrosen si sono espansi nell'ideologia DEI che caratterizza un sistema basato sul merito e un'educazione basata sul merito come razzisti.

Una conseguenza è stata che le scuole superiori speciali basate sulle “STEM”, i cui diplomati erano meglio preparati in matematica e scienze rispetto ai laureati, hanno dovuto ridurre i loro standard per iscrivere candidati non qualificati.

In altre parole, i democratici hanno distrutto le scuole in nome della DEI.

 

Questo è stato fatto perché DEI – Diversity, Equity, Inclusion – impone la "verità" che tutte le differenze di performance sono dovute al "privilegio bianco".

In altre parole, non esiste una cosa come il merito.

Merito è semplicemente una bella parola, un travestimento, per "privilegio bianco".

Di recente, il “Segretario alla Guerra” ha dichiarato a un'assemblea di 800 generali e ammiragli che i giorni della DEI nell'esercito erano finiti.

Vedremo.

Il declino dell'esercito statunitense è iniziato quando uomini deboli si sono sottomessi alle femministe e hanno permesso alle donne di combattere.

A volte mi chiedo se, a parte l'Alabama e le aree bianche non urbane del Texas, l'America abbia uomini capaci di essere veri soldati.

 L'America non ha certamente uomini democratici capaci di servire un Paese i cui valori tradizionali sono ferocemente contrari, al punto da attaccare gli agenti federali che deportano gli immigrati clandestini.

 

Per arrivare al nocciolo della questione, lo scopo della politica democratica della Torre di Babele è quello di sostituire i bianchi d'America con le persone di colore.

 Il rimedio al razzismo bianco è semplicemente trasformare gli americani di etnia bianca in una minoranza punibile per il suo razzismo.

 

Lo scopo della politica democratica di Sodoma e Gomorra è quello di legalizzare tutte le forme di perversione sessuale sulla base del fatto che tutte le preferenze sessuali sono uguali.

L'unica perversione sessuale rimasta è la pedofilia, e anche questa viene normalizzata.

Pedofilo non è più un termine politicamente corretto.

 È stato sostituito da "persona diretta verso minori".

I consigli scolastici democratici stanno preparando i bambini prima della pubertà per i rapporti sessuali.

 I genitori che protestano vengono sfrattati dalle riunioni del consiglio scolastico.

 I siti web “porno AI” presentano corpi femminili voluttuosi con volti di bambini.

Sono passati molti anni da quando si è diffusa la notizia di ragazzine di 12 anni che facevano sesso orale ai ragazzi sugli scuolabus.

 Oggi le madri prendono la pillola alle loro figlie di 12 anni.

Mentre la morale sessuale è stata sostituita da Sodoma e Gomorra, il caso contro la pedofilia si è sgretolato.

Consideriamo Epstein.

La mia opinione è che stesse conducendo un'operazione trappola al miele del Mossad per intrappolare i politici americani al servizio di Israele.

 La versione che Israele protegge è che stava trafficando per denaro ragazze minorenni per l'élite americana.

In realtà, la versione ufficiale è la peggiore, perché se è vera indica che l'élite americana è già coinvolta nella pedofilia.

 La nazione seguirà.

Quindi, possiamo aspettarci di meglio o di peggio dai repubblicani?

A parte gli interessi materiali organizzati, chi rappresentano i repubblicani?

La risposta ovvia è Israele.

 

Gli Stati Uniti sono alleati di Israele fin dall'inizio della Guerra Fredda, a metà del XX secolo.

 Stati Uniti e Unione Sovietica erano in competizione per l'influenza in Medio Oriente, patria del petrolio.

Il presidente John F. Kennedy mise Washington in conflitto con Israele quando, prima del suo assassinio, tentò di fermare lo sviluppo di armi nucleari da parte di Israele.

Il presidente Nixon aveva una visione negativa, alcuni dicono corretta, dello Stato ebraico, ma fu rimosso dallo scandalo Watergate della CIA. All'inizio del XXI secolo, i neoconservatori sionisti che controllavano la politica estera del regime di George W. Bush e la maggior parte delle nomine di alto livello nel governo, con il vicepresidente Cheney come loro alleato, decisero di orchestrare la "nuova Pearl Harbor", evento che il loro piano per rovesciare sette paesi sulla strada del Grande Israele (dal Nilo all'Eufrate) in cinque anni richiedeva, al fine di arruolare vite e denaro americani nelle guerre mediorientali per Israele.

 

L'11 settembre è stato un successo per i sionisti, nonostante l'evidente e palese improbabilità della narrazione ufficiale.

 La spiegazione palesemente errata di quanto accaduto è stata trascurata da un popolo americano che crede a ogni affermazione secondo cui ci sarebbe un nemico là fuori che complotta per eliminarli.

I neoconservatori sionisti ai vertici del regime di George W. Bush riescono a usare il loro attacco al World Trade Center e al Pentagono per spingere il popolo americano in guerra contro Afghanistan, Iraq, Libia, Siria, Sudan, Somalia e, in seguito, per finanziare il genocidio dei palestinesi da parte di Israele e l'attacco di Trump all'Iran, con un altro attacco americano all'Iran per conto di Israele in arrivo.

 

Il presidente Donald Trump è così profondamente nelle tasche di Israele che non vede alcuna differenza tra l'interesse dell'America e l'interesse di Israele. Per quanto riguarda Trump, l'America e Israele sono lo stesso paese.

 

Le prove sono schiaccianti.

 Ecco, ad esempio, “Caitlin Johnstone”, ieri, "Trump continua ad ammettere di essere comprato e posseduto dall'israeliano più ricco del mondo".

(caitlinjohnstone.com.au/2025/10/14/trump-keeps-admitting-that-he-is-bought-and-owned-by-the-worlds-richest-israeli/).

In realtà, è peggio di quanto riporta “Caitlin”.

Trump è il governante fantoccio di Netanyahu negli Stati Uniti.

Trump, naturalmente, è intrappolato dal lavaggio del cervello e dall'indottrinamento dei suoi sostenitori conservatori ed evangelici.

 I conservatori americani sono stati sostenitori di Israele sin dall'inizio della Guerra Fredda.

Agli evangelici è stato insegnato che l'adorazione di Dio è l'adorazione di Israele.

Ultimamente, sono emerse notizie sul denaro che Israele paga alle chiese evangeliche per il loro sostegno.

 

Quindi cosa può fare Trump?

Se Trump dovesse agire contro Israele, vedendo le loro possibilità, i democratici presenterebbero accuse di impeachment e i repubblicani sosterrebbero l'impeachment.

La mia conclusione? Sebbene gli americani meritino un governo che li rappresenti, un governo del genere non è possibile.

La guerra alla razza bianca è la politica dei Democratici, e la guerra per Israele è la politica dei Repubblicani.

 

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