Lo smartphone può essere una droga?
Lo
smartphone può essere una droga?
Il
cellulare? Dà dipendenza come una droga. Lo studio: «Se si spegne lo smartphone
per 72 ore il cervello soffre di astinenza».
Ilmessaggero.it
– (12 marzo 2025) – Prof. Giulio Maira – Redazione - ci dice:
(Professore
di Neurochirurgia Humanitas, Milano;
(Presidente
Fondazione Atena Onlus, Roma)
Lo
studio dell'Università di Heidelbergh.
Di
dipendenze si parla spesso, ma il problema è così attuale e serio che ogni
nuova informazione può essere utile per capire meglio una delle problematiche
più critiche del mondo in cui viviamo.
Tutti
noi siamo strettamente legati ai nostri smartphone, anche se si parla spesso
dei rischi del loro uso eccessivo e del loro impatto sulla nostra psiche.
I
TEST.
Per
saperne di più, Schmitgen e colleghi dell'Università di Heidelbergh, hanno
chiesto a dei volontari, di età fra i 18 e i 30 anni, di sospendere l'uso dello
smartphone e sottoporsi a dei test.
Studiando
le loro attività cerebrali con una risonanza magnetica, hanno visto che
rinunciare allo smartphone, anche per solo 72 ore, attivava i recettori delle
dipendenze, come succede con l'astinenza da tabacco, droghe e alcol.
Agli
stessi volontari venivano poi mostrate immagini varie, come fiori o barche; se
presentate su uno smartphone, esse attivavano alcune parti del cervello
collegate al meccanismo della ricompensa.
Il
cellulare, insomma, si comportava come se fosse una droga.
LE
RISPOSTE -APPROFONDIMENTI.
In un
altro studio di qualche anno fa, “Ward” e collaboratori dell'Università del
Texas, hanno sottoposto dei volontari a una serie di test cognitivi associati a
localizzazioni variabili del loro cellulare;
per
alcuni questo veniva lasciato su un tavolo, per altri in una tasca o in una
borsa, per altri in un'altra stanza.
Al
termine dei vari test si è avuto un esito cognitivo migliore se lo smartphone
era in una stanza separata, con un decrescere progressivo delle risposte in
relazione alla sua accessibilità.
In
pratica, indipendentemente dal fatto che fosse acceso o spento, quanto più lo
smartphone era vicino e individuabile, tanto più le capacità cognitive
diminuivano.
LE
RISORSE.
La
semplice presenza apprezzabile era sufficiente a spegnere, almeno parzialmente,
il cervello, non perché si pensasse coscientemente allo smartphone, ma il
semplice fatto di percepirne la presenza attivava il cosiddetto "brain
drain", un processo di riduzione delle risorse cognitive, limitando così
l'abilità di una persona a focalizzarsi sulle attività mentali richieste dai
test.
Un altro dato importante era che, se i
partecipanti al sondaggio si astenevano dall'usare internet, limitandosi solo a
chiamate e messaggi, evidenziavano miglioramenti significativi nell'attenzione,
l'ansia diminuiva e la capacità di concentrazione aumentava.
LE
ABILITÀ.
I
risultati di questi test ci dicono che lo smartphone, per quanto utile,
certamente limita le nostre funzioni e abilità cognitive.
Tutto
questo può avere ricadute sull'apprendimento scolastico.
Un
consiglio per tutti: spegniamolo di tanto in tanto il nostro smartphone, come
un digiuno a intermittenza, e dedichiamo un po' di tempo alla lettura di
qualche pagina di un libro.
Il
cervello ne trarrà certamente un grande vantaggio.
(Professore
di Neurochirurgia Humanitas, Milano.)
“Presidente
Fondazione Atena Onlus, Roma.)
Knesset,
il Monologo di Trump
Interrotto
dal Grido di Due Parlamentari:
“Riconoscete
la Palestina.”
Conoscenzealconfine.it
– (14 Ottobre 2025) - Francesco Fustaneo – ci dice:
Mentre
il tycoon rivendicava il suo ruolo nella tregua – da lui definita “pace” –
trasformando la politica in una soap opera familiare (“Ivanka si è convertita
per amore di Israele”), “Ayman Odeh” e “Ofer Kassif” hanno riportato tutti alla
realtà: quella del “genocidio” e dell’”apartheid”.
Durante
il suo discorso alla Knesset, il parlamento israeliano, Donald Trump ha
proclamato al mondo il suo ruolo nell’accordo di “pace”, intrecciando armi,
affari e racconti personali, arrivando persino a strumentalizzare la
conversione all’ebraismo della figlia Ivanka come prova del suo “amore per
Israele”.
In quel momento, due parlamentari hanno
riportato l’attenzione della platea alla realtà dei fatti.
“Ayman
Odeh”, arabo-israeliano, leader del partito “Hadash” e della “Lista Comune”, e
“Ofer Kassif”, deputato ebreo dello stesso partito, hanno compiuto un gesto di
disobbedienza politica che, nel contesto israeliano, assume un peso ancora
maggiore rispetto a qualsiasi altro analogo fatto in un parlamento occidentale.
Alzandosi
in piedi, hanno sventolato davanti al presidente statunitense e a tutto
l’emiciclo un cartello con la scritta “Riconoscete la Palestina”, mostrando
anche fogli con la parola “genocidio”: frasi inaccettabili per l’esecutivo
israeliano e la propaganda al suo seguito.
La
reazione è stata immediata:
le forze di sicurezza li hanno allontanati
fisicamente dall’aula.
La loro colpa?
Aver
ricordato l’occupazione, la pulizia etnica a Gaza, mentre Trump elogiava “la
pace attraverso la forza” e si vantava delle armi fornite a Israele – “alcune
delle quali non avevo mai sentito nominare” – definendo il massacro a Gaza un
“incredibile trionfo”.
La
risposta di Trump, una volta rimossi i dissidenti, è stata rivelatrice: “E’
stato molto efficiente...”
Un’ammissione
perfetta: la macchina del potere deve scorrere senza intoppi, cancellando ogni
forma di dissenso.
Da un
punto di vista mediatico, invece è stato un colpo inferto all’ingranaggio
celebrativo del tycoon e, di riflesso, alle autorità israeliane.
In
quel momento, due rappresentazioni della realtà – antitetiche – si sono
guardate in faccia:
da una
parte, quella di Trump e Netanyahu, fatta di aneddoti familiari, accordi
normalizzatori e arsenali militari;
dall’altra, quella di “Odeh” e “Kassif”, che
con un semplice cartello hanno urlato la verità di un popolo umiliato, quello
palestinese, che da decenni subisce apartheid, soprusi di ogni tipo, ormai
stremato da mesi di bombardamenti, afflitto dalla fame indotta e costretto a
condizioni sanitarie indicibili.
Il
loro gesto è stato forse l’unico atto di lucidità in un teatro di
rivendicazione dell’assurdo.
(Francesco
Fustaneo).
(lantidiplomatico.it/dettnews-knesset_il_monologo_di_trump_interrotto_dal_grido_di_due_parlamentari_riconoscete_la_palestina/45289_63034/).
Dipendenza
da smartphone:
ecco
come gestirla.
Fondazioneveronesi.it
- Caterina Fazion – (05.10.2023) – Redazione – ci dice:
Come
prevenire, riconoscere e attenuare l’uso eccessivo degli smartphone nei
ragazzi?
La
parola all’esperta.
Da
cosa è caratterizzata la “dipendenza” da smartphone?
Qual è
la portata del fenomeno?
Perché
gli adolescenti sono i più colpiti?
Perché
i contenuti per ragazzi creano questa grande dipendenza?
Quali
sono i campanelli di allarme a cui prestare attenzione?
Perché
lo smartphone è un oggetto così indispensabile per i ragazzi?
Come
prevenire e risolvere la dipendenza?
Quali consigli
può dare ai genitori su come gestire figli dipendenti da smartphone?
Vista
la grande diffusione di smartphone e tablet, il rischio di andare incontro a un
uso smodato dei dispostivi elettronici, soprattutto per i ragazzi, è alto.
Ma è corretto parlare di vera e propria
dipendenza da smartphone?
In
realtà questo disturbo non rientra in nessuna sezione del DSM-5, il “Manuale
diagnostico e statistico dei disturbi mentali “più aggiornato;
ad
ogni modo, chi fa un uso eccessivo dello smartphone presenta caratteristiche
condivise con chi soffre di altre dipendenze, come alcol e droghe, quali
perdita di controllo e astinenza.
Per
capire come prevenire, riconoscere e attenuare questo disturbo nei ragazzi
abbiamo parlato con la dottoressa “Adelia Lucattini”, membro della Società
Psicoanalitica Italiana.
Da
cosa è caratterizzata la “dipendenza” da smartphone?
La
“dipendenza” da smartphone è caratterizzata principalmente da un uso compulsivo
del mezzo.
Parliamo
dello smartphone perché è il dispositivo digitale a cui i giovani hanno maggior
accesso.
Si tratta di uno strumento ubiquitario, usato
anche dalla popolazione più giovane, e non a caso si sta diffondendo sempre più
il termine “nomofobia”, proprio per indicare la paura di restare senza il
proprio telefono.
La
dipendenza, però, non è dall'oggetto in sé, ma dai suoi contenuti, di cui i
ragazzi usufruiscono tramite internet, dipendenza che in questo caso è
riportata nel manuale “DSM-5”.
Qual è
la portata del fenomeno?
Tra i
ragazzi della “Generazione Z”, in Italia, ad avere lo smartphone prima degli 11
anni sono in sette su dieci, e sono sei, in media, le ore di utilizzo del
cellulare al giorno;
anche
se il 25,4% dei giovani supera le 8 ore.
Dato che il problema della dipendenza,
maggiore nelle ragazze, non è legato all’oggetto in sé, ma ai contenuti che
esso può veicolare grazie all’accesso a internet, in Italia sono quasi 100mila
i ragazzi che presentano caratteristiche compatibili con la presenza di una “dipendenza
da Social Media”.
Perché
gli adolescenti sono i più colpiti?
Il
motivo per cui gli adolescenti sono così soggetti ad un uso smodato degli
smartphone è in realtà dovuto a più fattori.
Da un lato vi è la costruzione ad hoc delle
applicazioni per ragazzi, dei giochi e dei vari contenuti che, di per sé,
ingenerano dipendenza, andando ad incidere sul sistema dopaminergico, che
regola il circuito della gratificazione-frustrazione.
Si
tratta di contenuti estremamente colorati, psicostimolanti ed eccitanti.
Tutti,
dunque, sono a rischio di dipendenza anche se non hanno problematiche
pregresse.
Inoltre,
dobbiamo considerare il periodo particolare dell’adolescenza:
i cambiamenti, i turbamenti e le ansie sono
tanti, gli adolescenti sono in crescita e positivamente esuberanti.
Sperimentano
per la prima volta emozioni forti in un corpo che cambia:
hanno delle pulsioni che non riescono a
gestire e che spesso placano attraverso i contenuti dello smartphone che hanno
sempre con sé, anche a scuola.
Perché
i contenuti per ragazzi creano questa grande dipendenza?
Gli
adolescenti vivono una turbolenza emotiva che li preoccupa costantemente, e
spesso trovano nello smartphone una consolazione che li placa.
Correre,
studiare, leggere e recitare sono sempre stati ottimi metodi per controllare
l’ansia.
Al
giorno d’oggi, invece, i turbamenti tendono ad essere attenuati osservando le
storie degli altri.
Ci sono tutta una serie di contenuti
ingannevoli che da un lato calmano e dall'altro eccitano:
per
esempio il contenuto calma, ma la frequenza e la velocità con cui viene visto,
eccita i ragazzi.
Si crea una stabilità emotiva che spinge a
stare su quel contenuto per cercare i minuti di calma, senza rendersi conto che
c'è invece un effetto eccitatorio provocato dal contenuto stesso.
Quali
sono i campanelli di allarme a cui prestare attenzione?
Si può
parlare di “dipendenza” da smartphone quando se ne fa un uso compulsivo,
indipendente dalla volontà:
quello
di connettersi e guardare il telefono è un impulso incontrollabile.
Quando
i ragazzi non hanno accesso allo smartphone perché scarico oppure rotto, per
cui hanno l'oggetto ma non possono usufruire dei contenuti, presentano sintomi
simili all’astinenza da alcune sostanze stupefacenti come ansia, insonnia,
inappetenza, agitazione fisica, irritabilità.
Spesso i ragazzi sono irrequieti, urlano e
fanno di tutto per farsi aggiustare il mezzo, o ricaricarlo, il prima
possibile.
Un
altro effetto molto negativo dell’uso smodato dello smartphone è l'insonnia,
perché la dipendenza non ha orario.
L'ansia
esplode solitamente al risveglio e prima di andare a dormire per cui c’è la
tendenza ad utilizzarlo di notte, ma soprattutto a tenerlo acceso.
Il risultato?
Al
minimo suono o vibrazione i ragazzi si svegliano per controllare le notifiche e
al mattino faticheranno a svegliarsi a causa del sonno frammentario della
notte.
I ragazzi che sperimentano una dipendenza non
si separano mai dallo smartphone, lo portano in bagno, anche quando fanno la
doccia.
Al
mare, per esempio, potrebbero decidere di non immergersi in acqua per non dover
lasciare il telefono.
Inoltre, in situazioni di socialità, hanno
sempre lo smartphone acceso con le varie notifiche attivate, che non riescono
ad evitare di controllare continuamente per paura di perdersi qualcosa.
Alcuni
ragazzi si rifiutano di consegnarlo a scuola o, addirittura, ne hanno due in
modo tale che possano consegnarne uno, ma avere sempre con sé l’altro.
Perché
lo smartphone è un oggetto così indispensabile per i ragazzi?
I
ragazzi ritengono così utile lo smartphone perché spesso si sentono soli.
È vero
che, soprattutto dopo la pandemia, sono aumentati i casi di ansia e
depressione, ma esiste un elemento costante, presente da ben prima del
lockdown: la solitudine.
Questo
è dovuto a tanti fenomeni come il fatto che tutti, figli e genitori, siano
costretti a stare numerose ore fuori casa.
I genitori a causa del lavoro o, pur lavorando
da casa, non riescano a dedicare sufficiente attenzione mentale ai figli.
Certo,
i genitori hanno sempre lavorato, ma un tempo le famiglie erano più numerose e
si abitava tutti più vicini.
C'era
sempre la presenza di qualcuno fidato su cui poter contare.
Dire
che i genitori utilizzino il cellulare come babysitter trovo sia ingiusto e
rischioso per i bambini.
Certo, qualcuno lo farà, ma la maggior parte
dei genitori si accorgono che i figli, una volta che hanno a disposizione il
loro cellulare, sono più tranquilli.
La
verità è che i più piccoli sono gelosi dello smartphone, oggetto che cattura
l’attenzione dei genitori, con cui entrano in competizione, da cui desiderano
allontanarli e per questo cercano di sottrarglielo.
Nel
momento in cui hanno questo oggetto colorato tra le mani ne restano incuriositi
e attratti.
È
l'inizio di un crinale molto pericoloso.
Come
prevenire e risolvere la dipendenza?
L'educazione
all'utilizzo degli smartphone è il modo migliore per prevenirne la dipendenza.
Se fin da piccoli i bambini avessero dei loro
semplici dispositivi digitali, senza accesso a internet, ma in cui sono
disponibili giochi adatti alla loro età, sarebbe il modo migliore per impedire
una futura dipendenza.
Se una
cosa è proibita, infatti, viene ricercata;
se una
cosa invece è permessa, ma controllata, diventa parte integrante della
quotidianità.
Per
aiutare questi ragazzi a superare la dipendenza dallo smartphone lo studio, la
lettura, la musica, lo sport e la scuola in generale, hanno un ruolo
fondamentale. Da non sottovalutare anche l’utilizzo dello smartphone come
supporto alla didattica per veicolare contenuti scolastici.
Inoltre, nelle diverse scuole andrebbero
implementati corsi per avvicinare bambini e ragazzi al coding, alla robotica e
al mondo della programmazione e del digitale. Capire cosa c'è dietro la
tecnologia rende più consapevoli e impedisce di usarla in modo patologico.
Quali
consigli può dare ai genitori su come gestire figli dipendenti da smartphone?
I
genitori dovrebbero dare delle regole per limitare l’uso dello smartphone,
soprattutto in determinati contesti.
Ad
esempio dovrebbe esserne disincentivato l’utilizzo a tavola.
Ritirare
lo smartphone come punizione, purché non sia umiliante o offensiva, se
necessario, potrebbe essere una soluzione;
l’importante è che la punizione sia
reversibile.
A
questo proposito funziona bene il sistema premiante:
alla
punizione, come il ritiro dello smartphone per una settimana, il ragazzo può
rimediare svolgendo lavoretti utili in casa o aiutando un fratello o una
sorella nello svolgimento dei compiti.
Inoltre, va tenuto conto che il telefono come
strumento per garantire la sicurezza di bambini e ragazzi è necessario.
Avere
un cellulare senza accesso a internet, contenente soltanto i numeri dei
genitori e delle forze dell’ordine, potrebbe essere fornito già a partire dalla
terza elementare, intorno agli otto anni.
Per
quanto riguarda lo smartphone, invece, bisognerebbe aspettare i quindici anni
prima di averne uno, limitandone il consumo ad un massimo di tre ore
giornaliere.
Da non
dimenticare lo “strumento del parental control”, o filtro famiglia, un sistema
che consente ai genitori di monitorare le attività dei figli in rete e di
limitare oppure bloccare l’accesso a determinati siti, attività o categorie di
contenuti.
Questo
strumento ci consente di tutelare la loro sicurezza in rete, aiutando
l'autodisciplina, ma senza essere persecutorio.
(Caterina
Fazion).
Quando
internet e smartphone sono una droga.
Benessere-magazine.it
- Marco Maroni – (2 maggio 2025) – ci dice:
Dalla
nomofobia, cioè il terrore di restare senza telefonino, alla schiavitù del
sesso virtuale:
lo psicoterapeuta Pietro Scurti spiega che a
dilagare è lo” Iad”, il nuovo disturbo da dipendenze verso il mondo digitale.
C’è
chi non riesce più ad avere relazioni d'amicizia al di fuori della Rete, chi si
sente perso quando non è connesso, e c'è anche la sindrome della vibrazione
fantasma, che è la tendenza a controllare compulsivamente il telefono cellulare
immaginando l'arrivo di messaggi o chiamate.
Sono
comportamenti tipici della dipendenza da internet, in sigla” Iad” (Internet
addiction disorder).
Le
conseguenze sono isolamento emotivo, difficoltà relazionali, perdita delle
motivazioni e della capacità di concentrazione, ma anche problemi fisici come
disturbi del sonno, affaticamento, problemi visivi e muscolari.
A
spiegare le caratteristiche delle nuove dipendenze è il “libro Internet
Addiction Disorder”.
”
Social, emozioni e identità alternative” (FrancoAngeli), scritto da “Pietro
Scurti”, dirigente dell'”Asl Napoli 2 Nord”, psicologo e psicoterapeuta con una
lunga esperienza clinica sul tema.
Lo “Iad”
è ormai considerato, per le modalità in cui si instaura, la vastità del
fenomeno e le conseguenze, simile alla dipendenza da sostanze stupefacenti o
alla ludopatia.
«Internet
non è il male», dice l'autore, ma «sempre più spesso i nostri figli e noi
stessi rischiamo di trasformare il navigare alla scoperta della Rete in un
naufragio delle emozioni, del contatto fisico e delle relazioni autentiche».
Chi
casca nella Rete diventa incapace di mettere da parte lo smartphone e tende a
sostituire il mondo reale con la frequentazione compulsiva di quello virtuale.
L'essere legati al telefonino, tanto che quando ce lo scordiamo a casa ci
sentiamo un po' “isolati” non è una malattia. Essere connessi fa parte dello
stile di vita contemporaneo. Le cose sono diverse quando quella di usare lo
smartphone e di connettersi ai social network diventa una necessità costante e
incontrollata.
(Maurizio
Corbetta: «Emozioni e valori per non subire l’intelligenza artificiale»)
Gli
effetti collaterali delle nuove forme di dipendenza patologica sono sempre gli
stessi, cioè disagio interiore, difficoltà nelle relazioni e nel rendimento a
scuola o al lavoro, ma i comportamenti patologici che la caratterizzano non
sono tutti uguali. Ecco, di seguito, anche nella terminologia anglosassone
corrente, quali sono i disturbi più comuni riportati nel libro di Scurti.
Nomofobia.
Dall'espressione
anglosassone “No mobile phobia”, detta anche “sindrome da disconnessione”, è il
disagio provocato dall'assenza del telefono, dall'esaurimento della batteria o
dalla mancanza del segnale.
Una vasta letteratura scientifica ha mostrato
conseguenze sia fisiche sia psichiche. Tra le prime:
insonnia, tensione, aumento dell'acido gamma
ammino-butirrico, un inibitore del sistema nervoso centrale, con deterioramento
delle funzioni cognitive.
Tra i
danni psichici, ansia, depressione, disturbi ossessivo-compulsivi.
Vampirizzazione.
È la
tendenza, tipica degli utenti più giovani, a trascorrere le ore notturne
utilizzando lo smartphone.
Ci si
dedica a giochi, si condividono post e messaggi, si guardano video.
Nel
2014, un articolo del New York Times che ha indagato questa abitudine ha
definito chi vi si dedica “vampiri dei social media”.
Una
ricerca dell'Osservatorio nazionale sull'adolescenza ha rivelato che circa il
60% degli adolescenti e circa il 40% dei pre-adolescenti ammette di rimanere
spesso sveglio anche fino all'alba per dialogare o divertirsi online.
È un'attività che comporta l'alterazione dei
ritmi circadiani e della secrezione della melatonina, compromettendo la
capacità di addormentarsi.
“Phubbing.”
A chi
non è capitato di ignorare il mondo circostante per dedicarsi qualche minuto a
quello virtuale anche quando è in compagnia?
Può
succedere anche in famiglia, per esempio quando ci si ritrova attorno alla
tavola.
L'espressione
deriva dalla fusione delle parole anglosassoni phone (telefono) e snobbing
(snobbare/ignorare).
Un
comportamento che diventa patologico quando il cellulare è un mezzo per
isolarsi ed evadere dalle relazioni personali più prossime.
Una
ricerca del 2020 dell'Università di Aarhus (Danimarca) ha evidenziato che
questa abitudine è socialmente accettata benché ritenuta spiacevole e
irrispettosa.
Il
phubbing denota una difficoltà a costruire e mantenere relazioni sociali.
Ringxiety
e vibranxiety.
È la
percezione illusoria di aver sentito squillare o vibrare il telefono.
Ha sia
una causa fisiologica, data dall'eccessiva quantità di stimoli cui è sottoposto
oggi il nostro organismo, che tende a confondere la capacità percettiva, sia
una più psicologica, legata all'insicurezza emotiva e al timore di essere
ignorati.
Il messaggio ricevuto diventa una valida
conferma del proprio valore nel mondo;
il
costante, ansioso, controllo del telefono è un tentativo di assicurarsi che
nessuna richiesta di contatto sia trascurata.
Fomo.
È un
acronimo da termini inglesi (Fear of missing out) che si potrebbero tradurre in
italiano con la “paura di essere esclusi”, di essere tagliati fuori dalle
novità.
Anche
qui c'è il timore di essere trascurati, di valere meno degli altri.
La
ricerca ha evidenziato che la sindrome è più frequente nei maschi giovani e che
è associata a un'insoddisfazione per la propria vita in generale.
Questa
ansia sociale porta a interagire con maggiore frequenza nei social network ed è
spesso associata a” ringanxiety” e “vibranxiety”.
Sovraccarico
di informazioni.
L’eccesso
di input rende difficile prendere una decisione o focalizzare l'attenzione su
un singolo problema.
I sentimenti di stress che l'accompagnano
hanno un impatto negativo sul benessere e sulla produttività lavorativa.
La
dipendenza?
Quando
diventa difficile liberarsi dal flusso di comunicazioni, anche se il contenuto
non rientra negli interessi più immediati.
Dipendenza
cyber-relazionale.
È il
bisogno di stabilire relazioni in Rete a scapito di quelle reali.
Ci si
rifugia dall'ansia sociale affidandosi alle più facili gratificazioni digitali,
ritrovandosi col tempo a provare vergogna nelle relazioni del mondo reale, che
diventano progressivamente meno importanti.
Si
finisce nella trappola che gli psicologi chiamano de-individuazione.
Quella
che viene proposta agli altri è infatti una versione virtuale del proprio io,
ritenuta più accattivante di quella reale, soprattutto per chi ha già
difficoltà nelle interazioni con gli altri perché si sente goffo e insicuro.
Grazie
all'anonimato e alla mediazione fornita dello schermo l'utente si sente
“protetto” o “nascosto” e quindi anche più libero di esprimersi, al sicuro
dalle critiche e dal controllo delle norme sociali.
Circostanza
che tende peraltro a favorire la violazione delle norme sociali, con
comportamenti ingiuriosi, violenza verbale, e il cosiddetto “body shaming”
(derisione delle caratteristiche fisiche altrui).
Dipendenza
dal cybersesso.
È la
dipendenza da attività sessuali virtuali, in termini di visione compulsiva di
contenuti pornografici e di ricerca di gratificazione sessuale online.
Anche
in questo caso, a scapito dell'investimento in relazioni reali.
I
soggetti dipendenti dal sesso online arrivano a dedicarvi fino a 45 ore alla
settimana.
Tra le
conseguenze della dipendenza dal “cyber sex” ci sono solitudine e isolamento,
senso di colpa e vergogna e, per chi ha una famiglia, anche la compromissione
del rapporto di coppia e con i figli.
L'estrema
facilità di accesso al materiale pornografico in Rete pone inoltre il serio
problema dell'esposizione precoce ai contenuti sessualmente espliciti:
le
conseguenze più gravi, in termini di autostima e percezione distorta dei
rapporti affettivi, sono ancora una volta per i più giovani.
Lo
smartphone può sviluppare dipendenza,
come altre fissazioni.
Tre
giorni di disintossicazione.
Droghe.aduc.it
- Primo Mastrantoni – (8 aprile 2025) – ci dice:
L'uso eccessivo del cellulare (ESU- Excessive
Smartphone Use) viene ritenuto come un vero e proprio processo di dipendenza,
paragonabile a quello riscontrabile in altri ambiti, come la ludopatia.
In
altre parole, l’uso costante e incontrollato degli smartphone non è solo una
cattiva abitudine, ma comporta delle implicazioni neurobiologiche e
comportamentali simili a quelle che si verificano con l'assunzione delle
droghe.
Uno
studio condotto dal professor “Mike M. Schmitgen e suoi colleghi,
dell’Università di Heidelberg (Germania), riporta i risultati di un test sulla restrizione dell’uso del cellulare per
72 ore e come questa influenzi l’attività cerebrale, in particolare nelle aree
legate al sistema della ricompensa.
La
ricerca ha utilizzato la risonanza magnetica funzionale (fMRI) adottando un
modello di “reattività ai suggerimenti, ” nel quale venivano presentate
immagini di smartphone in stato di attività e inattività, confrontate con
stimoli neutri.
Dopo tre giorni di limitazione sono emerse
modifiche significative nelle regioni cerebrali, in particolare nel “nucleo
accumbens”, nella corteccia cingolata anteriore e nella corteccia parietale.
Tali
zone sono note per il loro ruolo nella valutazione della ricompensa,
nell’elaborazione delle emozioni e nel controllo dell’inibizione motoria.
Il
“nucleo accumbens”, per esempio, è fondamentale per i processi legati al
piacere, mentre la corteccia cingolata e la corteccia parietale partecipano a
funzioni cognitive ed emotive che influenzano il desiderio, caratteristica
tipica del comportamento dipendente.
Un
ulteriore aspetto riguarda l’impatto neurochimico:
i
risultati indicano, infatti, una forte associazione con l'attività dei
neurotrasmettitori quali la dopamina e la serotonina.
Questi messaggeri chimici sono noti per
regolare il circuito del desiderio e del piacere, contribuendo a quello che
viene definito il “craving”, ovvero il forte bisogno di utilizzare il
dispositivo.
Il fatto che un periodo di restrizione
limitato a 72 ore possa determinare modificazioni in queste aree e nei relativi
sistemi neurochimici, rafforza l’idea che l’ESU, analogamente ad altre
dipendenze, non sia un semplice comportamento abitudinario ma un fenomeno
intrinsecamente legato al funzionamento del cervello.
Lo
smartphone non è soltanto uno strumento di comunicazione e lavoro, ma può
assumere caratteristiche di “droga” se esageratamente impiegato.
Le
evidenze scientifiche raccolte – grazie a schemi sperimentali basati su fMRI e
a un’approfondita analisi psico-comportamentale – suggeriscono che l’impiego
incontrollato del cellulare attivi circuiti cerebrali analoghi a quelli
osservati nelle dipendenze.
Questo
implica che, al di là delle normali interazioni quotidiane, è importante
considerare interventi mirati e preventivi per mitigare potenzialmente i rischi
legati a un utilizzo eccessivo.
È un
tema di crescente attualità e interesse sia dal punto di vista clinico che
sociale.
L'analisi
apre la strada a riflessioni più ampie: ad esempio, quali interventi possono
aiutare a ripristinare un equilibrio sano nell’uso della tecnologia?
In che
modo la crescente integrazione degli smartphone nella vita quotidiana potrebbe
modellare - nel lungo periodo - i circuiti neurali legati alla ricompensa e al
desiderio?
Questi
interrogativi sono alla base di ricerche in evoluzione che non soltanto
contribuiscono a comprendere le dinamiche della dipendenza tecnologica, ma
indicano nuovi possibili approcci preventivi e terapeutici per fronteggiarla.
Trump
dichiara guerra ai cartelli
della
droga, ovunque essi siano.
Droghe.aduc.it
- Redazione – (3 ottobre 2025) – Amer Madhani – Lisa Mascaro – ci dicono:
Il presidente Donald Trump ha dichiarato che
i cartelli della droga sono combattenti illegali e afferma che gli Stati Uniti
sono ora in un "conflitto armato" con loro, secondo un promemoria
dell'amministrazione Trump ottenuto dall'Associated Press giovedì, in seguito
ai recenti attacchi statunitensi alle imbarcazioni nei Caraibi.
Il
promemoria sembra rappresentare una straordinaria affermazione dei poteri di
guerra presidenziali, con Trump che dichiara di fatto che il traffico di droga
negli Stati Uniti equivale a un conflitto armato che richiede l'uso della forza
militare: una nuova giustificazione per azioni passate e future.
"Il
Presidente ha stabilito che gli Stati Uniti sono in un conflitto armato non
internazionale con queste organizzazioni terroristiche designate", si
legge nel promemoria.
Trump
ha ordinato al Pentagono di "condurre operazioni contro di loro in
conformità con il diritto dei conflitti armati".
"Gli
Stati Uniti hanno ormai raggiunto un punto critico in cui dobbiamo ricorrere
alla forza per autodifesa e per difendere gli altri dagli attacchi in corso da
parte di queste organizzazioni terroristiche designate", si legge nel
promemoria.
Oltre
a segnalare un potenziale nuovo momento nel programma "America First"
dichiarato da Trump, che favorisce il non intervento all'estero, la
dichiarazione solleva seri interrogativi su quanto la Casa Bianca intenda usare
i suoi poteri di guerra e se il Congresso eserciterà la sua autorità per
approvare, o vietare, tali azioni militari.
"Gli
Stati Uniti stanno prendendo una decisione molto più drastica, che ritengo
rappresenti un'estrema violazione del diritto internazionale e una scelta
pericolosa", ha affermato “Matthew Waxman”, ex funzionario della sicurezza
nazionale durante l'amministrazione di George W. Bush.
"Significa
che gli Stati Uniti possono colpire i membri di quei cartelli con la forza
letale.
Significa
che gli Stati Uniti possono catturarli e detenerli senza processo".
Dichiarazione
dopo gli attacchi alle imbarcazioni nei Caraibi.
Il
mese scorso, l'esercito statunitense ha effettuato tre attacchi mortali contro
imbarcazioni nei Caraibi, accusate dall'amministrazione di trasportare droga.
Almeno due di queste operazioni sono state effettuate su imbarcazioni
provenienti dal Venezuela.
Questi
attacchi hanno fatto seguito a un rafforzamento delle forze marittime
statunitensi nei Caraibi senza precedenti negli ultimi tempi.
La presenza della Marina nella regione – otto
navi da guerra con oltre 5.000 marinai e marines – è rimasta piuttosto stabile
per settimane, secondo due funzionari della Difesa, che hanno parlato in
condizione di anonimato per discutere delle operazioni in corso.
Il
promemoria non includeva un “time stamp”, ma faceva riferimento a un attacco
statunitense del 15 settembre che "provocò la distruzione della nave, del
traffico di stupefacenti illeciti e la morte di circa 3 combattenti
illegali".
"Come
abbiamo detto più volte, il Presidente ha agito in conformità con il diritto
dei conflitti armati per proteggere il nostro Paese da coloro che cercano di
portare veleno mortale sulle nostre coste, e sta mantenendo la promessa di
affrontare i cartelli ed eliminare queste minacce alla sicurezza nazionale,
impedendo loro di uccidere più americani", ha affermato la Casa Bianca.
Mercoledì,
funzionari del Pentagono hanno informato i senatori sugli attacchi, secondo una
fonte vicina alla vicenda, che non era autorizzata a commentare pubblicamente e
ha parlato a condizione di mantenere l'anonimato. Il Pentagono ha inoltrato le
domande alla Casa Bianca.
Ciò che l'amministrazione Trump ha esposto nel
briefing riservato al Campidoglio è stato percepito da diversi senatori come la
ricerca di un nuovo quadro giuridico che ha sollevato interrogativi in
particolare riguardo al ruolo del Congresso nell'autorizzare tali azioni, ha
affermato la persona in questione.
Secondo
un'altra persona che è stata informata dell'incontro e che ha parlato a
condizione di mantenere l'anonimato, la scorsa settimana i funzionari del
Pentagono hanno informato lo staff della Camera sugli attacchi.
Il
promemoria, riportato in precedenza dal “New York Times”, espone una
motivazione che viene vista sia come giustificazione dell'amministrazione per
gli attacchi militari già intrapresi contro le imbarcazioni nei Caraibi, che
hanno sollevato preoccupazioni tra i legislatori in quanto potenzialmente
illegali, sia per qualsiasi azione futura.
Un
funzionario della Casa Bianca, non autorizzato a rilasciare dichiarazioni
pubbliche e che ha parlato in condizione di anonimato, ha affermato che il
promemoria è stato inviato al Congresso il 18 settembre e non contiene nuove
informazioni.
La persona a conoscenza del briefing del
Senato ha affermato che è stato trasmesso questa settimana.
Non
sono stati forniti dettagli sui cartelli presi di mira.
Trump
ha designato diversi cartelli della droga latinoamericani come organizzazioni
terroristiche straniere e l'amministrazione aveva precedentemente giustificato
l'azione militare come un'escalation necessaria per arginare il flusso di droga
negli Stati Uniti.
I
funzionari del Pentagono non sono stati in grado di fornire un elenco delle
organizzazioni terroristiche designate come centro del conflitto, una questione
che ha causato grande frustrazione ad alcuni dei legislatori informati questa
settimana, secondo una delle persone a conoscenza dei briefing.
Sebbene
"nazioni straniere amiche abbiano compiuto notevoli sforzi per combattere
queste organizzazioni", si legge nel promemoria, i gruppi "sono ormai
transnazionali e conducono attacchi continui in tutto l'emisfero occidentale
come cartelli organizzati". Il promemoria si riferisce ai membri del
cartello come "combattenti illegali".
L'amministrazione Trump sta cercando di giustificare
l'uso della forza militare contro i cartelli della droga nello stesso modo in
cui l'amministrazione Bush ha giustificato la guerra contro al-Qaida dopo gli
attacchi dell'11 settembre, ha affermato Waxman, che ha prestato servizio nei
dipartimenti di Stato e della Difesa e nel Consiglio per la sicurezza nazionale
sotto Bush.
Bush,
tuttavia, aveva l'autorizzazione del Congresso, a differenza di Trump.
L'amministrazione Trump sostiene di non dover
più considerare le circostanze individuali dell'uso della forza, ha affermato “Waxman,”
che ora presiede il “National Security Law Program” della “Columbia Law School”.
"In
pratica, significa: 'Non dobbiamo prendere decisioni caso per caso'", ha
detto Waxman.
"Tutte
queste navi che trasportano personale nemico possono essere prese di mira,
indipendentemente dal fatto che siano dirette verso gli Stati Uniti o
meno".
Waxman
ha affermato di aspettarsi altri attacchi e "vedremo se gli Stati Uniti
faranno il prossimo grande passo e ricorreranno alla forza letale o alla forza
armata sul territorio di un altro Stato".
I
legislatori di entrambi i principali partiti politici hanno fatto pressione su
Trump affinché ottenga dal Congresso l'autorizzazione a esercitare poteri di
guerra per le operazioni contro presunti trafficanti di droga.
Diversi
senatori e gruppi per i diritti umani hanno messo in dubbio la legalità degli
attacchi, definendoli un potenziale abuso di potere da parte dell'esecutivo, in
parte perché l'esercito è stato utilizzato per scopi di polizia.
Il
senatore “Jack Reed” del “Rhode Island”, il principale esponente democratico
della Commissione per i servizi armati del Senato, ha affermato che i cartelli
della droga sono "spregevoli", ma l'amministrazione Trump non ha
fornito "alcuna giustificazione legale credibile, prova o informazione di
intelligence per questi attacchi".
“Reed,” ex ufficiale dell'esercito, ha affermato che
"ogni americano dovrebbe allarmarsi perché il suo presidente ha deciso di
poter condurre guerre segrete contro chiunque consideri un nemico".
(AAMER
MADHANI e LISA MASCARO).
Il
cellulare crea dipendenza come
la
droga, nel parlano gli psicologi.
Gazzettadalba.it – (31 Maggio 2025) -
Redazione – Ansa – ci dice:
Il
cellulare crea dipendenza come la droga, nel parlano gli psicologi.
TORINO.
Lo smartphone può creare dipendenza come se fosse droga? È successo a un
quindicenne a cui i genitori avevano tolto il cellulare esasperati dall’uso
ossessivo dello strumento, però la privazione aveva scatenato nel ragazzo una
crisi di astinenza tanto da richiedere l’accesso al Pronto soccorso.
L’episodio
che risale a due anni fa è stato trattato durante un convegno medico sul
disagio psicologico e sulla salute mentale.
“Gianluca
Rosso”, docente di psichiatria all’Università di Torino, era in servizio nel
reparto d’urgenza dell’ospedale San Luigi di Orbassano al momento dell’arrivo
del ragazzo.
Il
ragazzo presentava esattamente gli stessi sintomi di una persona in crisi di
astinenza da sostanze come alcol, sigarette o stupefacenti, ma a mancargli in
modo psicotropo, era lo smartphone, ha detto il medico esponendo il caso ai
colleghi.
Le
sostanze, come l’uso smodato del cellulare, portano a uno stimolo continuo del “sistema
dopaminergico”, al quale il cervello si abitua e del quale poi sente la necessità,
spiega lo psicologo.
L’adolescente venne trattato come in una
classica crisi d’astinenza da sostanze:
con
ansiolitici somministrati sia per via intramuscolare sia endovenosa e una volta
superata la crisi, fu dimesso e rimandato a casa.
(Ansa).
La
droga digitale: il cellulare
distrugge
i nostri ragazzi.
Giornalelavoce.it
– Lara Ballurio – (2 giugno 2025) – ci dice:
Le
ricerche del 2025 svelano un legame inquietante tra dipendenza da smartphone e
disturbi mentali, fisici e sociali.
Serve
agire ora, prima che sia troppo tardi.
Dipendenza
da smartphone.
Prigionieri
dello schermo: la dipendenza da smartphone incatena mente e corpo.
Il
2025 è l’anno in cui la scienza ha squarciato definitivamente il velo su un
problema che serpeggiava da anni nelle famiglie di tutto il mondo:
la dipendenza da smartphone nei bambini e
adolescenti.
Non
più solo una questione di “capricci” o di ore rubate ai compiti, ma una
condizione con effetti fisici e psichici che, secondo i dati raccolti, in molti
casi somiglia pericolosamente all’abuso di alcol e droghe.
“Sky
TG24” e “Open” hanno riportato un caso emblematico accaduto nella provincia di
Torino:
un quindicenne ricoverato in ospedale dopo una
grave crisi di astinenza da smartphone, con sintomi come panico, tremori e
agitazione psicomotoria.
Il
professor Gianluca Rosso, psichiatra dell’Università di Torino, ha spiegato che
l’uso compulsivo dello smartphone stimola il sistema dopaminergico, lo stesso
coinvolto nelle tossicodipendenze, portando a comportamenti compulsivi e
perdita di controllo.
Il
quadro generale è confermato da uno studio coreano pubblicato su PMC (Pub Med
Central), che ha evidenziato come gli adolescenti con dipendenza da smartphone
abbiano un rischio maggiore del 57% di sviluppare dipendenze da droghe rispetto
ai coetanei non dipendenti, rischio che sale ulteriormente in presenza di
consumo di alcol o fumo. Secondo “USC Today” - la piattaforma ufficiale di
comunicazione della “University of Southern California” - la stimolazione
ripetuta del circuito cerebrale della ricompensa genera una spirale difficile
da spezzare.
Il
quotidiano britannico “The Times” ha segnalato uno studio sugli studenti di
medicina:
il 40%
mostrava segni di dipendenza, tra ansia, irritabilità, stress e insonnia.
Ma è
il “New York Post”, riportando i dati di “Sapien Labs”, a spaventare di più:
oltre 10.000 adolescenti tra 13 e 17 anni
intervistati, e il 37% dei tredicenni ammetteva episodi di aggressività, il 20%
dichiarava allucinazioni.
Sempre secondo “Sapien Labs”, l’uso eccessivo
di questi dispositivi è associato a un incremento significativo delle ideazioni
e dei tentativi suicidari.
“L’esperienza
iper-immersiva dello schermo sfuma i confini tra realtà e fantasia nei momenti
chiave dello sviluppo”, ha spiegato al “Post “lo psicologo “Nicholas Kardaras”.
“Sapien
Labs” ha anche sottolineato come i più giovani - quelli che hanno ricevuto lo
smartphone già a 10 anni - siano più vulnerabili agli effetti negativi rispetto
ai coetanei più grandi.
Ma
cosa sta facendo l’Italia di concreto per affrontare questa emergenza?
Secondo fonti del Ministero della Salute, nel
2025 sono partiti progetti pilota in alcune scuole medie e superiori, con
laboratori di educazione digitale, sessioni guidate da psicologi e campagne
informative rivolte ai genitori.
Il Ministero dell’Istruzione, ha annunciato un
piano sperimentale per inserire moduli di “benessere digitale” nei programmi
scolastici, con l’obiettivo di insegnare ai ragazzi come gestire lo stress da
social e ridurre il tempo davanti agli schermi.
Inoltre,
alcune regioni, come il Piemonte e la Lombardia, hanno attivato sportelli di
ascolto specifici per adolescenti e famiglie, con team specializzati nella
gestione delle dipendenze digitali.
Tuttavia,
secondo l’Istituto Superiore di Sanità, queste iniziative restano frammentarie
e insufficienti a livello nazionale:
serve
una strategia coordinata, con linee guida chiare, formazione per gli insegnanti
e campagne su scala larga per sensibilizzare tutta la popolazione.
Non
sono solo i sintomi psicologici a preoccupare.” The Guardian” ha pubblicato una
vasta analisi su 335.000 partecipanti, mostrando che ogni ora aggiuntiva
davanti a uno schermo aumenta del 21% il rischio di sviluppare miopia, una
condizione destinata a colpire, secondo le proiezioni, circa il 40% dei giovani
entro il 2050.
Il professor “Chris Hammond del King’s College “di
Londra ha spiegato che il rischio di miopia aumenta in modo esponenziale con
l’aumento delle ore davanti allo schermo, anche a causa della ridotta
esposizione alla luce naturale.
E poi
vi è il corpo che cambia: dai problemi posturali legati al cosiddetto “tech
neck”, deformazioni cervicali dovute alla posizione inclinata del collo, stanno
diventando cronici tra i più giovani.
A ciò si aggiungono disturbi del sonno legati
alla luce blu emessa dagli schermi e un aumento della sedentarietà che
contribuisce ai tassi crescenti di obesità infantile.
Eppure,
non tutto è nero.
Uno studio dell’”Università della Florida del
Sud” ha rivelato che i bambini con smartphone tendono a riportare meno sintomi
di depressione e ansia e trascorrono più tempo con gli amici rispetto ai
coetanei senza telefono.
Tuttavia,
il pericolo aumenta drasticamente quando i ragazzi iniziano a postare sui
social, specialmente se finiscono vittime di cyberbullismo: quasi sei bambini
su dieci dichiarano di aver subito almeno un insulto online negli ultimi tre
mesi, e questi riportano tassi di depressione e rabbia molto più alti rispetto
a chi non ha subito attacchi.
Sul
piano della ricerca, l’”Università di Cambridge”, insieme a otto prestigiose
università britanniche, sta guidando un progetto su mandato del governo per
comprendere a fondo l’impatto degli smartphone sulla salute mentale dei
giovani.
Come
spiegato da “Amy Orben”, responsabile del progetto e citata sul sito ufficiale
dell’università, “è fondamentale raccogliere dati causali solidi per orientare
le future decisioni politiche, perché il mondo tecnologico evolve a una
velocità a cui la ricerca deve saper tenere il passo”.
Anche
la “Stanford Medicine” ha pubblicato uno studio sorprendente: non vi è alcuna
correlazione significativa tra l’età in cui i bambini ricevono il primo
smartphone e il loro benessere, misurato in termini di rendimento scolastico,
sonno e sintomi depressivi.
La vera discriminante, sottolineano i ricercatori su “med.stanford.edu”,
sembra essere l’uso concreto che i ragazzi fanno del telefono e il ruolo del
contesto familiare.
Alla
luce di tutti questi dati, il messaggio che emerge è chiaro:
non è
lo smartphone in sé il nemico, ma come viene usato, quanto viene usato e
soprattutto in quale contesto educativo e affettivo viene inserito. I rischi
sono reali e crescenti, e la somiglianza con le dipendenze da sostanze non può
più essere ignorata.
Ma
vietare, proibire o demonizzare non è la strada:
serve
un’educazione digitale capace di promuovere un uso consapevole e responsabile,
limitando il tempo davanti allo schermo, stimolando attività fisiche e incoraggiando
relazioni autentiche.
“Peter
Kyle”, ministro della tecnologia britannico.
Come
ha detto “Peter Kyle”, ministro della tecnologia britannico, citato
dall’Università di Cambridge, “garantire un ambiente online sicuro per i
giovani deve essere una priorità:
solo così potremo proteggere e rafforzare la
prossima generazione, offrendo loro un futuro digitale sano e positivo”.
L'isolazionismo
"soft" del tycoon iperattivo.
L'America
torna leader.
Ilgiornale.it
- Francesco Giubilei – (14 ottobre 2025) – ci dice:
Guerra
in Israele.
È il
vero protagonista dell'intesa. Ha imposto la sua visione e convinto gli altri
leader riottosi.
L'isolazionismo
"soft" del tycoon iperattivo. L'America torna leader.
Il
principale vincitore della pace in Medioriente ha un nome e un cognome: Donald
J. Trump.
Il risultato ottenuto dal presidente degli
Stati Uniti ma anche le trattative e le modalità con cui si è arrivati alla
fine della guerra a Gaza sono destinate a rimanere nei libri di storia.
Già nel suo primo mandato da presidente Trump
aveva improntato la propria politica estera sul mantenimento della pace
evitando di iniziare nuove guerre con una linea molto diversa dal partito
Repubblicano guidato da George W. Bush che aveva avviato la guerra in Irak e
Afghanistan.
Senza
dubbio era un periodo storico diverso successivo all'11 settembre ma, a essere
differente, era anche il Dna del partito Repubblicano a trazione neo-con e
perciò più interventista in politica estera.
La linea Maga (Make America Great Again) è
invece caratterizzata da quello che potremmo definire "isolazionismo
temperato" reso del tutto evidente dalle modalità con cui ha agito Trump
per arrivare all'accordo tra Israele e Hamas.
Non un
isolazionismo tradizionale per cui gli Stati Uniti si interessano solo alle
questioni di politica interna, bensì un attivismo in politica estera basato
sulla minaccia ma non sull'effettivo utilizzo dell'hard power.
Da qui l'annuncio dei giorni scorsi "non
invieremo soldati americani a Gaza" perché, nella visione trumpiana, l'uso
di truppe statunitensi rappresenta un enorme costo economico e un rischio in
termini di vite umane.
Proprio
l'aspetto economico è l'altro elemento da tenere in considerazione per
comprendere la politica estera trumpiana, non bisogna mai dimenticare che,
prima di essere un politico, Trump è un imprenditore e la sua forma mentis
rimane quella.
Nella
pace e nella stabilizzazione del Medioriente vede una grande opportunità per le
aziende americane sia con la ricostruzione di Gaza sia con la ripresa dei patti
di Abramo.
Non a caso il presidente americano lo scorso
maggio aveva fatto una visita in Medioriente annunciando importanti accordi
economici con i Paesi arabi che hanno un ruolo centrale come spiega “Mark
Leonard”, direttore dell'”European Council on Foreign Relations”:
"Senza
Trump sarebbe stato impossibile mettere pressione a Israele per arrivare alla
pace ma senza il mondo arabo e il supporto europeo sarà difficile mantenere una
pace duratura".
Ci
sono però alcuni momenti chiave negli ultimi mesi che hanno permesso di
arrivare alla storica giornata di ieri in cui ha giocato un ruolo anche
l'Italia.
Lo
scorso 24 luglio infatti, in uno yacht al largo della Costa Smeralda, è
avvenuto un incontro tra il ministro israeliano degli Affari strategici,” Ron
Dermer”, e il primo ministro del Qatar, “Mohammed bin Abdulrahman Al-Thani”
mediato dall'inviato della Casa Bianca “Steve Witkoff”.
Come
spiegano al Giornale alcune fonti israeliane "in quell'occasione l'accordo
sembrava raggiunto, poi d'improvviso Hamas ha raddoppiato le proprie richieste
facendo saltare il banco".
"Gli
americani si sono sentiti presi in giro anche dal Qatar che aveva il ruolo di
convincere Hamas.
Non a caso a inizio settembre è arrivato
l'attacco di Israele al Qatar a cui Trump aveva dato la luce verde".
Da lì
in poi le trattative hanno accelerato fino ad arrivare alla visita di Netanyahu
alla Casa Bianca, alla scena in cui Trump gli ha detto di chiamare il Qatar per
scusarsi, infine all'accordo siglato ieri.
Un
altro momento chiave è stato l'attacco di Israele all'Iran e l'utilizzo dei
bombardieri americani per colpire i siti nucleari della Repubblica Islamica,
un'azione mirata a cui è seguito un accordo mediato da Trump ma il segnale è
stato chiarissimo: possiamo colpirvi come e quando vogliamo.
Un'immagine
di debolezza del principale sostenitore del Qatar che ha contribuito ad
accelerare i negoziati.
Un vero capolavoro politico e diplomatico.
TRUMP:
“L’AMERICA È TORNATA.”
Opinione.it - Eugenio Vittorio – (05 marzo 2025) – ci
dice:
Trump:
“L’America è tornata.”
È
tornato l’american dream.
“L’America
è tornata, sta crescendo, più grande e migliore che mai”. Donald Trump apre
così il suo primo discorso sullo stato dell’Unione dopo il ritorno alla Casa
Bianca, tra applausi scroscianti dei repubblicani e facce tese nei banchi
democratici.
Un
intervento fiume, il più lungo mai pronunciato da un presidente americano
davanti al Congresso:
100
minuti, battendo il record di 89’ di Bill Clinton nel 2000.
Il tasso di gradimento del discorso, secondo
la “Cbs” è stato del 73 per cento, mentre per la “Cnn” del 66 per cento.
Dati
sorprendenti, vista la grande polarizzazione del Paese.
Ma la
“bomba” arriva quasi alla fine: svolta sul conflitto in Ucraina.
Il
tycoon lascia tutti a bocca aperta rivelando di aver ricevuto una lettera da
Volodymyr Zelensky.
Il
leader ucraino si dice pronto a sedersi al tavolo delle trattative “il prima
possibile”, con l’obiettivo di raggiungere “una pace duratura”. Non solo:
Kiev
sarebbe pronta a firmare “in qualsiasi momento” l’accordo sulle terre rare con
gli Stati Uniti.
Un
cambio di rotta netto, che Zelensky aveva già accennato su X, ma che ora assume
il peso di una missiva ufficiale.
E la sorpresa non finisce qui:
anche
Mosca ha mandato segnali di apertura.
“Abbiamo
ricevuto forti segnali”, dice Trump, parlando di “discussioni serie” con la
Russia.
Nessun
dettaglio sulle trattative, ma The Donald si prende il merito di un disgelo che
sembrava impensabile fino a poche ore fa.
Eppure,
nel bel mezzo di questa possibile svolta diplomatica, Trump non rinuncia ad
attaccare Europa e l’ex presidente Joe Biden.
“L’Europa ha speso più soldi per acquistare
petrolio e gas russi di quanto ne abbia spesi per difendere l’Ucraina”, accusa,
rilanciando la narrazione di una Nato che ha lasciato gli Stati Uniti a fare il
lavoro sporco.
E poi
la stoccata al predecessore:
“Joe
Biden ha speso più soldi dell’Europa”, senza ottenere risultati. L’agenda
economica di Trump non fa sconti.
Il presidente difende la sua guerra dei dazi,
che ha mandato in tilt i mercati finanziari, sostenendo che le tariffe non
servono solo a proteggere l’industria americana, ma anche “l’anima del nostro
Paese”. Sì, ammette, ci saranno “piccoli scompigli”, ma gli Stati Uniti non si
tireranno indietro:
“Risponderemo
dazio su dazio, tassa su tassa”.
E il
messaggio è chiaro anche per i vicini di casa:
Messico
e Canada “devono fare di più per fermare il traffico di fentanyl e l’ingresso
di clandestini”.
Non è
solo una questione economica.
Trump
punta anche a riportare l’influenza americana dove ritiene sia stata
indebolita.
Primo
obiettivo: il Canale di Panama.
In parte, dice, è già stato “strappato ai
cinesi” grazie all’acquisto di due porti strategici da parte di “BlackRock.
Ma il
vero colpo di scena è il ritorno dell’idea più “originale” della sua
presidenza: la Groenlandia.
Trump
torna a parlare di un’eventuale annessione, senza entrare nei dettagli, ma
lasciando intendere che gli Stati Uniti faranno la loro mossa.
“In un
modo o nell’altro”, dice, aggiungendo che la popolazione avrà comunque voce in
capitolo.
Da
segnalare anche la forma di protesta dei democratici.
Alcuni
disertano l’aula, altri lo interrompono più volte.
Un
deputato viene addirittura espulso, mentre le parlamentari democratiche si
presentano vestite di rosa per protestare contro le politiche di Trump sui
diritti riproduttivi.
E poi
il cartello più discusso: “Musk steals”.
L’attacco
diretto a Elon Musk non passa inosservato, ma Trump non ci sta.
Ringrazia
il miliardario e difende i suoi tagli alla burocrazia, che hanno fatto
risparmiare al Paese circa 65 miliardi di dollari finora.
Criticando
una classe dirigente di non eletti che spreca denaro pubblico. “Abbiamo
realizzato più in 43 giorni di quanto la maggior parte delle amministrazioni
realizzi in quattro od otto anni, e abbiamo appena iniziato”, afferma con
enfasi.
“Torno
in quest’aula stasera per riferire che lo slancio dell’America è tornato.
Il
nostro spirito è tornato. Il nostro orgoglio è tornato.
La
nostra fiducia è tornata.
E il
sogno americano sta crescendo, più grande e migliore che mai.
Il
sogno americano non si può fermare, e il nostro Paese è vicino a una rimonta
come il mondo non ha mai visto e forse non vedrà mai più”.
E per
chi pensava che il discorso fosse finito, arriva il “coup de théatre” finale:
“Pianteremo
la bandiera americana su Marte e oltre”.
Standing
ovation dei repubblicani, gelo tra i democratici.
Trump
è tornato. Sipario.
LA
RICERCA USA SOTTO
MINACCIA
CINESE.
Opinione.it
- Pierpaolo Arzilla – (15 ottobre 2025) – ci dice:
La
ricerca Usa sotto minaccia cinese
Dopo
due generazioni di non banale collaborazione, il Congresso Usa vuole
smantellare i legami accademici con la Cina.
La
commissione speciale della Camera sul Partito comunista cinese considera una
priorità la protezione della ricerca americana, e accusa Pechino di
strumentalizzarla, per trasformarla in un “canale di talenti stranieri e
modernizzazione militare”.
Lo
scorso settembre, la commissione ha pubblicato tre rapporti, ognuno su un tema
specifico:
la ricerca finanziata dal Pentagono che
coinvolge studiosi cinesi legati all’esercito;
gli
istituti congiunti Usa-Cina che formano talenti Stem per la Cina;
le
politiche sui visti che hanno portato studenti cinesi legati all’esercito a
programmi di dottorato presso università americane.
I
rapporti raccomandano una legislazione più rigorosa per proteggere la ricerca
statunitense, politiche sui visti più severe per controllare studenti e
studiosi cinesi e la fine delle collaborazioni accademiche che potrebbero
essere sfruttate per rafforzare la potenza militare della Cina.
Per
molti anni, studiosi americani e cinesi hanno lavorato fianco a fianco su
tecnologie all’avanguardia e una ricerca aperta, che permette a tutti di
accedere e condividere i risultati.
Un’apertura
che ora sta mettendo in allarme alcuni membri del Congresso.
Il
timore è che la Cina, considerata una minaccia al predominio militare
americano, stia sfruttando la ricerca aperta per raggiungere, e magari
superare, gli Stati Uniti in materia di tecnologia militare.
“Per
troppo tempo, i nostri avversari hanno sfruttato le università americane per
promuovere i propri interessi, mettendo a rischio la nostra sicurezza nazionale
e l’innovazione”, ha detto all’”Associated press” il senatore “Tom Cotton,”
repubblicano dell’Arkansas e “presidente della commissione intelligence” del
Senato.
Cotton ha presentato una proposta di legge per imporre
nuove restrizioni alla collaborazione di ricerca finanziata a livello federale
con accademici di diverse istituzioni cinesi che collaborano con l’esercito
cinese, nonché con istituzioni di altri Paesi considerati avversari degli
interessi statunitensi.
“Gli
avversari stranieri stanno sfruttando sempre più l’ambiente aperto e
collaborativo delle istituzioni accademiche statunitensi per il proprio
tornaconto”, ha dichiarato poi all’”Ap” “James Cangialosi”, direttore del
“National counter intelligence and security Center”, che ad agosto ha
pubblicato un bollettino in cui esortava le università a fare di più per
proteggere la ricerca dalle ingerenze straniere.
I legami tra la ricerca cinese e statunitense,
come si accennava, sono molto consolidati.
Tra
università e istituti, sono infatti oltre 500 gli enti Usa che in questi anni
hanno collaborato con ricercatori militari cinesi, aiutando Pechino a
sviluppare tecnologie avanzate con applicazioni militari, come le comunicazioni
anti-jamming e i veicoli ipersonici, secondo un rapporto del gruppo di
intelligence privato statunitense “Strider technologies”.
I
rapporti del Congresso hanno individuato quasi 2.500 pubblicazioni prodotte nel
2024, in collaborazione tra entità statunitensi e istituti di ricerca cinesi
affiliati all’esercito sulla “ricerca Stem”, che include fisica, ingegneria,
scienza dei materiali, informatica, biologia, medicina e geologia.
Sebbene
il numero abbia raggiunto il picco di oltre 3.500 nel 2019, prima dell’entrata
in vigore di alcune nuove misure restrittive, il livello di collaborazione
rimane elevato, afferma il rapporto.
E si
tratta di collaborazioni che non solo facilitano “il potenziale trasferimento
illecito di conoscenze”, ma sostengono anche “gli sforzi diretti dallo Stato
cinese per reclutare i migliori talenti internazionali, spesso a scapito degli
interessi nazionali degli Stati Uniti”, sfruttando la ricerca americana e
rubando segreti per utilizzarli in contesti militari e commerciali.
Promuovere
un clima di solida ricerca accademica richiede finanziamenti e supporto a lungo
termine.
Rubare
i frutti di questo lavoro, tuttavia, può essere facile, come hackerare una rete
universitaria, assumere ricercatori o appropriarsi della ricerca stessa,
avverte il Congresso.
Ecco
perché, osserva, è così allettante per gli avversari americani che cercano di
trarre vantaggio dalle istituzioni e dalla ricerca statunitensi.
Il mondo della ricerca guarda però con
preoccupazione alla “stretta” di Washington, e ricorda che esistono già delle
barriere per la ricerca finanziata a livello federale, volte a proteggere le
informazioni classificate e tutto ciò che è considerato sensibile.
Limitare
la collaborazione con Pechino, si avverte, potrebbe però essere
controproducente e allontanare i talenti.
Gli
interessi della sicurezza nazionale e la competitività economica americana
sarebbero meglio tutelati continuando, se non aumentando, i finanziamenti alla
ricerca piuttosto che implementando costose restrizioni alla ricerca, dicono
gli esperti.
In
particolare, nel settore tecnologico, la preoccupazione nasce dal fatto che gli
sforzi per proteggere la ricerca statunitense rischiano di soffocare il
progresso se si spingono troppo oltre e impediscono alle università o alle
startup statunitensi di condividere informazioni su tecnologie nuove ed
emergenti.
Tenere
il passo con la Cina, insomma, richiederà anche forti investimenti per
proteggere l’innovazione, che significa incoraggiare sì la ricerca e lo
sviluppo, senza tuttavia rivelare segreti ai nemici dell’America, in un
contesto globale in cui gli Usa considerano i suoi confini digitali “sotto
assedio”.
Secondo
i dati del dipartimento di giustizia, circa l’80 per cento di tutti i casi di
spionaggio economico perseguiti negli Stati Uniti riguarda presunti atti che
potrebbero avvantaggiare la Cina.
ENERGIA
SOTTO TIRO:
PERCHÉ
LA CRISI UCRAINA
RIGUARDA
TUTTO IL CONTINENTE.
Opinione.it - Renato Caputo (*) – (15 ottobre
2025) – ci dice:
(*-
Docente universitario di Diritto internazionale
e normative per la sicurezza.)
Energia
sotto tiro: perché la crisi ucraina riguarda tutto il continente.
Gli
attacchi russi contro le infrastrutture energetiche ucraine non rappresentano
soltanto una minaccia per Kyiv, ma un problema strategico per l’intera Europa.
La
distruzione sistematica di centrali elettriche, impianti di stoccaggio del gas,
condotte e snodi della rete energetica, non mira soltanto a fiaccare la
resistenza ucraina:
serve a destabilizzare il mercato energetico
europeo, a creare scarsità, a far salire i prezzi e, in ultima analisi, a
erodere la coesione politica dei Paesi dell’Unione.
Ogni
volta che la Russia colpisce la rete ucraina, le conseguenze si propagano a
catena:
la
produzione interna di gas cala drasticamente, l’Ucraina è costretta a importare
grandi volumi dall’Europa, la domanda cresce e i costi dell’energia tornano a
impennarsi in tutto il continente.
È un effetto domino che colpisce non solo chi
vive ai confini orientali, ma anche i mercati e le famiglie dell’Europa
occidentale, ancora segnate dagli aumenti di prezzo degli ultimi anni.
Il
problema è che Il settore energetico è stato un campo di battaglia fondamentale
da quando la Russia ha lanciato la sua guerra di aggressione su vasta scala.
Ogni
anno, la Russia ha cercato di paralizzare la rete elettrica ucraina prima della
rigida stagione invernale, apparentemente sperando di erodere il morale della
popolazione.
Le
temperature invernali vanno da fine ottobre a marzo, con gennaio e febbraio
come mesi più freddi.
Il
problema è aggravato dalle barriere che ancora ostacolano l’integrazione
energetica fra l’Ucraina e i Paesi vicini.
Restrizioni all’export, tariffe elevate per il
trasporto, vincoli tecnici spesso più politici che reali impediscono un flusso
efficiente di energia e riducono la capacità di risposta collettiva.
In
alcuni casi, come quello della Romania, le limitazioni all’esportazione di gas
vengono giustificate da differenze nella qualità del prodotto, ma il risultato
concreto è un sistema regionale frammentato e vulnerabile, dove ogni Paese
pensa a proteggere i propri interessi immediati invece di costruire una
sicurezza comune.
Questa
mancanza di cooperazione non fa che amplificare l’impatto della strategia
russa, che punta proprio a sfruttare le divisioni e le debolezze interne
dell’Europa.
La
guerra energetica di Mosca è diventata parte integrante della sua offensiva
contro l’Occidente.
Colpire
le infrastrutture ucraine significa ridurre la capacità di quel Paese di
esportare o di partecipare pienamente al mercato energetico europeo, ma
significa anche frenare i piani di diversificazione che l’Europa aveva avviato
dopo il 2022.
Anche
se l’Ucraina non è più un Paese di transito per il gas russo, resta un nodo
strategico.
Se la
sua rete viene compromessa, l’intero sistema continentale perde capacità di
equilibrio e sicurezza:
le
forniture diventano più costose, meno prevedibili e più esposte alle pressioni
di attori autoritari.
Allo
stesso tempo, gli Stati Uniti trovano difficoltà a far arrivare in modo
efficiente il loro gas naturale liquefatto ai mercati dell’Europa centrale e
orientale, poiché le infrastrutture interne restano congestionate e i colli di
bottiglia non vengono risolti.
In
questo scenario, la risposta europea deve andare oltre l’emergenza.
Servono
scelte politiche coordinate, la rimozione delle restrizioni che ostacolano gli
scambi energetici con l’Ucraina, l’ampliamento delle capacità di stoccaggio e
di trasporto e un vero impegno per proteggere le infrastrutture civili dagli
attacchi aerei.
Alcuni
ipotizzano persino la creazione di zone di protezione aerea limitate per
difendere centrali e snodi energetici cruciali, ma finora l’Europa non ha
mostrato il coraggio di fare questo passo.
Il
timore di uno scontro diretto con la Russia ha prevalso sulla necessità di
difendere la propria sicurezza strategica.
Eppure,
ignorare la dimensione europea di questi attacchi equivale a lasciare che la
Russia stabilisca i termini del confronto.
L’inverno alle porte potrebbe trasformarsi in
una prova durissima non solo per gli ucraini, ma per tutto il continente, se le
forniture dovessero ridursi e i prezzi tornare a crescere.
L’energia
è oggi uno dei fronti principali della guerra, e chi pensa che si tratti di un
problema confinato oltre il “Dnipro” commette un grave errore.
Solo
un’Europa unita, capace di agire come un sistema integrato e solidale, può
evitare che la distruzione delle infrastrutture ucraine si trasformi in un
collasso della sicurezza energetica europea.
L’UE
USERÀ I FONDI
RUSSI
PER KYIV?
Opinione.it - Renato Caputo – (14 ottobre 2025)
– ci dice:
L’Ue
userà i fondi russi per Kyiv?
Dopo
quasi quattro anni di guerra, cresce a Bruxelles la convinzione che sia giusto
e doveroso impiegare i circa 200 miliardi di euro di riserve della Banca
centrale russa congelate in Europa per sostenere l’Ucraina.
Più
che una misura meramente economica, l’iniziativa viene ormai vista come un atto
politico e morale, una scelta che punta a trasformare il principio di
responsabilità in azione concreta:
far sì
che le risorse della Russia, in quanto aggressore, contribuiscano ai costi
della guerra che essa stessa ha provocato, anziché restare inutilizzate nei
conti europei. In questo modo, l’Unione rivendicherebbe non solo il proprio
ruolo di partner economico, ma anche quello di garante di un ordine
internazionale fondato sul diritto e sulla giustizia.
L’idea
è di trasformare questo patrimonio immobilizzato in un meccanismo di prestiti
da circa 140 miliardi destinati all’Ucraina, che verrebbero rimborsati solo se
– e quando – Mosca accettasse di risarcire i danni di guerra.
In
pratica, un’anticipazione sul futuro risarcimento.
Per tutelarsi da eventuali rivalse legali, l’Unione
europea valuta la possibilità di fornire a “Euro clear”, la camera di
compensazione belga che custodisce gran parte dei fondi, una garanzia diretta o
attraverso un gruppo di Stati membri che agirebbe in forma coordinata.
Il
piano non è però privo di ostacoli.
Il Belgio, per ora, resta freddo:
vuole
certezze giuridiche sulle garanzie e teme che un passo falso possa esporre
l’Europa a cause miliardarie.
Anche
tra gli altri Stati membri le posizioni divergono:
c’è chi spinge per destinare le risorse alla
difesa, come la Polonia e gli Stati baltici, e chi, come Francia e Germania,
preferirebbe destinarli a sostegni economici, alla ricostruzione civile e alle
infrastrutture ucraine.
Nel
frattempo, la pressione su Bruxelles cresce.
Gli
Stati Uniti hanno chiarito che continueranno a fornire il supporto necessario
all’Ucraina, a condizione che l’Europa si faccia carico di sostenere lo sforzo
bellico e la stabilità economica del Paese.
Tuttavia,
sebbene l’Ucraina avesse quantificato un fabbisogno di armamenti pari a un
miliardo di dollari al mese, finora solo sei Paesi hanno contribuito con poco
più di due miliardi complessivi, sollevando preoccupazioni sulla lentezza dei
rifornimenti.
Anche
oltre Atlantico, il tema divide.
Donald Trump si dice ora pronto a fornire missili
Tomahawk a Kyiv, ma solo dopo aver “parlato con Vladimir Putin” nel tentativo –
al momento poco realistico – di chiudere il conflitto.
Il Cremlino, viceversa, non mostra alcuna
intenzione di negoziare e minaccia ritorsioni nel caso in cui l’Occidente
tocchi i suoi beni congelati. La partita si gioca dunque su un equilibrio sottile:
da un
lato la necessità politica e morale di sostenere un Paese aggredito, dall’altro
il timore di violare principi di diritto internazionale e scatenare una nuova
tempesta finanziaria.
Bruxelles,
intanto, cerca di muoversi in sintonia con il G7, che detiene complessivamente
circa 300 miliardi di dollari di riserve russe bloccate e che sta discutendo
nuove sanzioni contro l’energia di Mosca.
Se il
piano andrà in porto, sarà una svolta storica:
per la prima volta i beni di una potenza
mondiale verrebbero trasformati in strumento di ricostruzione per la sua
vittima.
Ma
sarà anche una prova di forza per un’Europa chiamata a decidere se vuole
davvero essere, non solo nelle parole, il pilastro della libertà ucraina.
L’OMBRA
RUSSA
NEL
MEDITERRANEO.
Opinione.it
- Renato Caputo – (13 ottobre 2025) – ci dice:
L’ombra
russa nel Mediterraneo.
La
presenza della Russia si muove silenziosa sotto la superficie del Mediterraneo.
Dall’analisi
dei movimenti del sottomarino” Novorossiysk” – classe Kilo, progetto 636.3 –
tra luglio e settembre 2025 emerge una strategia spregiudicata e calcolata, il
volto oscuro di una potenza che non accetta limiti né confini.
Dietro
la patina diplomatica delle cosiddette “missioni di cooperazione” con Paesi
come Egitto e Algeria, il reale obiettivo sembra essere duplice: scortare e
proteggere la “flotta ombra” di petroliere russe impegnate nel commercio di
petrolio, e condurre attività di intelligence e sorveglianza subacquea.
Il “Novorossiysk”, partito dal Baltico e
transitato attraverso Gibilterra all’inizio di luglio, ha attraversato il
Mediterraneo con un comportamento tipicamente opaco:
periodi
prolungati di immersione alternati a misteriosi incontri con il rimorchiatore”
Jakob Grebelsky”, un vecchio “Goryn class” trasformato in piattaforma logistica
e nave civetta.
Ogni suo movimento appare studiato per
proteggere le petroliere, garantendo autonomia, silenzio operativo e capacità
di monitoraggio.
Dove le rotte commerciali internazionali si
incrociano, Mosca invia le sue sentinelle sommerse, che non portano aiuti né
cooperazione ma tensione, controllo e raccolta di informazioni.
Le
aree in cui il sottomarino si è concentrato coincidono con punti nevralgici per
energia e comunicazioni:
dalle coste egiziane di “El Dabaa” e “Alamein”,
al largo di “Cipro” e “Tartus”, fino al cuore del Mediterraneo centrale e al
tratto più sensibile tra Sicilia e Ionio, dove scorrono condotte strategiche e
cavi sottomarini europei.
I
movimenti del rimorchiatore, utilizzato come copertura, disegnano un quadro
preciso:
un’operazione di tre mesi, con circa quaranta
giorni di immersione e presenza costante vicino alle rotte marittime
occidentali.
Dopo
aver perso la “base siriana di Tartus”, la Russia sembra impegnata a
ricostruire nel Mediterraneo una rete di appoggi “amichevoli”, sfruttando porti
come Alessandria e Algeri, che diventano veri e propri punti di sostegno per
una flotta senza trasparenza e senza controllo.
Non si
tratta di semplici scali tecnici, ma di atti politici:
dimostrazioni
di influenza in Paesi dove il Cremlino cerca di consolidare legami, mentre la
guerra in Ucraina continua a dissanguare il Paese sul piano militare ed
economico.
Ciò
che inquieta non è soltanto la capacità tecnica del” Novorossiysk” di lanciare
missili da crociera “Kalibr” – già utilizzati contro obiettivi civili in
Ucraina –ma la logica che guida il suo impiego.
La
Russia considera il mare non come spazio di cooperazione, ma come campo
d’azione segreto, dove le regole della convivenza internazionale valgono solo
per gli altri.
Ogni
missione del genere aumenta i rischi di incidente e accentua la sensazione che
Mosca stia preparando un livello di confronto più subdolo e più pericoloso:
quello delle profondità.
I
sottomarini che scortano la “flotta ombra” russa sono oggi simbolo di una
politica che ignora ogni principio di responsabilità.
Non
c’è nulla di difensivo in un’operazione di questo tipo.
Mentre
il mondo cerca di mantenere un fragile equilibrio, la Russia sceglie la via
della provocazione, trasformando il Mediterraneo in un campo di manovra per i
propri sottomarini e diplomazie parallele.
Sotto
la superficie del mare, tra correnti e fondali, si muove un’ombra che parla la
lingua della sfida.
È la stessa ombra che accompagna la Russia da
anni nelle guerre ibride, nelle interferenze e nelle ambiguità.
Più a lungo resterà indisturbata, più il
Mediterraneo – da spazio di incontro tra civiltà – rischia di riflettere le sue
acque più torbide: quelle dell’arroganza e dell’inganno russo.
DOPO
LA COREA DEL NORD,
MOSCA
PUNTA SU CUBA.
Opinione.it
- Renato Caputo – (10 ottobre 2025) ci dice:
Dopo
la Corea del Nord, Mosca punta su Cuba.
La
Russia sembra fare sempre più affidamento su combattenti stranieri per
sostenere il proprio sforzo bellico in Ucraina, un segnale evidente di
difficoltà a mantenere un esercito nazionale stabile e sufficientemente
numeroso.
Decine
di migliaia di cittadini cubani sarebbero stati reclutati, attratti da stipendi
fino a cento volte superiori al salario medio locale, una cifra che rende
l’offerta irresistibile per molti in un contesto di grave crisi economica a
Cuba.
Durante
un briefing al Congresso Usa, il portavoce dell’intelligence militare ucraina
(Hur), “Andriy Yusov”, ha dichiarato che il numero di cubani già “reclutati e
con i documenti pronti” si aggira intorno ai 20mila, ma potrebbe salire fino a
25mila se si considerano i reclutamenti ancora in corso e le operazioni già
avviate da Mosca.
Tra
coloro che hanno firmato contratti ufficiali, il numero individuato dagli
ucraini tra giugno 2023 e febbraio 2024 era di circa 1.038 persone.
Il
compenso offerto ai mercenari cubani è di circa 2mila dollari al mese, un
importo che equivale a cento volte la media mensile di 20 dollari a Cuba,
evidenziando come la Russia stia giocando sulla disperazione economica di un
Paese in difficoltà per reclutare combattenti.
L’età
media dei mercenari cubani è di circa 35 anni, un dato che suggerisce una
selezione di uomini già adulti, con una certa esperienza lavorativa ma anche
più esposti ai rischi fisici di un conflitto intenso.
Le autorità ucraine hanno documentato almeno
39 cubani deceduti, pur precisando che si tratta di una stima parziale:
il
numero reale potrebbe essere molto più alto.
Il governo cubano nega qualsiasi
coinvolgimento diretto, pur ammettendo che alcuni cittadini possano essere
stati coinvolti in attività di arruolamento illegale.
Tuttavia,
secondo Kyiv, un’operazione di tali dimensioni difficilmente potrebbe svolgersi
senza il tacito consenso delle autorità cubane, mettendo in luce una ambiguità
diplomatica che permette a Mosca di aggirare eventuali sanzioni o pressioni
internazionali.
Oltre
ai cubani, la Russia ha fatto ricorso anche a truppe nordcoreane. Secondo stime
di “Reuters” e “Bbc”, i soldati della Corea del Nord impegnati sul fronte –
soprattutto nella regione russa di “Kursk” – sarebbero tra gli 11mila e i
12mila, con circa 4mila tra morti, feriti, catturati o dispersi.
Diverse
fonti di intelligence occidentale sostengono che questi militari siano
impiegati principalmente come truppe d’assalto, subendo perdite elevate in
operazioni dirette contro le linee ucraine.
“Vladimir
Putin” e “Kim Jong-un” hanno confermato pubblicamente la partecipazione di
militari nordcoreani, un gesto che rappresenta non solo un rafforzamento della
cooperazione militare tra Mosca e Pyongyang, ma anche un chiaro messaggio
politico:
la
Russia, incapace di sostenere da sola il proprio apparato militare, si affida a
partner internazionali disposti a pagare il prezzo umano della guerra.
Molti
aspetti restano incerti, ma la presenza di contratti firmati, passaporti e
liste di nomi reali suggerisce un reclutamento straniero organizzato e
sistematico.
Anche
per i nordcoreani, il quadro diventa più chiaro dopo le ammissioni ufficiali,
ma resta difficile verificare con certezza le perdite e il numero totale di
combattenti impiegati.
A questi contingenti principali si aggiungono
presenze minori provenienti da Paesi dell’Africa e dell’Asia centrale,
segnalando come la Russia stia creando una vera e propria “armata
internazionale” di mercenari e soldati stranieri per compensare le carenze
interne.
Il ricorso massiccio a combattenti stranieri
riflette in maniera drammatica le difficoltà della Russia nel mantenere i
propri arruolamenti interni.
Dopo
oltre tre anni e mezzo di guerra, il bacino di volontari e coscritti russi – in
particolare nelle regioni più povere e remote del Paese – sembra essersi
ridotto drasticamente, riducendo le opzioni di Mosca per rimpiazzare perdite
crescenti.
L’affidamento a contingenti esterni appare
così come un chiaro indicatore di logoramento:
un
tentativo di compensare uomini e risorse che la macchina bellica russa non
riesce più a garantire autonomamente.
L’impiego
di mercenari stranieri assume anche una valenza simbolica: segnala la crescente
pressione interna sulla Russia, sia dal punto di vista sociale sia politico.
Mentre
la popolazione russa subisce le conseguenze di una mobilitazione sempre più
estesa e di una guerra logorante, il Cremlino appare costretto a cercare
personale altrove, mettendo in luce la fragilità del reclutamento nazionale e
l’insostenibilità di una guerra prolungata senza un sostegno umano sufficiente.
Inoltre,
l’utilizzo di combattenti stranieri introduce rischi significativi: differenze
culturali e linguistiche, minore disciplina, possibili problemi di lealtà e
integrazione con le unità russe.
Questi
fattori potrebbero incidere negativamente sull’efficacia operativa delle forze
di Mosca, amplificando le difficoltà logistiche e tattiche sul campo.
L’approccio
della Russia evidenzia così non solo un deficit numerico, ma anche una
crescente vulnerabilità strutturale del suo apparato militare.
In
definitiva, l’affidamento su mercenari cubani, nordcoreani e altri combattenti
stranieri è molto più di un espediente tattico:
rappresenta un chiaro segnale della crisi
interna della Russia, delle difficoltà di mobilitare risorse umane e della
necessità di sopperire alle perdite con personale esterno.
Questo fenomeno riflette il logoramento
progressivo del sistema militare russo e l’urgenza per Mosca di mantenere in
vita una macchina bellica sempre più costosa, sanguinosa e socialmente
insostenibile.
La
guerra in Ucraina, ormai da anni, non è solo una prova militare:
è anche un indicatore della fragilità
politica, economica e morale della Russia, costretta a dipendere da combattenti
stranieri per continuare a sostenere il proprio progetto aggressivo.
EUROPA
SBAGLIATA:
L'OTTIMA
PACE DI TRUMP.
Opinione.it - Francesca Romana Fantetti – (15
ottobre 2025) – ci dice:
Europa
sbagliata: l'ottima pace di Trump.
Notizia
positiva.
Dopo il suo impegno e lavoro determinato e
indefesso, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha siglato l’accordo di
pace tra i palestinesi e gli israeliani.
Genti che si sono barbaramente ammazzate e
uccise.
All’incontro
della firma in Egitto non era presente l’Unione europea nella persona di Ursula
von der Leyen, ritenuta responsabile, affatto velatamente, di avere aizzato e
aizzare la guerra, anziché la pace.
Il presidente eletto Usa sta già lavorando
all’altra pace da costruire, quella non meno difficile tra la Russia e
l’Ucraina.
Anche in quella il ruolo dell’attuale Europa
di von der Leyen non brilla. Si è scoperto così che la pace non è poi così
voluta come si sarebbe dovuto.
Mandare
armi in conflitti è chiaramente aizzare e volere la continuazione della guerra
e dei conflitti.
Siccome
poi la pace è stata raggiunta da Donald Trump, è per taluni meno “pace”, anzi
per niente tale, derubricata rattamente in mera e piccola “tregua”;
poi ci
sono quelli che dicono che i punti della pace scritti sono venti e ne sono
stati firmati solo due, e via dicendo.
Sminuire la pace raggiunta è come continuare a
volere la guerra, più o meno.
Allora
sì, alla firma dei mille punti inventati e scritti per avere la pace, dicono
quelli con l’elmetto degli altri – e le bombe e i morti sempre degli altri – si
sarebbe potuto dare a Trump il Nobel per la pace.
E via
dicendo.
I
fatti, tuttavia, sono duri e non demordono.
La pace continua a essere la pace. E si fa.
Grazie
a Trump, che l’ha raggiunta nella veste di presidente eletto a maggioranza
dagli americani in Usa.
Finalmente
una notizia positiva.
Una notizia felice che dovrebbe sollevare i
nostri animi.
Altre
notizie positive sono il fatto che presto anche la querelle russo-ucraina
finirà, sempre grazie a Trump.
L’Italia
è uno dei pochi Stati membri europei che ha parteggiato per la pace,
letteralmente dribblando questa Europa sbagliata.
Esemplificativo
è, in tal senso, Emmanuel Macron, uscente per tutti i francesi.
Una
nuova leadership europea eletta si impone come necessaria.
Si dice tanto di parlare di buone notizie e,
appena ce ne è una – e che buona notizia, la pace! – le si fanno le pulci fino
persino a non ammetterla.
La
pace è la pace. La migliore notizia nel mondo e per il mondo.
IL
FIUME SELVAGGIO E LA
NUOVA
RELIGIONE DEL CONTROLLO.
Opinione.it
- Sandro Scoppa – (15 ottobre 2025) – ci dice:
Il
fiume selvaggio e la nuova religione del controll.o
Quando
la natura diventa soggetto di diritti, l’uomo torna suddito. L’ultimo fiume
libero d’Europa rivela il volto autoritario dell’ambientalismo contemporaneo.
Ogni
epoca ha la sua ideologia dominante.
La nostra ha scelto l’ambientalismo, elevato a
nuova religione civile. Nell’epoca attuale non si parla più di libertà, ma di
“diritti della natura”; non si discute di limiti al potere, piuttosto di limiti
all’uomo.
Il caso del fiume “Vjosa”, in Albania ‒
l’ultimo grande corso d’acqua europeo rimasto intatto, ora sotto tutela Unesco
‒ è diventato il simbolo di questo rovesciamento.
Per
proteggere un fiume, si teorizza che la natura debba essere soggetto di
diritto.
Tuttavia,
tutte le volte che si spoglia l’individuo della sua centralità, si prepara il
terreno a un nuovo dominio:
quello
di chi, in nome della natura, parla e decide per tutti.
Il
fiume indicato, lungo 190 chilometri, scorre libero dai monti del Pindo fino
all’Adriatico.
È un ecosistema prezioso, ma anche un
territorio abitato da secoli, plasmato dal lavoro umano.
Agricoltura,
pesca, piccoli insediamenti e forme di economia locale hanno reso viva la sua
valle.
Oggi,
invece, le comunità che vi vivono rischiano di essere marginalizzate:
la
tutela internazionale si traduce in vincoli, divieti, permessi, regolamenti che
spesso proteggono più la burocrazia che la biodiversità.
Non è
un caso isolato.
La
storia è piena di “tutele” che, nel nome del bene comune, hanno finito per
sottrarre agli individui la gestione dei propri luoghi.
In
epoca romana, ad esempio, le terre considerate “pubbliche” ‒ le “ager publicus”
‒ finirono presto nelle mani dei pochi che avevano accesso al potere, mentre i
piccoli proprietari, privati delle loro parcelle, scivolarono nella dipendenza.
Ogni
volta che la proprietà si allontana dalle mani di chi lavora, la cura del
territorio scompare.
Qualcosa
di simile è accaduto nel Medioevo, quando le foreste dichiarate “demaniali” dal
sovrano non erano più spazi naturali, bensì territori di privilegio:
i contadini non potevano cacciare, tagliare
legna o pascolare il bestiame senza autorizzazione.
Le leggi forestali inglesi, nate per
proteggere i cervi del re, sono diventate presto un simbolo di arbitrio.
E ancora nel Novecento, in nome dell’interesse
collettivo, regimi e burocrazie hanno pianificato, e continuano a farlo, fiumi,
laghi e campagne con la pretesa di “razionalizzare” la natura, ottenendo al
contrario desertificazione, degrado e miseria.
L’idea
che l’ambiente si salvi attraverso la centralizzazione è dunque antica quanto
falsa.
Ogni
volta che si affida a un’autorità esterna la gestione della terra, la
responsabilità individuale si dissolve.
Il
vero motore della conservazione è la proprietà privata, perché solo chi
possiede ha interesse a mantenere, migliorare, tramandare.
Le
Alpi italiane ne offrono un esempio eloquente:
per
secoli le vicinie e le comunità montane, basate su diritti di uso collettivo ma
fondati sulla responsabilità personale, hanno saputo custodire boschi e pascoli
meglio di qualsiasi ente pubblico.
E
quando nel Novecento la gestione è stata burocratizzata, l’abbandono ha preso
il posto della cura.
Ora si
ripete lo stesso errore su scala globale. In nome della “Madre Terra” ‒
concetto introdotto per la prima volta nella Costituzione dell’Ecuador nel 2008
‒ si moltiplicano dichiarazioni solenni, mentre i problemi concreti restano
intatti.
In
Bolivia, dove la “Legge della Natura” è diventata simbolo politico, lo
sfruttamento delle miniere e la deforestazione proseguono indisturbati. È la
dimostrazione che la deificazione dell’ambiente non salva la natura, serve
unicamente a legittimare nuove forme di potere.
In
buona sostanza, la vicenda del Vjosa che si commenta mostra con chiarezza
questa ambiguità.
Dietro
il linguaggio della tutela si nasconde una struttura di controllo che regola
ogni attività umana:
costruzioni,
prelievi, estrazioni, perfino il turismo.
Tutto
dev’essere “autorizzato”, “monitorato”, “certificato”.
Si crea così un sistema in cui la libertà
economica e la responsabilità individuale vengono sostituite dalla
sorveglianza.
La
natura diventa pretesto per estendere l’amministrazione.
Ma
l’ambiente non si protegge con i decreti.
Si
protegge con la libertà, la conoscenza diffusa, l’iniziativa personale. La
storia economica lo conferma:
dove
il diritto di proprietà è chiaro e sicuro, le risorse sono gestite meglio.
Gli
studi di “Elinor Ostrom”, nota per i suoi studi pionieristici sui “commons” e
per essere stata la prima donna a ricevere il Premio Nobel per l’Economia, nel
2009, condiviso con “Oliver E. Williamson”, sui beni comuni mostrano che le
comunità autonome, senza intervento statale, sanno stabilire regole efficaci
per l’uso dell’acqua, dei boschi e dei pascoli.
È la prova che l’ordine spontaneo ‒ non la
pianificazione ‒ garantisce equilibrio e sostenibilità.
Anche
il mercato, quando non è ostacolato, è un alleato della tutela. L’innovazione tecnologica, gli
investimenti privati, la concorrenza tra imprese hanno ridotto inquinamento e
sprechi più di qualsiasi conferenza sul clima.
L’energia
pulita, il risparmio idrico, la gestione efficiente dei rifiuti nascono da
incentivi, non da proibizioni.
Ecco
perché il destino del Vjosa non dovrebbe essere consegnato a decreti o
organismi sovranazionali, ma alle persone che vivono lungo le sue rive.
A chi lo conosce, lo usa, lo ama.
Il
fiume sarà davvero libero solo se liberi saranno i suoi abitanti: proprietari,
non sudditi; custodi, non sorvegliati.
Attribuire
diritti alla natura significa, in realtà, togliere diritti a chi ne è parte.
È
l’ennesima forma di collettivismo mascherata da virtù.
La
vera sfida del nostro tempo non è dare voce ai fiumi, ma restituirla agli
uomini.
ARGENTINA,
UNA SVOLTA
ISTITUZIONALE.
Opinione.it - Sandro Scoppa – (12 giugno 2025)
– ci dice:
Argentina,
una svolta istituzionale.
Con la
sentenza del 10 giugno 2025, la “Corte suprema di Giustizia della Nazione dell’Argentina”
ha confermato la condanna dell’ex presidente “Cristina Fernández de Kirchner” a
sei anni di reclusione effettiva e all’interdizione perpetua dai pubblici
uffici.
La
decisione riguarda il reato di amministrazione fraudolenta in danno dello
Stato, per l’assegnazione irregolare di 51 appalti pubblici a imprese legate a”
Lázaro Báez” nella “provincia di Santa Cruz”.
La Suprema Corte ha respinto il ricorso straordinario
presentato dalla difesa, sottolineando che non sono state violate né le
garanzie costituzionali né il principio del giusto processo.
Secondo i giudici, la sentenza è stata fondata su un
solido quadro probatorio e una altrettanto corretta valutazione dei fatti,
compiuta in due gradi di giudizio.
Le critiche sollevate dalla difesa sono state
considerate prive di autonoma motivazione e incapaci di incidere sull’esito del
processo.
Si
tratta di una pronuncia destinata a fare storia, non solo per la rilevanza
della figura condannata, ma anche per il messaggio istituzionale che veicola:
nessuno
è al di sopra della legge.
Il
procedimento, complesso e articolato, si è sviluppato nell’arco di anni,
attraversando diverse fasi e confermando l’efficacia, in questo caso, del
sistema giudiziario.
Il
contesto in cui si inserisce la decisione è profondamente mutato rispetto al
passato.
Il governo guidato da “Javier Milei” ha più
volte espresso la volontà di rompere con le logiche del passato, promuovendo
un’azione politica centrata su legalità, rigore e trasparenza.
Pur
non interferendo con l’autonomia della giustizia, il nuovo clima istituzionale
ha certamente favorito una maggiore determinazione nel perseguire le
responsabilità.
L’esito
di questo processo rafforza la fiducia nello Stato di diritto e rappresenta un
segnale importante per la società argentina.
In una democrazia matura, le istituzioni
devono poter operare senza condizionamenti, garantendo giustizia anche nei
confronti di chi ha ricoperto i più alti incarichi pubblici.
C’era
da aspettarsi che Pechino
utilizzasse
il monopolio delle terre rare per
rispondere
a Trump.
Ilfattoquotidiano.it
– (14 ottobre 2025) – Gianluigi Perrone – ci dice:
Per
chi ha qualcosa da dire.
La
prima cosa che ha fatto Trump una volta appreso di non aver vinto il tanto
ambito Nobel per la Pace è dare addosso a Pechino.
C’era
da aspettarsi che Pechino utilizzasse il monopolio delle terre rare per
rispondere a Trump.
La
prima cosa che ha fatto Trump una volta appreso di non aver vinto il tanto
ambito Nobel per la Pace (a favore di una sua supporter, diciamolo) è dare
addosso a Pechino, cancellando l’incontro con il Presidente Xi Jinping al
prossimo APEC in Corea del Sud la settimana prossima.
Una
decisione che ha la gravità di una dichiarazione di guerra.
In un
momento così delicato per la questione mediorientale, Pechino ha voluto tirare
fuori dal cappello la risposta cinese alla “Trade War”, propedeutica per Trump
a isolare la Cina dal mercato globale.
C’era da aspettarsi che Pechino utilizzasse la carta
del monopolio delle terre rare (17 elementi primari più i magneti) come
risposta.
Non
era una questione di “se” ma di “quando”.
In
breve, la Cina rivendica il controllo commerciale non solo sulla esportazione
degli elementi in sé ma anche sui prodotti che li contengono, ovvero tutto.
Tutto
ciò che è tecnologia.
Questo vuol dire che se la Cina fa pressioni
sul governo italiano per allontanarsi dalle proprie posizioni filo-americane,
filo-israeliane, filo-ucraine o quel che è, le conseguenze di un rifiuto
potrebbero essere il tagliarsi fuori dall’innovazione tecnologica per decenni,
se non per sempre.
E non
è allarmismo da social.
Qui in
Cina l’adozione dell’intelligenza artificiale e della robotica è già a livelli
irraggiungibili.
L’evoluzione
del “machine learning” ha tempistiche esponenziali, e ha una richiesta
incessante di hardware (per i semiconduttori, i chip, che si fanno con le terre
rare) e di energia (quella che la Russia ci vendeva a noi e ora vende alla Cina
e agli USA).
Essere tagliati fuori non vuol dire doversi
arrangiare con le automobili, i computer, i telefonini, che abbiamo adesso.
Vuol
dire tornare ad andare in giro con il carretto e l’asinello.
A Xi
Jinping, o chi per lui, non interessa fare pressione sull’Italia.
All’imprenditoria cinese sembra oggi non interessare più cosa sta succedendo in
Europa, oramai data per spacciata.
Possono
fare pressione sul Giappone.
Sulla
Corea del Sud. Sugli alleati americani nell’Indopacifico.
Possono
fare pressione sugli Stati Uniti stessi.
Perché
va da sé che questi elementi sono di vitale importanza per costruire la
tecnologia militare.
Quelle
armi che gli Stati Uniti stanno vendendo all’Europa per il riarmo.
Ma se
l’Italia spende 140 miliardi di euro per il riarmo, poi come verranno
assemblate queste armi?
Si
stabilisce un’economia di guerra senza le materie prime per costruire le armi?
Oppure
la Cina si trasforma da fabbrica del Mondo a fabbrica militare del Mondo,
fondando il “Complesso Militare Industriale più mastodontico della Storia
dell’Umanità”, dal quale devono servirsi tutti. Inclusa l’Italia.
Inclusa
l’Europa, Inclusi gli Stati Uniti.
(E su
questo vi invito a seguire l’approfondimento sul mio canale “Genda Giada”.)
Saranno
poi gli Stati Uniti a comprare le armi dalla Cina e a venderle a noi al triplo
del prezzo come stanno facendo con il gas russo?
Non è
detto visto che tra Pechino e Washington ora volano gli stracci. Cosa ha a che
fare questo con il Nobel mancato a Trump?
Tutto
e niente, perché qui entra in gioco l’umore dell’uomo Donald, con il suo
genuino e imprevedibile narcisismo fanciullesco, estremamente deluso dal
risultato non raggiunto.
In
passato persino Hitler, Stalin e Mussolini erano stati candidati al Nobel per
la Pace.
Il Nobel definisce la politica di una
amministrazione, e ne conferisce prestigio e longevità.
Forse questo riconoscimento avrebbe permesso a
Trump (e alla sua legacy che potrebbe andare da Vance a Barron) di continuare
la trasformazione del sistema statunitense in modo pacifico.
Forse, relegando il Dipartimento della Difesa
(anzi della Guerra) a ranghi più mansueti, “perché abbiamo qui sulla scrivania
questo bel Nobel per la Pace, non possiamo mica andare a bombardare la Cina”.
Invece no.
Come
ha commentato il portavoce della Casa Bianca, “Steven Cheung”, “il Nobel ha
preferito la politica alla pace”.
E
questa è una minaccia.
La
minaccia della “Terza Guerra Mondiale militare”.
La
Cina stringe la presa sulle terre
rare: novità e potenziali impatti.
Ispionline.it
– (9 ottobre 2025) – Alberto Prina Cerai – ci dice:
Il
Ministero del Commercio cinese ha nuovamente aggiornato il regolamento sui
controlli all’export di questi materiali critici e strategici. Si tratta di una
mossa che anticipa la visita di Trump e Xi, ma che fa parte di una strategia
geoeconomica più ampia.
Nella
giornata di giovedì 9 ottobre, il Ministero del Commercio cinese (MOFCOM) ha
annunciato una nuova stretta sull’industria delle terre rare (REE) e non solo.
Secondo
quanto riportato da una nota del Ministero, nel quadro dell’”Export Control Law
e dei Regolamenti sull’export di tecnologie dual-use” – che, ricordiamo, la
Cina richiama in osservanza dei “Trattati di non proliferazione siglati nel
1968” – il MOFCOM richiederà alle industrie coinvolte di ottemperare ai
controlli, che riguardano buona parte degli elementi di terre rare (REE) e i
materiali composti impiegati in magneti e altre applicazioni che vengono
utilizzati nell’industria civile e militare.
Questa
nuovo aggiornamento, in realtà, si aggiunge a quanto pubblicato lo scorso
aprile, che aveva proprio introdotto come elemento di novità rispetto ai
regolamenti precedenti un focus specifico su lutezio, disprosio, terbio,
gadolinio, scandio, samario e ittrio.
Elementi
che il governo cinese ha individuato in quanto potenzialmente impiegati in
dispositivi militari di varia natura che potrebbero urtare la sicurezza
nazionale cinese.
Nell’ultimo
round di incontri tra i rappresentanti di Cina e Stati Uniti, lo scorso giugno
a Londra, una bozza di accordo era stata approvata per il parziale
“rilassamento” di queste restrizioni, che avevano avuto l’effetto non previsto
– almeno considerando le intenzioni cinesi – di colpire, per via di ritardi
sulle consegne, impianti di produzione in Europa e negli USA (soprattutto
legati all’auto motive).
La
ratio era quella di portare sul tavolo delle trattative i dazi ma soprattutto
ridiscutere gli export control statunitensi su chip avanzati per l’IA e
tecnologie di produzione.
Le
nuove misure di controllo che riguarderanno, complessivamente, le esportazioni
di materiali, componenti e tecnologie per la processazione di terre rare
certificano l’oramai conclamata weaponization dell’industria.
Le aree a cui si estendono i controlli
riguardano:
equipaggiamento e reagenti per terre rare, in
particolare separazione e linee di produzione dei magneti NdFeB;
l’aggiunta
di ulteriori 5 elementi di REE (olmio, erbio, tulio, europio e itterbio) e i
rispettivi composti (ossidi, metalli).
Ma
sono due gli importanti elementi di novità che emergono dalla nota del MOFCOM e
che riguardano l’approccio ai controlli.
Da
lato cinese, si aggiungerà il divieto esplicito di esportazione ad entità
ritenute un rischio per la sicurezza nazionale ̶ dunque, andando oltre l’obbligo di licenza
(che è differente dal concetto applicato, per esempio negli USA, di presumption
of denial che prevede la non concessione della licenza a meno che si dimostri
di non avere come clienti aziende o entità ritenuti un rischio per la sicurezza
nazionale).
Proprio con questa distinzione, le autorità
cinesi avevano concesso, o meno, tali licenze a partire da aprile scorso caso
per caso, in funzione degli utilizzi finali con l’esportatore che doveva
richiedere l’autorizzazione attraverso un vaglio molto farraginoso –
soprattutto per i requisiti tecnici imposti dal regolamento sul contenuto
minimo delle terre rare ‘magnetiche’ che definisce, in parole povere, quanto
quel prodotto sia utilizzabile in determinate componenti.
In questi mesi, è presumibile che con tale processo le
autorità cinesi abbiano raccolto informazioni di intelligence e di scrutinio
per capire effettivamente chi fossero gli utilizzatori end-use dei prodotti
contenenti quei materiali, con un occhio di riguardo soprattutto sul Pentagono.
C’è comunque da notare come, in generale, il
settore della difesa americano sia poco rilevante sulla domanda globale di
terre rare (circa lo 0,1%), ma non per questo poco rilevante da un punto di
vista strategico.
Il
secondo elemento di novità è più legato alle dinamiche della “supply chain”,
dove si concretizza il controllo effettivo sull’industria da parte della Cina.
Seppur
le tecnologie per l’estrazione, processazione, separazione e metallizzazione
delle terre rare (ovvero i due step più critici per l’emergere di una filiera
alternativa) fossero già all’interno del regolamento di controllo, sono stati
aggiunti anche software e know-how per la manutenzione e funzionamento di
specifici impianti, ad esempio per la colata rapida delle leghe metalliche o i
processi di macinazione a getto delle polveri magnetiche.
Inoltre, anche prodotti con solo lo 0,1% di
materiali di provenienza cinese saranno sottoposti ai controlli: un requisito
che probabilmente è volto a prevenire, dove possibile, anche le attività di
contrabbando. In sostanza, qualunque società “terza parte” che produca al di
fuori della Cina componenti con più dello 0,1% di una qualsiasi delle 12 terre
rare sopra indicate e ceda il prodotto risultante a una “quarta parte”, sarà
nuovamente necessaria una licenza rilasciata dal MOFCOM, oltre a una lettera di
conformità.
Dunque,
è proprio nell’estensione dei controlli oltre i confini della Cina che giace
l’aspetto più rilevante: anche le componenti (leghe o magneti, o probabilmente
anche metalli) che utilizzeranno tecnologia o materiali cinesi (quindi, fuori
dal perimetro nazionale) saranno sottoposti al regolamento del MOFCOM.
Un
regime di controlli che in qualche modo si specchia, per la profondità e
l’extraterritorialità a cui ambisce, a quello imposto dagli USA sui
semiconduttori avanzati negli scorsi anni, seppur l’efficacia e gli obiettivi
siano ancora del tutto difficili da anticipare.
Le
tempistiche sembrano suggerire una mossa ai fini geoeconomici. L’annuncio
precede di qualche settimana l’incontro previsto tra Trump e Xi Jinping all’”Asia-Pacific
Economic Cooperation” (APEC) in Corea del Sud:
un
segnale che Pechino vuole mettere massima pressione sugli Stati Uniti in
previsione dell’incontro, così come fatto poco prima della rinegoziazione dei
dazi lo scorso giugno.
Qualora
si raggiungesse un accordo simile, è del tutto improbabile che Pechino decida
di ritirare gli export control, considerando che anche per altri minerali e
materiali (gallio, germanio, grafite etc.) sono tuttora in vigore. Al di là del
target implicito (gli USA), la natura e la complessità dell’industria rende
complesso evitare ricadute lungo la filiera, come accaduto per l’industria
automotive europea anche qualora possano essere previste eccezioni.
Dunque,
è più che verosimile che il regolamento del MOFCOM sia disegnato per servire
più obiettivi.
Dalla
prospettiva americana e occidentale, questa decisione del Ministero del
Commercio cinese rappresenta sicuramente un tentativo di disarticolare o
frenare il tentativo di decoupling messo in atto (seppur complesso), con nuovi
investimenti lungo la supply chain per sganciarsi dalla Cina per lo meno sui
super-magneti che rappresentano sicuramente l’asset più strategico per
industrie come EV, robotica e naturalmente le applicazioni militari.
Il
caso più eclatante è quello di “MP Materials “su cui l’amministrazione Trump è
intervenuta per supportare il piano industriale (10X) dell’unica azienda –
oltre all’australiana “Lynas Corporation” – che gestisce un deposito attivo di
terre rare negli USA, con l’obiettivo di integrare le attività per una capacità
di produzione di circa 9.000 tonnellate di magneti.
Ma
grandi incognite soprattutto sulla carenza di materiali magnetici quali samario
e disprosio, controllati al 100% dalla Cina.
Quello
che ci si potrà aspettare nelle prossime settimane prima che l’inasprimento
delle restrizioni entri in vigore (il 1° dicembre 2025) sarà, almeno in teoria,
una corsa ad acquistare e stoccare i materiali in anticipo anche se sarà
difficile prevedere quali saranno gli utilizzi finali (sicuramente ex-post
dall’entrata in vigore dei meccanismi di controllo, considerando i tempi di
consegna e di fabbricazione).
Già
nelle settimane scorse i prezzi di alcuni materiali (neodimio e praseodimio,
due elementi non inclusi nella lista cinese) hanno segnalato movimenti al
rialzo, in concomitanza con alcuni annunci roboanti fatti da società di
estrazione ed esplorazione con il governo americano ma probabilmente legati ad
un contesto in cui rimane complesso muoversi all’interno delle restrizioni.
In
conclusione, se c’è un chiaro effetto che il nuovo regolamento avrà è quello di
confermare ancor di più l’urgenza e l’imperativo per l’Occidente di costruirsi
– a costi notevolissimi rispetto al business-as-usual, considerando che da ora
in poi sarà sempre più complesso accedere ai materiali, componenti, tecnologie
di processo cinesi – un’industria mine-to-magnet che possa garantire quantomeno
il fabbisogno in settori critici.
Se c’è
un prezzo da pagare, le mosse di Pechino hanno rivelato il security premium.
Tuttavia,
le nuove prescrizioni del regolamento del MOFCOM fanno presagire che, ormai,
tutte le terre rare e le loro applicazioni (dunque, non solo quelle incluse nel
documento di aprile) siano ormai parte della strategia cinese di coercizione e
risposta all’offensiva americana.
Affrancarsi
non sarà semplice:
parte
di questo processo si è avviato, ma non sarà un percorso immediato e privo di
ostacoli qualora la competizione tecnologica e geopolitica tra USA e Cina
portasse a misure di ulteriore escalation, con impatti su aziende che hanno
interessi da ambo le parti.
(Alberto
Prina Cerai).
(ISPI
Junior Research Fellow).
Aspettando
immagini di sottomissione
abietta
che non appare.
Unz.com
- Alastair Crooke – (13 ottobre 2025) – ci dice:
Il continuo
"dominio" degli Stati Uniti richiede di colpire in più direzioni,
perché la guerra unidirezionale contro la Russia è inaspettatamente fallita.
Trump
: " Questo problema con il Vietnam... Abbiamo smesso di lottare per
vincere. Avremmo vinto facilmente.
Avremmo
vinto l'Afghanistan facilmente. Avrebbe vinto ogni guerra facilmente.
Ma
siamo diventati politicamente corretti: 'Ah, prendiamocela comoda!'.
È che non siamo più politicamente corretti.
Solo perché tu capisca: vinciamo. Ora vinciamo
".
Tutto
questo sarebbe stato facile, insieme all'Afghanistan.
Quale
era il significato del riferimento di Trump al Vietnam?
"
Quello che stava dicendo è che 'noi' avremmo vinto il Vietnam facilmente, se
non fossimo stati svegli e DEI".
Alcuni
veterani potrebbero amplificare:
"
Sai: avevamo abbastanza potenza di fuoco: avremmo potuto uccidere tutti".
"Non
importa dove tu vada", Trump aggiunge: " Non importa quello che si
pensa, non c'è niente come la forza combattente che abbiamo [inclusa] Roma ...
Nessuno dovrebbe mai voler iniziare una lotta con gli Stati Uniti".
Il
punto è che nei circoli di Trump di oggi, non solo non c'è paura della guerra,
ma c'è questa illusione infondata della potenza militare americana.
Hegseth ha detto: " Siamo l'esercito più
potente nella storia del pianeta, nessuno escluso. Nessun altro può nemmeno
avvicinarsi ad esso ".
Al che
Trump aggiunge: " Anche il nostro mercato è il più grande del mondo,
nessuno può vivere senza di esso".
L'Anglo-US
L'"impero" si sta trascinando nell'angolo del "declino
terminale", come dice il filosofo francese Emmanuel Todd.
Trump
sta tentando, da un lato, di costringere ad essere una nuova "Bretton
Woods" al fine di ricreare l'egemonia del dollaro attraverso minacce,
spacconate e dazi – o la guerra, se necessario.
Todd
crede che, come l'Anglo-US L'impero cade a pezzi, gli Stati Uniti si scagliano
contro il mondo con furia e si stanno divorando attraverso il tentativo di
ricolonizzare le proprie colonie (cioè l'Europa) per una rapida rissa
finanziaria.
La
visione di Trump di una forza militare inarrestabile degli Stati Uniti equivale
a una dottrina di dominio e sottomissione.
Un
discorso che va contro tutti i precedenti discorsi narrativi sui valori
occidentali. Ciò che è chiaro è che questo cambiamento di politica è
"unito all'anca" con le credenze escatologiche ebraiche ed
evangeliche.
Condivide
con i nazionalisti ebrei la convinzione che anche loro, in alleanza con Trump,
rasentano il dominio quasi universale:
"Abbiamo
schiacciato i progetti nucleari e balistici dell'Iran, sono ancora lì, ma li
abbiamo ripresi con l'aiuto del presidente Trump ", si vanta Netanyahu.
Abbiamo
un'alleanza precisa, nel quadro della quale abbiamo condiviso l'onere [con gli
Stati Uniti] e abbiamo ottenuto la neutralizzazione dell'Iran ".
Secondo
Netanyahu, "Israele è emerso da questo evento come la potenza dominante in
Medio Oriente, ma abbiamo ancora qualcosa da fare: ciò che è iniziato a Gaza
finirà a Gaza".
"Dobbiamo
'deradicalizzare' Gaza – come è stato fatto in Germania dopo la seconda guerra
mondiale o in Giappone". Netanyahu ha insistito con” Euro news” . La
sottomissione, tuttavia, si sta rivelando sfuggente.
Il
continuo "dominio" degli Stati Uniti, tuttavia, richiede di colpire
in più direzioni, perché la guerra unidirezionale contro la Russia – che
avrebbe dovuto fornire al mondo una lezione pratica sul "mestiere"
del dominio anglo-sionista è inaspettatamente fallita.
E ora
il tempo sta per scadere sulla crisi del deficit e del debito americano.
Questo,
sebbene articolato come il desiderio trumpiano di dominio, sta anche lanciando
impulsi nichilisti per la guerra e allo stesso tempo sta fratturando le
strutture occidentali.
Aspre
tensioni stanno sorgendo in tutto il mondo.
Il quadro generale è che la Russia ha visto la
scritta sul muro: il vertice dell'Alaska non ha dato frutti; Trump non è serio
nel voler rimodellare le relazioni con Mosca.
L'aspettativa
a Mosca è ora orientata verso l'aspettativa di un'escalation degli Stati Uniti
in Ucraina; un attacco più devastante contro l'Iran; o qualche azione punitiva
e performativa in Venezuela – o entrambi.
Sembra
che la squadra di Trump stia parlando di sé stessa in un'eccitazione psichica
di stato.
Gli
oligarchi ebrei e l'ala destra del gabinetto in Israele, in questo quadro
emergente, esistono praticamente col bisogno che l'America rimanga un temuto
egemone militare (proprio come promette Trump).
Senza l'"inarrestabile" randello
militare americano e in assenza della centralità dell'uso del dollaro nel
commercio, la supremazia ebraica diventa nient'altro che una chimera
escatologica.
Una
crisi di de-dollarizzazione, o un'esplosione del mercato obbligazionario –
giustapposta all'ascesa della Cina, della Russia e dei BRICS – diventa una
minaccia esistenziale per la "fantasia" suprematista.
Nel
luglio 2025, Trump ha detto al suo gabinetto: " I BRICS sono stati
istituiti per farci del male; I BRICS sono stati istituiti per degenerare il
nostro dollaro e prendere il nostro dollaro... come standard".
Quindi
cosa viene dopo? Chiaramente, l'obiettivo iniziale degli Stati Uniti e di
Israele è quello di "bruciare" la psiche di Hamas con la sconfitta; e
se non c'è un'espressione visibile di totale sottomissione, l'obiettivo
generale sarà probabilmente quello di cacciare tutti i palestinesi da Gaza e di
installare coloni ebrei al loro posto.
Il
ministro israeliano” Smotrich” – alcuni anni fa – sosteneva che il completo
sfollamento della popolazione palestinese e araba non sottomessa sarebbe stato
finalmente raggiunto solo durante "una grande crisi o una grande
guerra" – come accadde nel 1948, quando 800.000 palestinesi furono espulsi
dalla loro casa.
Ma
oggi, nonostante i due anni di massacri, i palestinesi non sono fuggiti, né si
sono sottomessi.
Così
Israele, nonostante tutto ciò che Netanyahu si vanta di aver schiacciato Hamas,
deve ancora sconfiggere i palestinesi di Gaza – e alcuni media ebraici trovano
l'”Accordo di Sharm el-Sheik” "una sconfitta per Israele".
Le
ambizioni di Netanyahu e della destra israeliana non sono circoscritte a Gaza.
Si estendono molto oltre: cercano di stabilire
uno Stato sulla piena "Terra di Israele", vale a dire il Grande
Israele.
La
loro definizione di questo progetto coloniale è ambigua, ma probabilmente
vogliono il Libano meridionale fino al fiume Litani; probabilmente la maggior
parte della Siria meridionale (fino a Damasco); parti del Sinai; e forse parti
della Cisgiordania, che ora appartengono alla Giordania.
Così,
nonostante due anni di guerra, ciò che Israele vuole ancora, secondo il
professore “Mearsheimer”, è un Grande Israele libero dai palestinesi.
"Inoltre",
Il professor “Mearsheimer” aggiunge:
"Bisogna
pensare a ciò che vogliono nei confronti dei loro vicini.
Vogliono
vicini deboli. Vogliono dividere i loro vicini.
Vogliono fare all'Iran quello che hanno fatto
in Siria.
È
molto importante capire che [mentre] la questione nucleare è di importanza
centrale per gli israeliani in Iran, hanno obiettivi più ampi - che è quello di
distruggere l'Iran, trasformarlo in una serie di piccoli stati".
"E
poi gli stati che non si dividono - come l'Egitto e la Giordania - vogliono che
siano economicamente dipendenti dallo Zio Sam, in modo che lo Zio Sam abbia
un'enorme influenza coercitiva su di loro.
Quindi,
stanno pensando seriamente a come trattare con tutti i loro vicini e
assicurarsi che siano deboli e non rappresentino alcun tipo di minaccia per
Israele".
Israele
cerca chiaramente il collasso e la neutralizzazione dell'Iran – come ha
sottolineato Netanyahu:
"Abbiamo
schiacciato i progetti nucleari e balistici dell'Iran – sono ancora lì, ma li
abbiamo ripresi con l'aiuto del presidente Trump ...
L'Iran
sta sviluppando missili balistici intercontinentali con una gittata di 8.000
km. Aggiungine altri 3.000 e possono puntare a New York City, Washington,
Boston, Miami, Mar-a-Lago ".
Mentre
un possibile accordo di cessate il fuoco inizia a prendere forma in Egitto, il
quadro regionale più ampio è che gli Stati Uniti e Israele sembrano
intenzionati a provocare un confronto tra sunniti e sciiti per circondare e
indebolire l'Iran.
La dichiarazione congiunta” UE-CCG” dei giorni
scorsi sulle rivendicazioni degli Emirati Arabi Uniti di possedere la sovranità
su Abu Musa e le isole Tunb riflette una crescente analisi a Teheran secondo
cui le potenze occidentali stanno ancora una volta utilizzando le monarchie del
Golfo come strumenti per fomentare l'instabilità regionale.
In
breve, non si tratta delle isole o del petrolio, ma di creare un nuovo fronte
per indebolire l'Iran.
E con
tutti questi progetti per il riordino della regione per acconsentire
all'egemonia di Israele, i grandi donatori ebrei vogliono garantire una
situazione in cui gli Stati Uniti sostengono Israele incondizionatamente – da
qui i grandi diretti ai media mainstream e ai social media per garantire un
sostegno a tutta la società per Israele in America.
Il 7
ottobre, in occasione del secondo anniversario, pone una domanda: a che punto è
il bilancio?
La
partnership tra Stati Uniti e Israele è riuscita a distruggere la Siria,
trasformandola in un inferno di omicidi intestini;
La
Russia ha perso il suo punto d'appoggio nella regione;
L'ISIS
è stato rianimato; Il settarismo è in ascesa.
Hezbollah
è stato decapitato ma non distrutto.
La
regione è stata balcanizzata, frammentata e brutalizzata.
Il “JCPOA”
Snap back per l'Iran è stato attivato e il 18 ottobre scade il JCPOA stesso.
Trump
si ritrova quindi con un "foglio bianco" su cui può scrivere un
ultimatum che chiede la capitolazione iraniana, o un'azione militare (se lo
desidera).
Dall'altro
lato del racconto, se dovessimo guardare indietro agli obiettivi iniziali della
Resistenza di esaurire militarmente Israele; creare guerre intestinali
all'interno di Israele; e mettendo in discussione il principio del sionismo che
conferisce diritti speciali a un gruppo di popolazione rispetto a un altro,
allora si potrebbe dire che la Resistenza – a un costo molto alto – ha avuto un
certo successo.
La
cosa più significativa è che le sanguinose guerre di Israele hanno già fatto
perdere una generazione di giovani americani, che non torneranno.
Qualunque
siano le circostanze dell'uccisione di Charlie Kirk, la sua morte ha permesso
al genio del dominio "israeliano prima" nella politica repubblicana
di uscire libero dalla bottiglia.
Israele
ha già perso gran parte dell'Europa, e negli Stati Uniti, l'intollerante
insistenza di Trump e degli israeliani sulla fedeltà a Israele e alle sue
azioni ha innescato un intenso respingimento del Primo promettente.
Questo
mette Israele sulla buona strada per "liberare" l'America.
E questo potrebbe essere esistenziale per
Israele, che potrebbe aver bisogno di rivalutare radicalmente la natura del
sionismo (che era, ovviamente, l'obiettivo dichiarato di (Seyed Nasrallah”).
Come
sarebbe? Accelerare la migrazione – lasciando un mosaico di resistenze sioniste
per sopravvivere in mezzo a un'economia stagnante e all'isolamento globale.
È
sostenibile?
Quale
sarà il futuro che preannuncia i nipoti di Israele?
L'escalation
del panico dei droni
in Europa: quando la paura
diventa un'arma politica.
Unz.com
- J. Ricardo Martins – (13 ottobre 2025) – ci dice:
Una
manciata di droni a basso costo ora detta budget da miliardi di euro e agenda
dei vertici.
L'isteria dell'Europa nei cieli dice meno sul
potere di Mosca che sulla sua stessa perdita di compostezza.
Una
strana isteria si è impadronita dell'Europa.
Non si tratta di carri armati al confine o di
missili sulle città, ma di droni: piccoli droni non verificati, spesso innocui.
Appaiono
e scompaiono nei cieli sopra la Danimarca, la Germania o la Polonia, e nel giro
di poche ore i titoli dei giornali gridano di "guerra ibrida" e
"incursioni nello spazio aereo".
Gli
aeroporti chiudono, i vertici vengono convocati e i ministri stanno davanti
alle telecamere promettendo nuove difese.
Ciò
che una volta poteva essere liquidato come motivo di irritazione è diventato
uno strumento politico e una giustificazione per la nuova era di riarmo
dell'Europa.
La
paura come strategia e opportunità politiche.
Nelle
parole del ministro della Difesa tedesco “Boris Pistorius”, l'Europa ha bisogno
di "una valutazione calma della situazione".
Il suo
appello, fatto a Handelsblatt , rimase in gran parte inascoltato.
La
stessa settimana, l'aeroporto di Monaco è stato messo a terra due volte e
Berlino si è affrettata ad annunciare un "centro di difesa
anti-droni".
Eppure
nessuno è stato in grado di confermare chi abbia inviato questi droni o se
provenissero dalla Russia.
Questa
è l'essenza dell'odierno discorso europeo sulla sicurezza: l'esecuzione della
minaccia senza provare, la coreografia della paura.
Mosca
non ha bisogno di distruggere nulla per vincere; ha solo bisogno che l'Europa
si faccia prendere dal panico.
Un
drone da 5.000 a 50.000 euro può costringere la NATO a lanciare un missile da 1
milione di euro, o meglio ancora, ad approvare miliardi di nuovi bilanci per la
difesa.
In
questo processo, l'Europa sta barattando il benessere con gli armamenti, la
diplomazia con la deterrenza e l'unità con il panico.
Come
hanno notato il “Mosca Times” e la “Reuters” , la strategia ibrida di Putin si
basa meno sulla tecnologia che sulla psicologia.
Lanciando
piccole provocazioni, la Russia mette alla prova i nervi dell'Europa e mette a
nudo le sue linee di faglia.
Ogni
drone non identificato, ogni piccolo attacco informatico a un'azienda di
logistica o a un aeroporto, serve a confermare la narrativa secondo cui
l'Europa è sotto assedio e che solo l'espansione militare può garantire la
sicurezza.
La
politica del panico: il riarmo e il compromesso del welfare.
La
reazione europea è rivelatrice.
La
Polonia chiede un "muro dei droni" che si estende lungo il suo
confine orientale.
La
Germania discute le modifiche costituzionali per consentire al suo esercito di
abbattere aerei senza pilota sullo spazio aereo nazionale.
La
Commissione europea, sotto la guida di Ursula von der Leyen, promuove
un'iniziativa anti-droni da 1,5 miliardi di euro.
Eppure
i dati non giustificano tale frenesia.
La
maggior parte degli incidenti coinvolge droni di livello commerciale o
avvistamenti non verificati.
Ma
"l'ansia collettiva", come ha detto il “Guardian,” e l'isteria politica hanno la loro utilità.
In un
continente stanco della vendita al dettaglio, degli scioperi e dell'austerità,
i droni sono diventati una narrazione conveniente. Uniscono gli elettorati
attorno al linguaggio della "sicurezza" e mettono a tacere il
dissenso sull'erosione dello stato sociale.
L'Europa
ha già stanziato circa 800 miliardi di euro per la difesa nei prossimi quattro
anni.
Questi
fondi non finanzieranno ospedali o transizioni verdi;
serviranno ad acquistare radar, missili e F-35
americani.
In
questo senso, il panico da droni non è solo emotivo; è fiscale. Giustifica ciò
che Donald Trump chiedeva da tempo:
che
gli europei "pagassero di più" per la NATO.
E lo
stanno facendo a spese di quel tessuto sociale che un tempo caratterizzava
l'Europa del dopoguerra.
I
beneficiari politici sono chiari.
I
governi a guida sociale sono stanchi e i partiti populisti di destra stanno
vincendo le elezioni – l'ultima è stata in Repubblica Ceca.
I
partiti di estrema destra, dall'AfD in Germania alla Lega in Italia,
approfittano del senso di insicurezza per chiedere confini più saldi e leggi
più severe in materia di asilo.
La paura, in altre parole, è diventata la nuova
politica industriale europea.
Il
vero gioco della Russia: vincere la guerra psicologica.
Se la
Russia è davvero dietro alcune di queste incursioni di droni, la sua strategia
è di un'efficacia devastante.
Come scrive” Rafael Loss” dell'”European
Council on Foreign Relations” , Mosca opera nella "zona grigia" – tra
pace e guerra, dove piccole provocazioni creano effetti politici
sproporzionati.
Come
ha detto senza mezzi termini il ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani, "Putin non vuole la Terza
Guerra Mondiale". Direi che il vero obiettivo della Russia è più sottile: mantenere l'Europa distratta,
divisa ed economicamente prosciugata.
Al “Valdai
Club”, all'inizio di questo mese, il presidente Putin ha ridicolizzato l'idea
che la Russia intenda attaccare la NATO, definendola "una
sciocchezza" e accusando i leader occidentali di usare l'isteria per
giustificare la loro militarizzazione.
Dietro l'ironia si nasconde il calcolo.
Ogni
reazione esagerata europea convalida la sua tesi secondo cui l'Occidente è
paranoico e politicamente fragile.
Nel
frattempo, i droni e le sonde informatiche russe fungono anche da operazioni di
raccolta di informazioni, mappando le difese della NATO e la velocità
decisionale.
Ogni
falso allarme rivela più informazioni sulle catene di comando europee che sulle
capacità della Russia.
Il
risultato è un gioco asimmetrico in cui il Cremlino detta il ritmo e l'Europa
danza nervosamente a ogni ronzio nel cielo.
Cieli
divisi, Europa divisa.
Il
panico ha anche messo in luce le divisioni politiche dell'Europa.
Al
vertice di Copenaghen del 1° ottobre 2025, i leader si sono scontrati su chi
dovesse coordinare la "difesa dei droni" del continente, Bruxelles o
le capitali nazionali.
La
Francia ha messo in guardia contro "muri semplicistici";
Grecia
e Italia hanno protestato affermando che i nuovi sistemi avrebbero protetto
solo il fianco orientale;
l'Ungheria
ha bloccato ulteriori sanzioni.
Una
fregata tedesca ha ostentatamente ancorato nel porto di Copenaghen, simbolo di
forza anche mentre l'unità si sgretola.
Qui
sta la debolezza più profonda dell'Europa:
il riflesso di militarizzarsi senza strategia.
I droni sono diventati metafore di ogni
insicurezza:
migrazione,
dipendenza energetica, ritardo tecnologico, e la risposta è sempre la stessa:
spendere
di più, centralizzare di più e fidarsi della NATO per salvare la situazione.
Eppure la stessa NATO è perseguitata da dubbi
sull'affidabilità degli Stati Uniti.
Il
rilancio dei discorsi di Trump di "prendere" la Groenlandia dalla
Danimarca, membro dell'UE e della NATO, ha silenziosamente riacceso i timori
europei che la garanzia americana sia condizionata e transazionale.
Il
recente attacco israeliano a Doha – e la mancanza di reazione da parte della
vicina base militare statunitense – ha aggiunto un altro livello di sfiducia
nei confronti di Washington.
Questa
incertezza gioca direttamente a favore di Mosca.
Ogni disputa sui finanziamenti o sull'autorità
di comando conferma che la deterrenza della NATO non è meccanica ma psicologica
e vulnerabile. L'Europa tremerà non a causa dei droni russi, ma perché non crede più
nella propria resilienza.
Conclusione:
il riflesso della paura in Europa.
Il
grande panico europeo per i droni non riguarda i droni.
Riguarda
la perdita di compostezza strategica dell'Europa.
Una manciata di oggetti ronzanti, reali o
immaginari, hanno innescato bilanci miliardari, dibattiti costituzionali e
teatri politici.
Nel
frattempo, l'Europa sta barattando il welfare con gli armamenti, la diplomazia
con la deterrenza e l'unità con il panico.
Putin
lo capisce perfettamente.
Il suo obiettivo non è bombardare Berlino o
invadere Varsavia, ma mantenere l'Europa nervosamente in bilico su sé stessa,
convinta che ogni ombra nel cielo sia una minaccia esistenziale.
La
tragedia è che non deve indebolire l'Europa;
l'Europa
lo sta facendo da sola, un "vertice anti-droni" alla volta.
(Ricardo
Martins. Specializzato in Relazioni Internazionali e Geopolitica).
L'America
ha bisogno di un partito
politico
che rappresenti gli americani.
Unz.com
- Paul Craig Roberts – (15 ottobre 2025) – ci dice:
Nel XX
secolo, la differenza tra repubblicani e democratici era tra un partito che
vuole che i cittadini siano premiati in base al merito e un partito che vuole
che i cittadini siano premiati in base ai bisogni.
Sono
stati i democratici a dare ai bisognosi i diritti di proprietà, a volte
chiamati diritti, attraverso la tassazione, il controllo degli affitti e altri
metodi redistributivi sulla redditività dei contribuenti.
I
bisognosi e i loro bisogni si espansero rapidamente, rendendo necessarie
ulteriori violazioni dei diritti di proprietà costituzionalmente protetti.
Oggi
un americano che guadagna 300.000 dollari all'anno paga un terzo del suo
reddito in imposte federali sul reddito, a cui si aggiungono le imposte statali
sul reddito, le imposte sulle vendite e le accise, le tasse su servizi come
l'elettricità e il telefono e le tasse sulla proprietà per pagare l'istruzione
dei figli di altre persone.
Oggi
un americano della classe media, i pochi che ancora rimangono, si trova di
fronte a un diritto maggiore sul suo reddito di quanto i signori feudali
debbano sul lavoro dei servi della gleba.
Fino
alla riduzione dell'aliquota fiscale di Reagan, i ricchi americani avevano un
diritto minore sui prodotti del loro lavoro rispetto agli schiavi del XIX
secolo in una piantagione di cotone.
In
molte occasioni ho fatto notare in un articolo del 15 aprile che gli americani
pensano di essere liberi, ma in realtà non hanno più diritto al loro lavoro dei
servi feudali e degli schiavi del XIX secolo.
Poiché la definizione storica di persona
libera è una persona che possiede il proprio lavoro, le persone libere non
esistono più in nessun paese con un'imposta sul reddito.
La
conseguenza della ridistribuzione coercitiva dei diritti di proprietà ai
bisognosi è che ogni società occidentale "libera e democratica" è una
società del "benessere", un termine curioso dato che le società
occidentali non sono molto bene.
In
effetti, i diritti dei bisognosi ora includono i diritti degli immigrati
illegali di entrare in una società occidentale e di essere mantenuti a spese
dei cittadini contribuenti.
L'Oregon, ad esempio, spende più soldi dei
contribuenti per fornire assistenza sanitaria gratuita agli immigrati-invasori
che non sono cittadini di quanto spenda per le forze di polizia statali.
Gli immigrati-invasori hanno acquisito il
diritto de facto di stuprare le ragazze di etnia britannica e svedese e di
vedere le accuse contro di loro per stupro respinte come crimini d'odio basati
sulla razza.
Attualmente,
negli Stati Uniti i sindaci e i governatori democratici sono in attiva
insurrezione contro il governo degli Stati Uniti bloccando la deportazione dei
clandestini, ma la politica di non distinguere tra cittadini e immigrati illegali è
ora così radicata che i democratici non vengono arrestati per insurrezione.
Non
c'è alcuna prospettiva che l'America o qualsiasi altro paese occidentale abbia
un partito politico impegnato a far risorgere un popolo libero come
storicamente definito.
In
qualsiasi momento, i nostri diritti di proprietà sono limitati a ciò che non è
stato ancora assegnato ad altri.
I
nostri diritti residui al nostro lavoro continueranno a diminuire fino a quando
i bisogni dei bisognosi supereranno in quantità i redditi dei produttivi.
Quando
dico che gli americani hanno bisogno di un partito politico che li serva,
intendo solo in senso limitato.
Cominciamo col chiederci chi servono
Democratici e Repubblicani. Entrambi i partiti servono i donatori dei fondi
delle loro campagne politiche.
La
Corte Suprema degli Stati Uniti ha autorizzato le lobby organizzate ad
acquistare il governo degli Stati Uniti attraverso contributi elettorali.
Ce ne
sono molte:
Big
Pharma, il complesso militare/di sicurezza è così via.
Non è
insolito che le lobby acquistino membri di entrambi i partiti.
Una
volta in carica, i "nostri" rappresentanti eletti servono Big Pharma,
il complesso militare/di sicurezza e il resto.
Non si
può fare nulla al riguardo finché la sentenza della Corte Suprema non verrà
ribaltata e i fondi non verranno ritirati dalla politica.
Finora
mi sono occupato di interessi materiali.
Ci
sono altri tipi di interessi, come quelli filosofici.
Ad
esempio, le diverse opinioni che “Thomas Jefferson” e “Alexander Hamilton”
avevano sul governo e sul suo ruolo.
Ci sono poi interessi ideologici/religiosi.
Oggi
il Partito Democratico, un tempo partito che rappresentava la classe operaia in
contrapposizione al Partito Repubblicano che rappresentava le imprese, è
diventato un partito ideologico il cui programma è una Torre di Babele alla
Sodoma e Gomorra.
I Democratici sono stati convinti dalla teoria
critica della razza e dal razzismo avversivo che le etnie bianche siano
razziste nei confronti delle persone di colore e che storicamente le abbiano
sottoposte a sfruttamento e abusi.
Il “Progetto
1619” del “New York Times” esemplifica la convinzione che l'America sia stata
fondata sul razzismo, non sulla libertà.
Per
fare ammenda a persone che non sono mai state schiave a spese di persone che
non hanno mai posseduto schiavi, negli ultimi 60 anni gli americani bianchi, in
particolare i maschi eterosessuali, in violazione dell'uguale protezione della
legge del 14° emendamento, sono stati soggetti a discriminazioni
nell'ammissione all'università, nell'occupazione e nella promozione.
Questa palese violazione della Costituzione degli
Stati Uniti è definita eufemisticamente "Affermative Action", una
politica federale creata non dalla legislazione, ma da un uomo, un ebreo di
nome “Alfred Blumrosen” dell'EEOC.
Questo
è tutto ciò che è servito superare per il requisito della Costituzione degli
Stati Uniti di uguale protezione e il divieto del “Civil Rights Act” del 1964
sulle quote razziali.
I
privilegi razziali illegali creati da Blumrosen si sono espansi nell'ideologia
DEI che caratterizza un sistema basato sul merito e un'educazione basata sul
merito come razzisti.
Una
conseguenza è stata che le scuole superiori speciali basate sulle “STEM”, i cui
diplomati erano meglio preparati in matematica e scienze rispetto ai laureati,
hanno dovuto ridurre i loro standard per iscrivere candidati non qualificati.
In
altre parole, i democratici hanno distrutto le scuole in nome della DEI.
Questo
è stato fatto perché DEI – Diversity, Equity, Inclusion – impone la "verità" che
tutte le differenze di performance sono dovute al "privilegio
bianco".
In
altre parole, non esiste una cosa come il merito.
Merito
è semplicemente una bella parola, un travestimento, per "privilegio
bianco".
Di
recente, il “Segretario alla Guerra” ha dichiarato a un'assemblea di 800
generali e ammiragli che i giorni della DEI nell'esercito erano finiti.
Vedremo.
Il
declino dell'esercito statunitense è iniziato quando uomini deboli si sono
sottomessi alle femministe e hanno permesso alle donne di combattere.
A
volte mi chiedo se, a parte l'Alabama e le aree bianche non urbane del Texas,
l'America abbia uomini capaci di essere veri soldati.
L'America non ha certamente uomini democratici
capaci di servire un Paese i cui valori tradizionali sono ferocemente contrari,
al punto da attaccare gli agenti federali che deportano gli immigrati
clandestini.
Per
arrivare al nocciolo della questione, lo scopo della politica democratica della
Torre di Babele è quello di sostituire i bianchi d'America con le persone di
colore.
Il rimedio al razzismo bianco è semplicemente
trasformare gli americani di etnia bianca in una minoranza punibile per il suo
razzismo.
Lo
scopo della politica democratica di Sodoma e Gomorra è quello di legalizzare
tutte le forme di perversione sessuale sulla base del fatto che tutte le
preferenze sessuali sono uguali.
L'unica
perversione sessuale rimasta è la pedofilia, e anche questa viene normalizzata.
Pedofilo
non è più un termine politicamente corretto.
È stato sostituito da "persona diretta
verso minori".
I
consigli scolastici democratici stanno preparando i bambini prima della pubertà
per i rapporti sessuali.
I genitori che protestano vengono sfrattati
dalle riunioni del consiglio scolastico.
I siti web “porno AI” presentano corpi
femminili voluttuosi con volti di bambini.
Sono
passati molti anni da quando si è diffusa la notizia di ragazzine di 12 anni
che facevano sesso orale ai ragazzi sugli scuolabus.
Oggi le madri prendono la pillola alle loro
figlie di 12 anni.
Mentre
la morale sessuale è stata sostituita da Sodoma e Gomorra, il caso contro la
pedofilia si è sgretolato.
Consideriamo
Epstein.
La mia
opinione è che stesse conducendo un'operazione trappola al miele del Mossad per
intrappolare i politici americani al servizio di Israele.
La versione che Israele protegge è che stava
trafficando per denaro ragazze minorenni per l'élite americana.
In
realtà, la versione ufficiale è la peggiore, perché se è vera indica che
l'élite americana è già coinvolta nella pedofilia.
La nazione seguirà.
Quindi,
possiamo aspettarci di meglio o di peggio dai repubblicani?
A
parte gli interessi materiali organizzati, chi rappresentano i repubblicani?
La
risposta ovvia è Israele.
Gli
Stati Uniti sono alleati di Israele fin dall'inizio della Guerra Fredda, a metà
del XX secolo.
Stati Uniti e Unione Sovietica erano in
competizione per l'influenza in Medio Oriente, patria del petrolio.
Il
presidente John F. Kennedy mise Washington in conflitto con Israele quando,
prima del suo assassinio, tentò di fermare lo sviluppo di armi nucleari da
parte di Israele.
Il
presidente Nixon aveva una visione negativa, alcuni dicono corretta, dello
Stato ebraico, ma fu rimosso dallo scandalo Watergate della CIA. All'inizio del
XXI secolo, i neoconservatori sionisti che controllavano la politica estera del
regime di George W. Bush e la maggior parte delle nomine di alto livello nel
governo, con il vicepresidente Cheney come loro alleato, decisero di
orchestrare la "nuova Pearl Harbor", evento che il loro piano per
rovesciare sette paesi sulla strada del Grande Israele (dal Nilo all'Eufrate)
in cinque anni richiedeva, al fine di arruolare vite e denaro americani nelle
guerre mediorientali per Israele.
L'11
settembre è stato un successo per i sionisti, nonostante l'evidente e palese
improbabilità della narrazione ufficiale.
La spiegazione palesemente errata di quanto accaduto è
stata trascurata da un popolo americano che crede a ogni affermazione secondo
cui ci sarebbe un nemico là fuori che complotta per eliminarli.
I
neoconservatori sionisti ai vertici del regime di George W. Bush riescono a
usare il loro attacco al World Trade Center e al Pentagono per spingere il
popolo americano in guerra contro Afghanistan, Iraq, Libia, Siria, Sudan,
Somalia e, in seguito, per finanziare il genocidio dei palestinesi da parte di
Israele e l'attacco di Trump all'Iran, con un altro attacco americano all'Iran
per conto di Israele in arrivo.
Il
presidente Donald Trump è così profondamente nelle tasche di Israele che non
vede alcuna differenza tra l'interesse dell'America e l'interesse di Israele.
Per quanto riguarda Trump, l'America e Israele sono lo stesso paese.
Le
prove sono schiaccianti.
Ecco, ad esempio, “Caitlin Johnstone”, ieri,
"Trump continua ad ammettere di essere comprato e posseduto
dall'israeliano più ricco del mondo".
(caitlinjohnstone.com.au/2025/10/14/trump-keeps-admitting-that-he-is-bought-and-owned-by-the-worlds-richest-israeli/).
In
realtà, è peggio di quanto riporta “Caitlin”.
Trump
è il governante fantoccio di Netanyahu negli Stati Uniti.
Trump,
naturalmente, è intrappolato dal lavaggio del cervello e dall'indottrinamento
dei suoi sostenitori conservatori ed evangelici.
I conservatori americani sono stati sostenitori di
Israele sin dall'inizio della Guerra Fredda.
Agli
evangelici è stato insegnato che l'adorazione di Dio è l'adorazione di Israele.
Ultimamente,
sono emerse notizie sul denaro che Israele paga alle chiese evangeliche per il
loro sostegno.
Quindi
cosa può fare Trump?
Se
Trump dovesse agire contro Israele, vedendo le loro possibilità, i democratici
presenterebbero accuse di impeachment e i repubblicani sosterrebbero
l'impeachment.
La mia
conclusione? Sebbene gli americani meritino un governo che li rappresenti, un
governo del genere non è possibile.
La
guerra alla razza bianca è la politica dei Democratici, e la guerra per Israele
è la politica dei Repubblicani.
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