L’Odio di sinistra.
L’Odio
di sinistra.
Il
Testo Integrale del Messaggio di Hamas
in Risposta al Piano di Pace di Trump.
Conoscenzealconfine.it
– (7 Ottobre 2025) - Il Fatto quotidiano.it – Redazione – ci dice:
Il
Presidente Usa: “Credo siamo pronti per una pace duratura”.
Il
testo integrale inviato da “Hamas” con la risposta al “piano di pace di Donald
Trump” lo ha condiviso lo stesso presidente su “Truth”:
“Spinti
dal desiderio di porre fine all’aggressione e al genocidio perpetrati contro il
nostro popolo saldo nella Striscia di Gaza, e partendo da una responsabilità
nazionale, nonché in difesa dei principi, dei diritti e degli interessi
superiori del nostro popolo, il “Movimento di Resistenza Islamica Hamas” ha
condotto consultazioni approfondite all’interno delle proprie istituzioni di
leadership, ampie consultazioni con le forze e le fazioni palestinesi, e
colloqui con fratelli, mediatori e amici, al fine di raggiungere una posizione
responsabile rispetto al piano del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump.
Dopo uno studio accurato, il “movimento” ha
preso la sua decisione e ha comunicato la seguente risposta ai mediatori:
“Hamas”
apprezza gli sforzi arabi, islamici e internazionali, così come gli sforzi del
Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che chiedono la fine della guerra
nella Striscia di Gaza, lo scambio dei prigionieri, l’immediato ingresso degli
aiuti, il rifiuto dell’occupazione della Striscia e il rifiuto dello
sfollamento del nostro popolo palestinese da essa.
All’interno
di questo quadro, e in un modo che porti alla fine della guerra e a un pieno
ritiro dalla Striscia, il movimento annuncia la propria approvazione al
rilascio di tutti i prigionieri dell’occupazione — sia vivi che resti mortali —
secondo la formula di scambio contenuta nella proposta del Presidente Trump,
con le necessarie condizioni operative sul campo per l’attuazione dello
scambio.
In questo contesto, il movimento afferma la
propria disponibilità a entrare immediatamente, attraverso i mediatori, in
negoziati per discutere i dettagli.
Il movimento riafferma inoltre la propria
approvazione a trasferire l’amministrazione della Striscia di Gaza a un organo
palestinese indipendente (tecnocrati) basato sul consenso nazionale palestinese
e sostenuto da un appoggio arabo e islamico.
Per
quanto riguarda le altre questioni incluse nella proposta del Presidente Trump
riguardanti il futuro della Striscia di Gaza e i diritti inalienabili del
popolo palestinese, ciò è legato a una posizione nazionale collettiva e in
conformità con le pertinenti leggi e risoluzioni internazionali, da discutere
all’interno di un quadro nazionale palestinese complessivo, nel quale “Hamas”
sarà incluso e contribuirà con piena responsabilità“.
(Il Movimento di Resistenza Islamica – Hamas)
E 30
minuti dopo la condivisione della risposta di Hamas al suo piano di pace, Trump
ha commentato, sempre su Truth:
“Sulla base della dichiarazione appena
rilasciata da Hamas, credo che siano pronti per una pace duratura.
Israele
deve smettere immediatamente di bombardare Gaza, così che possiamo liberare gli
ostaggi in modo sicuro e rapido!
In
questo momento è troppo pericoloso farlo.
Siamo
già in discussione sui dettagli da definire.
Non si tratta solo di Gaza, si tratta della
pace in Medio Oriente, a lungo attesa“.
(ilfattoquotidiano.it).
Odio
«di sinistra» e propaganda:
per
l’intelligence il pericolo è altrove.
Ilmanifesto.it
– Mario Di Vito – (14 settembre 2025) – ci dice:
Tono
scatenato Piantedosi alza il livello delle scorte.
Il
Dis: «C’è fluidità ideologica, punti di contatto tra suprematismo e jihadismo».
Il
ministro dell'Interno, Matteo Piantedosi, ci dice:
«Abbassare
i toni» perché dopo l’omicidio di “Charlie Kirk” «non bisogna dimenticare che
ci possono essere processi di emulazione».
Allora va alzato il livello delle scorte:
«C’è stato qualche tono esagerato in sede
parlamentare, e anche questo mi ha ispirato».
Del
resto, si sa, «chi si occupa di sicurezza deve fare professione di immaginazione».
PAROLE
E MUSICA del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, che si trova costretto a
gestire il rinnovato allarme per i pericoli che derivano dal clima d’odio
fomentato «dalla sinistra».
Il
refrain lo ha lanciato Donald Trump, poi in Italia la premier Meloni lo ha
ripreso e fatto suo nell’eterno ritorno di quel vittimismo urlato che è la vera
cifra politica della destra italiana – e non solo – degli ultimi ottant’anni.
E però i dati e la cronaca descrivono una
situazione assai diversa rispetto a quella dipinta dal governo.
Il
capitolo dedicato all’ordine pubblico del tradizionale dossier di Ferragosto
del Viminale dice che i cosiddetti reati di piazza sono tutti in calo.
Sono in calo, per la verità, le piazze
tout-court:
le
manifestazioni svolte tra gennaio e luglio sono scese dell’11,1% rispetto allo
stesso periodo del 2024.
Quelle «con criticità» sono diminuite
addirittura del 19,5% e il conto dei feriti tra le forze di polizia ha fatto
segnare un eccezionale -35,4%.
NON
BASTA?
La relazione annuale sulla politica
dell’informazione per la sicurezza, presentata dal “Dis” al parlamento a marzo,
dedica alla «minaccia interna» appena un breve capitoletto in mezzo a temi
effettivamente enormi come la diplomazia militare cinese, la guerra ibrida
russa, l’intelligenza artificiale, la rinata corsa allo spazio e il cambiamento
climatico.
Al paragrafo intitolato «L’attivismo estremista e
antagonista», l’intelligence dice che «la mobilitazione pro-Palestina ha
costituito un fattore di forte aggregazione anche per il composito movimento
antagonista, che ha connesso il tema della guerra ad altri fronti, come l’anti repressione,
l’antifascismo, l’anticapitalismo e le problematiche sociali, migratorie e
ambientali».
E così «all’indomani dell’attacco di “Hamas “del 7
ottobre 2023, la propaganda antagonista ha progressivamente radicalizzato i
toni della protesta, in un crescendo di contestazioni che in varie occasioni
hanno fatto registrare episodi di vandalismo e di scontri violenti con le forze
dell’ordine», anche se «l’attento monitoraggio delle iniziative di protesta,
nonché la sinergia info-operativa» tra gli apparati dello stato «hanno
consentito di limitare i rischi di derive violente».
Per
quanto riguarda la destra radicale, invece, si segnala che «nel 2024 si è
confermato il trend di progressivo innalzamento del rischio derivante
dall’estrema destra suprematista e accelerazionista internazionale, che spesso
si declina in rete attraverso la diffusione di incitazioni alla violenza
nichilista, indiscriminata e d’impronta politica e razziale».
AUMENTANO
infatti «i casi di radicalizzazione di soggetti giovani – anche minorenni – e
di piccoli gruppi che sono in costante contatto con utenti di altre nazionalità
tramite piattaforme digitali di messaggistica istantanea».
In questo quadro, diverse operazioni di
polizia «hanno fatto emergere come la minaccia stia progressivamente
transitando dalla dimensione online a quella offline, evidenziando inoltre
diversi casi di contaminazione tra questa forma di estremismo violento e altre
matrici terroristiche».
L’INTELLIGENCE
ha inoltre rilevato «punti di contatto tra la sfera della destra suprematista e
accelerazionista e quella jihadista.
La giovane età degli individui coinvolti, una
marcata fascinazione per la violenza, scarsa o assente preparazione religiosa e
la presenza, in diversi casi, di problemi relazionali e vulnerabilità
psicologiche, delineano una fisionomia della minaccia in continua evoluzione».
DUNQUE,
per concludere, «la fluidità ideologica si conferma sempre di più come un
elemento caratterizzante di questa evoluzione».
Un ritratto perfetto dell’odio postmoderno che
mischia elementi di internet culture a questioni personali o labilmente
politiche e che produce tragedie come quelle che periodicamente avvengono negli
Usa, dove il controllo sulla circolazione delle armi è molto meno stringente
rispetto all’Europa.
In Italia tutto questo, al momento, si vede
solo in controluce.
Ma
esiste.
E non
ha molto a che fare con «l’odio della sinistra» di cui Meloni e i suoi parlano
per riempire di propaganda i vuoti del dibattito pubblico.
L’odio
non è di destra, né di sinistra.
È di
chi fa becera propaganda.
Partitosocialista.it
– (20/09/2025) - Alessandro Silvestri – ci dice:
“Early
morning April 4th, shot rings out in the Memphis sky”.
Così
gli “U2” celebrarono in una nota canzone l’assassinio politico di” Martin
Luther King”, attivista per i diritti delle minoranze afroamericane e “premio
Nobel per la pace”, fermato per sempre con un colpo di fucile a Memphis nel
1968.
Gli
Stati Uniti, la ex democrazia più grande del mondo, non sono certo nuovi a
questo tipo di episodi cruenti, che hanno fatto di deviare irrimediabilmente il
corso della storia.
Solo che, da “Abramo Lincoln” in avanti, è
toccato sempre a figure progressiste, amate dalle masse e con un grande seguito
popolare, di cadere sotto i colpi dei sicari.
Come
J.F. e Bob Kennedy o Malcolm X.
Senza
dimenticare fatti più recenti, quanto poco affrontati dai media, specialmente
italiani.
Dall’aggressione
a martellate subita in casa dal marito di Nancy Pelosi, Paul, da parte di un
complottista di estrema destra nel 2022;
al duplice omicidio della deputata democratica
del Minnesota, “Melissa Hortman” e del marito “Mark” assassinati in casa
soltanto pochi mesi fa da un altro fuori di testa che odiava i sostenitori del
diritto all’aborto.
Per
non parlare dei più famosi casi internazionali, da Allende a Palme, da Sankara
ai Gandhi (Mahatma, Indira e Rajiv), da Bhutto a Gemayel, da Jumblatt a Rabin,
da Liebknecht alla Luxemburg, fino ai nostri Di Vagno e Matteotti, i Rosselli e
Buozzi, Mattei e Moro, La Torre e Mattarella.
Quasi tutti gli omicidi politici degli ultimi
cento anni hanno riguardato esponenti progressisti e i cattolici democratici.
Dove
sta quindi questo pericolo della violenza di sinistra, agitato da Trump e dai
Maga e rilanciato dalla nostra Presidente del Consiglio?
Perché
nel caso” Charlie Kirk”, una cosa deve (o dovrebbe) essere chiara:
ad
armare la mano del giovane “Tyler Robinson”, sono state proprio le prediche
dell’estremismo di destra americano, animato anche dal movimento fondato
proprio da Kirk, quel “Turning Point Usa” che auspicava l’allontanamento degli
stranieri, l’uso libero delle armi, e l’utilizzo spregiudicato di temi
religiosi, per alimentare un proselitismo sempre più radicalizzato.
“Comprate un’arma, imparate ad usarla, e non
uscite mai senza un’arma”:
questo
uno dei tanti cavalli di battaglia utilizzati da Kirk.
La
stessa vedova, Erika Kirk ha dichiarato all’orazione funebre:
“Non
avete idea di cosa avete scatenato in questo Paese”, non si sa bene rivolto a
chi.
Lo stesso Trump ha rilanciato:
“Molte
delle persone che tradizionalmente si direbbero di sinistra sono già sotto
inchiesta”.
Ci
mancherebbe pure una riedizione del maccartismo fuori tempo massimo!
Senza
contare il “Presente!” al quale si è subito uniformata la stampa italica di
destra, che senza attendere analisi e approfondimenti (roba inutile e noiosa)
grazie al fatto che sono state ritrovate all’attentatore munizioni con frasi
incise tipo “Bella Ciao” o “Prendi questo, fascista!”;
si è scatenata subito con una bagarre dei
titoloni.
“Assassinio
partigiano” (Il Giornale), “La firma del killer: Bella Ciao” (Libero),
“Ammazzato a colpi di Bella Ciao” (La Verità).
“Robinson”
parrebbe invece essere vicino al “Gruppo Groyper”, un movimento di ultra-destra
nazionalista e cristiano fondamentalista, che utilizza un “linguaggio da
sottocultura nerd” ispirato dai videogames e ha spesso attaccato Kirk in
passato, accusandolo di essere un moderato.
Vedremo
cosa emergerà dalle indagini, i cui esiti potrebbero non piacere alla Casa
Bianca.
Non
possiamo non evidenziare l’azione scomposta di elementi della maggioranza (ma
appunto, nemmeno Giorgia Meloni ci ha risparmiato una intemerata da inferno
dantesco), dai deliri del ministro” Luca Ciriani” che ha evocato addirittura un
clima da Brigate Rosse del quale le opposizioni di sinistra sarebbero
responsabili;
ai dossier del sottosegretario “Giovanbattista
Fazzolari” ad uso dei gruppi parlamentari di” FdI”, dove si indicano i partiti
della sinistra e i sindacati quali responsabili di una campagna d’odio
politico, nei confronti della destra.
In realtà tutti i leader politici del
centrosinistra hanno immediatamente condannato l’omicidio di Kirk, com’è giusto
che fosse.
Ma da
questo a farne un martire, ce ne passa.
Le differenze tra noi e loro ci sono e sono
enormi.
I socialisti in cento-trenta-trè anni di
storia, non solo hanno lottato per ottenere il progresso di questo Paese e le
conquiste sociali di cui oggi godono tutti.
Ma per farlo, è giusto sottolinearlo, non
hanno mai torto un capello a nessuno.
Né
hanno mai minacciato di farlo.
Odio:
da sinistra clima
inaccettabile, non ci fermeranno.
Fratelli-italia.it – (15 Settembre 2025) – Galeazzo
Bignami – ci dice:
“Negli
ultimi giorni si è assistito a una spirale di odio e violenza inaccettabili
fuori e dentro il Parlamento.
Mentre negli Usa un giovane attivista e
influencer conservatore veniva assassinato brutalmente, qui da noi nelle aule
parlamentari abbiamo assistito ad eccessi verbali inaccettabili.
Esponenti
delle opposizioni hanno attaccato il Governo andando ben al di là della pur
aspra dialettica politica.
Ieri il M5S ha superato il limite insultando
il ministro Tajani, oggi è stato il turno del ministro Ciriani a cui va tutta
la nostra solidarietà.
Da
tempo il presidente Meloni e rappresentanti di Fratelli d’Italia sono oggetto
di minacce, violenze, insulti.
L’ultimo in ordine di tempo il senatore “Marco
Lisei” a cui va la solidarietà di tutti i senatori di “FdI”.
Un clima che viene da lontano di cui quanto
accaduto in questi giorni è solo l’ultimo tassello.
Trovo
particolarmente preoccupante l’atteggiamento rispetto al brutale assassinio di
“Charlie Kirk”:
il silenzio o peggio le ambigue
giustificazioni del gesto omicida sono agghiaccianti.
Si prenda esempio proprio da Charlie Kirk che
dibatteva su tutti gli argomenti sempre in modo pacifico.
Ascoltava
le argomentazioni altrui ed esponeva le proprie idee sempre in modo pacifico”.
Lo dichiara in una nota “Lucio Malan”,
presidente dei senatori di Fratelli d’Italia.
“Non
passa giorno senza che la sinistra offenda, criminalizzi, insulti chi non la
pensa come lei. Lo fanno dappertutto.
Nelle piazze, nei salotti televisivi, nelle
sedi istituzionali.
Lo fanno sistematicamente e con chiunque anche
soltanto se pensi qualcosa che loro non condividono.
Perché
vogliono impedirci di parlare e dire liberamente cosa pensiamo.
Ci
danno degli assassini, dei criminali, dei corrotti e molto peggio.
E poi
quando qualcuno viene aggredito o peggio, minimizzano e fanno spallucce. Tutto
ciò non è più ammissibile.
O la sinistra usa un linguaggio e un confronto
civile o significa che sono complici di queste violenze e le alimentano per
radicalizzare il clima di odio, per intimidire chi non la pensa come loro.
Non riusciranno a intimidirci, non riusciranno
ad impedirci di parlare, falliranno anche in questo.
Anzi, ci renderanno ancora più forti e
determinati.
E lo dice chi ha subito sulla propria pelle e
sulla pelle della propria famiglia il clima di odio che la sinistra ha
seminato”,
aggiunge
il capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera dei deputati, “Galeazzo Bignami”.
Bersani,
l'odio ideologico
della
sinistra.
Lanuovabq.it
– Ruben Razzante – (06_06_2020) – ci dice:
«Se al
governo ci fosse stato il centro-destra non sarebbero bastati i cimiteri».
Parole
choccanti e ingiustificabili quelle di “Pierluigi Bersani”, ma incredibilmente
ignorate dalla grande stampa che, fossero state pronunciate da un esponente del
centro-destra, si sarebbe stracciata le vesti.
Sia il
Presidente della Repubblica Sergio Mattarella che il Presidente del Consiglio
Giuseppe Conte hanno auspicato un clima di condivisione tra maggioranza e
opposizione per affrontare insieme le drammatiche difficoltà del momento.
In
particolare il premier ha chiesto collaborazione e condivisione al centrodestra
visto che il Paese ha bisogno di uscire prima possibile dalla recessione
conseguente alla pandemia.
Forse
però Conte dovrebbe in primo luogo tirare le orecchie ai suoi alleati e
richiamarli a non gettare benzina sul fuoco quando partecipano a talk show
televisivi.
Rischiano,
infatti, di compromettere in modo irreparabile lo spirito di solidarietà
nazionale che qualcuno, anche Silvio Berlusconi, sta faticosamente cercando di
alimentare.
L’uscita
di Pierluigi Bersani martedì sera nel salotto di Bianca Berlinguer su Rai 3
(trasmissione Cartabianca) è indegna di un leader politico e conferma che il
lupo perde il pelo ma non il vizio e che l’odio ideologico della sinistra verso
il nemico è qualcosa di invincibile, anche quando abilmente mascherato da
perbenismo istituzionale e senso delle istituzioni e del bene comune.
Le
parole del leader di “Leu” si commentano da sole:
«Il
messaggio che il centrodestra sta dando da fuori e da dentro il Parlamento è
una coltellata al Paese.
E questa gente qua, lo lasci dire a uno di
Piacenza, viene il dubbio che se avessero governato loro non sarebbero bastati
i cimiteri».
Affermazioni
macabre che non possono in alcun modo giustificarsi con l’attitudine di Bersani
a parlare in modo iperbolico e per metafore.
Qui si gioca con le vittime del Covid-19 e si
insinua il dubbio che i governatori del centrodestra siano in qualche modo
assassini e, di conseguenza, i loro leader politici abbiano l’incapacità di
governare.
Uno
schiaffo anche alla Lombardia, che è stata particolarmente colpita dalla
pandemia e che non può certamente essere giudicata dalla sinistra.
Chi ha dimenticato le fotografie di “Giorgio
Gori” al ristorante a febbraio o gli hashtag di “Beppe Sala” (“Milano non si
ferma”) o le reazioni di alcuni rappresentanti della sinistra che ironizzavano
quando il governatore della Lombardia, “Attilio Fontana” indossava la
mascherina durante le interviste televisive?
Chi è
senza peccato, verrebbe da dire, scagli la prima pietra.
Anche per queste ragioni Bersani non aveva alcun
motivo di attaccare in modo così frontale gli avversari di sempre.
Definire le sue parole una caduta di stile è
financo riduttivo.
Bersani,
in verità, non è nuovo ad attacchi ad esponenti del centrodestra.
Celebre la sua espressione “Smacchieremo il
giaguaro”, usata in campagna elettorale nel 2013 contro Silvio Berlusconi.
Ma
quello era uno slogan a effetto per galvanizzare l’elettorato.
Poi
sappiamo come andò a finire.
Il
giaguaro non fu affatto smacchiato, ma dalle urne uscirono tre schieramenti
equivalenti in termini numerici e lo stesso candidato premier di
centrosinistra, cioè Bersani, non riuscì ad andare a Palazzo Chigi, anzi fu
umiliato in diretta streaming da Beppe Grillo e i suoi.
Ma a
stupire non è solo la frase di Bersani.
Fa
rabbrividire il silenzio di certa stampa, che ben altra reazione avrebbe avuto
se a parti invertite fosse stato un leader del centrodestra a pronunciare
quelle parole sui cimiteri.
In
verità la conduttrice “Bianca Berlinguer “non ha nascosto, lì per lì, un certo
imbarazzo.
Nessun
organo di informazione ha biasimato il linguaggio inopportuno utilizzato
dall’esponente di” Leu”, nessun editorialista ha censurato le sue parole, tanto
più in un momento come questo in cui si invoca da più parti una
riappacificazione nazionale.
Le
opposizioni sono giustamente indignate. «L'odio ideologico della sinistra non
si ferma nemmeno di fronte ai morti», tuona Giorgia Meloni, che parla di parole
«vergognose».
Anche
Matteo Salvini ha reagito con veemenza: «Dichiarazioni disgustose, a me sembra
un cretino, scherza con 30mila morti? Qui c’è gente che non sta bene…».
E il
vicepresidente del Senato, Roberto Calderoli, nell’invitare Bersani a chiedere
scusa, ha aggiunto: «Non c’è limite al peggio, non c’è limite alla decenza e
alla vergogna».
Le
parole di Bersani hanno scatenato una vera e propria bufera politica.
È mancata, invece, la reazione del mondo
dell’informazione.
Ma
quando un rappresentante del popolo esagera nei toni è giusto che la stampa, in
quanto cane da guardia dei potenti, lo ravvisi e lo segnali all’attenzione
dell’opinione pubblica.
Peraltro
il “deputato di Leu” non ha fatto marcia indietro:
«Chiaro che ho usato un'iperbole.
Ma un
ex ministro dell'interno che ridicolizza mascherine e distanziamento dopo che a
pochi giorni dalla prima zona rossa chiedeva di aprire tutto si espone a un
giudizio che, ripeto, per iperbole, confermo assolutamente».
Il
leader di Articolo Uno, Gianni Cuperlo, è andato in suo soccorso e ha provato a
giustificarlo durante un’altra trasmissione televisiva.
Silenzio,
invece, da grillini, dem e altri esponenti di governo.
Forse lo stesso premier, proprio perché cerca
di porsi in questo momento come federatore di mondi di destra e di sinistra in
nome di una rinascita nazionale, avrebbe potuto censurare la frase di Bersani,
richiamando tutti a una maggiore sobrietà nei toni.
E i
giornalisti avrebbero dovuto sottolineare che il linguaggio d’odio non è solo
quello a sfondo razzista o sessista, ma anche quello che offende e demonizza
l’avversario politico, scherzando perfino sulle vittime del Covid-19.
Davvero
uno stile comunicativo esecrando che ci lascia sgomenti.
Massimo
Cacciari e l'odio della sinistra:
"Balle,
è il solito anticomunismo"
Liberoquotidiano.it
- Claudio Brigliadori – (martedì, 16 settembre 2025) – ci dice:
Massimo
Cacciari e l'odio della sinistra: "Balle, è il solito anticomunismo"
(La7-
L'aria che tira.)
"La
violenza sta a sinistra? Balle".
Nell'assai
poco confronto su Charlie Kirk e l'odio politico dilagante anche in Italia
interviene Massimo Cacciari.
E il
filosofo ed ex sindaco di centrosinistra di Venezia lo fa al suo solito modo: a
gamba tesa.
"I
toni incendiari di certi settori dell'ideologia o della politica di destra in
Europa e negli Stati Uniti nei confronti delle cosiddette sinistre è storia
vecchia come tutto il '900", spiega Cacciari intervistato da Repubblica,
ribaltando le accuse piovute sulla testa di molti esponenti di centrosinistra
dopo i commenti freddi, quasi disinteressati o addirittura equivoci se non
addirittura assolutori sullo sconvolgente omicidio di “Kirk”, 31enne noto
attivista trumpiano freddato con un colpo di fucile alla gola durante un
dibattito pubblico alla “Utah Valley University” una settimana fa.
Polemiche
che Cacciari riconduce al "solito anticomunismo violento e incendiario.
Forse i settori della destra di cui le dicevo
sono diventati preponderanti".
Possiamo
paragonare quel che accade oggi nel nostro Paese con quanto sta accadendo in
America in quanto a violenza politica?
"No perché dovremmo sapere bene che negli
Stati Uniti si tratta di un male endemico:
hanno
ucciso presidenti come John Fitzgerald Kennedy, candidati presidenti come
Robert Kennedy, hanno ucciso Martin Luther King e Malcolm X, hanno tentato di
uccidere Reagan, poi Trump", ricorda il professore, che poi risponde
direttamente alla premier Giorgia Meloni.
"Che
sia a sinistra sono balle, è pura ideologia.
Io
credo non si possa in questo caso parlare di destra e sinistra, perché il
problema è la situazione politica generale.
È quel che accade nel mondo che fa sì che
queste manifestazioni d'odio, e anche questo linguaggio d'odio,
deflagrino".
"In
una dimensione di eterno conflitto - conclude Cacciari - le parole d'odio
diventano particolarmente pericolose e sintomatiche.
Il
linguaggio è il sintomo di una situazione più generale in cui è venuta meno
perfino la deterrenza atomica.
Tutti
parlano di guerra come fosse qualcosa che è nella fisiologia dell'agire
politico, e questo rende particolarmente significative le esternazioni
d'odio".
immagine
di copertina. L’odio non è di sinistra,
la
guerra in Palestina è genocidio,
il
sudario è il volto della morte.
Teatrokoreja.it
- Koreja Magazine – (8-10 -2025) - Visioni di Gigi Mangia – Redazione – ci
dice:
All’Assemblea
delle Nazioni Unite, il Presidente Donald Trump, nel suo lungo intervento
durato 57 minuti ha ribadito la fine dell’ONU, la sua inutilità, ma é stato
chiaro nel presentare il suo “manifesto politico” fondato sull’odio, come”
lotta al Diverso”.
È la
nuova destra che fa dell’odio la sua visione politica, con la quale favorisce
il populismo, il comando del leader e la fine della Democrazia Liberale.
La
presidente Giorgia Meloni, applaude e si sente a suo agio.
I
movimenti della società civile, gli studenti come gli artisti, la cultura, il
teatro, le università e gli scienziati sono lontani e hanno una visione lontana
ed opposta a quella del governo Giorgia Meloni, la quale non perde occasione di
dichiarare la sua vicinanza al presidente Trump.
Sono
tantissime le voci, tante le generazioni, molte le diverse sensibilità ma tutti
uniti nella lotta per la difesa dei diritti umani e tutti consapevoli che:
la guerra di Netanyahu contro i palestinesi è
genocidio ed il sudario, il volto della morte.
Tutti
abbiamo visto nei social i bulldozer rompere le macerie dei palazzi, delle
case, degli ospedali, delle università distrutte con le bombe.
Nello spazio interminabile di macerie, abbiamo
visto cadaveri, madri, padri, volti disperati nel dolore cercare con le mani
corpi sotto le macerie;
abbiamo
visto accarezzare corpi senza vita, mettere le orecchie nelle macerie per
sentire se ci fossero ancora vite da salvare.
Abbiamo
visto nei sudari bianchi i corpi senza vita.
Abbiamo
osservato corpi nei sacchi neri della spazzatura trattati e ammassati come
rifiuti.
Abbiamo
visto anche la mancanza dell’acqua per eseguire la degna sepoltura secondo la
religione musulmana, nella quale l’acqua serve per la purificazione e quindi
per il passaggio all’eternità.
Per
eliminare un popolo bisogna cancellare la sua memoria vietando anche il diritto
di morire, riconoscendo il valore sacro della sepoltura, la quale è stata ed è
ancora la radice di tutte le religioni compresa quella cristiana.
La
follia cieca alimenta l’odio e annulla il diritto della morte.
Ci
sentiamo disorientati e persi, senza quei valori che abbiamo imparato a scuola
e su cui avevamo realizzato la nostra personalità umana ed intellettuale.
Ci sentiamo smarriti e non sappiamo più come
abitare il nostro tempo caduto nell’odio del Diverso:
il buco nero del pensiero contemporaneo.
Abbiamo
tanto bisogno di:
A.
pensare per capire;
B.
Capire per conoscere;
C.
Conoscere per amare e rispettare.
Questa
notte, al largo nel mare della Grecia la “Global Sumud Flotilla” è stata
minacciata, attaccata e colpita da droni ed è stata anche costretta a subire
l’interruzione delle comunicazioni.
È stato questo un attacco minaccioso di
Israele per spaventare e avvertire i volontari dei pericoli che li aspetta se
passeranno il blocco navale davanti alle coste di Gaza.
Va ai volontari della Flotilla la nostra solidarietà,
tutto il nostro aiuto e sostegno e il nostro invito ad avere coraggio per
riuscire a concludere positivamente la loro grande impresa il cui valore
politico è straordinario e di grande esempio dimostrativo davanti al comportamento degli
stati che chiudono gli occhi e non vogliono vedere il genocidio di Gaza.
Meloni:
“Accusati di odio da chi
festeggia
l’omicidio di Kirk,
la
sinistra smetta di minimizzare.”
Repubblica.it – (13-09-2025) -Ansa – Redazione
– Giorgia Meloni – Stefano Baldolini & C.- ci dicono:
La
premier alla festa dell’Udc: “Pene inferiori per chi spara a esponente di
destra?”.
La
replica del Pd: “Alzano i toni per coprire il nulla fatto al governo”.
Piantedosi:
“Rischio emulazione”.
Renzi:
“Clima esasperato? Faccia dimettere Ciriani.”
"Vengo
da una comunità politica che spesso è stata accusata di diffondere odio, guarda
un po’ dagli stessi che festeggiano e giustificano l'omicidio intenzionale di
un ragazzo che aveva la colpa di difendere con coraggio le sue idee".
Lo ha
detto la premier “Giorgia Meloni”, intervenendo alla festa nazionale dell'Udc,
a Roma, facendo riferimento all'assassinio di “Charlie Kirk”.
(Kirk,
Ciriani: “In Italia clima da Br, scoperto odio dem”.
Renzi: “Si dimetta”. Il Pd: “Delira.”
di
Stefano Baldolini.)
"Allora
noi dobbiamo immaginare pene inferiori per chi spara a un esponente di destra?
Credo
che sia arrivato il momento di chiedere conto alla sinistra italiana di questo
continuo giustificazionismo", perché "il clima anche in Italia sta
diventando insostenibile".
“Vogliamo
dimostrare cioè che la politica può essere autorevole, che può essere
credibile, che è capace di dedizione, che è capace di sacrificio, che può
essere fatta con amore, per quello in cui si crede, per la propria nazione, per
la propria gente. Guardate, lo voglio dire nel tempo in cui l'odio e la
violenza politica stanno tornando drammaticamente una realtà, facendo venire
molti nodi al pettine".
“Da
Odifreddi commento disumano.”
Sull'omicidio
di Charlie Kirk "ho letto molti commenti disumani e spaventosi",
continua, aggiungendo poi che "uno di questi è di Piergiorgio Odifreddi,
intellettuale della sinistra, che ha detto che sparare a Martin Luther King e
sparare a un rappresentante Maga non è la stessa cosa..."
"Ora
io vorrei chiedere a questo illustre professore cosa intenda esattamente dire -
domanda Meloni - che ci sono persone a cui è legittimo sparare in base alle
loro idee o a cui è meno grave sparare sempre perché non condividiamo le loro
idee?".
(Renzi:
“Clima esasperato? Faccia dimettere Ciriani)”
"Io
credo che sia arrivato il momento di dire a Giorgia Meloni che è l'ora di
finirla di strumentalizzare e di fare la vittima su tutto.
Il clima in questo Paese è esasperato dai
cattivi maestri come il Ministro Ciriani che ieri ha paragonato Italia Viva
alle Brigate Rosse.
La
Meloni faccia dimettere il suo Ministro e si scusi con le opposizioni".
Lo
scrive il leader di Italia Viva, Matteo Renzi.
Pd:
“Meloni e destra incendiano clima per coprire il nulla fatto, pensino a
governare.”
“Osserviamo,
abbastanza sgomenti, il tentativo della destra, e oggi anche di Giorgia Meloni,
di incendiare il clima politico con accuse insensate e pericolose
all’opposizione.
Come
Pd, a partire dalla segretaria Elly Schlein, abbiamo espresso sempre parole di
dura condanna per ogni tipo di violenza politica.
Chiediamo
conto noi alla destra, soprattutto in Usa, di mettere al bando le armi che, in
mano a estremisti, pazzi e delinquenti uccidono donne, uomini e spesso nelle
scuole ragazzi e ragazzi.
Meloni
oggi straparla.
Accusarci
di chissà quali nefandezze serve solo alla destra per coprire il nulla cosmico
dell’azione di questo governo.
Siamo
alla vigilia della quarta manovra di questa legislatura e il Paese è fermo,
sotto la minaccia dei dazi dell’amico Trump, con le aziende che invocano misure
urgenti, con il rischio della perdita di posti di lavoro, con la sanità
pubblica senza risorse e un anno scolastico che sta cominciando con l’ennesimo
caro libri.
Oggi
Giorgia Meloni ha annunciato misure per il ceto medio.
La
aspettiamo in Parlamento per il confronto.
Invece
di accusarci per colpe che non abbiamo dimostri di saper governare.
Fino
ad ora non ci è riuscita”.
Così i
capigruppo del Pd al Senato e alla Camera Francesco Boccia e Chiara Braga e il
capo delegazione Pd a Bruxelles Nicola Zingaretti.
La
stessa Schlein commenta:
"Quando
la notte mi sveglio perché alle tre di notte mi arriva un messaggio da numeri
anonimi che dice 'A Noi', io non do la colpa a Meloni".
Piantedosi:
“Rischio emulazione, abbassare i toni”
"Non
bisogna dimenticare che ci possono essere processi di emulazione, non tutti
sono in grado di raccogliere nel modo giusto certi messaggi e quindi qualcuno
può in qualche modo fraintendere".
Lo
dice il ministro dell'Interno Matteo Piantedosi a margine di un evento di FdI a
Paestum sottolineando che è "doveroso provare ad abbassare i toni e non farsi
prendere da quella che è la vivacità della discussione politica, che magari
soprattutto sotto campagna elettorale ha delle fiammate".
Tajani:
“In Italia troppi cattivi maestri, basta insulti.”
"Non
si può utilizzare il dramma del popolo palestinese per motivi di politica
interna.
Purtroppo
ci sono oggi in Italia troppi cattivi maestri che usano un linguaggio violento,
aggressivo nei confronti degli avversari politici".
Così
stamattina a San Benedetto del Tronto (Ascoli Piceno) segretario di Forza
Italia e vice premier “Antonio Tajani”:
"lancio
un appello a tutti a cominciare dal presidente Conte, leader del M5s, affinché
si abbassino i toni.
Basta
minacce, insulti, affermazioni che rischiano di creare danni, tant'è che poi il
ministro dell'Interno è costretto ad alzare il livello di sicurezza per figure
istituzionali".
Conte:
“Anche Tajani e Meloni abbassino i toni.”
A
replicare a Meloni e Tajani, anche il presidente del Movimento 5 stelle,
Giuseppe Conte:
"Io
invito anche il governo a moderare i toni, a smetterla:
parlo di Tajani, parlo di Ciriani, parlo della
Meloni che alimentano questo vittimismo a paradossalmente dicendo di abbassare
i toni contribuiscono invece ad alzarli.
Piuttosto
facciano il loro dovere e governino se ne sono capaci".
I
Patrioti: “La sinistra è odio”.
Meloni
alla kermesse di Vox:
“Si sa
da che parte è la violenza.”
Quotidiano.net
– Cosimo Rossi – (15 settembre 2025) – ci dice:
Il
presidente argentino Milei: “L’influencer statunitense ucciso è un martire”.
Il
ministro Zangrillo denuncia: “Insultato alla festa Pd”. Solidarietà della
premier.
(Articolo:
Il campo largo che non c’è. Conte avverte Schlein: “Non siamo cespugli.”)
(Articolo:
L’annuncio di Tajani: “Forza Italia a Congresso. Nel 2027 sarà eletto il segretario.”)
Roma,
15 settembre 2025 –
Giorgia
Meloni non demorde.
La
presidente del Consiglio torna anzi alla carica sull’assassinio in Utah del
giovane esponente suprematista bianco “Charlie Kirk” e le presunte
responsabilità delle sinistre riguardo al clima d’odio.
Linea sostenuta da tutto il centrodestra sia
nazionale che europeo.
E
respinta con sdegno dal centrosinistra, di dove la segretaria dem Elly Schlein
si perita dall’entrare ulteriormente in tema, mentre il leader 5 Stelle
Giuseppe Conte evoca strategie comunicative di Palazzo Chigi, rivendicando la
presa di distanza e la denuncia rispetto ad ogni violenza.
Fatto sta che, tra le propensioni un po’ maccartiste
di governo e opposizione, a farne le spese rischia di essere solo la libertà di
opinione.
Giorgia
Meloni è stata collegata con la convention della formazione di destra spagnola
Vox che ha radunato i gruppi sovranisti europei:
“Voglio
dire alto e chiaro a tutti quegli odiatori, agli estremisti che spesso vediamo
nelle piazze ma anche ai cattivi maestri in giacca e cravatta che si ritrovano
nei salotti: non cadremo nella loro trappola, non faremo il gioco di chi vuole
far precipitare le nostre nazioni in una spirale di violenza”, manda a dire Meloni nel messaggio
indirizzato alla kermesse del partito nazion-sovranista spagnolo Vox ‘Europa
Viva 25’ che si svolgeva a Madrid.
La
premier infiamma la platea di Vox sul caso Kirk, diventato nell’arco di 48 ore
il fattore unificante di tutti i Maga d’Europa.
A cominciare dal leader e vicepremier leghista
Matteo Salvini, che dichiara a mezzo stampa di volerne seguire le orme andando
a dibattere nelle scuole e con chi la pensa diversamente.
Ma
anche dei loro alleati, quali sono appunto il partito della premier Fratelli
d’Italia e quello dell’altro vicepremier Forza Italia.
Dalla grande manifestazione londinese contro i
migranti promossa dai neo-nazionalisti di “Tommy Robinson” alla kermesse degli
spagnoli di Vox e i le prese di posizione dei francesi del “Rassemblement
National,” tutte le reazioni all’assassinio del giovane esponente suprematista
statunitense sono state improntate alla denuncia del clima d’ostio instillato
dalle sinistre.
Tutti,
più o meno cautamente, all’ombra del trumpismo che tiene in scacco l’Europa più
che il mondo.
(Omicidio
Charlie Kirk, il politologo Pasquino: “Italia diversa dagli Usa. La violenza
non tornerà.”)
Rendendo
omaggio al “giovane coraggioso, che ha pagato con la propria vita il prezzo
della libertà” e il cui “sacrificio ci ha ricordato un’altra volta da che lato
stanno la violenza e l’intolleranza”, la premier si è perciò lanciata in una
nuova intemerata contro il clima d’odio imputato all’opposizione di
centrosinistra.
“Voglio
anche dire loro che non ci faremo intimidire, che andremo avanti a batterci
senza sosta per la libertà dei nostri popoli”, sostiene Meloni.
Sulla
stessa lunghezza d’onda dell’argentino “Javier Milei “che, senza motosega, ma
anch’egli in diretta video, accusa la sinistra di essere “odio e risentimento
allo stato puro”.
Parole
cui fa eco il leader di Vox “Santiago Abascal”, dichiarando che “non ci
arrendiamo di fronte a una sinistra assassina, bugiarda, inutile, ladra, pigra
e criminale”.
Il
tema dell’odio viene posto come pietra dello scandalo della politica europea e
italiana.
Al
punto che rientra in questo calderone anche un episodio come i fischi e gli
insulti al ministro della Pubblica amministrazione, Paolo Zangrillo, alla festa
dell’Unità a Torino.
(Il
ministro della Pubblica Amministrazione Paolo Zangrillo in Senato ha parlato durante
informativa del ministro degli Affari Esteri sui recenti sviluppi delle crisi
in Ucraina e Medio Oriente, Roma, 11 Settembre 2025. ANSA/GIUSEPPE LAMI.)
La
premier esprime la “solidarietà personale e del governo”, mentre il vicepremier
Antonio Tajani mette in guardia che “offendere un ministro lo espone,
soprattutto in questo periodo, a gravi rischi”.
Da
parte sua, Giuseppe Conte rimprovera al sottosegretario alla presidenza del
Consiglio “Giovanbattista Fazzolari “una “strategia comunicativa” diretta ad
“alzare i toni”.
Vance,
Musk e gli equivoci
sulla
libertà.
Euractiv.it
- Antonio Nicita – (18 feb. 2025) – Redazione – ci dice:
(Elon
Musk, Donald Trump, JD Vance).
Antonio
Nicita,
Senatore della Repubblica Italiana, è autore de “Il mercato delle verità. Come
la disinformazione minaccia la democrazia” (2021, Il Mulino) e “Nell’età
dell’odio. Sfera pubblica, intolleranza e democrazia” (2025, Il Mulino).
Con un
discorso duro e provocatorio a Monaco di Baviera, il vice presidente” Vance” ha
bacchettato l’Unione Europea e i suoi Stati membri per quella che considera una
frattura crescente nei valori condivisi, in particolare sulla libertà di
espressione e su come tutelarla, tra Stati Uniti ed Europa.
L’ironia?
Vance non ha tutti i torti, ma è proprio il
suo intervento a segnare la distanza tra l’Europa e la nuova America sul
concetto di libertà di parola.
La visione difesa da Trump, Vance e Musk si allontana dalla tradizione di
Oliver Wendell Holmes, John Stuart Mill e persino dal conservatore Antonin
Scalia.
Il
Primo Emendamento garantisce protezione dall’interferenza del governo sulla
libertà di espressione, ma la storia della Corte Suprema statunitense non ha
mai sostenuto che questo diritto fosse assoluto.
L’esempio classico di “Holmes” – vietare di
gridare “al fuoco!” in un teatro affollato – richiama il pensiero di “Mill: la
libertà finisce dove inizia un danno imminente.
Anche “Voltaire”
fissava un limite nel mantenimento dell’ordine sociale e della pace pubblica.
E “Scalia”, nella sentenza” R.A.V. v. City of St.
Paul”, chiariva che atti come bruciare la bandiera americana o una croce di
legno sono ammissibili solo se inseriti in una protesta politica pubblica.
Per
oltre un secolo, la Corte Suprema ha legato la libertà di espressione alla
ricerca della verità, nella speranza ottimistica di “Mill “che il confronto
aperto smascherasse, col tempo, le menzogne.
Ma se
il fine della libertà di parola è avvicinare la società alla verità, non
riguarda solo chi parla, ma anche chi ascolta, senza interferenze o secondi
fini.
In
Europa ci siamo posti una domanda semplice:
la
selezione algoritmica dei contenuti e le bolle di filtraggio delle piattaforme
online garantiscono davvero libertà di parola e di ascolto?
Spingere
certe notizie – vere o false – verso pubblici selezionati crea davvero uno
spazio informativo equo e neutrale?
E la
creazione, manipolazione e diffusione di fake news e discorsi d’odio ci
avvicina al dialogo aperto immaginato da Mill e Popper?
Il
free speech non è free spin.
Manipolare
non significa esprimersi, soprattutto quando sono gli algoritmi a decidere cosa
vediamo online.
Non
tutti vediamo le stesse cose.
Non sappiamo cosa vedono gli altri né perché
certi contenuti ci vengono mostrati.
E spesso dimentichiamo che molte voci online,
apparentemente genuine, sono in realtà propaganda pagata, amplificata da
eserciti di micro-influencer retribuiti a visualizzazione.
In
Europa, difendere la libertà di espressione significa proteggerla dalla
disinformazione.
Il
diritto a informare e a essere informati include anche il diritto a non essere
ingannati.
Un
ambiente digitale neutrale o almeno trasparente è essenziale:
è
questo l’obiettivo del “Digital Services Act”, che ha messo sotto inchiesta la “piattaforma”
X” di Elon Musk.
Chi
vince elezioni grazie a manipolazioni algoritmiche, hate speech e spin online
difficilmente appoggerà regole che vogliono difendere la libertà di espressione
dalla disinformazione.
Ma
risparmiateci lezioni sul” free speech”.
Vance dice che chi ha paura delle opinioni non
può garantire sicurezza. La nostra risposta?
Se
l’internazionale dell’estrema destra e dei suprematisti fosse davvero sicura
delle proprie idee, non avrebbe bisogno di odio, bugie e algoritmi per vincere.
I
valori europei condivisi si chiamano stato di diritto.
E noi,
a questo, non rinunciamo.
Elon
Musk è un difensore
della
libertà d’espressione.
Proversi.it
– Nina Celli – (25-03 – 2025) –
Redazione – ci dice:
Elon
Musk pare convinto che la libertà di parola sia un valore assoluto, non
negoziabile.
Non si
tratta di una semplice dichiarazione di principio, ma di una battaglia
concreta, vissuta nell’arena mediatica globale.
Con l’acquisizione di Twitter – oggi X – Musk
ha compiuto una delle mosse più controverse e insieme più coerenti della sua
carriera:
prendere
il controllo del “foro romano” del XXI secolo per riportarlo, nelle sue
intenzioni, al centro del dibattito aperto.
“L’uccellino
è libero”, scrisse in un tweet secco, appena acquisita la piattaforma. Era
l’ottobre del 2022.
In
pochi caratteri, un manifesto.
Musk
ha dichiarato di voler trasformare “X” in uno spazio di espressione autentica,
non filtrato da logiche ideologiche, politiche o commerciali.
Ha
reintrodotto account bannati, ha ridotto le politiche di moderazione dei
contenuti e ha avviato un programma di verifica basato su abbonamento, per
rendere più trasparente e meritocratica l’identità digitale.
La sua
posizione non è priva di rischi.
Eppure,
è difficile negare che in un’epoca di “censura algoritmica”, “echo chamber” e
“polarizzazione estrema”, Musk abbia almeno posto le domande giuste:
chi decide cosa si può dire?
Chi
modera i moderatori?
È accettabile che pochi centri privati di
potere digitale possano silenziare leader, intellettuali, attivisti?
Musk
si è attirato critiche feroci per aver riportato online figure come “Donald
Trump” o alcuni pensatori “anti-sistema”.
Ma è
innegabile che il suo intervento abbia riacceso il dibattito sul pluralismo,
sull’arbitrarietà delle censure e sull’opacità degli algoritmi.
Per molti, anche tra i suoi detrattori, questa
è stata una scossa salutare al sistema.
Secondo
il “New York Times”, l’acquisizione di X da parte di Musk ha “scardinato lo
status quo dell’industria tech e costretto tutti a ripensare il rapporto tra
piattaforme e democrazia”.
Il
“Washington Post” ha parlato di “una ridefinizione radicale dello spazio
pubblico digitale”.
E per
alcuni filosofi del digitale, come “Evgeny Morozov”, Musk rappresenta “l’unico
attore capace di rompere davvero l’oligopolio del pensiero algoritmico”.
Certo,
le implicazioni sono complesse.
La
piattaforma è diventata terreno fertile anche per odio, disinformazione e
polarizzazione.
Ma
anche in questo caso, Musk ha reagito in modo coerente con la sua visione:
ha
dichiarato che combattere il male dell’informazione non può passare per il
silenzio, ma per il confronto.
Ha
lanciato “xAI” e la “chatbot Grok” con l’intento dichiarato di promuovere “la
verità”, e ha reso il modello open source per favorire la trasparenza.
Per
Musk, la libertà d’espressione è un bene supremo: imperfetto, rischioso, ma
insostituibile.
È il fondamento di ogni progresso, il
prerequisito dell’innovazione.
La sua
gestione di X può non piacere, ma risponde a una filosofia chiara:
meglio
un dibattito caotico che una voce unica.
Meglio
una piazza rumorosa che un algoritmo silenzioso.
In un
mondo dove i confini tra informazione e manipolazione si fanno sempre più
labili, la sua sfida alla cultura del controllo è un gesto potente, non solo
provocazione.
(Nina
Celli).
Musk, dal libertarismo
all’autoritarismo.
Jacobinitalia.it - Carolin Amlinger - Oliver Nachtwey – (31 Gennaio 2025) – ci
dicono:
L’ideologia
del merito, l’esaltazione della tecnica e l’odio anti-woke per ogni
egualitarismo hanno condotto il primo oligarca globale a sostenere idee
antidemocratiche espressamente di estrema destra.
Nella
storia degli Stati moderni, nessuno è stato in grado di convertire la propria
ricchezza in un’influenza politica globale simile.
Acquistando
Twitter, ora ribattezzato “X”, Elon Musk si è lanciato al governo degli Stati
uniti.
Così
facendo, si è trasformato nel principale amplificatore dell’autoritarismo
globale.
Ma
bisogna anche riconoscere che un amplificatore rafforza i suoni, non li crea da
solo.
Ciò
che prima era un fastidioso rumore di fondo adesso è diventato rumore trasmesso
a reti unificate.
Musk
non è sicuramente turbato dal fatto che “X” abbia perso un valore così
massiccio da quando l’ha acquistata.
Da
quando ha aiutato Donald Trump a vincere le elezioni presidenziali, la sua
ricchezza è salita a più di 400 miliardi di dollari.
Dopo l’insediamento, si prevede che aumenterà
ulteriormente.
Come
capo del Dipartimento per l’efficienza governativa (Doge), può tentare di
smantellare i programmi sociali, educativi e sanitari, mentre il suo
conglomerato aziendale, che comprende trasporti, aerospaziale, intelligenza
artificiale (Ia) e neurotecnologia, sarà ancora più direttamente collegato al
flusso dei sussidi governativi.
Musk
si è già scontrato più volte con i capi di governo socialdemocratici europei.
Il vicepresidente “JD Vance” ha già minacciato
di ritirare gli Stati uniti dalla Nato se l’Unione europea dovesse porre degli
argini regolamentari a “X”.
I suoi fan della destra libertaria salutano
Musk come un imprenditore geniale e difensore della libertà.
Nel
suo ruolo mediatico (è così che adesso pare impiegare il suo tempo), Musk è
soprattutto un agitatore sempre più autoritario.
Limiti
di carattere.
Cosa
ha spinto Musk a rivolgersi all’autoritarismo?
Nel
libro “Character Limit”, gli analisti “Kate Conger” e “Ryan Mac” descrivono
diversi eventi scatenanti che si sono verificati in un arco di tempo di soli
pochi anni. Musk è stato estremamente critico nei confronti delle proteste di “Black
Lives Matter”.
Diceva
che il suo appeal risiedesse nel «virus della mentalità woke» che infettava i
social media e ancora di più le aziende che avevano sostenuto programmi per la
diversità.
Come
tutti i libertari, Musk è sempre stato un sostenitore della meritocrazia
radicale, in cui il duro lavoro e le capacità individuali sono considerati gli
unici prerequisiti legittimi per il successo.
A suo
avviso, i programmi per la diversità indeboliscono l’idea meritocratica.
La
sociologa “Arlie Hochschild” ha utilizzato l’immagine della «fila d’attesa» per
spiegare il sostegno a Trump di molte persone della “working class bianca”.
Vogliono
credere nel sogno americano della mobilità sociale attraverso i propri sforzi,
anche se per loro non si realizza mai.
La
cosa peggiore è quando pensano che i membri dei gruppi minoritari vengano messi
prima di loro in coda a causa della loro identità.
Musk
adotta questa prospettiva come Ceo.
In
quanto libertario, Musk rifiuta i sindacati.
A
differenza di altre case automobilistiche statunitensi, è riuscito a evitare
accordi collettivi in Tesla.
Ma i
segnali di ripresa del movimento sindacale statunitense lo hanno messo sotto
pressione negli ultimi anni.
Allo stesso tempo, le misure di protezione
durante la pandemia di Covid-19 nei suoi stabilimenti Tesla in California hanno
profondamente invaso le sue «libertà» imprenditoriali;
non si
sentiva più padrone a casa propria.
L’amministrazione
di Joe Biden lo ha snobbato non invitandolo alle consultazioni con le case
automobilistiche.
Tuttavia,
la natura personale della crociata di Musk contro il contagio della” woke ness”
non si spiega soltanto con gli interessi economici, come vediamo quando dice di
considerare «morta» la “figlia trans”.
Nel
giro di pochi anni, un Ceo libertario di un’azienda tecnologica che esibiva
tratti narcisistici ma era politicamente centrista, si è trasformato in un
esponente di spicco di ciò che abbiamo definito autoritarismo libertario.
Gli
autoritari libertari vogliono abolire lo stato democratico, che vedono come una
macchina che limita le libertà individuali.
I neoliberisti usano lo Stato per rafforzare
il mercato, mentre gli autoritari libertari considerano lo Stato democratico
stesso, le autorità e le loro normative, invadenti e dannosi.
È lo
stesso modo in cui considerano i migranti e le persone queer.
Questa
prospettiva è radicata in una concezione iper individualista della libertà che
nega l’interconnessione dell’esistenza sociale, trattando la libertà come un
diritto privato piuttosto che come una condizione sociale condivisa.
Ironicamente,
mentre l’autoritarismo libertario protesta contro le strutture della società
tardo-moderna, finisce per rafforzarne i principi fondamentali di
autodeterminazione e sovranità.
Musk
si presenta come un «assolutista della libertà di parola» e in tempi record ha
trasformato Twitter in un amplificatore globale del discorso di destra che
soffoca tutti gli altri.
Ha
aperto la strada, come noto, licenziando migliaia di dipendenti di Twitter che
erano responsabili della «moderazione dei contenuti», ovvero filtrare discorsi
d’odio e fake news.
Allo
stesso tempo, ha riattivato numerosi account che erano stati precedentemente
bloccati per discorsi d’odio.
Il suo «assolutismo della libertà di parola»
è, tuttavia, chiaramente relativo.
Ha regolarmente bloccato account che
pubblicavano critiche nei suoi confronti e ha collaborato con le autorità di
censura cinesi.
Da un
tweeter occasionale iniziale, su X Musk è diventato una macchina per messaggi.
Secondo
un’analisi di Bloomberg, Musk è diventato l’amplificatore più influente delle
teorie cospirative anti-migranti su X durante la campagna elettorale degli
Stati uniti.
Nel
giro di due mesi, ha pubblicato 330 post sull’argomento, in cui ha affermato,
tra le altre cose, che i democratici stavano introducendo clandestinamente
immigrati clandestini nel paese per impedire a Trump di essere eletto.
Il suo linguaggio è diventato sempre più
volgare durante la campagna elettorale.
Nel
corso di una diretta streaming con Trump su X ha definito gli attraversamenti
del confine meridionale degli Stati uniti una «apocalisse zombie».
E più
la campagna elettorale si faceva accesa, più lui interveniva nell’algoritmo.
Stile
paranoico.
Nel
suo libro del 1949 “False Prophets”, il sociologo” “Leo Löwenthal” descrisse un
tipo di agitatore chiaramente riconoscibile in Musk.
È
esattamente adottando uno stile poco serio, ambiguo e giocoso che l’istigatore
manipola vaghe paure e libera aggressioni latenti.
Musk
si presenta come un combattente oscuro al fianco di Trump e mostra
provocatoriamente i tratti clowneschi di questo ruolo.
Per “Löwenthal”,
l’agitatore è pericoloso perché «il rimuginare paranoico e la proiezione di
cospirazioni finiscono con suggerire atti di violenza»;
e data
la portata delle minacce cospirative che la società deve affrontare, «le leggi
e le istituzioni esistenti non possono farvi fronte e… sono necessarie misure
straordinarie».
Musk
proietta sicuramente una realtà paranoica:
nella quale i migranti minacciano una
maggioranza bianca attraverso l’immigrazione, i comunisti svegli mettono a
repentaglio l’economia e i partiti democratici pianificano manipolazioni
elettorali su larga scala.
Nei
suoi innumerevoli post, dipinge il quadro di una “dittatura liberale” alla
quale ogni individuo deve resistere.
Musk
non sta prendendo di mira solo la sfera digitale, ma anche quella analogica.
Dopotutto, le elezioni vengono ancora decise al seggio elettorale.
Se vi
stavate chiedendo perché continuate a vedere i post di Musk su X anche se non
lo seguite o almeno non interagite con lui, è perché si trova in piedi accanto
al vostro orecchio con il suo megafono, quindi dovete ascoltarlo per forza.
Musk
era già un attore globale come produttore di automobili, ma l’acquisizione di
Twitter gli ha dato la leva per sconvolgere anche altri sistemi politici.
È il
primo oligarca veramente globale.
Il
fatto di aver descritto il cancelliere tedesco “Olaf Scholz”, un
socialdemocratico, e il ministro di spicco verde “Robert Habeck” come degli
sciocchi è una cosa relativamente innocua.
Attraverso
il peso dei suoi follower, Musk può provare a capovolgere le regole della
legittimazione democratica:
i rappresentanti eletti sono soggetti al suo
giudizio, o dovrebbero giustificarsi con lui per le loro azioni.
Durante
le rivolte razziste britanniche di luglio e agosto 2024, Musk ha svolto il
ruolo spregevole di un agitatore autoritario a molti livelli.
Dopo un’aggressione con coltello a delle
ragazze in una lezione di danza, le speculazioni sull’identità musulmana
dell’autore, i post sulla violenza musulmana e le teorie cospirative secondo cui le autorità
volevano nascondere i retroscena del crimine si sono diffuse su X a macchia
d’olio.
Sono seguite rivolte simili a pogrom, che
hanno scosso diverse città.
Un
istigatore chiave dell’esplosione di fake news, teorie del complotto e razzismo
sui social media è “Tommy Robinson”, il più noto estremista di destra
britannico, che gestiva l’hub digitale della violenza in rete dalla sua stanza
d’albergo a Cipro.
Il suo
account era stato riattivato da Musk, che interagiva con Robinson in modo
approvativo, dandogli così una portata enorme.
Inoltre,
Musk ha commentato i post di influencer di estrema destra, affermando persino
che una guerra civile nel Regno unito era inevitabile.
Quando il primo ministro britannico Keir
Starmer lo ha criticato per questo, il capo di X lo ha paragonato ai censori di
Stalin.
Chiede
regolarmente le dimissioni di funzionari di altri Stati, come il giudice
brasiliano” Alexandre de Moraes”, che ha definito un dittatore malvagio perché
voleva costringere “X” in Brasile ad assumersi maggiori responsabilità per i
contenuti sulla piattaforma.
I
sostenitori di Musk hanno manifestato contro di lui.
D’altro
canto, ha molto in comune con la presidente del consiglio italiana Giorgia
Meloni, che sostiene ovunque può.
Lo
stesso vale per l’Alternative für Deutschland (AfD), la cui campagna elettorale
ha recentemente promosso sul settimanale tedesco “Welt am Sonntag”.
Alla vigilia di Capodanno, Musk ha definito su X il
presidente tedesco “Frank-Walter Steinmeier “un «tiranno antidemocratico», in risposta a un post di un
influencer tedesco di destra che ha selvaggiamente accusato Steinmeier di
pianificare la cancellazione del risultato delle elezioni federali di febbraio.
L’oligarca
radicalizzato.
Sabato
scorso, Musk è apparso al lancio della campagna elettorale dell’”AfD” in un
video che imita l’estetica travolgente di “Leni Riefenstahl”.
Ma ciò
che ha detto Musk è stato altrettanto importante.
Se c’è stato un consenso democratico in
Germania dopo il nazismo e l’Olocausto, riguardava il fatto che non c’era
motivo di essere orgogliosi di essere tedeschi piuttosto che di un’altra
nazionalità.
Eppure,
Musk ha invitato gli euforici membri dell’AfD a essere finalmente orgogliosi di
essere di nuovo tedeschi e a lasciarsi alle spalle il passato, ovvero la colpa
del nazismo.
Abbastanza
apertamente, Musk stava qui normalizzando quello che in precedenza sarebbe
stato considerato un argomento di discussione estremista.
Tuttavia,
potremmo anche dire che Musk stava incoraggiando i sostenitori dell’AfD ad
abbracciare apertamente il loro estremismo di destra piuttosto che minimizzarlo.
Come
sottolineato dal presidente polacco Donald Tusk, l’agitazione fascista di Musk ha
avuto luogo solo poche ore prima del Giorno della Memoria dell’Olocausto, che segna l’ottantesimo
anniversario della liberazione di Auschwitz.
Tuttavia,
il comportamento provocatorio di Musk non dovrebbe sorprendere, dopo il suo
saluto all’insediamento di Trump la settimana precedente.
Musk è
diventato autoritario radicalizzando il suo libertarismo economico.
La sua
trasformazione da politico liberale ad agitatore autoritario è dovuta
principalmente al sospetto di un blocco del principio meritocratico.
Ritiene,
come imprenditore individuale, di essere caduto nella trappola
dell’egualitarismo.
Nel
suo saggio La teoria freudiana e la struttura della propaganda fascista, “Theodor
W. Adorno” ha osservato, seguendo il suo collega Löwenthal:
«In
quanto ribellione contro la civiltà, il fascismo non è semplicemente la
ripetizione dell’arcaico, ma la sua riproduzione nella e dalla civiltà stessa».
La
ribellione dirompente di Musk contro la democrazia liberale, tuttavia, non è
una brutalizzazione barbarica.
Deriva
dall’ideologia californiana radicalizzata in cui la tecnologia dovrebbe
migliorare il mondo e liberare l’individuo.
Per
migliorare il mondo, Musk vuole distruggere la democrazia socialmente regolata.
L’individuo
liberato deve essere difeso dal potere interventista della statualità moderna.
Non è
chiaro come si svilupperà la relazione tra l’agitatore globale Musk e Trump.
Musk è
intervenuto invano per impedire il compromesso tra repubblicani e democratici
per garantire la solvibilità dello Stato.
Allo
stesso tempo, si è inimicato la parte di estrema destra del “movimento Maga”
sostenendo l’accesso nel paese di ingegneri altamente qualificati.
Qui
stanno emergendo linee di conflitto tra gli autoritari nativisti, che sotto la
guida di Trump vogliono ripristinare la nazione nel senso della supremazia
bianca, e gli autoritari libertari come Musk.
Il
tempo in cui Musk non ha dovuto essere esigente sui messaggi autoritari di cui
è stato portavoce potrebbe essere limitato.
(Carolin
Amlinger è una sociologa della letteratura e ricercatrice associata presso il
Dipartimento di Linguistica e Studi Letterari dell’Università di Basilea.)
(Oliver
Nachtwey è professore di sociologia all’Università di Basilea.
Hanno
scritto Offended Freedom: The Rise of Libertarian Authoritarianism (John Wiley
and Sons Ltd, 2024).
La
democrazia occidentale
secondo
David Graeber (1961-2020),
Radiopopolare.it
– (4 Settembre 2020) – Redazione – ci dice:
David
Graeber - Democrazia Occidentale.
È in
gran parte il frutto della mia esperienza nel movimento anti-globalizzazione, o
meglio per una globalizzazione alternativa il cui dibattito si è spesso
focalizzato su tematiche connesse alla democrazia.
Gli anarchici in Europa e in Nord America e le
organizzazioni dei popoli indigeni nel Sud del pianeta si sono trovati ad
affrontare quesiti molto simili.
La
democrazia è un concetto intrinseco all’idea stessa di Occidente?
La democrazia occidentale si riferisce a una forma di
governance, ovvero una modalità di auto organizzazione comunitaria oppure a una
forma di governo ovvero una specifica configurazione di apparati statali?
La
democrazia occidentale implica necessariamente il dominio della maggioranza? La
democrazia rappresentativa è realmente democratica?
Il modo in cui viene concepita è
irrimediabilmente contaminato dalle sue origini dell’Atene classica, cioè in
una società militarista e schiavista basata sulla sistematica oppressione delle
donne?
O, più esattamente, ciò che noi chiamiamo oggi
democrazia storicamente ha a che vedere con la democrazia ateniese?
È
possibile riscattare il pianeta con forme decentralizzate di democrazia diretta
basate sul consenso?
Se lo
è, come faremo a convincere la maggior parte della gente del pianeta che la
democrazia non ha nulla a che fare con l’elezione dei propri rappresentanti?
Se non
lo è, e dunque accettiamo la definizione prevalente applicando ad altre
modalità il termine “democrazia diretta”, come facciamo ad affermare che siamo
contro la democrazia, una parola che ha così tante connotazioni positive
universalmente accettate?
Si
apre così uno dei libri più famosi di “David Graeber”, “Critica della democrazia
occidentale. Nuovi movimenti, crisi dello stato, democrazia diretta“, l’antropologo, anarchico e
professore influente alla “London School of Economics” scomparso prematuramente
a Venezia.
Graeber
era stato ospite di Radio Popolare nel 2012 e in quell’occasione fu
intervistato da “Ira Rubini”. Vi riproponiamo di seguito l’intervista integrale.
In
“Critica della democrazia occidentale” sostiene che “non c’è mai stato un
Occidente“.
Cosa
significa?
In
realtà il cosiddetto concetto della civiltà occidentale di per sé non è mai
stato molto chiaro.
Certe volte la Russia ne fa parte oppure non
ne fa parte, la Germania ne ha fatto parte solo un po’.
Questa idea dell’Occidente è in realtà un’idea
molto recente, definitivamente assurta all’attenzione del grande pubblico dopo
la Prima Guerra Mondiale, anche con gli interventi degli americani che, in
qualche modo, hanno creato un collegamento fra l’Europa e gli Stati Uniti come
se l’Europa e gli Stati Uniti fossero la stessa cosa.
In realtà questa definizione di Occidente di
per sé non ha senso, soprattutto perché viene utilizzata in tanti modi diversi,
talvolta culturali, talvolta intellettuali e talvolta razziali.
Questo
concetto di per sé poco chiaro può essere applicato anche al concetto di
democrazia, e in particolare di democrazia occidentale.
In che
senso?
Molti
di noi pensano che la democrazia sia nata ad Atene, nell’antica Atene, e che
quello fosse il posto in cui improvvisamente si è avuta questa straordinaria
intuizione che ci si poteva riunire in una piazza per prendere delle decisioni
collettive.
E che
poi, pian piano, questo concetto di democrazia sia virato verso l’Occidente
arrivando fino al nord dell’Atlantico.
Però
anche in questo senso, tornando al concetto di occidentale, bisogna ancora una
volta ribadire che questo concetto ha davvero dei tratti molto confusi.
Se è una tradizione intellettuale è chiaro che si
sposta continuamente, ma quindi non si sposta soltanto verso ovest, anche verso
est.
I
paesi arabi, per esempio.
Nessuno
di noi pensa che nelle università arabe si studia Aristotele, esattamente come
lo si studia in Occidente.
E tra
l’altro moltissimi intellettuali, almeno fino alla seconda metà dell’800, erano
molto spesso contrari al concetto di democrazia, almeno nella stragrande
maggioranza dei casi.
Anche
il concetto di un elemento culturale che unifica l’Occidente e ci rende tutti
democratici è relativo, perché se noi possiamo sentirci collegati all’antica Grecia
come patria della democrazia, molto meno magari ci sentiamo collegati alla Grecia di oggi,
che talvolta addirittura alcuni popoli dell’Occidente ricco non considerano
nemmeno come completamente democratica.
“David
Graeber” si è molto concentrato sulla delega che noi diamo a delle persone per
rappresentarci e gestire politicamente la cosa pubblica per noi.
Anche
qui il discorso è abbastanza complicato.
Prendiamo
ad esempio le Costituzioni americane e francesi.
Coloro
che hanno scritto quelle Costituzioni in realtà non stavano affatto pensando
alla “democrazia diretta” così come la si intende in senso ateniese, pensavano piuttosto una forma
repubblicana che, in qualche maniera, contenesse degli elementi di democrazia.
Più
pensando all’antica Roma che non all’antica Atene.
Se si
pensa poi alla Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti non v’è traccia di
riferimenti democratici.
È soltanto dopo il 1830 che, per una serie di motivi
anche economici e commerciali, i repubblicani cominciarono ad avere l’etichetta
anche di democratici, ad unire i due concetti insieme.
Un
altro libo molto famoso di “David Graeber” è stato “Debito. I primi 5000 anni“, un’analisi di come il problema del
debito sia antichissimo e risalga addirittura alla Mesopotamia.
Il
concetto di credito, che determina anche il concetto di debito, è un concetto
molto antico.
E il concetto di denaro contante, del pagare
subito, è un concetto che in realtà non appartiene soltanto al nostro tempo.
Noi
abbiamo l’impressione che il poter pagare online sia una conquista che abbiamo
grazie alle tecnologie.
È vero, ma il concetto di credito nell’antica
Mesopotamia era il sistema abituale per pagare.
Si
pagava a credito.
Il
denaro contante è arrivato migliaia di anni dopo.
Che
atteggiamento suggerisce agli individui e ai piccoli gruppi su cui si è molto
concentrato nel suo lavoro di ricerca sociale nei confronti di problemi globali
come il debito.
Anche
qui ci sono vari livelli per considerare l’atteggiamento che dovremmo tenere
nella nostra quotidianità.
Certo,
il debito è una promessa particolare resa perversa dalla congiunzione di
matematica e violenza, due elementi che quando su uniscono diventano molto
pericolosi.
Ecco perché
in qualche maniera il fatto che il debito di questo tipo possa essere
trasferito ad altri, e quindi in qualche modo perda la personalizzazione della
promessa, lo rende particolarmente complicato.
Però
bisogna ricordare che una promessa in denaro non è diversa dalle altre promesse
e che è possibile pensare, come si rinegoziano le promesse dei politici, di
rinegoziare anche le promesse dei debiti in denaro.
Tutti
sono d’accordo nel considerare il denaro come qualcosa di virtuale, almeno ai
giorni nostri.
Era un
po’ meno facile rinegoziare le cose nei tempi in cui il denaro era moneta
sonante, fatto d’oro e d’argento.
Ma,
come abbiamo visto nel 2008, con una bacchetta magica si possono fare trilioni
di dollari con un semplice movimento.
Sarebbe il caso di ricominciare a pensare se
si può rinegoziare il debito.
Democrazia.
Una
crisi che
non si
può ignorare.
Rivistailmulino.it
- Paolo Pombeni – (25 luglio 2024) – ci dice:
È
necessario riflettere sul modello della democrazia costituzionale così come si
è sviluppata negli ultimi due secoli:
non per farne un idolo, ma per riproporne le
capacità creative.
Dello
stato della democrazia e della sua attuale crisi hanno parlato papa Francesco,
a più riprese il presidente Mattarella, Ursula von der Leyen nel discorso
programmatico per la rielezione al vertice della Commissione europea.
Non è solo questione del funzionamento più o
meno carente dei sistemi che si rifanno, pur in forme e con modalità diverse,
al costituzionalismo così come si è evoluto dal modello liberale classico al
modello che vi ha inglobato la dimensione sociale.
Le
difficoltà che ha incontrato e che incontra questo modo di organizzare lo
spazio e la convivenza nelle società politiche sono note, discusse in varie
sedi e dipendono in buona parte dall’evoluzione storica che ha coinvolto
l’ambito geografico in cui il costituzionalismo è nato e si è sviluppato, cioè
quello che normalmente si definisce “l’Occidente”.
L’aspetto
inedito con cui si devono fare i conti è che da qualche decennio quel modello è
considerato inaccettabile:
ha
perso la sua natura tutto sommato prescrittiva che ne faceva una componente
essenziale della modernità.
Si potrebbe obiettare che esso era già stato sfidato
dai sistemi che, rifacendosi in modi diversi al marxismo, avevano ritenuto di
proporsi come alternativi al paradigma costituzionale.
Tuttavia,
va subito precisato che quei sistemi, almeno nella versione che reclamava di
esserne l’incarnazione più ortodossa, cioè nel regime sovietico, pretendevano
di essere, coerentemente con la prospettiva di Marx, lo sviluppo compiuto e
totale delle istanze che stavano alla base della rivoluzione costituzionale
dell’Occidente, perché avendole separate dall’economia capitalista le aveva
massimizzate nella loro capacità di “liberazione” dell’uomo (il che in definitiva doveva essere
l’obiettivo dell’umanesimo occidentale da cui trae origine ultima il
costituzionalismo).
Il
crollo del sistema sovietico, l’”ambiguità del sistema socialista cinese” che
sembrava essersi per tanti versi occidentalizzato, almeno nella gestione del
sistema economico e nell’assunzione della rivoluzione tecnologica, avevano
portato molti a concludere che il modello del costituzionalismo occidentale, ossia
della liberal-democrazia, si fosse ormai affermato sbaragliando i suoi avversari,
unico modello cui rivolgersi per rimanere nell’ambito della “modernità”.
È nota
la tesi di Francis Fukuyama sulla “fine della storia”, nel senso di esaurimento
della capacità di sfida alternativa al quadro del costituzionalismo con le sue
incarnazioni economiche e sociali.
Tuttavia
la sfida mostrava ancora il suo volto, questa volta con le sembianze
dell’estremismo islamico, un sistema culturale che non solo rifiutava il contesto dei
valori dell’Occidente, ma che li combatteva tanto impedendo che essi si
propagassero nelle terre storiche dell’insediamento di quella cultura, quanto mettendo in crisi la
capacità di dominio dei Paesi che a essi si richiamavano sia con il ricorso al
conflitto armato e alla guerra asimmetrica del terrorismo, sia, dove possibile,
animando conflitti per così dire più tradizionali.
A
interpretare questo quadro in buona parte nuovo aveva provveduto “Samuel
Huntington” con la tesi, fortunata, della presenza di uno “scontro di civiltà”. I
l
mondo aveva perso il relativo equilibrio garantito dalla condivisione di un
complesso di punti di riferimento dati per razionali e sconnessi da
appartenenze culturali particolari ed era accaduto perché erano tornati in
campo i riferimenti ad altre forme di elaborazione dell’organizzazione
socio-culturale, le quali rifiutavano di far parte della “koinè occidentale”.
Il riferimento più evidente era all’islamismo
radicale, ma si iniziava a vedere il risorgere dell’antioccidentalismo
slavo-bizantino, nonché altre forme di rivendicazione di modelli, alcuni più o
meno frutto di invenzioni polemiche (culture sudamericane, culture africane),
ma altri anche di storie molto complesse i cui “quarti di nobiltà” sono ardui
da negare, come nel caso della cultura indiana e cinese.
Possiamo
qui prescindere dal discutere degli infiniti problemi e delle aporie che pone
l’utilizzo dello schema interpretativo dello scontro di civiltà.
Vogliamo
infatti richiamare l’attenzione su due elementi che stanno connotando la fase
attuale della crisi della democrazia e che ispirano le riflessioni autorevoli
da cui abbiamo preso le mosse:
la resa crescente che è presente in molti
settori della cultura occidentale alla tesi della dimensione del tutto relativa
e priva di paradigma del modello occidentale; il via libera che ciò ha dato alla
ripresa di un confronto fra le nazioni su basi neo-imperiali.
Era
senz’altro eccessivo dichiarare una superiorità assoluta e indiscutibile del
modello occidentale che ha prodotto la democrazia come sistema di governo.
È
stata a lungo “esportata” in tutto il mondo che si è trovato sotto il dominio
euro-americano con risultati controversi, per la semplice ragione che spesso si
sono attuate le “formalità” del sistema (competizione elettorale, articolazione
dei poteri fra parlamenti, governi, magistratura, qualche libertà di
espressione per l’opinione pubblica) e si è realizzata l’assimilazione di
alcuni modelli di “way of life” dal punto di vista dell’utilizzo delle
tecnologie come da quello dei “consumi”, ma senza che si andasse oltre il
formalismo per cui, giusto per spiegarci, le elezioni sono pesantemente
manipolate, l’articolazione dei poteri rimane sulla carta, la pubblica opinione
è limitata e controllata.
Non si
è tenuto conto che il sistema costituzionale è figlio di varie storie politiche
nazionali, è supportato da itinerari di sviluppo e da condizioni essenziali di
cultura, di vita sociale e di contesto economico, in assenza delle quali le
istituzioni democratiche non possono vivere.
Un
certo successo di alcune “esportazioni”, per esempio in India o in Giappone
dopo la Seconda guerra mondiale, ha fatto ritenere che il metodo fosse
plausibile, ma vari fallimenti dopo inizi che potevano sembrare promettenti
hanno costretto a rivedere queste convinzioni (si pensi alle ex colonie europee in
Africa, dove al momento dell’indipendenza si erano instaurati sistemi politici
sul modello occidentale, per arrivare poi al loro disseccamento).
Ci
troviamo a fare i conti con una critica ai sistemi democratici che si sviluppa
all’interno di quegli stessi Paesi che avrebbero dovuto avere l’orgoglio di
avere testato il modello da quasi due secoli.
Ciò
che ha messo in crisi la tenuta del modello occidentale non è stato però
semplicemente il successo limitato, e spesso l’insuccesso delle “esportazioni”
che si sono tentate (anche con intenti manipolatori da parte dei Paesi
esportatori che sono sovente stati davvero dei cattivi maestri).
Oggi
ci troviamo a fare i conti con una critica ai sistemi democratici, critica che
si sviluppa all’interno di quegli stessi Paesi che avrebbero dovuto avere
l’orgoglio di avere varato e testato ormai in quasi due secoli il modello.
Non si
tratta naturalmente di negare che l’attuale sviluppo delle democrazie
occidentali conosca un momento critico per le difficoltà a gestire un contesto
di partecipazione alla sovranità politica da parte del popolo in presenza di
condizioni che hanno visto mutare alcune caratteristiche culturali, sociali ed
economiche le quali avevano innervato il progresso del sistema.
Si può
iniziare richiamando il venir meno delle tradizionali reti che tenevano insieme
il sistema (cultura diffusa, condivisione di un set di valori considerati
fondanti, se non preminenza, almeno equilibrio fra il solidarismo e
l’individualismo), per finire ricordando lo spaesamento dei cittadini di fronte
alle incognite che pone una transizione storica di grande portata (ci limitiamo a ricordare la presenza
di una rivoluzione tecnologica che ha inciso a fondo sul sistema di
interpretazione e di comprensione della vita sociale).
Questo
cambiamento ha prodotto in Occidente un tentativo di distacco da una parte non
piccola della cultura rispetto al “valore” del sistema democratico e del
sistema di organizzazione degli spazi politici ed economici che vi è connesso.
Alla
critica che altri sistemi culturali hanno avanzato contro il nostro modello, si
è reagito sposandola e mostrandosi, per usare una metafora, più realisti del re.
Il
fenomeno della cosiddetta “cancel culture” è emblematico di una risposta
paranoica a chi mette in luce debolezze nella nostra storia, politica e non
solo:
si è ritenuto che avesse senso cancellare la
nostra storia perché non si è sviluppata secondo i canoni che si suppongono
rappresentare oggi il punto di arrivo di una presunta “liberazione”.
Si
tratta di un contesto che priva l’Occidente delle capacità di rielaborazione
del suo modello, perché lo ritiene sbagliato sin dalle origini, senza per altro essere in grado di
offrire risposte al vuoto che l’abbandono del modello genera, neppure veramente
accettando i sistemi che sembrano venire dalle culture alternative a quella
occidentale (pescare da esse questo o quel contenuto mitico-folkloristico impastando
il tutto in una fusione senza logica non è un passo avanti per l’elaborazione
di alternative, ma solo un passo ulteriore nella paranoia).
Conviene
tenere conto che a fronte di questa crisi che lo scuote, l’Occidente non è in
grado di dominare i casi di neo-imperialismo che si stanno sviluppando
sfruttandola.
Ci
sono fenomeni molto evidenti come la ripresa dell’imperialismo russo che
allarga le sue mire espansionistiche ormai con la chiara teorizzazione di una
sua contrapposizione all’Occidente.
Gli
storici possono avvertirci che si riprende la tradizione di una competizione
fra il mondo “romano” e il modo “slavo-bizantino”, ma non ci si deve
impressionare troppo per queste spiegazioni:
la
realtà è che, come sempre accade, l’indebolimento di un sistema che ha per un
secolo abbondante avuto un ruolo centrale ed egemonico nella storia genera in
chi di quel dominio si è sentito parte marginale se non in alcuni casi vittima
la volontà di trarne profitto.
I
sistemi che abbiamo definito neo-imperiali non condividono le coordinate del
costituzionalismo occidentale, soprattutto per la ragione che non prevedono la
presenza di una volontà popolare che liberamente si forma nel quadro di un
percorso storico comune, in cui tutti i “cittadini” hanno avuto modo non solo
di condividere un complesso culturale come orientamento dell’azione politica,
ma di essere coinvolti nelle reti di elaborazione delle scelte che si sono
dovute prendere di volta in volta.
I
sistemi neo-imperiali non condividono le coordinate del costituzionalismo
occidentale, soprattutto perché non prevedono la presenza di una volontà popolare che
liberamente si forma nel quadro di un percorso storico comune.
Il
quadro di base che connota questo campo di convivenza è stato e per tanti versi
è ancora la “nazione”:
una creazione culturale che tiene conto del
confluire di componenti sociali plurali, le quali però erano venute
omogeneizzandosi a volte anche attraverso esperienze drammatiche (guerre, crisi
economiche e sociali).
Gli
imperi non hanno questo retroterra:
sono
composti di una pluralità di componenti a cui non è però consentito di
confluire liberalmente in una storia comune, che non possono partecipare alla
sua elaborazione, perché ciò è delegato al potere, dispotico, di una minoranza.
Il
collante in base al quale la minoranza dominante si impone è l’assioma che la
massima espansione territoriale e di dominio genera “potenza” e la potenza
permette un grande accumulo di ricchezza e di risorse che potrebbero anche, in
teoria e assai poco in pratica, essere in piccola parte distribuite fra i
sudditi dell’impero, mentre invece la maggior parte rimane nel cuore del
sistema imperiale che in questo modo si perpetua e cresce (ovviamente così la minoranza
dominante alimenta la sua ricchezza, ma di questo non si parla).
Non
tragga in inganno il fatto che i sistemi neo-imperiali amano rilanciare il
concetto di nazione.
Si tratta dello sfruttamento di un retaggio
storico della modernità seguita alle rivoluzioni sette-ottocentesche, per cui è la “nazione” il soggetto
dedicato e legittimato a costruire al tempo stesso la identità culturale che
fonda il potere e la sua legittimazione.
In realtà i nuovi imperi elevano a loro
identità nazionale quella della minoranza che detiene il controllo del sistema
e sulla base di quella giustificano il dominio della minoranza e legittimano la
lotta, anche armata, che presentano come inevitabile in un contesto di nazioni
in competizione radicale fra loro.
Le
tentazioni neo-imperiali sono in questa fase molte.
Se
sono sotto i nostri occhi quelle di Russia e Cina, possiamo menzionare quelle,
certo su scala più ridotta, dell’India, della Turchia, dell’Iran.
In
questi casi si tratta di antichi imperi storici (indù, ottomano, persiano) che
erano stati dati per esauriti senza possibilità di ritorno.
Accanto possiamo trovare fenomeni di rilancio
di antiche formazioni, come è il caso del califfato arabo che ha conosciuto
negli ultimi decenni reincarnazioni terroristiche improbabili, ma che muove più
di un empito nell’universo islamico (incluso qualche gruppo al governo in
alcuni Stati).
In complesso tutte queste dinamiche sembrano
trovare orecchie sensibili in molti Paesi che si considerano, per molti aspetti
non a torto, vittime di un lungo sfruttamento da parte dei Paesi che furono
egemoni nel dettare le forme di controllo degli equilibri internazionali.
L’esempio
che si fa in questi casi è quello dei cosiddetti “Brics”, che, pur sotto un
tentativo di controllo da parte di Russia e Cina, non appartengono di loro a
sistemi neo-imperiali, ma che si muovono nell’ottica di uscire dal quadro della
contestata egemonia occidentale.
Questo
contesto ha portato alla ripresa di un quadro di competizione aggressiva e di
messa in discussione della “geografia” che era stata disegnata sul presupposto
del carattere prioritario del modello di democrazia occidentale, seguendo la
quale, sia pure con tutti i compromessi delle imprese umane, si eran disegnati
i confini e le identità tanto territoriali quanto storico-culturali della
comunità degli Stati.
Ora la riapertura della sfida al paradigma del modello
democratico (qualcosa di più complesso del solo versante politico
istituzionale), che ha assunto caratteri di scontro armato fra poteri, oltre
che di insorgenze di conflitti asimmetrici di stampo terroristico, si sta
svolgendo mentre il modello occidentale sotto attacco vede indebolirsi, anche
in modo rilevante, il supporto di una cultura diffusa e condivisa che lo
considerava il miglior sistema di gestione, razionale, della convivenza
politica.
La
difesa della conquista storica del costituzionalismo liberal-democratico non
può essere efficace se rimane soltanto nelle mani dei poteri di governo degli
Stati occidentali, che non sono più in grado di gestire e promuovere la koinè
culturale che ne costituiva il patrimonio fondante e che pensano, si fa per
dire, che tutto possa essere risolto a livello “burocratico”, cioè come un
confrontarsi di regole e proclami, di controlli formalistici in cui si tutelano
tutti gli individualismi possibili senza alcuno sforzo di portarli a essere
inclusi nell’idem sentire de “re publica”.
È
necessario rilanciare una riflessione coraggiosa sul modello della democrazia
costituzionale così come si è sviluppata negli ultimi due secoli:
non
per farne un idolo a cui bruciare inutili incensi, ma per riproporne e
ricrearne le capacità creative che contiene e che sono in grado di farci
affrontare con successo il complesso tornante storico che abbiamo davanti.
Lo facciamo perché non crediamo né ai miti delle
democrazie illiberali, né a quelli dei neo-imperialismi di vario colore.
Critica
della democrazia
occidentale,
di David Graeber.
Larivistaculturale.com - Melissa Pignatelli –
(25 gennaio 2025) – ci dice:
Con
Critica della democrazia occidentale (Elèuthera, 2024) David Graeber,
antropologo statunitense e attivista deceduto improvvisamente a 59 anni a
Venezia, si interroga sui concetti di “democrazia” e “occidente” evidenziandoli
come costrutti politici che hanno fornito identità strumentali a vari
stati-nazione europei, specie negli ultimi duecento anni di storia.
La sua
prospettiva critica ci invita ad interrogarci su che cosa costituisce una
democrazia e in cosa in effetti essa si contraddistingua da altre forme di
esercizio del potere.
Il
fulcro dell’argomento di “Graeber “mette in evidenzia come ci sia un uso
strumentale di “Atene” e della “democrazia ateniese” da parte di un’identità
“occidentale” che recupera qualche principio di matrice ellenistica per
costruirsi una particolarità ed una legittimità storica propria.
Graeber contesta dunque la visione idealizzata
di Atene come modello di “democrazia perfetta” o come rappresentante di
un’unica tradizione culturale occidentale, sottolineando complessità e
contraddizioni della democrazia ateniese, evidenziandone limitazioni ed
esclusioni, come ad esempio il fatto che solo i cittadini maschi ateniesi
avessero il diritto di partecipare al processo decisionale.
Graeber
evidenzia inoltre il passaggio storico dell’espansione coloniale come un
momento nel quale nasce l’idea costruita di “occidente” “democratico”,
“discendente dell’Atene classica”.
La sua
argomentazione presenta come alcuni paesi dell’Europa occidentale e
dell’America del Nord hanno avuto la necessità di darsi una genealogia di
appartenenza “democratica” nel momento stesso in cui hanno dovuto giustificare
a sé stessi l’espansione coloniale.
Questa
discrepanza del modus operandi dell’Occidente che crea principi di libertà e
ideali di uguaglianza (a casa) per poi ricombinarli con pratiche incoerenti di
assoggettamento, guerra, sterminio, dominio (fuori casa) è messa chiaramente in
rilievo nel saggio di Graeber.
Il
potere e in generale le forme di governo, costituite principalmente dalle
élites, sono per lui delle imposizioni di forza sulle volontà di persone che
non riescono ad essere correttamente rappresentate.
In
questo saggio nel quale il concetto di “Occidente” è una costruzione ideologica
utilizzata per giustificare l’espansione coloniale, l’imperialismo e il dominio
culturale delle nazioni europee e americane, e dove l’idea di un “Occidente”
unito serve soprattutto a legittimare le politiche di dominio e sfruttamento
nei confronti di altre culture e società, la democrazia è vista come un sistema
nel quale si può operare solo al margine, preferibilmente dal basso.
Al di
là della visione ideologica e idealizzata delle possibilità di funzionamento
della democrazia, questo libro apre in effetti uno spazio interstiziale, apre al tempo di una riflessione
necessaria sul corso delle democrazie nel XXI secolo, sul significato di
occidente in un sistema globalizzato.
E
scopriremo cosi che “There never was a West, Democracy emerges from the spaces
in between”.
(Melissa
Pignatelli).
Presidenzialismo
Meloniano e “volontà popolare”:
populismo
o democrazia?
Micromega.net
- Michele Marchesiello – (21 Novembre 2023) – ci dice:
Il
governo Meloni sta facendo di tutto per accentrare progressivamente il potere
politico nelle mani di pochi eletti.
Dalla gestione dei fondi del PNRR, alla
votazione diretta del Presidente, la presunta volontà popolare rivendicata
dalla Premier sarebbe quella di delegare a poche donne e uomini forti il
destino della democrazia italiana.
Presidenzialismo
di Meloni e “volontà popolare”:
populismo o democrazia?
Il
populismo, nella più recente e prevalentemente negativa accezione, ha in realtà
nobili ascendenze, tralignate in una astuta e demagogica manipolazione del
sentire pubblico a proposito della politica e in generale del potere, in vista
di obiettivi che – genericamente ma efficacemente – possono definirsi “di
destra”.
Niente
di più lampante del messaggio trasmesso da Giorgia Meloni agli italiani.
Con quel messaggio, Meloni vorrebbe intestare
a sé stessa una paradossale “volontà degli Italiani” di rendersi attori e
addirittura protagonisti della vita politica nazionale, ma ottenendo quel risultato
abbandonandosi alle decisioni del premier scelto tramite elezione diretta.
Paradossale
– e demagogico – messaggio quello di Meloni, che sollecitando in senso retorico
e populista quella presunta “volontà” – dovrebbe indurla ad accettare
supinamente di essere governata dalla volontà di uno/a, solo/a, sulla base di
una consultazione referendaria opportunamente pilotata attraverso il controllo
delle principali forme di comunicazione di massa.
Questa
forma aberrante di populismo viene adoperata spregiudicatamente per mascherare
come prodotto della “volontà popolare” l’affermarsi, se non di una dittatura,
di un regime autoritario basato sul consenso ormai implicito del popolo.
È il
destino delle famigerate democrazie popolari o delle più “moderne demokrature”.
Meccanismo
reso anche troppo noto dalla storia del secolo breve.
I peggiori totalitarismi si sono affermati
legalmente, grazie a questo artificio.
Se è
breve il passo dalla tragedia alla farsa, lo è altrettanto il percorso inverso.
Gli aspetti farseschi della brechtiana
resistibile ascesa al potere di Giorgia Meloni e del suo folkloristico circo,
non devono indurci a sottovalutarne i più che possibili e tragici esiti,
sull’onda di una presunta volontà popolare.
Due
soli – per niente modesti – esempi di quanto le richieste, le aspettative e le
proposte provenienti dagli stakeholders del Governo, ovvero noi cittadini,
vengano sin d’ora sistematicamente ignorate o disattese dal governo di Meloni.
Durante
una lussuosa vacanza albanese – tra un bagno e uno spritz – la famiglia Meloni
concorda con il molto discusso presidente del Consiglio “Edi Rama” un programma
confuso, costoso, pieno di incognite, da vendersi agli italiani come soluzione
miracolistica al problema degli sbarchi dal Nord Africa in Italia.
Lo
storico programma viene siglato e annunciato senza averne previamente
informato, non solo il Parlamento – ormai al limite dell’esautorazione – ma
neppure i ministri del proprio governo e i partiti della maggioranza.
L’altro
esempio riguarda la comunicazione sull’utilizzo dei fondi del PNRR:
la più
grande occasione per migliorare la vita dei cittadini (ovvero del popolo).
Il
governo Draghi aveva a questo scopo istituito il tavolo del partenariato,
presieduto da Tiziano Treu, allora presidente del CNEL.
Scopo
del tavolo era di mettere in contatto tra loro e far comunicare col governo i
cosiddetti stakeholders, ovvero i portatori di interessi diffusi:
i cittadini insomma.
Gli
incontri si tenevano con regolarità, ma il governo Meloni, come informa la
banca dati pubblica “Universo Regis”, ha sciolto il tavolo del partenariato
sostituendolo con una cabina di regia che accentra i poteri nella Presidenza
del Consiglio.
Le ben 54 organizzazioni interessate – tra cui
“Legambiente”, “Slow Food”, “Action Aid “– sono state escluse e hanno
costituito un semplice osservatorio, che non è ancora stato riconosciuto nella
sua funzione, nonostante le 5000 mail e le 10000 firme inviate al Ministro con
delega al PNRR.
E
dire, osservano da “Universo Regis”, che il PNRR non dovrebbe essere fatto solo
di progetti e cantieri, ma – prima ancora – di
riforme: giustizia, fisco, sanità, scuola.
Nel
frattempo, il governo ha tolto 13 miliardi del PNRR a progetti affidati agli
enti locali per riqualificare le periferie, il verde urbano, le infrastrutture,
per destinarli al progetto “Re-power EU “,
discutendo in cabina di regia con le potenti compagnie del gas e dell’energia,
come Enel ed ENI.
Non ci
vuole molto a immaginare che analoga sarebbe la sorte della povera volontà
popolare, se passasse al referendum la roboante riforma costituzionale che
Meloni vuole gettare tra le gambe del popolo italiano.
La
trappola tecnopopulista.
Legrandcontinent.eu
- Carlo Invernizzi Accetti, Chris Bickerton – (19 Aprile 2021) – ci dicono:
(Traduttore:
Giovanni Collot).
Spunti
di dottrina Politica.
Il
tecnopopulismo origina da uno scollamento tra politica e società:
lungi
dal risolvere questa frattura, i tecnopopulisti la esacerbano, erodendo le basi
della rappresentanza democratica.
La
chiave per uscire da questa situazione di stallo sta nella ricerca di nuove
forme di intermediazione politica.
Non
capiremo mai la politica finché non sapremo attorno a cosa si combatte”.
Così
diceva il politologo americano “Eric Schattschneider”, scrivendo nel 1960.
“Schattschneider” credeva che la politica funzionasse come un sistema di
conflitto. Capire la natura del conflitto era la chiave per capire la politica
nel suo insieme.
Per
questo avvertiva che “la sostituzione dei conflitti è il tipo di strategia
politica più devastante”.
Intendeva dire che se si anticipano
correttamente i conflitti attorno ai quali è strutturata la società, allora si
può vincere.
In caso contrario, e soprattutto se si
combatte all’ombra di vecchi conflitti nel momento in cui se ne aprono di
nuovi, si rischia di perdere.
Pesantemente.
Le sue
parole risuonavano con le mutevoli politiche di razza e cultura che
attanagliavano la politica americana alla fine degli anni ’50 e all’inizio
degli anni ’60 – un’epoca di transizione, segnata dall’emergere della “nuova
sinistra” e dalla diffusione dei valori postmaterialisti.
Il conflitto politico si stava spostando verso
questioni di cultura, identità e tutto ciò che stava oltre la disperata
politica di classe dell’era della Grande Depressione. Su cosa verte oggi lo
scontro politico?
Questa
rimane la domanda politica chiave.
Oltre
lo schema “sinistra contro destra.”
Anche
se le sue imperfezioni come quadro concettuale sono state oggetto di
discussione per decenni, tendiamo ancora a pensare alla politica democratica in
termini di uno scontro tra sinistra e destra.
Man
mano che emergono i contendenti per le elezioni presidenziali francesi del
prossimo anno, gli analisti li classificano in questo modo:
Xavier
Bertrand al “centro-destra”, Jean-Luc Melenchon all'”estrema sinistra”, Marine
Le Pen all'”estrema destra” ecc.
Manteniamo
questa classificazione anche per paesi come la Germania, dove anni di Grandi
Coalizioni hanno intaccato le differenze ideologiche tra i partiti rivali.
La
competizione in Germania tra l’Unione Cristiano Democratica e i
Socialdemocratici è davvero uno scontro tra piattaforme ideologiche rivali?
Lo
spettro destra/sinistra conferisce alla politica contemporanea una certa
leggibilità, ma la sua importanza nell’analisi politica rivela tanto la nostra
mancanza di immaginazione quanto la vitalità della guerra di classe.
Le
società rimangono divise da profonde disuguaglianze socio-economiche, ma i
partiti politici non le traducono più nei conflitti ideologici che hanno
caratterizzato il XX secolo.
Dal
“New Labour” di Tony Blair al “Rassemblement National “di Marine Le Pen, da Le “République
En Marche” di Emmanuel Macron al movimento “Azione dei cittadini insoddisfatti”
(ANO) di Andrej Babis, gli attori politici hanno esplicitamente cercato di
scrollarsi di dosso le etichette di “sinistra” e “destra”.
Quando
abbracciano queste etichette, spesso lo fanno senza successo.
Dal
2015 al 2019 è stata l’”era di Corbyn” in Gran Bretagna – un movimento sociale
di estrema sinistra molto ideologico che ha catturato il Partito Laburista e si
è cristallizzato intorno alla figura di Jeremy Corbyn.
I suoi risultati elettorali sono stati disastrosi.
Nelle elezioni generali del 2019 i
conservatori hanno vinto una maggioranza schiacciante di 80 seggi e le
circoscrizioni che votavano laburista da generazioni – come “Don Valley” e “Wakefield
“– hanno eletto deputati conservatori.
Qualunque
siano i suoi punti di forza, Corbyn stava combattendo la battaglia sbagliata.
Il
successo politico oggi sembra essere meglio garantito evitando del tutto
l’ideologia.
Nei
Paesi Bassi, “Mark Rutte “è rimasto al vertice della politica olandese facendo
proprio questo.
Come ha osservato un commentatore giorni prima
delle elezioni generali che si sono concluse con Rutte ancora una volta in
testa, il successo di Rutte sta nel suo essere “libero da ogni ideologia” e
nella sua disponibilità “a lavorare con chiunque”.
In Austria, “Sebastian Kurz” è salito al
vertice della politica del suo paese traducendo le politiche di estrema destra
in un idioma mainstream e allo stesso tempo epurando il “Partito Popolare
Austriaco” (OVP) dalla sua eredità conservatrice.
Nelle
elezioni legislative del 2017, “Kurz” ha trasformato il partito.
Lo ha
personalizzato mettendo il suo nome nella lista del partito (“la lista Kurz –
il Nuovo Partito Popolare”), ha cambiato il colore dell’OVP dal nero al
turchese e ha rifondato l’OVP come un movimento piuttosto che un partito
politico convenzionale.
Tecnocrazia
e populismo: i nuovi poli della competizione politica democratica.
Allora,
su cosa verte la lotta oggi?
La
nostra risposta è che il populismo e la tecnocrazia sono emersi come i
principali poli organizzativi della politica democratica contemporanea.
Il populismo consiste in una modalità di
azione politica che mobilita una concezione unitaria e monolitica del “popolo”
contro un’idea astratta e moralizzata del suo “altro” (le élite, la casta, gli
stranieri), rivendicando un diritto alla rappresentanza esclusiva del primo.
La notte del referendum britannico sull’UE, “Nigel
Farage” ha dichiarato estaticamente che la Brexit era “una vittoria per la
gente reale”.
Questo
aveva in sé l’implicazione che coloro che hanno votato contro la Brexit non
erano “persone reali”.
In
questo senso, come sottolinea lo scienziato politico di Princeton,” Jan-Werner
Muller”:
“I populisti sostengono che loro, e solo loro,
rappresentano il popolo”.
La
tecnocrazia è l’associazione di abilità o competenza – techne – con kratos, l’“esercizio
del potere.
Immaginiamo i tecnocrati come figure non
elette:
banchieri
centrali in abito gessato che prendono decisioni di politica monetaria a porte chiuse,
o mandarini altamente addestrati che applicano i loro modelli seduti alle loro
scrivanie nelle burocrazie statali di tutto il mondo.
Questo è radicato in un’antica concezione (in
definitiva platonica) della tecnocrazia:
i re filosofi governano al posto del demos.
Ma gli appelli alla competenza e
all’esperienza sono diventati sempre più un pilastro anche nella nostra cultura
politica democratica, così come un elemento critico nel modo in cui giudichiamo
i rappresentanti eletti.
“Sono bravi?”, ci chiediamo.
“Faranno
il loro lavoro?”; “possiamo vedere i loro CV?”
Due dei principali banchieri centrali del
mondo – Mario Draghi e Janet Yellen – sono ora figure politiche a pieno titolo,
rispettivamente a capo della terza economia dell’Eurozona e a capo del Tesoro
degli Stati Uniti.
Supponiamo
che populisti e tecnocrati siano ai ferri corti l’uno con l’altro.
Come
ha detto il politico britannico “Michael Gove” in un’intervista a “Sky News”
nelle settimane precedenti il referendum britannico sull’adesione all’UE nel
2016, “il popolo ne ha abbastanza degli esperti”.
Quando
Greta Thunberg mobilita i suoi sostenitori, li esorta ad ascoltare gli
scienziati e ad ignorare il richiamo delle sirene dei populisti.
Le
dimissioni di Silvio Berlusconi nel 2011 – al culmine della crisi del debito
sovrano dell’Eurozona – sono state architettate in modo che un professore di
economia dell’Università Bocconi ed ex commissario europeo, “Mario Monti”,
potesse prendere il comando.
Scrivendo
sul mondo dopo il coronavirus, lo storico e antropologo “Yuval Harari”
consigliava che “ognuno di noi dovrebbe scegliere di fidarsi dei dati
scientifici e degli esperti sanitari piuttosto che delle teorie del complotto
infondate e dei populisti egoisti”.
Eppure,
se guardiamo più attentamente la relazione tra populismo e tecnocrazia nella
politica di oggi, scopriamo che è molto più complessa.
Lo scontro nelle democrazie contemporanee è
tra modi concorrenti di combinare appelli al “popolo” e appelli alla
“competenza”.
Chiamiamo
questa sintesi tecnopopulismo.
Lo
scontro nelle democrazie contemporanee è tra modi concorrenti di combinare
appelli al “popolo” e appelli alla “competenza”.
Chiamiamo
questa sintesi tecnopopulismo.
(Chris
Bickerton e Carlo Invernizzi Accetti).
La
logica politica tecnopopulista
La
sintesi tra populismo e tecnocrazia è resa possibile dal fatto che i due
convergono l’uno con l’altro in modi importanti.
Entrambi
sostengono di possedere un tipo specifico di “verità” politica – sia sotto
forma di una concezione reificata della volontà popolare (il “popolo reale” di
Farage) o il tipo specifico di conoscenza a cui i tecnocrati sostengono di
avere accesso.
Come
tali, populismo e tecnocrazia si oppongono entrambi a una concezione della
politica come uno scontro senza fondamento e senza fine tra interessi e valori
in competizione all’interno di un sistema di procedure comunemente
riconosciute.
In altre parole, populismo e tecnocrazia condividono
un’ostilità verso ciò che “Bernard Manin” ha chiamato “democrazia dei partiti.”
Questo
si manifesta nel fatto che sia i populisti che i tecnocrati dirigono la loro
ira verso gli stessi oggetti:
i
politici professionisti e i partiti politici.
Sono
anche molto critici nei confronti di qualsiasi altra forma di intermediazione
di interessi organizzata che si trova tra il cittadino comune e lo Stato, come
i sindacati e le organizzazioni dei media.
I
populisti considerano i partiti e i gruppi di interesse come istanziazioni di
un sistema corrotto ed egoista.
I tecnocrati li liquidano come “cercatori di
rendita” – dalle associazioni di tassisti alle confederazioni nazionali di
interessi commerciali e organizzazioni di consumatori, sono tutti gruppi con
interessi personali la cui influenza deve essere eliminata dal corpo politico.
Per il
populista e il tecnocrate, i sistemi partitici o le forme di interessi
organizzati sono illegittimi perché violano il loro perseguimento di una
politica della generalità – una forma di politica basata su un appello a una
popolazione nel suo complesso piuttosto che a qualsiasi sottoinsieme specifico
o parte della popolazione.
Se il
populismo e la tecnocrazia hanno questa affinità, non sorprende che gli appelli
al “popolo” e gli appelli alla competenza possano essere combinati in un’unica
offerta politica.
Prendiamo
la Francia.
Il
successo di Emmanuel Macron nel 2017 è derivato dalla sua capacità di combinare
tratti populisti e tecnocratici in un’unica offerta.
La sua campagna presidenziale è stata
smaccatamente populista.
Ha mobilitato i suoi sostenitori contro quello
che ha definito un sistema politico “ossificato” e “corrotto”.
Fondando
un movimento politico con le sue stesse iniziali (EM), ha stabilito un rapporto
personale di incarnazione con l’intero elettorato francese.
Ecco
perché commentatori come “Marcel Gauchet” lo hanno descritto come un “populista
di velluto”, populiste de velours.
Allo
stesso tempo, Macron ha ripetutamente sottolineato la sua competenza.
Da studente, era sempre il primo della classe.
Ha
portato questo tipo di successo nel suo progetto politico, promettendo che
avrebbe fatto, in virtù della pura tecnica, ciò che i presidenti precedenti non
erano riusciti a fare.
Emmanuel
Macron era il risolutore dei problemi del popolo.
Il
Movimento Cinque Stelle in Italia offre una sintesi molto diversa tra populismo
e tecnocrazia. Le radici populiste di questo partito politico sono ben note.
Il M5S è nato come un movimento di protesta
esplicitamente anti-establishment, il cui discorso si è concentrato
sull’opposizione tra “la gente comune” e “la casta”.
Meno
commentata, ma cruciale per comprendere i cambiamenti in corso oggi nel
movimento, è la concezione tecnocratica della politica al centro dell’identità
politica del M5S.
Fin
dall’inizio, il suo fondatore e leader carismatico, Beppe Grillo, ha insistito
che il M5S non è “né di sinistra né di destra”, poiché il suo unico scopo è
quello di “risolvere i problemi” indipendentemente dalle camicie di forza
ideologiche.
In
questo, internet ha un ruolo chiave, perché è interpretato come un modo per
sfruttare “l’intelligenza collettiva” della gente comune e quindi trovare
soluzioni più efficaci per i problemi collettivi rispetto a quelle proposte
dagli esperti ufficialmente riconosciuti.
Così,
mentre nel Macron pensiero la sintesi tra populismo e tecnocrazia avviene
attraverso una rappresentazione del presidente francese stesso come “il
risolutore dei problemi del popolo”, nel caso del M5S avviene attraverso
l’appello a un concetto di “intelligenza collettiva” che effettivamente
trasforma tutti in esperti.
Anche
se non tutti gli attori o movimenti politici contemporanei sono tecnopopulisti,
nella misura in cui il tecnopopulismo sta diventando la nuova logica della
politica democratica sta diventando sempre più difficile da evitare.
Anche
attori politici e partiti di lunga data si stanno muovendo in questa direzione.
Pensate per esempio alla recente traiettoria dei partiti conservatori e
laburisti britannici.
Durante
l’ultima tornata delle elezioni parlamentari nel Regno Unito, lo slogan dei “Tories”
era “Get Brexit Done!“.
Questo
voleva segnalare un fermo impegno ad attuare il risultato del referendum
popolare del 2016, insieme alla pretesa di possedere le competenze politiche
necessarie per farlo.
Lo “slogan
del Labour” durante le stesse elezioni era: “Get Brexit Right“, che si
discostava solo parzialmente dal messaggio principale dei Tories, ponendo
maggiore enfasi sulla presunta maggiore padronanza dei laburisti su quale
sarebbe stata la giusta soluzione politica.
In
Germania, il leader della SPD ed ex cancelliere federale, “Gerhard Schröder”,
era al centro del “movimento Neue MitteW” in Germania – un tentativo di
forgiare una politica post-ideologica del tipo sviluppato dai “nuovi
democratici” clintoniani negli Stati Uniti e dal New Labour nel Regno Unito.
Succedendogli nel 2005, Angela Merkel ha
presieduto a grandi coalizioni con la SPD per la maggior parte del suo tempo in
carica.
La sua
immagine politica è stata costruita intorno a rivendicazioni di pragmatismo ed
efficacia politica.
Allo
stesso tempo, ha costruito un tipo curiosamente personalistico di governo
politico, dove è presentata come una benevola ‘mutti‘ (madre) che unisce tutta
la Germania dietro un comune senso di scopo (“Wir schaffen das!“).
La più
chiara illustrazione contemporanea dell’incidenza della logica tecnopopulista è
offerta dal “nuovo governo Draghi” in Italia.
L’autorità politica dell’ex capo della Banca
Centrale Europea deriva chiaramente dalla sua competenza tecnica come presunto
“salvatore” dell’Eurozona.
Tuttavia,
il suo esecutivo si basa su una coalizione parlamentare che include tutti
(tranne uno) i principali partiti politici italiani, abbracciando l’intero
spettro politico da sinistra a destra, compresi diversi partiti più o meno
esplicitamente populisti – da Forza Italia di Silvio Berlusconi, al Movimento
Cinque Stelle di Luigi Di Maio, fino alla Lega di Matteo Salvini.
L’attuale governo italiano appare quindi
particolarmente inadatto a essere interpretato tramite lo schema “sinistra
contro destra”.
È un
governo politico, non tecnocratico, la cui identità è tecnopopulista.
Origini
del tecnopopulismo.
Molti
fattori sono alla base dell’ascesa di questa nuova logica politica.
Un
modo per intrecciarli è vederli come un contributo a un processo a lungo
termine di separazione – o disconnessione – tra politica e società;
o, più
precisamente, tra conflitti e divisioni politiche, da un lato, e interessi e
valori sociali, dall’altro.
Come
punto di paragone, vale la pena ricordare che, per la maggior parte del secolo
scorso, la politica democratica non era strutturata intorno a pretese concorrenti
di rappresentare “il popolo” nel suo insieme e di possedere la “competenza”
necessaria per tradurre la sua volontà in politica.
Le ideologie partigiane di destra e sinistra erano
radicate negli interessi e nei valori particolari di gruppi specifici
all’interno della società.
Per
esempio, i partiti comunisti e socialdemocratici erano, nel complesso,
espressioni delle aspirazioni del movimento operaio organizzato.
Al
contrario, i partiti conservatori e democristiani rappresentavano ampiamente
gli interessi e i valori dell’”Ancien Régime”, specialmente tra le élite
terriere e i contadini.
Questa
è l’idea di base catturata da “Seymour Martin Lipset” e “Stein Rokkan”
attraverso la loro famosa tesi che la politica dei partiti della metà del
ventesimo secolo era effettivamente un riflesso dei “cleavages” sociologici
sottostanti .
In
alcuni paesi, in particolare i Paesi Bassi in Europa nord-occidentale, questa
unità di società e politica era ancora più evidente.
Come
risultato di conflitti confessionali di lunga data, la società olandese era
organizzata intorno a quelli che erano conosciuti come “pilastri” – pilastri
cattolici e protestanti, ai quali si aggiunsero in seguito quelli socialisti e
liberali.
Questi
pilastri modellavano la vita quotidiana: dalla squadra di calcio che si
sosteneva al giornale che si leggeva.
Il sistema dei partiti funzionava come punto
di intersezione tra questi pilastri, con i leader dei partiti che negoziavano
tra loro in sistemi elettorali altamente proporzionali, assicurando che i
governi non ignorassero gli interessi di nessuno dei pilastri.
Il
famoso sistema proporzionale austriaco era lo stesso.
Alla
luce delle battaglie ideologiche e del vero e proprio scontro tra le forze di
destra e di sinistra nel periodo tra le due guerre, la politica austriaca dopo
il 1945 si è organizzata intorno a un sistema a due partiti in cui il Partito
Popolare Austriaco (OVP) e il Partito Socialdemocratico (SPO) si dividevano
accuratamente il potere e l’influenza tra loro, in linea con le rispettive
fortune elettorali.
Nel
corso degli ultimi decenni, le realtà sociologiche di base che sostenevano la
divisione ideologica sinistra/destra sono state significativamente erose.
Ciò è
avvenuto a causa delle trasformazioni nella struttura economica, che hanno
minato la tradizionale distinzione di classe tra proletariato e borghesia.
Un
processo generale di secolarizzazione ha diminuito la salienza della
distinzione tra cittadini religiosi e non religiosi.
E un
processo generalizzato di mobilitazione cognitiva ha prodotto elettori molto
meno disposti a prendere le piattaforme di partito come un dato di fatto e a
seguire le istruzioni su come votare.
Guardando
indietro all’era post-1945, possiamo vedere cambiamenti fondamentali nei
sistemi di valori, enormi miglioramenti nelle condizioni di vita, e un crollo
impressionante in alcune delle forme di esistenza collettiva che eravamo
arrivati a dare per scontate.
In
modo cruciale, tuttavia, queste profonde trasformazioni sociologiche non si rifletterono immediatamente in nuove
forme di competizione politica.
Come “Lipset”
e “Rokkan” notarono già alla fine degli anni ’60, i sistemi di partito sono
rimasti inizialmente “congelati” attorno a categorie ideologiche che si erano
cristallizzate più di un secolo prima.
Come risultato, gli scontri e le divisioni
partitiche divennero sempre più scollegati dagli interessi e dai valori sociali
sottostanti.
Fino
agli anni ’80, i sistemi partitici avevano più o meno lo stesso aspetto di
quasi cento anni prima;
persino
i nomi dei partiti erano invariati.
Eppure,
le società occidentali avevano sperimentato la creazione dello stato sociale,
un massiccio progresso nei diritti delle donne, l’eliminazione della
discriminazione razziale sancita dallo stato, le rivoluzioni culturali degli
anni ’60 e l’enorme espansione dei lavori dei colletti bianchi e l’associata
esplosione delle economie nel settore dei servizi.
Il risultato è stato una disconnessione
fondamentale tra società e politica.
Il
tecnopopulismo è per molti versi una conseguenza diretta di questa crescente
separazione tra politica e società. Infatti, una volta che i concorrenti per le
cariche elettorali cessano di essere responsabili nei confronti di classi o
gruppi specifici all’interno della società, essi acquisiscono un incentivo a
fare appello agli interessi e ai valori della società nel suo complesso,
trattandola come una massa indifferenziata di singoli elettori.
Sia la
concezione populista del “popolo” che l’assunzione tecnocratica che ci siano
soluzioni politiche oggettivamente “giuste” sono esempi di tali concezioni non
mediate del bene comune.
Così,
l’ascesa del populismo e della tecnocrazia come nuovi poli strutturanti della
politica democratica contemporanea può essere vista come derivante da ciò che “Peter
Mair” ha chiamato il “vuoto” tra una società atomizzata e politicamente
impotente, da un lato, e una classe politica autoreferenziale che cerca una
convalida elettorale facendo appello a generalità astratte come “il popolo” o
soluzioni politiche “giuste”, dall’altro.
La
concezione populista del “popolo” e l’assunzione tecnocratica che ci siano
soluzioni politiche oggettivamente “giuste” sono esempi di tali concezioni non
mediate del bene comune.
(Chris Bickerton e Carlo Invernizzi Accetti).
In
alcuni casi, la vuotezza della politica ideologica del XX secolo è stata
rivelata in modi drammatici e bruschi. In Italia, la fine della guerra fredda
ha coinciso con scandali di corruzione politica di proporzioni epiche.
Il
traballante corpaccione della politica di sinistra/destra in Italia fu spazzato
via da questi eventi e nel giro di un paio d’anni i partiti di massa di destra
e di sinistra – i democristiani, i socialisti e i comunisti – erano scomparsi.
Un
governo tecnocratico fu messo in piedi per riempire il vuoto nel 1993.
Poi
venne un lungo periodo in cui l’Italia oscillò tra il populismo di Berlusconi e
gli aridi governi tecnocratici di centro-sinistra, la cui principale
preoccupazione era mantenere l’Italia sulla strada dell’adesione alla moneta
unica europea.
All’inizio degli anni 2000, la logica
tecnopopulista aveva assunto una posizione solida nella politica italiana.
In
altri casi, l’ascesa del tecnopopulismo è stata meno netta.
In
Belgio, i cambiamenti descritti sopra sono evidenti nelle Fiandre, il che aiuta
a spiegare la potente presa dei partiti populisti di estrema destra.
Tuttavia,
in Vallonia, il potere strutturante delle fratture socio-economiche continua
ancora oggi.
Come
ha dimostrato la politologa “Leonie de Jonge”, il Partito Socialista vallone
(PS) opera all’interno di una struttura sociale a pilastri che si estende nelle
località della regione, così come all’interno delle organizzazioni dei media e
di gran parte del settore pubblico.
Anche
questo contro-esempio conferma comunque che la de-pillarizzazione e il collasso
degli interessi organizzati sono gli incubatori chiave della nuova logica
politica tecnopopulista.
Conseguenze
del tecnopopulismo.
Oltre
ad essere il risultato di molte trasformazioni sociali profonde, l’ascesa del
tecnopopulismo è anche gravida di conseguenze.
La prima è la crescente conflittualità tra i
concorrenti per le cariche elettorali.
Si
tratta di un fenomeno che è stato ampiamente commentato con riferimento
all’idea che i politici contemporanei si trattano l’un l’altro più come
“nemici” che come “avversari”, portando a una crescente tossicità del
linguaggio politico che rende più difficile la cooperazione tra coloro che
hanno opinioni diverse.
Lo vediamo anche nel linguaggio delle “tribù”
e del tribalismo, che è diventato un luogo comune nella scienza politica
contemporanea.
Nel 2018, il think tank britannico “Policy
Exchange” ha pubblicato un rapporto intitolato “The Age of Incivility“,
lamentando quello che ha descritto come “l’inasprimento della vita politica
britannica” e indagandone le ragioni.
Il
tecnopopulismo può aiutare a spiegare questo fenomeno, poiché tende a
sostituire l’asse orizzontale della competizione politica tra i poli ideologici
di destra e di sinistra – che sono in linea di principio ugualmente legittimi
l’uno all’altro – con un’opposizione verticale tra concezioni rivali
dell’insieme sociale e delle sue parti costitutive, che sono per definizione
gerarchicamente ordinate.
Infatti,
una volta che si pretende di parlare a nome del “popolo” nel suo insieme, o di
possedere una sorta di “verità” politica, chiunque si trovi in disaccordo può
apparire solo come l’espressione di un qualche tipo di “interesse speciale” o
come completamente in errore.
Così,
sia il populismo che la tecnocrazia implicano un’implicita negazione della
legittimità dell’opposizione politica, che emerge nel modo in cui la maggior
parte dei politici contemporanei si trattano a vicenda.
(Chris
Bickerton e Carlo Invernizzi Accetti.)
Un’altra
caratteristica saliente della politica democratica contemporanea è la sua de- sostanzializzazione.
Anche
se si attaccano abitualmente l’un l’altro personalmente, e a volte anche
ferocemente, i contendenti contemporanei per le cariche pubbliche in realtà non
sono in disaccordo su molto quando si tratta della sostanza della politica
pubblica.
Per
esempio, nessuno sembra sfidare le coordinate di base del capitalismo o della
democrazia, come è stato invece il caso per la maggior parte del XX secolo.
Invece,
si dice che il luogo primario della competizione politica si sia spostato sulle
cosiddette questioni “culturali” o “simboliche”.
Eppure,
anche in questo campo, la maggior parte degli studi empirici rileva una crescente
“convergenza” di valori tra fazioni politiche rivali.
Questo
può sembrare paradossale, visti i livelli di tossicità politica a cui ci siamo
abituati, ma può altresì essere letto come una conseguenza dell’ascesa del
tecnopopulismo come nuova logica strutturante della politica democratica
contemporanea.
Quando
tutti i candidati alle cariche elettorali sostengono di rappresentare gli
interessi e i valori della società nel suo complesso, non possono davvero
permettersi di inimicarsi le opinioni o gli interessi di un gruppo specifico al
suo interno.
Essi
acquisiscono un incentivo a diluire le loro piattaforme politiche, facendole
apparire il più possibile consensuali e ampiamente attraenti, al fine di
mascherare qualsiasi conflitto sostanziale che esse potrebbero causare.
Un’ulteriore
conseguenza dell’ascesa del tecnopopulismo come nuova logica strutturante della
politica democratica contemporanea è il crescente malcontento della maggior
parte degli elettori verso la qualità della rappresentanza politica che viene
loro offerta.
Anche questo è un fenomeno che è stato
ampiamente osservato e commentato. Nel momento stesso in cui i politici
pretendono di offrire una rappresentazione più diretta e non mediata della vera
volontà del popolo, e di avere le competenze necessarie per tradurla in
politica, gli elettori sono sempre più insoddisfatti di loro.
Si
scopre che la disponibilità di una qualche forma di meccanismo di mediazione
tra gli interessi e i valori disparati presenti all’interno della società e i
risultati politici concreti risulta essere una condizione essenziale per un
senso di rappresentanza democratica efficace.
Senza
un tale livello intermedio di organizzazione politica partitica, gli individui
atomizzati sono semplicemente troppo deboli e statisticamente insignificanti
per avere la sensazione che i loro punti di vista e interessi contino nel
prendere decisioni collettivamente vincolanti.
L’età
della disintermediazione che ci porta alla logica politica tecnopopulista è
quindi anche un’età di crescente disincanto nei confronti della democrazia.
Mentre
il tecnopopulismo nasce da una crescente separazione – o disconnessione – tra
la politica e la società (a sua volta radicata in una crisi dei tradizionali
meccanismi di mediazione tra di loro), allo stesso tempo esacerba questa stessa
separazione.
Come un serpente che si morde la coda, è allo
stesso tempo una manifestazione e una causa ulteriore dell’attuale crisi della
rappresentanza politica.
Mentre
il tecnopopulismo nasce da una crescente separazione – o disconnessione – tra
la politica e la società (a sua volta radicata in una crisi dei tradizionali
meccanismi di mediazione tra di loro), allo stesso tempo esacerba questa stessa
separazione.
(Chris
Bickerton e Carlo Invernizzi Accetti).
Rimedi.
Se
l’analisi che abbiamo fornito è corretta, ne consegue che populismo e
tecnocrazia non possono funzionare come rimedi efficaci l’uno per l’altro.
Tuttavia,
questo è ciò che sentiamo più spesso dagli stessi populisti e tecnocrati.
I
primi sostengono che appellarsi più direttamente alla “volontà popolare” può
aiutare a rimediare alla confisca del potere da parte delle élite
tecnocratiche;
i secondi, che un appello alla competenza e
all’esperienza è necessario per controbilanciare l’irresponsabilità dei
populisti.
I
commentatori tendono ad essere d’accordo, di solito raccomandando un po’ più
tecnocrazia qui, o un po’ meno;
un po’
più populismo là, o un po’ meno.
Ma
questo finisce solo per rafforzare la logica politica tecnopopulista, poiché
l’implicazione è che una rappresentanza politica efficace richiede di trovare
una sorta di “equilibrio” o “sintesi” tra loro.
Al
contrario, vedere il populismo e la tecnocrazia come componenti complementari
di una logica politica comune implica che possono essere contrastati solo
insieme, affrontando la sottostante crisi della mediazione politica da cui
entrambi emergono e a cui entrambi partecipano.
Ciò
che è realmente necessario per ripristinare un senso di effettiva
rappresentanza democratica è quindi esattamente l’opposto di più appelli
diretti alla “volontà popolare” e più competenze in politica.
Le forme intermedie di organizzazione
politica, e la divisione partitica su base ideologica che le accompagna, sono
il vero rimedio contro il tecnopopulismo.
Per
essere chiari, sarebbe anacronistico sperare in una rivitalizzazione dei
partiti politici e delle lotte ideologiche del secolo scorso – anche perché
abbiamo sostenuto sopra che il tecnopopulismo deriva proprio dalla loro
incapacità di rinnovarsi e di dare un’adeguata espressione politica ai
conflitti e alle divisioni sociali contemporanee.
Tuttavia,
l’idea che là fuori esista una “volontà popolare” completa e monolitica da
trovare, o che qualcuno abbia accesso a una sorta di “verità” politica
oggettiva, che trascende tutti i conflitti e le divisioni all’interno della
società, è altrettanto fittizia.
La
sfida posta dall’ascesa del tecnopopulismo sta quindi nel concepire e portare
avanti nuove forme di intermediazione politica – cioè nuove forme di
partigianeria e di lotta ideologica – intorno ai concreti conflitti di
interesse e di valore che esistono oggi nella società.
L’uccisione
della verità e la crisi della democrazia.
Istitutoeuroarabo.it - (1° maggio 2025) -
Comitato di Redazione - Roberto Settembre – ci dice:
(Dialoghi Mediterranei – n. 73 –
maggio 2025).
Il
tema proposto dovrebbe, a parere di chi scrive, essere affrontato partendo da
un esperimento mentale, per ricavarne i necessari e logici corollari
concettuali quali strumenti ermeneutici dei fatti che ci (pre)occupano.
Il che, tra l’altro, attiene in modo intimo
alla relazione tra i fatti e le idee, dove per fatti se ne intende la
rappresentazione nella percezione collettiva e individuale, non identiche, e
per idee il terreno concettuale su cui coltivare l’interpretazione.
E viene usato il verbo “coltivare” essendo
l’interpretazione un’operazione che dà frutti, trasformando la percezione
fenomenologica in qualcos’altro, cioè in uno spazio della mente dove operano in
sinergia la conoscenza e la coscienza, e cosi contribuendo alla nascita del
giudizio.
Dunque,
tornando all’esperienza mentale si pensi a una famiglia felice, che, come
diceva Tolstoj, è uguale a tutte le altre famiglie felici, dove vive l’armonia
tra i coniugi, la fiducia reciproca, l’appagamento dei sensi, la ricchezza
degli scambi intellettuali, il soddisfacimento dei bisogni materiali, la
serenità e la gioia tra i figli e coi figli, dove l’amore e il rispetto
reciproci consentono una luminosa e stimolante quotidianità e, insieme con un
apprezzabile benessere economico, nella ricchezza delle relazioni amicali e
parentali anche sul piano culturale, dove ciascun componente da solo e con il
contributo di tutti progetta il futuro.
Il che
permette stabilità emotiva, forza nell’affrontare le inevitabili difficoltà e
l’idea che questo tessuto esistenziale sia l’unica modalità condivisibile per
affrontare la vita. E si pensi che tutto ciò sia stato il frutto di immani
fatiche, dolori e sacrifici.
Ma, a
un tratto, tutto questo tracolla nel disastro e tutto scompare senza
possibilità o speranza di alcun ritorno al prima.
Allora
il lutto che cala sulla coscienza dei superstiti si colora di una tremenda
nostalgia del tempo perduto e il domani permea il presente con un senso di
orrore e di sconfitta, per cui diventa necessario progettare un presente e un
futuro completamente diversi.
Ma
diversi come?
E perché?
Ecco
allora che il nostro esperimento mentale viene traslato sull’attuale situazione
geopolitica che vede il diritto e la realtà, su cui il diritto deve operare,
soggetti a una divaricazione inconciliabile, che tuttavia discende
dall’apparente aporia tra il diritto e la giustizia.
Tuttavia questa difficoltà logica, derivante
da un’apparente uguale validità di due ragionamenti che portano a conclusioni
contrarie e insolubili, tali per cui l’esigenza di un diritto che sia legge,
cioè strumento a cui ricorrere “ne cives ad arma ruant” come dicevano i
giuristi romani, (e sul piano internazionale, “ne patriae aut imperia ad arma
ruant”) si scontra con l’anelito alla giustizia, che attiene agli spazi della
coscienza quando proietta nel mondo il bisogno morale di combattere il dolore e
la sofferenza degli innocenti, restaurando il diritto violato o restituendo
alle vittime la dignità attraverso il riconoscimento del loro stato, ma
mostrando i limiti spesso invalicabili della portata di questo e la sua
contraddizione con la forza di quella, facendo dire a chi è mosso da una
lettura manichea della realtà, che il diritto internazionale, ad esempio, o la
giustizia stessa, non esistono.
Salvo
affermare che, a causa della loro inesistenza, la loro violazione ne
costituisce un crimine.
E ciò senza darsi pena di spiegare sulla scorta di
quale principio una condotta priva di alcun ancoraggio concreto al diritto che
la renda lecita o illecita, possa definirsi illecita quando viola qualcosa che
non esiste.
Detto
questo, non ci si può esimere dalla consapevolezza che sia il concetto del
diritto=legge, sia quello di giustizia=morale discendano, ciascuno, dalla loro
matrice ideale, per l’uno quella della società dei consociati soggetti alle
regole, per l’altra, quella dell’istinto di sopravvivenza nella terra dell’”homo
homini lupus”, che cerca la sua spiegazione in un mito.
E
ancora, non si può omettere di prendere in considerazione chi e per quali fini
abbia dettato le regole, dove i fini sono plurimi e in buona parte occulti,
mentre il mito ha un fondamento razionale e uno irrazionale, così interconnessi
da perdere i loro connotati identificativi, tanto quanto la stessa famiglia
felice, come ben spiegato dalla psicanalisi, copre con il manto della felicità
aspetti relazionali ben lontani dal significato ampio e profondo della
felicità.
Ne
consegue che la nostra famiglia felice, quella dell’”Occidente liberal
solidaristico o socialdemocratico” eretta nel contemperamento dei diritti e dei
doveri, ora sembra correre il pericolo del suo dissolvimento verso un futuro
estraneo alle sue premesse.
Ciò
sebbene questa famiglia felice, o che auspicava di esserlo, avesse nel suo
sottoscala gli scheletri di chi era dovuto soccombere sotto la violenta azione
con la quale la detta famiglia andava costruendo il suo universo, reso tale dal
fluido dei diritti universali che le scorreva nelle vene.
E
certamente per molti attenti esegeti e aspri critici questo fluido non era
reale bensì magico, alimentato da un mito irrazionale travestito da
razionalità, talché, oggi, il dissolvimento dell’Occidente felice non sarebbe altro
che la caduta del velo della sua ipocrisia.
A
questo punto non si ritiene sia il caso di avventurarsi in una polemica tra
verità e contro verità, o nel terreno trionfante della post verità, con le
quali mostrare l’autentica rappresentazione dei fatti a colpi di
interpretazioni.
Anzi, è necessario avvertire il lettore che per “uccisione
della verità” non s’intende partire dalla premessa che la verità, vittima di
chi la vuole distruggere, sia la verità ultima come quella delle fedi
monoteiste, conosciuta dal censore dei delitti altrui, ma sostenere che la
verità di cui di discute sia il principio condiviso che ha consentito a
centinaia di milioni di esseri umani di vivere per quasi ottant’anni senza
scannarsi reciprocamente, come accadde regolarmente per secoli in Europa a ogni
volgere di ogni generazione, e senza che ciò accadesse attraverso un processo
socio politico analogo a quello della pax augustea.
E questo assunto, tuttavia, non si nasconde
all’obiezione sollevata da molti, che questa pace non lo sia né di fatto né di
diritto, ma
sia invece la narrazione (cioè l’interpretazione) voluta dai suoi mistificatori
per perseguire i loro biechi interessi attraverso un continuum di pratiche di
violenza e sopraffazione sui diritti dei deboli.
Viceversa
l’argomentazione qui svolta prende le mosse dall’assunto per cui ci sono fatti
che, incontrovertibilmente, sono fatti e sfuggono alle interpretazioni.
Su
questo punto si impone una premessa ineludibile, cioè tra la successione
temporale dei fatti e il loro rapporto in termini di causa ed effetto.
Si
tratta dei fatti che mettono in relazione la vita con la morte violenta, e i
fatti che mettono in relazione la morte violenta con la vita.
Confondere
i due piani è operazione non solo pericolosa, ma fonte di grave mistificazione
della realtà, poiché, se la vita è spesso causa della morte violenta, questa
morte non è di per sé causa della vita, sebbene la preceda in termini
temporali.
Allora,
se le azioni dei vivi sono spesso causa di morte, e tali azioni sono
suscettibili di interpretazioni, così come il negazionismo, il revisionismo
storico, i processi per i crimini di guerra hanno ampiamente dimostrato, dove
gli orrori perpetrati attraverso le azioni umane sono stati ricostruiti,
rievocati, discussi, messi in forse, negando o affermandone i nessi causali,
nessuna di queste operazioni ha potuto mettere in forse il fatto della morte
violenta di milioni di esseri umani.
Ne consegue che questo fatto, di per sé, non è
suscettibile di interpretazione, poiché i morti sono morti ammazzati, punto e
basta.
E i
cento milioni di morti che si sono succeduti nel corso del quarantennio che va
dal 1914 al 1945 sono un fatto immane che esige spiegazioni e interpretazioni
nella sua eziologia, ma permane comunque come qualcosa che non può essere
negato, così come non può essere negata la successione temporale tra il tempo
dei conflitti intra ed extraeuropei, la morte violenta di milioni di esseri
umani, e il tempo successivo alla fine dei conflitti.
Ed è
in questo tempo successivo che nasce la nostra famiglia felice, ma prima di
prenderla in esame è necessario mettere in relazione due circostanze, e cioè la
struttura ideale o molto più spesso ideologica del mondo nel quale si sono
verificate le decine di milioni di morti violente, e il fatto che, al termine
della mattanza, le persone si sono interrogate, al di là della ricerca delle
responsabilità individuali o collettive delle tragedie, su un fatto non
suscettibile di interpretazioni:
le immani distese di cadaveri erano un fatto
che non avrebbe dovuto ripetersi, e ciò al di là di ogni interpretazione
causale.
Ma non
solo, se le cause andavano ricercate nel nesso causale tra le idee e i fatti,
evidentemente quel nesso causale andava interrotto per scongiurare che si
ripetesse, per cui era necessario elaborare nuove idee.
E queste nuove idee non sarebbero state
elaborate in termini di nesso causale con i cento milioni di morti accatastati
nella memoria collettiva, ma come ineludibile successione temporale, per cui il
mantra del “mai più” doveva diventare un punto fermo del pensiero umano.
Per
farlo, tuttavia, era necessario partire dalla constatazione che non ci fosse
(sia) un modo di arginare Polemos (la guerra) attraverso le regole, così come
si era illusa la “Società delle Nazioni istituita il 10 gennaio 1920” (26 mesi
dopo la strage della I guerra mondiale) attraverso i suoi principi, il “Protocollo
di Ginevra del 1925” sul divieto dei gas e delle armi batteriologiche, il “patto
Briand Kellogg” del 1928 contro ogni guerra di aggressione, e la Convenzione di
Ginevra del 1929 sulle regole del combattimento e del trattamento dei
prigionieri di guerra.
Infatti
la Prima guerra mondiale, e soprattutto la Seconda, avevano dimostrato in che
cosa consistesse la guerra moderna, cioè guerra di annientamento senza tregua e
senza condizioni.
E si
noti come i rapporti tra i belligeranti fossero caratterizzati dalla assoluta
richiesta di resa senza condizioni.
Era
così necessario inventare ed edificare qualcosa che potesse sia inibire sia
fermare la forza distruttiva scatenata dalla guerra, invece di regolarne il
funzionamento, poiché sia la costruzione dello “ius ad bellum” (cioè il diritto
di fare o non fare la guerra), sia dello “ius in bello” (cioè il diritto che
disciplina il modo di fare la guerra), avevano dimostrato di non funzionare.
In
verità si trattava di rovesciare una tesi presente nella cultura illuministica
sull’umanità naturalmente buona, sul mito del buon selvaggio, sull’idea che
l’uomo primitivo fosse istintivamente pacifico, sull’idea che la civiltà umana
si evolvesse da una mitica età dell’oro attraverso stadi successivi
rigorosamente deterministici, così come sostenuto da numerosi autori
ottocenteschi, tali da influenzare lo stesso Karl Marx, concetto ideologizzato
da Rousseau e rielaborato successivamente ancora nei tempi successivi fino alla
Seconda guerra mondiale, come scrisse l’antropologa statunitense “Margaret Mead nel
1940 “affermando che la guerra fosse un’invenzione, mentre la pace era una
manifestazione di un istinto naturale corrotto dalle ideologie e dall’interesse
(G. Sadum
Bordoni,” Guerra e natura umana”, il Mulino 2025:187).
Allora
quell’assunto va capovolto, così come le ultime ricerche sulla filogenesi della
guerra di tutti i primati, umani compresi, hanno dimostrato (ivi: 210) poiché
né esiste un unico istinto della pace, né esiste un unico istinto della guerra.
Infatti
tutta la Storia umana, fin dalle recenti scoperte archeologiche del
paleolitico, per giungere all’esame
delle 16 grandi crisi nelle relazioni internazionali a partire dal XV
secolo fino ad oggi, sfociate in 4 accordi e 12 guerre (Graham Allison,
Destinati alla guerra, Fazi, 2018), sono state caratterizzate da cicli
alternati, e determinati da un misto di istinti naturali di cooperazione,
altruismo, eliminazione e/o riduzione delle forze distruttive all’interno e
all’esterno delle comunità, e istinti di aggressività, paura, rapacità
determinati dalle modalità di presenza degli esseri umani sul territorio, una
volta trasformati in cacciatori raccoglitori, e successivamente evoluti in
civiltà via via più sofisticate, che hanno fronteggiato in modi diversi, ma
approdando molto più spesso alla guerra, le più articolate problematiche
relazionali, dalla trappola di Tucidide (muovo guerra perché convinto che la
potenza del mio avversario lo indurrà a scatenarla contro di me) al mero
desiderio di rapina (le nostre ingloriose
e criminali guerre ed entrate in guerra del fascismo, alla faccia delle
memorie sull’onore e la gloria celebrate dai riti di memoria delle nostre
“bandiere di guerra”) o di sopraffazione strategica.
Ebbene,
è alla luce di questa complessità che possono venir comprese le istituzioni del
secondo dopoguerra, erette proprio per impedire che gli istinti distruttivi
prevalessero, coltivando l’idea che, attraverso le istituzioni, fosse possibile
trasformare le parti, che si fronteggiano o combattendo o trattando, ma
mantenendo ferme le distinzioni identitarie tipiche del rapporto bellico, in
membri di un’unica comunità.
Talché,
così facendo, si sarebbero costituite società intere, il cui funzionamento
sarebbe stato determinato dalle regole condivise di tali istituzioni, dove
l’evoluzione naturale avrebbe spinto i loro membri verso l’elaborazione di una
morale in contrasto con l’istinto belluino.
Un’idea
filosofica della democrazia condivisa, intesa come «il regime politico più
naturale, poiché le guerre sono antidemocratiche, in quanto ostacolano la
composizione armoniosa delle potenze…. (contro) una cultura dell’odio e della
vendetta, della paura e dell’arroganza che si erge tra noi e la pace, che è
invece il trionfo della gioia contro le passioni tristi»
(Frederic Gros, Perché la guerra? ed.
Nottetempo, 2023: 134-135).
Ma le
decine di milioni di morti ammazzati sono un oggetto materiale e mentale assai
ingombrante e tremendamente traumatico, per cui, quando i fatti più traumatici
occupano la mente degli individui e delle collettività che vi sono stati
coinvolti a vari titoli, deve intervenire la parte razionale a decodificarne il
significato per evitare che la parte irrazionale della mente prenda il
sopravvento sulla coscienza.
Ebbene,
per fare ciò è necessario separare il fatto dalle sue cause, poiché alcuni
fatti si sottraggono di per sé al giudizio, cioè alla ricerca del significato,
che attiene alle ragioni del detto coinvolgimento.
Anzi,
accade che il fatto sia tale da travolgere la coscienza.
Si
pensi a quante decine o centinaia di milioni di persone furono coinvolte in
modo passivo, attivo o in veste di meri inerti spettatori nelle mostruosità
degli stermini perpetrati a vario titolo nei sei anni di guerra, partendo dagli
orrori dell’invasione giapponese in Cina, passando per la “Shoà”, i
bombardamenti sulle città tedesche che sconvolsero “Edgar Morin” testimone
attivo (“Ancora un momento”, Feltrinelli, 2024) per giungere a Hiroshima e
Nagasaki.
Allora
si spiegano le parole di Adorno nel 1949, per cui “dopo Auschwitz scrivere una
poesia è un atto di barbarie”.
In
verità questo aforisma ha una valenza ambigua, poiché la poesia, nella sua
opera di trasfigurazione del reale dalla sua apparenza materiale in
significato, ne sublima la cogenza trasformandola in una categoria universale,
la bellezza, per dirla con Kant, e consentire alla coscienza di dominare
l’orrore.
Quando
ci riesce, cioè quando il significato è gestibile, poiché il significato è il
frutto dell’elaborazione concettuale dell’osservazione, e prescinde dal
giudizio sommario, promosso dalla mera ricezione dell’informazione.
Questo
infatti nasce dall’impulso all’azione mosso dalla percezione, per cui non è
nemmeno un vero giudizio, ma è un’estensione del pensiero finalizzata a
programmare l’azione, o a giustificarla o a collocarla all’interno di uno
schema comportamentale.
Viceversa
il significato prescinde dall’azione, perché attiene al giudizio, che viene
formato dall’esame dell’oggetto della percezione, dopo di che entra nello
spazio della coscienza.
Allora
il rischio che corre il giudizio è quello di utilizzare, per effettuare
l’esame, i pregiudizi che sono il frutto di idee nate al di fuori del giudizio.
Ne consegue che l’esame dei fatti, cioè del mondo fenomenologico, deve avvenire
utilizzando i risultati dell’osservazione empirica e il giudizio che la
scienza, intesa nel suo senso più ampio, comprensiva dell’indagine
storiografica, dell’antropologia, della sociologia, della psicologia, della
politica, dell’economia e di tutti i sistemi epistemici di conoscenza della
realtà, pur non nascondendosi il pericolo che anche la scienza sia affetta da
pregiudizi, riesca a formulare.
Ne
consegue la necessità di esaminare la questione su due differenti piani
concettuali: l’uno su quale sia stata la percezione collettiva degli eventi
post- guerra mondiale, e su quale strato della memoria tale percezione abbia
operato, e l’altro sul duplice effetto di tali percezioni, poiché la
stratificazione della memoria agisce su diversi piani cognitivi alimentati dal
fenomeno dell’edificazione dell’impalcata che permette sia l’elaborazione della
memoria, sia del terreno cognitivo concimato da questa, dal quale
germoglieranno nuove idee.
E sono
queste nuove idee a indurre i soggetti, a seconda dello spessore delle
rispettive capacità cognitive e della quantità di informazioni raccolte, a
elaborare le risposte. I due aspetti tuttavia non sempre coincidono, come si
può ricavare dal tenore dell’esposizione verbale o scritta dei diversi soggetti
chiamati a esprimere la loro opinione sui fatti in esame.
Ebbene,
queste risposte si sono concretizzate nelle diverse aggregazioni politiche
successive al totalitarismo e nel progetto di costruire nuovi tessuti ideali e
strumenti idonei a contrastare gli ideali/ideologie che permisero i
totalitarismi e spinsero alla guerra e alle carneficine.
Infatti l’Onu nacque proprio come mezzo per
liberare il mondo dal flagello della guerra, così come affermato nel preambolo
della sua Carta.
Ma c’è
un fatto curioso da prendere in esame, cioè il rapporto tra la pace e la guerra
nella percezione collettiva e individuale, strettamente connesso con il
fenomeno in esame, e cioè con la rimozione del significato dell’immane fatto
traumatico costituito dai 100 milioni di
esseri umani uccisi, 60 milioni dei quali durante i sei anni della Seconda
guerra mondiale, e la circostanza che questa rimozione è alla base della
nascita della c.d. famiglia felice, con cui si è aperto questo breve lavoro.
Pertanto,
essendo la pace equiparata alla stabilità e alla certezza, mentre la guerra è
l’equivalente dell’instabilità e dell’incertezza, sebbene in tutta la storia
dell’umanità la pace sia sempre stata caratterizzata o dagli equilibri di
potenza, attraverso la mutua deterrenza, o dallo strapotere di una potenza
egemone (la pax augustea, o quella britannica o quella recente americana, ad
esempio), e poiché la pace, nel sentire comune successivo alle due guerre
mondiali, è vissuta come un bene e la guerra come un male, ne consegue che
conti poco chi è e come ha vinto la partita, perché la partita viene sempre
rinviata al termine di un periodo di pace, mentre la pace è il terreno sul
quale prospera la nostra famiglia felice.
Tutto
ciò è intimamente connesso col mondo delle idee, cioè con la stratificazione
ideale in cui viene ridotta la realtà fenomenologica, affinché, partendo da lì,
cioè dalle idee, ci si muova per edificare un progetto che sia coerente con le
idee frutto di questa stratificazione ideologica, che, nel caso in esame,
consiste nella rimozione dell’immane trauma collettivo di cui si è parlato.
Quindi
si cercherà di dimostrare che è stata la rimozione di quel fatto, cioè un
evento di natura ideale, ad aver permesso a quel progetto di attecchire nella
coscienza collettiva e consentire la crescita della detta famiglia felice, e
non il fatto rimosso.
Il che
significa che rimozione e fatto sono due fattori diversi, che operano
diversamente nella percezione e nell’attribuzione di significato, poiché la
rimozione toglie significato al fatto e lascia spazio per nuovi significati.
Allora si cercherà di dimostrare, pur nei limiti fisiologici di questo lavoro,
che questa è la ragione per cui quel fatto rimosso non è intervenuto, nella
recente coscienza collettiva, a impedire che riemergessero i semi delle
mostruosità che causarono quel trauma, mentre altre idee, oggi, frutto di quei
semi mai del tutto scomparsi, stanno aggredendo quelle costitutive della detta
famiglia felice, incapace di attivare gli antidoti della coscienza contro
l’infezione di un virus analogo a quello causa del morbo che uccise la verità e
100 milioni di morti ammazzati.
Questo
poiché non è la materialità dei fatti a determinare il mondo delle idee, come
gli epigoni delle visioni ideologiche del mondo affermano, assumendo che
«bisogna studiare la storia mentre succede invece della storia nel succedersi
delle idee, o, per essere precisi della propaganda».
(Ingar
Solty, Le illusioni liberali non salveranno l’Ucraina, su Jacobin, citato in
“Internazionale, 21/27 marzo 2025).
Al
contrario tale assunto significa affermare che è la propaganda delle proprie
idee a sconfessare la propaganda altrui, così come proclamare la verità della
propria fede contro la falsità delle fedi avversarie, sul presupposto che la
propria verità promana da Dio o dal guru di riferimento.
Si pensi al dilemma se siano state le
proprietà tribali a essere causa delle guerre, o siano state le guerre a
determinare l’origine della proprietà attraverso la rapina e la violenza.
Cioè
alle idee proclamate nell’ “Antiduring” di Engels, dove viene affermato che la
violenza «è il punto di partenza e il fatto fondamentale di tutta la storia
svoltasi sino ad ora e le inocula la colpa ereditaria dell’ingiustizia…poiché
su questo asservimento primitivo poggia del pari tutta la proprietà privata
fondata sulla forza (essendo) chiaro che tutti i fenomeni politici si devono
spiegare partendo da cause politiche, cioè dalla forza»,
(F. Engels, Antiduring, ed. Rinascita, 1950: 175
-176),
mentre
K. Marx, nei quaderni antropologici, afferma il contrario, e cioè che fu la
guerra a consentire alle comunità tribali di esistere come proprietarie
(Bordoni, cit.: 233). In definitiva dev’essere esaminato il rapporto tra le
idee e la storia fautrici della storia, e non il contrario.
E
proprio da quel fatto materialmente mostruoso costituito dall’immane numero di
esseri umani macellati dalla guerra, è necessario passare a esaminare un fatto
ideale, motore del tempo successivo a quello.
Invero
inquieta e sembra incomprensibile che le moltitudini avessero rimosso tanto
orrore, dopo aver assistito indifferenti o compiaciute a eventi come quelli
delle donne cinesi violentate e sventrate dalle baionette dei soldati
giapponesi, alle migliaia di donne uomini, vecchi e bambini fucilati e gettati
nelle fosse comuni dai volontari delle einsatzgruppen naziste, alle torce umane
sotto i bombardamenti alleati sulle città tedesche e giapponesi, alle
impiccagioni degli ostaggi nelle regioni occupate dai nazifascisti, ai milioni
di creature di ogni età e sesso assassinate nella camere a gas dei lager di
sterminio, alle decine di migliaia di esseri umani, bambini compresi,
inceneriti dal fuoco atomico o morti atrocemente di cancro nei tempi
successivi, il tutto preceduto dalle sopraffazioni, dalle uccisioni di
innocenti, dai crimini contro l’umanità e il diritto commessi dai
totalitarismi, dall’uso dei gas italiani in Etiopia, alle feroci rappresaglie
contro i civili, alle leggi razziali nostrane, alle complicità delle nostre
truppe inviate a perpetrare massacri contro popoli e Paesi che non ci erano
ostili.
E ci si domanda come fosse possibile che tale
rimozione avvenisse anche nelle menti e nei comportamenti culturali e politici
di persone che, in posizioni non marginali, avevano introiettato come valori da
difendere e perseguire un’ideologia fatta di superbia intellettuale, di
orgoglio razziale, identitario e di classe sociale, tale da lasciare in costoro
e nei loro discendenti un forte senso di orgoglio dinastico.
La
questione in realtà prende le mosse dal progetto del mondo totalitario, del
quale le conquiste territoriali, le stragi e gli omicidi dei singoli erano solo
un mezzo, ancorché feroce, crudele e spietato, che la propaganda (si pensi che
Goebbels aveva intitolato il Ministero della Propaganda come il Ministero
dell’illuminazione) era riuscita a instillare nelle menti e nelle coscienze
colonizzate dalla menzogna identitaria, finalizzata a costituire una società
ridotta a un unum di dominanti e a una massa di dominati.
Questo
punto, centrale e focale nella presente riflessione, indica come il concetto di
identità sia il principale artefice dell’assassinio della verità.
Si
tratta della negazione di una verità logica e razionale, e cioè del fatto che
gli esseri umani, sia individualmente, sia nei gruppi che compongono l’umanità
intera, sono plurimi e non riconducibili a un unum, per cui, e proprio a
partire da questo pluralismo, le idee formano il tessuto del pensiero che
spinge all’azione.
Si
tratta pertanto dell’azione con cui è stata edificata l’impalcatura su cui la
società occidentale come la intendiamo oggi avrebbe cercato di costruire sé
stessa.
Tuttavia,
come si vedrà in seguito, tra i materiali di costruzione si celavano due virus,
necessari alla costruzione, ma pericolosi nella loro crescita autonoma, quando
la crescita armonica di un organismo composito è viziata da una perdita di
omogeneità causata dal prevalere progressivo di un fattore sugli altri.
E
questo fattore è appunto l’identità, che si trasforma, come si vedrà, in una
trappola, sebbene sia stato proprio il riconoscimento della funzione valoriale
delle identità, ad apportare significato alla funzione creatrice dell’Occidente
democratico, attraverso il rapporto fra l’equità e l’uguaglianza.
Tanto
premesso, devono prendersi in considerazione due fattori complementari che
debbono venir enucleati da quell’importantissimo frammento della storia del
Novecento europeo che va dal 1939 al 1945, e, per l’Italia, soprattutto dal 25
luglio 43 al 25 aprile 45, che vide la società totalitaria, artefice della
guerra e delle sue nefaste conseguenze sul terreno della civiltà occidentale.
Il
primo è la reazione collettiva a tutto ciò, cioè la resistenza morale e armata
alla barbarie bellica dei totalitarismi, che, solo in Italia, costò la vita a
quasi 47 mila persone, tra uomini e donne, soprattutto giovani, immolatisi
combattendo contro i nazifascisti autori di infinite atrocità anche contro i
civili, fra i 25 mila resistenti dell’aprile 1944, saliti a 100 mila in
quell’estate, ridotti nell’inverno 44/45, ancorché sostenuti da un consistente
nucleo di civili, e saliti a 250 o 340 mila negli ultimissimi giorni di guerra.
Persone
che costituirono il tessuto fisico e morale dal quale germogliò la Costituzione
repubblicana;
ma il
fatto che la Resistenza non coinvolse la maggioranza dei quasi 50 milioni di
italiani cresciuti e vissuti sotto il regime fascista, rende del tutto
opinabile che sia stato quel tessuto a determinare il completo capovolgimento
ideale dei milioni di italiani chiamati a eleggere l’Assemblea Costituente il 2
giugno 1946.
Capovolgimento
indotto dalla rimozione del passato nella coscienza dei milioni di persone che
in quel passato avevano alimentato la loro identità.
Eppure
quella rimozione fu non solo possibile, ma di tale portata da causare un vero e
proprio balzo su un diverso e antitetico terreno ideale, sebbene in molti la
superbia, l’indifferenza e l’egoismo, o la pulsione alla trasformazione dei
rapporti di potere in modo irreversibile e contrario al mondo liberal
democratico non fossero scomparsi mai del tutto, pronti a riemergere in forme
varie e subdole, e in molti, moltissimi altri, fino a diventare maggioranze
elettorali in Stati europei come l’Ungheria e l’Italia, e oggi in USA.
Sul
punto deve rilevarsi che la rimozione opera su due piani.
Uno
scollegando il coinvolgimento individuale dalle colpe, per cui la rimozione del
fatto lava la coscienza lasciando intatte le strutture cognitive identitarie
che avevano permesso quel coinvolgimento.
Il
secondo piano è collettivo, dove le colpe della maggioranza plaudente ai regimi
non furono giuridicamente rilevanti, bensì solo subdole nella struttura morale.
Eppure politicamente rilevarono moltissimo, in modo tale che l’esserne lavate
permise una sorta di riacquisto dell’innocenza che avrebbe permesso di
accogliere i nuovi valori, o più probabilmente le conseguenze politiche del
trionfo nominale dei nuovi valori.
Rileva,
a questo punto, un fattore determinante che avrebbe permesso il lavaggio delle
coscienze, possibile su un presupposto ulteriore, e cioè che la morte di 100 o
60 milioni di esseri umani fosse percepito come un fatto “impolitico”, colto
come 100 o 60 milioni di morti individuali.
Ciò
significa che, se ogni morte violenta sfugge all’interpretazione, e se non
coglie la sua natura annichilente della razionalità, così come oggi appare
evidente a chi studia la storia di quel tempo, allora la sua negazione, cioè la
negazione della violenza connessa con queste morti, conduce alla rimozione
delle sue cause (Così Hanna Arendt, Sulla violenza, ed. Guanda 1996). Ma ancora non si è detto attraverso
quale meccanismo opera la rimozione.
Comunque
questo testimonia una seconda manifestazione dell’uccisione della verità,
ottenebrata da quella rimozione. Il che, altresì, ebbe, come si dirà,
un’ulteriore conseguenza.
Infatti,
a un certo momento nel corso successivo della Storia, quando gli eventi degli
ultimi decenni hanno reso incerti i valori capaci di fondare non la loro
proclamazione, già avvenuta a suo tempo, ma il loro effetto materiale, essendo
ancora una volta le idee a determinare i fatti e non il contrario, le
moltitudini hanno abbracciato nuove idee, antitetiche a quei valori adesso
ritenuti un ostacolo al progetto dei nuovi alfieri del mondo, i vari Orban,
Trump, Erdogan e i ducetti di casa nostra, indifferenti e ostili ai valori
sorti alla fine della guerra mondiale in antitesi all’orrore rimosso.
Sul
perché si è detto.
Sul come una simile rimozione capitale dopo
gli orrori fosse possibile nelle coscienze collettive, si ritiene trovi una
spiegazione plausibile nella seguente riflessione, essendo altrimenti non solo
quasi inspiegabile, ma contrario a ogni logica pensare che la presenza di
immani distese di cadaveri trucidati non inducesse la memoria delle moltitudini
non solo a interrogarsi sulle proprie responsabilità, ma lasciasse tracce così
ingombranti nelle coscienze e nel pensiero delle generazioni immediatamente successive,
tali da impedire ai semi di quelle scelleratezze di germogliare nuovamente.
Si
ritiene pertanto che «il mondo moderno, demitizzato e secolarizzato, (abbia)
apparentemente smesso di credere nell’età dell’oro, ma (abbia) preso a credere
nel mito del buon selvaggio, (abbia) smesso di credere nella fine del mondo, ma
(abbia) preso a credere nella fine della storia, nella società senza classi,
nell’armonia degli interessi regolati dalla semplice legge dell’economia
(Cfr. A. Roncaglia, Il mito della mano
invisibile, Laterza 2005), nella diffusione di pacifiche democrazie» (Bordoni, cit.:
154)
Ne consegue che in tutte le culture umane vi
sono tracce sia dei miti sia dei riti che vi si sono accompagnati, atteso che
«ogni tradizione che vive nei volghi dei popoli civili (può venir) ricondotta a
un rito, il rito a una credenza, la credenza a un sistema di idee.
E il
folclore par quasi che assuma il corso di un fiume che nessuna civiltà può
arginare, perché in fondo anch’esso è un aspetto di quella civiltà»
(G. Cocchiara, Prefazione a Il Ramo
d’oro di G. Frazer, Boringhieri, 1981: XXIII,).
Si
tratta cioè dei riti come azioni simboliche, la cui «percezione, intesa come
riconoscimento, percepisce ciò che dura [poiché] i riti si lasciano definire
nei termini di tecniche simboliche di accasamento: essi trasformano
“l’essere-nel mondo” (nell’accezione heideggeriana) “in un essere-a casa”.
Essi
sono nel tempo ciò che la casa è nello spazio.
Rendono
il tempo abitabile, anzi lo rendono calpestabile come una casa. Riordinano il
tempo, lo aggiustano… per cui gli uomini, malgrado la loro natura mutevole,
possono ritrovare il loro sé… cioè la loro identità»
(Byung-Chul
Han, La scomparsa dei riti, ed. Nottetempo 2021: 12-13).
Ma non solo, poiché «nelle azioni rituali
rientrano anche i sentimenti» non tanto per l’individuo isolato, ma come
«sentimento oggettivo, collettivo, impersonale» (ivi: 23).
Allora
«una svolta rituale contrassegnata dalla preminenza delle forme… ribalterebbe
il rapporto tra Interno ed Esterno, tra spirito e corpo… per cui il medium
produce il messaggio…. E le forme esteriori sortiscono effetti mentali» (ivi:
35).
Tanto
premesso, rilevato «che la morte presuppone che la vita stessa abbia una
conclusione» senza la quale «si giunge a un’addizione e a un accumulo di
infiniti dell’Eguale» per cui la vita stessa finirebbe nel momento inaspettato
e meno opportuno, «i riti di chiusura stabilizzano il luogo, producono una
mappatura cognitiva» ( ivi: 43- 44). Si tratta cioè dei «riti di iniziazione e
(dei) sacrifici rituali (che) sono atti simbolici che regolano numerose
transizioni tra la vita e la morte, (dove) l’iniziazione è una seconda nascita
che segue alla morte» (ivi: 72).
Detto
questo, un elemento ineludibile della storia umana è costituito dalla necessità
«di far piazza pulita di tutti i mali che hanno infestato un popolo» (G.
Frazer, cit. I capri espiatori pubblici: 886).
Ma non si sorrida di questa citazione, poiché
“«il 95 % dei Sapiens sulla Terra è segnata da un’endemica violenza inter e
intraspecifica … i sacrifici rituali, animali e non umani, in tutte le culture
sembrano formare il centro nevralgico della vita collettiva»
(Bordoni, cit.: 273).
Allora,
nel tentativo di comprendere non solo come sia stato possibile, nell’arco di un
tempo circoscritto in pochissimi anni (le Costituzioni liberali europee
italiane e tedesche sono del 1948 e 1949) passare da un mondo ideologico che
aveva condotto le moltitudini dall’ inneggiare alla guerra (non si contano le
lettere manoscritte in tutte le classi sociali dove si esprime il plauso verso
l’ideologia di conquista) al suo totale ripudio, ma anche all’interiorizzazione
di tale ripudio come valore condiviso, si ritiene che non poté essere
sufficiente l’orrore innescato dall’orrore, perché quel primo orrore venne
consentito dai milioni di persone che non lo considerarono affatto un orrore,
bensì un valore da perseguire.
Era
così necessario che intervenisse un fatto diverso, tale da penetrare nella
coscienza collettiva e lavarla, e permetterle così di diventare permeabile a
nuove idee, sgorgate come rito di iniziazione, mentre le migliaia di vittime
che avevano combattuto ed erano cadute contro quel “rimosso” e i combattenti
sopravvissuti subivano una sorta di progressivo isolamento sociale rischiarato
dalle celebrazioni rituali, assenti nei libri scolastici del tutto omissivi e
sempre più spesso contestate anche sul terreno della cultura.
Ebbene,
tanto premesso, è opinione di chi scrive che furono i processi di Norimberga e
di Tokio, le pubbliche esecuzioni capitali dei responsabili principali di
quegli orrori, veri e propri capri espiatori, ancorché colpevoli, e fatti come
l’esibizione dei corpi a piazzale Loreto, le epurazioni dei personaggi più
pubblicamente coinvolti nei grandi crimini e nel sistema politico che li aveva
permessi, come riti di chiusura dove le forme che li accompagnavano
determinarono una trasformazione degli spazi cognitivi, costruendo un mondo
nuovo, dove conta poco chi è e come ha vinto la partita.
Alla fine, lavate le coscienze collettive (nuova
nascita), si procedette ad accogliere idee opposte e diverse, queste sì,
elaborate da menti illuminate e visionarie, che non avevano affatto operato
tale rimozione, ma che all’opposto, fin dai primordi del sistema totalitario
trionfante, avevano sviluppato gli anticorpi cognitivi per gettare il seme del
mondo nuovo.
Alcuni
di loro non erano sopravvissuti all’orrore, ma avevano lasciato il loro
pensiero, come “Hetty Hillesum”, scrittrice olandese uccisa dai nazisti nel
1943, “Simone Weil”, morta nel 1943, la filosofa” Edith Stein,” uccisa dai
nazisti nel 1942, lo storico “Marc Bloch”, fucilato dai nazisti nel 1942, o “Carlo
Rosselli”, assassinato nel 1937 dai sicari di Mussolini, “Rosselli” che nel
1935 aveva prospettato una Costituente europea «composta da delegati eletti dai
popoli che in assoluta parità di diritti e doveri elabor(asse) la prima
Costituzione Federale Europea, nomin(asse) il primo Governo Europeo, fiss(asse)
i principi fondamentali della convivenza europea, organizzasse una forza al
servizio del nuovo diritto europeo e d(esse) vita agli Stati Uniti d’Europa».
( Cfr. Lucio Levi, Il Manifesto di Ventotene,
Mondadori 2025: 178).
Ma
furono molti, i pensatori antesignani della rinascita della civiltà europea
come gli economisti “Joseph Schumpeter” e “Karl Polany”, i filosofi “Jaques
Maritain” e “Karl Popper”, solo per citarne alcuni.
Ma
queste idee nuove hanno molte radici nel pensiero attraversato dalle categorie
del giudizio, su cui è utile spendere alcune parole, con le quali si spera di
contrastare un altro attentato alla verità perseguito da chi propugna il
pensiero unico, strumento principe di chi contesta e combatte la democrazia, e
che oggi sembra sulla strada di vincere la partita.
Si
vuol dire che così come la vita di relazione degli umani non è dominata da un
caos bellicoso nel quale ogni soggetto impugna la sua visione del mondo come
frutto degli impulsi contingenti trasformandola in una categoria del giudizio
finalizzato a espugnare quello altrui, ma, almeno in parte, utilizza categorie
coniate dalle persone che l’hanno preceduto, allo stesso modo le categorie del
giudizio necessarie, in primis alla conoscenza del mondo e, in secondo luogo a
costituire le basi cognitive dell’azione, discendono da una successione
intergenerazionale di categorie che hanno operato negli spazi cognitivi delle
generazioni che si sono succedute.
Tuttavia
le modificazioni della realtà oggettiva in cui si sono evolute le famiglie
umane nel loro concreto divenire sociale, culturale, economico, politico, hanno
agito da catalizzatori del cambiamento dal quale sono sgorgate le categorie di
giudizio, diverse e talvolta incompatibili con le precedenti, ma non per questo
capaci di trasformare le relazioni umane in un caos belligerante.
Caos
immaginario, spesso usato come pretesto dagli alfieri del c.d pensiero unico.
Per
queste ragioni è significativo evidenziare come il mondo progettato dal “Manifesto
di Ventotene”, composto da “Altiero Spinelli”, con il contributo di “Ernesto
Rossi” e l’apporto concettuale di “Eugenio Colorn”i nell’esilio del confino
nell’isola di Ventotene nel 1941, durante la guerra di conquista dei Paesi
nazifascisti Germania e Italia, è, insieme con il Costituzionalismo, un mondo
edificabile sul presupposto di alcune verità di base, come i diritti fondamentali
richiamati nell’art. 2 della nostra Costituzione, che trovano la loro
giustificazione nel lungo percorso ideale che prende le mosse, quanto meno,
dall’Illuminismo.
E si
tratta di un percorso ideale e non ideologico, poiché è attraversato da un
ampio e articolato dibattito, spesso conflittuale, sia di tipo giuridico (si pensi alla Costituzione americana
e agli 85 testi che compongono i Federalist Papers, l’amplissimo primo commento
di quella Costituzione del 1787), sia filosofico, sia letterario.
Si
pensi solo al XVIII secolo col “Candide di Voltaire” o al “Tristram Shandy” di
Stern, o nel ‘900 a libri straordinari come” Vita e Destino” di Vassily
Grossman, e, per quanto ci riguarda, ma solo a titolo di esempio del tutto
insufficiente, al “Il sentiero dei nidi di ragno” di Calvino o a “La cognizione
del dolor”e di Gadda, o” Il giardino dei Finzi
Contini “di Bassani o” Il partigiano Johnny” di Beppe Fenoglio.
Non si
stupisca il lettore di questo accostamento, poiché la funzione della
letteratura, lungi dall’essere mero veicolo di bellezza estetica fine a sé
stessa, quando non mistifica il pensiero, pur non svolgendo la funzione
informativa sulla realtà, compito della saggistica che la interpreta, svolge
un’altra operazione. La letteratura infatti crea una realtà analoga a quella
concreta, e lo fa raccontando fatti veri o inventati, e lo fa attraverso la
mente dei suoi personaggi o dell’io narrante, affidandosi al lettore affinché
usi della sua buona fede per decodificarla. Ma certo non si occupa di
decodificare i fatti, né trasmette un’interpretazione. Viceversa mette il
lettore non nella posizione di testimone del pensiero, ma in quella di creatore
del pensiero, e gli chiede di attraversare, usando il proprio pensiero indotto
dalla rappresentazione di un pensiero altrui, quello dei personaggi appunto,
quella realtà creata per mezzo del pensiero raccontato nel testo. E quando
questo accade, nel lettore avviene un’epifania, che trasforma la conoscenza in
comprensione.
Dunque
il percorso ideale che condusse alla sorgente del mondo nuovo sgorgata sulle
macerie rimosse della grande tragedia collettiva, aveva il compito di indagare
la realtà in modo onnicomprensivo, offrendo all’intelligenza umana una risposta
condivisibile sul piano della logica razionale e della morale.
Si
vedrà poi come tutto ciò, oggi, si stia avviando allo sgretolamento, ma per
ora, e siamo agli albori della nuova civiltà, nasce il Costituzionalismo che
fonda i suoi valori. Argomento sul quale è opportuno spendere alcune parole,
poiché il Costituzionalismo, come movimento culturale sull’elaborazione del
diritto è alternativo alla riflessione dottrinaria e istituzionale della
codificazione del diritto civile, privatistico, fin dall’epoca dei
giureconsulti romani, così sviluppando i concetti dei diritti soggettivi di
tipo privatistico, dalla proprietà al commercio, dalle successioni alle
obbligazioni, dalla famiglia alla tutela dei diritti “intra cives”.
Ebbene,
il Costituzionalismo è molto più recente e procede sul terreno del rapporto tra
la persona e/o il cittadino e lo Stato, trasferendo nei concetti privatistici
come sopra intesi, concetti di natura filosofica come la libertà e
l’uguaglianza, ma in una visione dello Stato intessuto della necessità di
rigenerare la relazione tra diritti e doveri nei rapporti reciproci delle
persone, e tra i diritti e i doveri del soggetto pubblico con la
persona/cittadino.
E ciò
in modo nuovo sia rispetto al mondo liberale ottocentesco, sia diametralmente
opposto a quello totalitario.
Si
intende perciò il mondo nuovo, ante visto da persone come Altiero Spinelli o
Carlo Rosselli, che all’improvviso si affaccia offrendo all’attenzione dei
popoli un’autentica invenzione ideale, mentre afferma l’esistenza di una cosa
che aveva avuto il suo antesignano nelle Costituzioni liberali Americana del
1787 e Francese del 1793, cioè il mosaico giuridico dei diritti fondamentali,
non coincidenti sul piano ontologico coi diritti naturali, differenza
sostanziale di cui verrà intimamente pervaso il Costituzionalismo novecentesco,
così come vennero proclamati il 10 dicembre 1948 a Parigi dall’Assemblea
Generale delle N.U. accompagnati da due scritti di Simone Weil.
Si
tratta dunque di un binario, cioè del sentiero sul quale si avvierà il pensiero
occidentale, dove i principi della libertà e dell’uguaglianza, calpestati dallo
stivale chiodato dei totalitarismi insieme con la vita fisica e spirituale
degli esseri umani discriminati, vessati e spesso sterminati per la loro
estraneità, asserita come irriducibile e pericolosa ostilità al popolo
massificato e inquadrato sotto i vessilli del potere costituito, acquisteranno
nuova vita.
Ma
questa operazione, che squarciò le tenebre e venne accolta con entusiasmo, in
quanto veicolo di liberazione dalle catene materiali e spirituali, e diffidenza
per le problematiche che comportava, non fu affatto semplice, e richiese
l’intervento e lo sforzo delle menti più illuminate del tempo.
Ora,
quando si parla di menti illuminate, si intendono le persone che avevano
attraversato la tempesta e le tenebre senza cedere alle sirene del potere.
E, se
si vuol porre l’attenzione all’Assemblea Costituente nominata con le elezioni
del 1946 in Italia (le prime a suffragio universale nella parità fra uomini e
donne), si vede che si tratta di persone quasi tutte nate o nel XIX secolo o
nei primi anni del XX, che stavano raggiungendo o avevano oltrepassato la mezza
età (una media tra i 40 e i 76 anni) e di alcuni, pochi, giovani, che dal
pensiero di queste e dalle esperienze traumatizzanti della guerra e della
Resistenza, dove viceversa, sì, quei 100 mila giovani avevano lottato
infiammati dall’indignazione per la ferocia del nemico e ansiosi di aprire la
via di un mondo nuovo, avevano ricavato l’impulso a proseguire il cammino su
quel sentiero.
Certo
non frutto dei miti giovanilistici del futurismo.
Il che
però non è affatto un’osservazione banale, perché in quel momento storico, per
questo motivo, si costruisce un legame intergenerazionale che mostrerà i suoi
frutti nel lungo periodo, quando le Costituzioni (in specie la nostra) dovranno
affrontare la loro crescita come quella di un albero, ma con la differenza
sostanziale che, mentre quella dell’albero è endogena, quella della
Costituzione è esogena.
Si
tratta cioè dei loro necessari emendamenti, che nella nostra Costituzione si
chiama “revisione”, e che non va confusa con l’abbattimento dell’albero e la
successiva piantumazione, cioè con la radicalità propria del pensiero giovanile
o di quello eversivo (parola che non piace agli eversori di casa nostra,
ferocemente ancorati ai loro progetti camuffati attraverso l’assassinio della
verità) volto alla cancellazione dell’ordine costituzionale esistente, tipico
del “voltar pagina”, nel quale consiste, oggi, il crollo della nostra famiglia
felice.
E si
tratta soprattutto dell’interpretazione del contenuto costituzionale, aperta
alla ricerca di nuovi significati, operazione che per comodità viene indicata
in questa sede come “processo larvatamente emendativo”.
Tuttavia
questo discorso non è affrontabile in questa sede per ragioni di spazio e
perché condurrebbe a indagare non solo in cosa consistette l’edificazione delle
nuove istituzioni nazionali (dal SSN al CSM alle figure del decentramento
amministrativo solo per fare alcuni esempi) e internazionali (dall’ONU alla UE,
dalle varie Corti, come la CGI, la CGUE, la CEDU, la CPI, la FAO…) ma il loro
funzionamento e la loro ragion d’essere.
Si pensi, a mero titolo di esempio, al perché
del sistema bicamerale, e della sua composizione e ai criteri per l’elezione
dei suoi membri, alla ragioni per cui la Costituzione ne prevede precise
modalità anche quanto al rapporto tra elettori ed eletti, predisposto contro
errori e orrori, e alle ragioni superficiali o callide che spingevano al suo
smantellamento o al suo svuotamento operativo, al progetto di premierato che,
in nome di maggior stabilità, distruggerebbe i check and balances.
E tutto ciò attraverso il tradimento del patto
intergenerazionale intrinseco all’edificazione del sistema liberale
dell’Occidente.
Detto
questo, è opportuno vedere meglio in cosa consistano le Costituzioni inventate
dal Liberalismo intese come patti intergenerazionali. Si tratta di un progetto
del Futuro, per cui si parte dall’istituzione di binari concettuali e normativi
per delineare un percorso che, nel prosieguo, affronterà il territorio
sconosciuto dell’avvenire attraverso un processo emendativo non arbitrario, e
diverso da quello Costituente, perché «la singola parte non può essere alla
pari con il tutto».
(Alessandro Ferrara, Sovranità
intergenerazionale, ed. Società aperta 2024: 30-31 e ss).
Questo
perché, se il potere emendativo fosse pari a quello costituente, contraddirebbe
la promessa originaria della Costituzione, cioè della reciprocità orizzontale
sulla cui base si fonda la promessa originaria di una società giusta e stabile,
pur ammettendo una reciprocità verticale tra le generazioni libere e uguali di
uno stesso popolo, purché «lo schema di cooperazione fissato rimanga fermo nel
tempo» (ivi:
442 e ss).
Purtroppo
i populisti eversori dei nostri tempi non la pensano così, per cui, sebbene le
Costituzioni appartengano a tutti in successione, possono venir trasformate con
tre diverse conseguenze.
La prima è che, se le generazioni successive
possono farne ciò che vogliono, viene meno la legittimazione originaria
scolpita nella Carta.
Con la seconda viene cancellata l’unicità
politica della Polis che ha inscritto in Costituzione i principi politici
fondamentali.
Nella
terza i successori potranno “legittimamente” decidere di limitare la libertà e
i diritti anche delle generazioni future.
Tanto
premesso, viceversa, la legittimità iniziale, cioè la sua verità, per non venir
uccisa dal progetto eversivo, dev’essere coerente tra tutto l’impianto e i
dettagli della Carta da un lato, e una concezione politica della giustizia come
libertà ed equità, mentre un cambio di regime cancellerebbe questi presupposti.
Viene
così smascherata la menzogna degli assassini della verità costituzionale, che
raccontano la fola dell’irrilevanza della distruzione di alcuni dettagli,
finalizzata a ottenerne un miglioramento funzionale, per cui, senza addentrarsi
nelle problematiche della distinzione fra Costituzione materiale e formale,
usata artatamente per i fini eversivi, e falsandone la natura, è necessario
focalizzare l’attenzione su quale sia la verità della Costituzione oggi in
pericolo mortale.
Infatti,
dopo la Seconda guerra mondiale i popoli, e nella specie il nostro, avevano
assunto su di sé il potere costituente, diventando qualcosa che prima non
erano, e che ora rischiano di tornare a essere.
Ma per
farlo dovevano procedere su due piani.
Il
primo consisteva nel dare priorità a fini che non potevano essere perseguiti
simultaneamente, cioè affrontando il tema di immaginare una società politica
prefigurata, in modo non molto dissimile dal contenuto rivoluzionario del
discorso della montagna di Gesù di Nazareth nel vangelo secondo Matteo, e si
perdoni l’apparente irriverenza, ma che aveva lo scopo di mostrare ai suoi
destinatari una strada percorribile nella coscienza e nella condotta di un
popolo che fino a quel momento ne aveva percorsa una diversa.
Nelle
parole di quel Gesù, che avevano una forza costituente, ma nessuna portata, si
va dalla difesa dell’adultera contro la pena di morte, alla beatificazione
degli ultimi, alla solidarietà con lo straniero spesso nemico, contenuta nella
parabola del buon samaritano, a un nuovo concetto di parità tra uomo e donna.
Ma con
una differenza sostanziale, e cioè che Gesù di Nazareth è un uno che parla ai
molti, offrendo loro una visione immaginifica del futuro, (la società
prefigurata, appunto), mentre il potere costituente di cui ci si occupa in questa
sede, è, nel secondo piano preso in esame, quello di un’azione basata su regole
costitutive autoimposte.
Per
fare questo, allora, il popolo si autorappresenta come portatore di un Ethos
con caratteristiche politiche, che non ha ancora ma che attecchiscono sul piano
morale delle coscienze collettive lavate e rese innocenti dalla rimozione degli
orrori.
Cioè attraverso l’impegno auto assunto di
condividere gli impegni nascenti da questo impegno, che è l’impegno
costituente, che dev’essere ampiamente condiviso dalla popolazione per
territorio, lingua e cultura reciproca.
Proprio come avvenne attraverso l’elezione
dell’Assemblea Costituente italiana il 2 giugno 1946.
Così
nacque la Costituzione, incorporando i termini della cooperazione costitutiva,
che a sua volta trasformerà l’ethos in modo coerente con la Costituzione.
Ma a
questo punto diventa necessario un soggetto in grado di rappresentare il
contenuto e il significato della Costituzione davanti al popolo attuale e a
quello futuro, fornendo a entrambi la ratio di quell’oggetto fondativo del
nuovo popolo e della nuova morale.
Si
tratta della Corte Costituzionale o della Corte Suprema che supera la
contingenza delle vicende elettorali.
Si pensi in proposito alla nostra Costituzione
che prevedendo la non emendabilità della Repubblica come tale e vietando la
ricostituzione del partito fascista, affida a questo soggetto il compito, tra
gli altri, di salvaguardia della legalità repubblicana.
La
Corte Costituzionale allora è il soggetto a cui viene affidato il potere
interpretativo della Costituzione.
E tale
potere nasce da un mandato politico che entra in relazione di causa/effetto con
la Democrazia Liberale, cosicché viene esercitato cercando di allineare la
produzione legislativa alle applicazioni originarie dei significati incorporati
nella norma costituzionale, ma non sui presupposti cognitivi espressi dalle
opinioni di chi contesta la portata della Costituzione.
Cioè:
il potere interpretativo deve valutare ragionevolmente e razionalmente quanto
le nuove idee virino verso una riformulazione degli impegni inscritti in
Costituzione.
Ne
consegue che il rapporto tra Corte Costituzionale e Democrazia verte su quale
potere venga riconosciuto dal segmento vivente della popolazione che vuole la
nuova interpretazione, su quanto il controllo giurisdizionale verifichi la
volontà dell’elettorato, se attraverso la questione sollevata da chi ne ha
investito la Corte si riformula il dibattito politico rispetto alla
contrattazione o al compromesso.
E gli effetti ultimi sono che il giudizio
espresso dalla Corte valorizza l’autenticità della Carta, mentre gli eventuali
nuovi significati su vecchi standard e principi mostrano la vitalità della
Società dei cittadini prefigurata in Costituzione, riunendo il passato al
presente e al futuro (Così in Ferrara, cit.) dovendo tenere ben fermo l’assunto
che questo potere interpretativo non può in alcun modo trasformare la
Costituzione, sebbene gli assassini della verità cerchino di avere buon gioco
raccontando il contrario e cercando di modificarne l’assetto, come ben si può
notare nell’uso della nomina dei giudici della Corte Suprema da parte del
potere presidenziale americano.
Non
diversamente, sebbene in modo analogo e speculare, sul piano dei rapporti
internazionali sui quali doveva prosperare il mondo occidentale.
E infatti un discorso analogo può farsi, nella
UE, per quanto attiene alla natura e alla funzione della sua Corte di Giustizia
(CGUE) le cui decisioni hanno efficacia di legge negli ordinamenti degli Stati
membri, purché non ne violino i principi fondamentali delle loro Costituzioni,
che ne riconoscono la validità.
E fu
così che venne concepita l’idea della famiglia felice, e fu quell’idea a
spingere il presidente francese Mitterand e il presidente della Repubblica
federale tedesca Helmut Kohl a tenersi per mano e inginocchiarsi di fronte al
monumento ai caduti del conflitto che vide la Francia e la Germania combattere
ferocemente l’una contro l’altra.
Quell’incontro
era silenziosamente indotto dalla condivisione del concetto di violenza
distinto dal potere, quando necessita di strumenti che agiscono nel rapporto
mezzo/fine, e i due statisti si conciliarono in nome della necessità morale di
evitare che il fine rischi di essere sopraffatto dai mezzi, come accadde nelle
vicende tragiche dell’Europa.
Per lo
stesso motivo venne concepita la CEE e poi la UE, e poiché il fine non è mai
del tutto prevedibile, per cui i mezzi diventano più importanti del fine, i
mezzi della UE divennero “il diritto” elaborato verso un fine solo abbozzato
nell’atto fondativo di Roma del 1957, sottoscritto dagli Stati europei, poiché
il risultato delle azioni (messe in atto coi mezzi) va spesso al di là delle
previsioni,
(H.
Arendt, Sulla violenza, cit.), così come la violenza del XX secolo, dominata dall’arbitrio,
foriero di menzogna, ha portato ad Auschwitz e alla Bomba Atomica.
Infatti
la guerra, che era stata il mezzo ultimo per intervenire negli affari
internazionali, dopo il 1920, con la” Società delle Nazioni”, ci si illuse che
venisse impedita dal binomio libertà/sovranità assolutamente separate, così che
il tempo in cui la sovranità dello Stato Nazione era tale da interferire nella
libertà degli altri Stati, a seconda del mezzo utilizzabile, incontrava il limite
della sovranità altrui.
Ebbene,
questa separazione era stata all’origine dell’illusione liberal democratica,
per cui i trattati avevano forza vincolante sul potere sovrano, imponendo il
ripudio del principio “non c’è alternativa alla vittoria”.
Ma
nella prima metà del XX secolo erano intervenuti i fatti casuali e gli
avvenimenti che avevano infranto le previsioni ideologiche, quelle che si
difendevano scartando gli eventi catalogati come casuali, quelli che Lev
Trotsky metteva nella “Pattumiera della Storia”.
Cioè
con un bel trucco necessario a rinforzare la teoria ideologica, per cui la
guerra era il sistema fondamentale per piegare a sé i sistemi economici, le
filosofie politiche e i corpora juris.
Insomma
un uso sapiente della menzogna con cui assassinare la verità, cioè il potere
del singolo Stato, contro il quale venne inventata la Comunità europea, basata
su un principio di civiltà incardinata sul Diritto, sulla Giustizia e sulle
Corti. Per quanto inconsapevolmente, i due statisti che si tenevano per mano
avevano fatto propria l’idea che la civilizzazione consiste anche
nell’introiezione dell’aggressività e del senso di colpa determinato dalla
sanzione sociale, sulla quale agisce, purtroppo, l’assassinio della verità da
parte dei leader populisti che trasformano la morale, così come seppero fare
Hitler, Stalin e Mussolini e i loro epigoni del tempo presente, spingendo gli
esseri umani ad abbandonarsi a ogni tipo di crudeltà.
Eppure,
ciononostante, nel tessuto costituzionale e in quello delle istituzioni
internazionali si annidano i due virus distruttivi sin dalla loro nascita,
intrinsecamente connessi con la ragione di quel tessuto.
Di uno
se ne è già fatto cenno.
È l’idea di equità che, come tale, è
intrinseca al progetto della moralità costituzionale, magistralmente elaborato
dal filosofo statunitense “John Rawls “nel suo “A Theory of Justice”, dove
Rawls specifica i tratti fondamentali di una interpretazione della giustizia
sociale su due principi fondamentali.
Il
primo, il “principio di libertà”, prevede un equale sistema delle libertà
fondamentali, e il secondo, il “principio di differenza”, regola la
distribuzione dei costi e dei benefici della cooperazione sociale, e prescrive
che l’unica ineguaglianza giustificabile dalla Costituzione riguarda l’accesso
ai beni sociali primari che devono andare a vantaggio dei gruppi e/o delle
persone meno avvantaggiati nella società in presenza di un’eguale uguaglianza
delle opportunità.
Ne
consegue che il perseguimento di equalizzare il valore della libertà, intesa
come “positiva”, cioè libertà “di”, viene dalla necessità di mantenere la
promessa di uguale libertà per chiunque, e ciò attraverso il principio di
differenza, sensibile agli effetti moralmente arbitrari sia della c.d. lotteria
sociale, sia della c.d. lotteria naturale che opera la diversa distribuzione
dei talenti e delle capacità.
Il che
presuppone «uno schema di reciprocità nel tempo».
(Salvatore
Veca,” La barca di Neurath, l’idea di equità”, ed. Della Normale 2025: 74).
Ora,
non essendo questa la sede per analizzare i criteri distributivi descritti
nella Theory of Justice e riformulati successivamente da Rawls in Giustizia
come equità (Ed. Feltrinelli 2002: 17 e ss) partendo dal c.d. «esperimento
mentale della posizione originaria» per giungere alla “Giustificazione
pubblica” di tali assunti, il punto focale che qui interessa, sta nella
preoccupazione di «preservare la cooperazione sociale e politica tra cittadini
liberi e uguali» (Rawls, cit.: 32) attraverso un «equilibrio cognitivo di tipo
riflessivo».
Ebbene,
poiché «nella realtà i cittadini hanno idee religiose, filosofiche, morali
spesso contrastanti», come riconosce lo stesso Rawls (ivi: 37), il virus a cui
si è accennato viene dal fatto che il pluralismo delle persone e/o dei gruppi
non sia affatto “ragionevole”,
ma proliferi nel brodo identitario, alimentato
proprio da chi quel progetto costituzionale equo, giusto e ragionevole vuole
distruggere.
Ma non solo rilevano queste differenti idee,
anche le differenze linguistiche, politiche e di genere incidono grandemente
sui sentimenti identitari, che divampano quando vengono alimentati, ad esempio,
dalle celebrazioni di varie fome di eredità culturali, con l’effetto che la
molteplicità delle identità, quando contrastano tra loro all’interno della
stessa categoria, come la cittadinanza, o fra diverse categorie, come la
professione, la classe sociale o il genere, attraverso diverse fedeltà di
gruppo, possono entrare in conflitto e in periodi di pace suscitare diversi
giochi di alienazione, ma quando interviene la guerra o un radicale mutamento
di morale, allora le scelte dei comportamenti indotti «da rappresentazioni
distorte delle persone appartenenti a una categoria diversa e l’insistenza sul
fatto che quelle caratteristiche distorte siano i soli aspetti rilevanti
dell’identità delle persone prese di mira… possono essere foriere di violenza».
(Amartya
Sen, Identità e violenza, Laterza 2006: 30).
Questo
perché, con un’adeguata dose di istigazione, «un sentimento di identità con un
gruppo di persone può essere trasformato in un’arma potentissima per esercitare
(appunto) violenza su un altro gruppo» (Sen, cit. :XIII).
Ciò
soprattutto quando viene indotta ad accogliere un erroneo criterio di
causalità, su cui operano quelli che si sono qui definiti come gli assassini
della verità.
Infatti,
quando si prendono in esame eventi verificatisi in successione e si cerca di
spiegarli, si ricorre al criterio di causalità, che tuttavia è molto più
complesso di quanto appaia a prima vista. Emblematico sul punto è l’art. 41 del
nostro Codice penale, intitolato “concorso di cause”, che recita: «Il concorso
di cause preesistenti o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione
(incriminata) non esclude il rapporto di causalità tra l’azione o l’omissione e
l’evento [e] le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando
sono state da sole sufficienti a determinare l’evento».
Né
vale l’illusione della conoscenza reciproca, come sostenne la scrittrice
Christa Wolf alla celebrazione dell’ 80mo anniversario della nascita di
Heinrich Boll, quando attribuì «alla scarsa conoscenza ed estraneità» da parte
dei popoli delle due Germanie ante unificazione, «divise dall’impossibilità di
immedesimarsi gli uni negli altri» e superare così le divisioni e le ostilità
reciproche.
(C. Wolf, Fraternità difficile, ed
e/o, 1999: 11).
Si
tratta della c.d “trappola identitaria” le cui conseguenze sono ben descritte
da Sen ricordando gli eventi tragici a cui assistette in gioventù al tempo
della separazione dell’India dal Pakistan, quando
«Gli istigatori politici che spingevano al
massacro, in nome di quella che ognuna delle parti in campo definiva la nostra
gente, riuscirono a convincere molti pacifici individui di entrambe le comunità
a trasformarsi in criminali accaniti, inducendoli a concepire sé stessi
soltanto e unicamente come induisti o musulmani, col dovere di scatenare la
vendetta sull’altra comunità.
Non
come asiatici, come membri della razza umana» (Sen. cit.:175).
Detto
questo, non c’è dubbio che l’universalità connessa con la dichiarazione dei
diritti umani si scontra con il fenomeno della disuguaglianza di fatto, che non
viene meno solo perché si afferma la pari dignità di tutti. Infatti le
Costituzioni liberal solidaristiche del secondo dopoguerra e chi, come Rawls,
decise di affrontare il problema della disuguaglianza come lesione della
giustizia, affrontarono la questione dell’equità.
Così
fa la nostra Costituzione all’articolo 3, dove afferma che «è compito della
Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitando
di fatto la libertà e l’uguaglianza, impediscono il pieno sviluppo della
persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
E lo
fa subito dopo aver richiamato l’universalismo dei diritti all’articolo 2: «La
Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come
singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e
richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica,
economica e sociale».
Ma non
solo: il problema viene affrontato anche trasversalmente sul piano temporale,
dove la proiezione nel futuro dell’attuazione costituzionale avviene attraverso
il potere larvatamente emendativo, nel senso di integrare il dettato
costituzionale attraverso l’allargamento della portata dei principi contenuti
nella Carta.
Il che
è avvenuto affrontando il tema dei diritti e delle libertà che via via si
affacciavano sul terreno della costruzione della società prefigurata dalla
Carta.
E
molti sono i principi di diritto che vengono progressivamente assunti come
mattoni di tale società prefigurata nella Carta.
Si pensi, ad esempio, al riconoscimento del diritto
all’obiezione di coscienza, al diritto alla riservatezza, alla propria
immagine, alla libertà di informazione, al diritto ai segni distintivi della
personalità, al diritto a libere relazioni omosessuali, alla libertà morale
come libera determinazione della volontà, alla capacità negoziale, al diritto
al riconoscimento della personalità giuridica per gruppi e associazioni di
fatto.
Ma i
casi sono molto più numerosi.
Eppure
tutto ciò non è stato sufficiente per garantire il totale successo della
società edificata sui presupposti della Costituzione, in parte perché il
fenomeno delle diseguaglianze non attiene solo agli individui, le cui istanze e
attese possono più o meno radicalmente venir soddisfatte dalla larvata
emendabilità dell’impianto costituzionale, in modo tale da sfrondare la
resistenza degli interessi ad esse contrarie, così come si può cogliere dalle pronunce della Giustizia ordinaria e
amministrativa che solo le sentenze della Corte Costituzionale hanno reso
inefficaci, e in parte perché la funzione “emendativa” ha avuto scarsa
attenzione ai gruppi nei quali si riconoscono gli individui portatori degli
interessi in gioco (Questione presente nel dibattito dei costituzionalisti).
E
questo perché le sentenze della Giustizia ordinaria e amministrativa, poi
divenute inefficaci, erano l’effetto del potere di gruppi di interesse
ideologici come quelli religiosi o politici o economici, confluiti spesso nelle
aggregazioni politiche contrarie al processo attuativo.
Ne
consegue che l’insufficienza di questo processo larvatamente emendativo viene
accolta con ostilità proprio dai gruppi che esprimono quelle istanze, e che per
questo motivo «rigettano valori universali e regolamenti come la libertà di
parola e le pari opportunità, considerandole semplici distrazioni che mirano a
nascondere e perpetuare l’emarginazione delle minoranze… (e) per questo puntano
sulle varie identità di gruppo, insistendo per metterle al centro sia della
nostra (alias famiglia felice) visione del mondo, sia della nostra percezione
di come si dovrebbe agire al suo interno» (Yasha Mounk, La trappola identitaria,
Feltrinelli 2023: 19).
Da lì,
alla nascita e alla crescita di un’enfasi sulle categorie identitarie come
razza, genere e orientamento sessuale il passo è breve, tanto quanto quello di
porsi in posizione antitetica e di scontro sia verso chi proclama i valori
universalistici considerati una menzogna, sia verso chi si pone come portatore
di identità avverse.
Sull’altro
lato della barricata l’atteggiamento è specularmente identico, e ne discende
una polarizzazione del tutto antitetica al progetto costituzionale, ostacolato
dalle ideologie di estrema destra, «perché spingono i loro seguaci a dare più
valore al gruppo di appartenenza che non ai diritti degli altri, o ai principi
universali di solidarietà umana» (Mounk, cit: 21).
Su
questo fenomeno sociopolitico così complesso si è innestato un fattore
culturale frutto della rivoluzione informatica, che è stato determinante per la
crescita esponenziale del virus inscritto nel principio costituzionale
dell’equità.
Si tratta della gigantesca e inarrestabile
propagazione in senso verticale, cioè nella sempre maggior sofisticazione e
potenza degli strumenti tecnologici in questione e della scienza che vi si
accompagna.
In
senso orizzontale si tratta del raggiungimento di sterminate moltitudini, ormai
nella misura dei miliardi di individui, avviati a diventare incapaci di
elaborare barriere cognitive efficaci contro gli effetti di questa pandemia
scientifica sul terreno della comunicazione e dell’informazione, che ha finito
per causare il trionfo di quella che “Yascha Mounk” ha definito “sintesi
identitaria”, come «prodotto di un insieme di influenze intellettuali, quali
post modernismo, post colonialismo e teoria critica della razza (che) può
essere messa al servizio di varie cause politiche, dal rifiuto radicale del
capitalismo alla tacita alleanza con l’America (di Trump)» (Mounk, cit.: 17).
Questo
è stato possibile perché la c.d. rivoluzione informatica è stata il veicolo di
una vera e propria rivoluzione sociale, che ha comportato la scoperta e/o la
nascita di nuove identità sociali che si sono innestate o hanno affiancato o si
sono integrate in quelle identitarie, attraverso nuove semantiche e nuove
categorie valoriali, che si sono alimentate l’un l’altra attraverso la rete
sociale del web.
Ma ciò
è accaduto non solo per queste ragioni, poiché la caratteristica del fenomeno,
per via dell’assenza dell’interazione gestuale tra i soggetti, eliminando il
face to face mimico, ha comportato una sorta di analfabetismo emotivo e ha
creato una sorta di irrealtà manipolabile dall’uso dell’interfaccia dei sistemi
informatici, nuove modalità di comportamenti interattivi all’interno delle reti
sociali, alterando gli schemi cognitivi e sociali utilizzati dalle persone
cresciute nella consuetudine dei rapporti fondati sul riconoscimento e il
rapporto personale nello scambio razionale delle informazioni e delle opinioni.
Infatti
«i social media, per la loro capacità di strutturare l’esperienza interattiva,
creano attraverso l’uso, schemi mentali (permettendo) all’utente esperto di
simulare mentalmente le diverse possibilità di azione del medium,
consentendogli di usarlo intuitivamente senza pensare».
Si tratta cioè dell’«interrelata che permette
di far entrare il mondo digitale nel mondo off line e viceversa (e/o) di
modificare l’esperienza e l’identità sociale in maniera totalmente nuova
rispetto al passato» (Giuseppe Riva, I Social network, Il Mulino 2016:38).
Questo perché «Il mezzo digitale incarna
rappresentazione e auto esibizione (…) funzionando da specchio gratificante
della propria immagine e da megafono per amplificare la propria platea attraverso il consenso e la sua ricerca» (W. Quattrociocchi e A. Vicini,
Liberi di crederci, ed. Codice, 2018: 65).
Tutto
ciò scardina il lungo percorso ideale, iniziato nel XVIII secolo e proseguito
sino a due decenni fa, che aveva come obiettivo di indagare la realtà in modo
onnicomprensivo offrendo all’intelligenza umana una risposta condivisibile sul
piano razionale e morale.
Così questo rigurgito del suo opposto opera
sul piano cognitivo, in modo tale da affascinare il bisogno di semplificazione
delle moltitudini, trasforma in realtà l’assunto che non esistono i fatti ma
solo le loro interpretazioni, e apre la via maestra per sconfessare quel
percorso bisecolare.
Invero
non si tratta di un fenomeno del tutto nuovo, ma la novità consiste nella sua
diffusione planetaria, poiché l’assunto che non esistono i fatti aveva già
avuto come corollario che la verità era inconoscibile alle masse, di cui si
screditava la razionalità, ricordando ad esempio le teorie genetiche marxiste
di Trofim Denisovic Lysenko.
Tuttavia il fenomeno che qui ci occupa, che ha
avuto come riflesso l’ascesa delle destre illiberali e il crollo della fiducia
nel mondo democratico della nostra famiglia felice, discende dal secondo virus
presente nel tessuto costituzionale come struttura ideale fondativa dello
stesso, e quindi difficilmente emendabile.
Ma
prima di prenderlo in esame, è necessario spendere alcune parole sul corollario
che discende dall’assunto di verità circa l’inesistenza dei fatti ma solo della
loro interpretazione, che ha trovato nella rete dei social non solo la strada
della sua diffusione, ma della sua presa sulle coscienze. Si tratta della
disinformazione, dei suoi creatori, delle modalità e dei mezzi usati per
amplificarla, e dei suoi effetti.
Detto
questo bisogna chiarire che il presupposto necessario per proseguire l’indagine
senza smarrirsi, sta nella comprensione di un dato di realtà, cioè nella
dicotomia tra la semplificazione dell’argomentazione e la sua complessità, dove
la prima, eliminando dal focus una congerie di oggetti, se rende più facile la
percezione del tutto, inteso come meccanismo fenomenologico in continuo
divenire, di cui gli esseri umani sono soggetti attivi e passivi, rischia di
non cogliere ciò che rende riconoscibili le sue ragioni e le sue cause, talché
la risposta all’indagine semplificata si riduce all’uso rituale dei miti, quali
lo scontro di civiltà, l’antitesi tra Capitalismo e non Capitalismo, la
credenza nelle fedi escatologiche, l’assunto che ci sia una e una sola causa
del tutto. Ebbene, tutto ciò è connesso con la disinformazione.
Sull’altro
lato sta il garbuglio dei fatti visti nell’intrico delle relazioni del pensiero
attraverso lo scambio delle opinioni sul divenire della Storia, in specie
contemporanea, dove giganteggia la necessità della selezione, così come
specifica E. Carr in Sei lezioni sulla storia (Einaudi 1966).
Tuttavia non si può fare a meno di penetrare
in questo garbuglio senza precipitare nell’abisso degli abbagli cognitivi.
Anzi,
per potervisi districare riducendone le parti in oggetti maneggevoli sui quali
ragionare razionalmente, bisogna ricorrere all’intermediario, all’esperto che
affronta la complessità di un fenomeno con la sua competenza, che deve essere
verificabile, e i cui giudizi possono venir giudicati esaminandone il percorso
logico e razionale.
Ebbene,
la disinformazione parte da un presupposto diverso, quello della
“disintermediazione” (Quattrociocchi, Vicini cit.: 26), frutto dell’abilità di chi esalta
il trionfo della persona qualunque sull’élite tradizionale colonizzando i suoi
spazi cognitivi con l’uso sapiente del web, il cui obiettivo «non è solo quello
di indurre o mettere in discussione alcuni fatti particolari… ma di erodere la
fiducia nei detentori della verità, non inducendo a credere in una falsità, ma
a diffidare e talvolta odiare chiunque non creda a sua volta a quella stessa
falsità» come evidenziato dagli studi sulla comunicazione attraverso l’esame
del debunking, cioè il ripristinare l’esattezza dei fatti, e la polarizzazione
(Lee McIntyre, Disinformazione, ed Utet 2023: 16).
Il che comporta «un rischio globale tecnologico e
geopolitico che va dal terrorismo ai cyber attacchi al fallimento della
governance globale» (Quattrociocchi, Vicini, cit.: 29).
Allora
centrale in questo lavoro è la questione del negazionismo strategico, il cui
obiettivo politico e ideologico, fomentando la sfiducia, è di uccidere la
verità attraverso convinzioni negazioniste che non si basano sui fatti, ma sono
radicate nell’identità di chi le professa (McIntyre, cit.:15), dove il
conformismo sociale, che giganteggia nel web, ha indotto milioni di persone a
credere nel complotto sui vaccini anti Covid, a quelli elettorali in USA, a
quelli sulla sostituzione etnica in Europa e in Italia, ad aggredire
l’informazione scientifica e le basi stesse della democrazia, atteso che la
democrazia e il principio di uguaglianza è fondato sul libero accesso alla
conoscenza, a partire da una corretta descrizione del mondo, o delle cose come
stanno, per rimandare a ciò che deve o dovrebbe essere e appartiene al mondo
dei valori, poiché «giudicare un’istituzione come democratica significa
valutarla in modo favorevole rispetto a organizzazioni statali di tipo
dittatoriale che, ad esempio, pratichino sistematicamente la tortura e vietino
la libertà di parola e di stampa» (M Dorato, Disinformazione scientifica e democrazia, ed
Cortina 2023: 20).
Viceversa
il negazionismo strategico funziona selezionando accuratamente le prove utili
ai suoi fini, come la manipolazione, attraverso gruppi di falsi esperti, delle
statistiche e dei dati, omettendo quelli contrari, che siano sulle conseguenze
del Covid, sul Cambiamento climatico, sui reati commessi dai migranti, sui dati
economici; costruendo teorie del complotto, elettorale o pandemico o di
qualsiasi altra natura, religiosa, economica, bellica, culturale, linguistica,
di genere; attribuendo ai fatti qualità fasulle, come la natura pacifica degli
assalitori di Capital Hill, armati di telefonini per i self, invece che di
corde per impiccare Mike Pence e Nancy Pelosi come fu accertato; e i morti di
quell’evento lo provano.
Ma la
cosa paradossale è che questo mercato delle idee avvenga attraverso il libero
flusso delle informazioni senza che la verità venga a galla sotto gli occhi
esterrefatti di chi si ostina a credere che il progresso della civiltà
cognitiva sia stato un’acquisizione permanente, trasponendo quest’idea nella
democrazia liberale. Ciò «in base alla teoria secondo cui la verità avrebbe
inevitabilmente la meglio sulla menzogna, (mentre) recenti ricerche empiriche
hanno dimostrato che una prevedibile percentuale di pubblico» ascoltate le
bugie ci crederà, poiché «non è possibile correggere un flusso di informazioni
inquinate semplicemente diluendolo con la verità» (McIntyre, cit.:7, 48).
Allora,
partendo dall’equivalenza del negazionismo come nutrimento dell’identità, ne
consegue che rinforzando il potere della disinformazione con una procedura
collaudata, si innesca il crollo della costruzione democratica del dopoguerra,
sorto in risposta ai totalitarismi nati e sviluppatisi nel crollo democratico
di quei tempi. Ne consegue che, analogamente agli anni 20/30 del ‘900, «Il
funzionamento equilibrato e durevole di un regime democratico non (può) essere
garantito dal solo gioco delle elezioni e dei partiti (perché) la separazione
dei poteri, l’indipendenza giudiziaria, i diritti dell’uomo e il controllo di
costituzionalità (devono) essere componenti sostanziali e non solo formali
della democrazia» (Ives
Meny – Ives Surel, Populismo e democrazia, ed. Il Mulino 2000: 43-44).
A
questo punto deve evidenziarsi che l’assunto di verità per cui il crollo dei
fondamenti democratici è causato da una sinergia di forze che agiscono
attraverso l’uso dei canali e degli strumenti democratici, rende necessario
prendere in esame il secondo virus dopo l’equità che doveva rendere
perfettibile l’uguaglianza. È dunque il secondo virus, elemento strutturale e
ineludibile della democrazia, a insidiarne la stessa sopravvivenza così come
accadde al tempo del suo primo crollo.
Si
tratta della libertà, il cui fondamento non è il suo valore ontologico, poiché
essa esiste in quanto «processo della liberazione delle persone da un variegato
corteo di catene, vincoli, norme, pratiche e tradizioni» che viene da molto
lontano, fin dal Deuteromonio che invita alla gentilezza con lo straniero,
«perché (tu) sai che cosa ha voluto dire essere straniero in Egitto» (S. Veca,
cit.:98).
Ne
consegue la questione se il valore della libertà sia o no negoziabile con altri
valori e quale spazio la libertà delle persone deve avere rispetto ad altri
valori, poiché la libertà cambia, e ciò che conta sono le nostre relazioni e i
nostri vincoli. Quindi libertà come dimensione etica, non potendo essere
esercitata responsabilmente in uno spazio sociale di non libertà, di
umiliazione, di degradazione, di schiavitù di altri, ed è intimamente connessa
«con l’uguaglianza, la sola che ammette società, gioia, cordialità» (ivi:
107-108).
Allora la libertà attiene all’apertura nei confronti
degli altri «come condizione preliminare dell’umanità in tutti i sensi della
parola… sintonizzata sulle frequenze della gioia resa impossibile dall’invidia
che, nell’universo dell’umanità rappresenta il peggiore dei vizi, (mentre) il
contrario della compassione non è l’invidia ma la crudeltà… che rappresenta una
distorsione che ricava piacere dal dolore« (Hanna Arendt, L’umanità in tempi bui, Mimesis
2023:38).
Questo
per sottolineare l’importanza della dimensione etica della libertà vissuta in
senso transitivo, la cui violazione comporta lo stravolgimento dei suoi
presupposti, quando l’uso dei canali e degli strumenti democratici che le
permettono di essere un veicolo della costruzione della democrazia, in cui è
vissuta e cresciuta la nostra famiglia felice, avviene in modo spregiudicato e
distorto come per mezzo della disinformazione della verità.
Così il mantra ideologico del “non esistono i
fatti ma solo interpretazioni” e del suo corollario, e cioè che tutti gli
argomenti usati per dimostrare la bontà dell’attacco alla Democrazia liberale e
ai suoi fondamenti è funzionale a difendere la verità di quanto sia necessario
violare l’etica, accusata d’essere fasulla, delle libertà democratiche, è
smentita proprio dalla constatazione di come gli aggressori agiscono per
sconfiggere i difensori del liberalismo democratico.
Pertanto
le scelte legislative, giurisdizionali, censorie e i loro effetti sono sotto
gli occhi di chiunque voglia vederne la materialità. Là dove viene vietato tout
court il diritto di aborto, dove vengono vietati i libri (oltre 10 mila titoli
cancellati nelle biblioteche universitarie USA), censurati gli spettacoli,
impedito il dibattito politico, arrestati i dissenzienti, e dove i generi
diversi da quelli biblicamente canonici vengono privati financo di partecipare
alla cosa pubblica e di mostrarsi nella loro identità, là dove un’evoluzione
del diritto di procreare viene represso inventando un’improbabile reato
universale, là dove gli esseri umani sono imprigionati e deportati a causa del
loro anelito alla libertà e alla salvezza dalla guerra, dalle persecuzioni e
dalla morte per fame e malattie, o deliberatamente lasciati affogare nel mare
non solo senza soccorso, ma impedendolo, la materialità dei fatti è così
palpabile che solo la Dissociazione Cognitiva (decidere di non sapere ciò che
si sa), o la pura malafede possono negare a queste realtà la natura ontologica
d’essere nemiche della dimensione etica dell’uguaglianza e della libertà che
non può essere appannaggio di alcuni, ma deve valere per chiunque.
Eppure
quest’operazione subdola e distruttiva ha indotto molte persone a fare una
distinzione cinica di questo valore, fino al punto di giudicare con metro
diverso l’atto di salvare le vite umane, ritenendo l’atto in sé secondario,
contando invece CHI e PERCHE’ salvi le vite. Così accadde che la giovane
comandante di una nave ong che operava in ossequio al diritto internazionale e
a quello del mare, Karola Rakete, venne non solo denunciata e inquisita,
(infine assolta dalla Giustizia), ma condannata da una gran parte dell’opinione
pubblica come una reproba, perché l’aver salvato delle vite umane veniva DOPO,
sul piano valutativo, della ragione e delle modalità della sua condotta. Ora,
questa cinica assunzione di pesare diversamente il valore della vita e della
libertà, non è altro che la conseguenza di quell’immane rimozione degli orrori
della prima metà del XX secolo, poiché contro quegli orrori la dignità e
l’uguaglianza degli esseri umani vennero posti ai vertici dei valori umani, e
non messi in second’ordine sulla scorta di valutazioni di merito sociale, tali
per cui l’atto di salvare la vita conta assai meno del giudizio di valore su
chi tale atto attua.
Ebbene,
questo semplice esempio non è altro che il sintomo di quanto i valori sui quali
venne edificato il progetto di pace siano stati precari nel rifiuto consapevole
dell’idea vaga e preziosa dell’uguaglianza umana «che discende dalla dimensione
etica della libertà, poiché l’uguaglianza non è un mito, e lo sa chi fu (ed è)
vittima dell’oppressione» (Veca, cit. :110).
Detto
questo, tuttavia, deve ancora farsi un’osservazione sull’ambivalenza del valore
della libertà, che ha il suo punto di riferimento nel Demos, come elemento di
ancoraggio del discorso politico e fonte primaria della legittimità politica,
poiché «la battaglia intorno al ruolo del popolo, dei partiti, delle
organizzazioni rappresentative, le lotte sui dispositivi costituzionali, i
conflitti sul ruolo rispettivo dello Stato e del mercato, sono il frutto
dell’ambivalenza delle democrazie costituite» (Meny -Surel, Populismo e democrazia,
cit.: 43), e
muta col tempo.
Ma ne
consegue che il suo uso, distorcendone il fondamento etico, può trasformarla
nel virus letale che sta uccidendo la verità e la democrazia, come se fosse in
corso una nuova fase del grande conflitto, risalente al XVIII secolo, tra i
valori dell’ancien regime, basati sulla sicurezza dell’autorità conservatrice
sulla tradizione secolare da restaurarsi a ogni costo, e dall’altro quelli
dell’IIluminismo, basati sulla libertà della ragione, dell’innovazione e del
cambiamento (Colin Crouch, Identità perdute, Laterza 2020: 7).
Il
che, sciaguratamente, richiama con un paradosso della nostalgia le guerre del
XVIII secolo, «quando superstizione e religione sembrarono cedere il passo alla
scienza e alla ragione (e) gli europei intravidero per un breve momento la
speranza che il genere umano, quantomeno l’Europa, stesse imparando a diventare
più pacifico e a dominare l’istinto» (M. Mcmillan, War, ed, Rizzoli 2020:
18) così
come sottolineato dal giurista, diplomatico e filosofo svizzero del ‘700
Emmeric de Vattel, che, nel suo I diritti delle genti definì «l’Europa moderna
(come) una repubblica i cui membri… legati da un comune interesse, si uniscono
per il mantenimento dell’ordine e la conservazione della libertà» o fanno
guerre “legittime” basate su regole condivise, invece di “guerre giuste”. E
infatti erano “guerre di gabinetto” facili da interrompere e risolte con
accordi e trattati.
Tanto
premesso ne discendono tre riflessioni.
Per la prima l’assenza dell’ideologia nelle ragioni
della guerra comporta la mancanza del pensiero identitario che vede nel nemico
un altro da sé da annientare, così come era accaduto nelle guerre di religione,
e come accadrà nei due secoli successivi, quando sarà necessaria una
“narration” idonea a cancellare nella mente dei destinatari alcuni principi
morali, come il riconoscimento della comune umanità e gli istinti solidaristici
pur presenti negli esseri umani per sostituirli con una morale antitetica, attraverso
l’assassinio della verità.
La
seconda attiene alla funzione del diritto, concretizzato negli accordi e nei
trattati, cioè nel riconoscimento di questa creazione umana indispensabile non
solo a pacificare le relazioni, ma a rendere la pace stabile sul piano della
razionalità, che lo trasforma in un valore. Ma quando il diritto diventa l’arma
del più forte, mostra un risvolto analogo all’ambivalenza dei due valori della
democrazia, l’equità e la libertà, per cui su questa mutazione si spenderanno
alcune parole, poiché questo risvolto è strettamente connesso con il crollo
degli ideali della nostra famiglia felice.
La
terza è filosofica, e vede un capovolgimento dell’assunto di Walter Benjamin
sull’Angelo della Storia, che in questo caso, invece di correre verso il futuro
dandogli le spalle mentre guarda le macerie del passato, dà le spalle a queste
macerie e guarda fiducioso verso il futuro, dove la pace e la stabilità delle
relazioni consentiranno il vero progresso dell’umanità. Prospettiva che andrà
in frantumi ad opera della “narration” napoleonica sulla sua guerra giusta,
(tanto simile a quella con cui gli USA intenderanno esportare la democrazia),
tradendo l’universalismo e il razionalismo, come accadrà nei nazionalismi
europei, che sfocerà nelle immani tragedie delle due guerre mondiali, e in
quelli arabi, africani, asiatici successivi (Crounch, cit.: 69).
Questo
balzo verso la felicità occidentale sarà comunque possibile proprio attraverso
il primato del diritto, sul quale verranno edificate le istituzioni
internazionali, in primis l’ONU, nella cui appartenenza i suoi membri
riconosceranno un valore giuridico e morale che trascende gli interessi
particolaristici, il GATT, divenuto OMC, sullo scambio di beni senza barriere
tariffarie, purché vengano rispettate le regole concordate, L’ ASEAN nel sud
esto asiatico e il NAFTA fra Messico, USA e Canada (Quello che Trump ha appena
denunciato).
Ma soprattutto
la CEE e ora l’UE, perché, e in parte le altre istituzioni, rispondono a un
criterio concettuale nuovo, sebbene, come si è visto, affondi le radici nei
valori illuministici, in quanto, a partire dal piano economico, la felicità
dell’Occidente è partita da una modifica del sistema decisionale, passato da
una posizione tra due o più Stati, ciascuno ben radicato nel suo sistema
simbolico identitario, che pervenivano ad accordi in forma di trattato fra le
parti analogo a quello frutto di una sovranità derivata dai concetti militari
dei secoli passati. Significa che l’Occidente globalizzato e la UE sua massima
espressione, stavano modificando il sistema degli accordi che culminavano in un
“trattato fra le parti”, in un “regolamento” assunto congiuntamente da tutti,
scavalcando la sovranità particolare di ciascuno.
Cioè in un prevalere delle regole del Diritto
sulla libera e autonoma potestà decisionale di una parte verso l’altra.
Allora, mentre la forma del trattato che
istituisce un regolamento è tale per cui l’eventuale controversia verrà
affidata alla Corte (CGUE), l’uso della forza economica o militare non conta e
viene bandito.
Ciò significa pace e sonni tranquilli.
E
infatti la UE nasce come progetto di Pace post guerra, ma non è, purtroppo, un
progetto inerziale, poiché il mostro, che non è tale, non essendo né un segno
degli dèi né un prodigio, essendo viceversa ben radicato nell’umanità, non
appena ammansito, necessita di continua sedazione, poiché la pace nasce come il
frutto di un accordo, mentre mantenerla non è facile, in quanto le sue regole
sono molto più complesse delle regole della guerra, sol che si pensi che la
lesione delle regole della guerra significa maggior guerra, mentre la lesione
delle regole della pace non significa maggior pace, bensì il suo contrario
(Bordoni, cit.: 222-223).
E infatti in questo consiste il risveglio dal
sonno felice in un mondo popolato da incubi, nei quali la famiglia felice viene
distrutta o minacciata mortalmente, essendo il mondo nel quale si avvia molto
diverso da quello precedente.
Con
questo non si vuole escludere che nel mondo felice tutti quelli che hanno
potuto usare la forza per conquistare l’egemonia regionale o globale l’abbiano
fatto, ma rilevare una differenza tra il mondo democratico occidentale (quello
della nostra famiglia felice) e l’altro, dove tale differenza non sta nelle
modalità dell’uso della forza (l’Iraq 2003 docet), ma nel rapporto tra l’uso
della forza e l’ideologia e/o gli ideali che lo animano. In questo l’ideologia
sul cui presupposto è stata usata la forza è stata esplicitamente il mezzo
delle idee che l’hanno giustificata, e per questo motivo ha agito come punto di
riferimento per le opinioni pubbliche imbrigliate e sottoposte alla repressione
per il loro eventuale dissenso.
Invece
nel mondo della famiglia felice ciò è stato fatto in modo clandestino o
mascherato (si pensi alle menzogne sulle giustificazioni dell’invasione
dell’Iraq nel 2003), e le opinioni pubbliche prima o poi hanno reagito, come
accadde per la guerra del Vietnam o in Francia nella guerra di Algeria o in
Europa appunto quanto all’intervento in Iraq, che indussero Paesi come la
Germania a non far parte di quella sciagurata avventura.
Ma il
crollo dell’impalcatura della famiglia felice non è solo quello della fine
della pace, bensì della crisi profonda che ha colpito l’universalismo dei
diritti, e gli stessi presupposti del Manifesto di Ventotene nonché la valenza
morale e giuridica del tessuto delle Costituzioni liberali come la nostra, come
effetto del predominio del sistema maggioritario culturale sviluppatosi in
reazione alla cd sintesi identitaria, nel rinascere del nazionalismo etnico e
della repressione del dissenso intellettuale e culturale interno. Si assiste
così all’ascesa delle destre illiberali, sebbene nel pensatoio del liberalismo
le sue caratteristiche siano state ampiamente analizzate da più di un decennio
prefigurandone le conseguenze. (Cfr. La grande regressione, di Ulrich Beck nel 2011, con
saggi di A. Appadurai, Zygmut Bauman, Bruno Latour, Slovoy Zisek e altri,
Feltrinelli, 2017).
Infatti
è accaduto e sta accadendo un fenomeno curioso e drammatico, poiché la luce che
avvolgeva il mondo della cd. famiglia felice veniva da un unico sole, cioè
dagli ideali universalisti consustanziali al progetto sociopolitico
occidentale, mentre altri soli illuminavano le altre parti del mondo.
Ma ora il crollo imminente dell’Occidente parte dalla
constatazione che i soli che illuminano il mondo si stiano omologando a quelli
dei luoghi e delle popolazioni che non hanno mai visto quello occidentale,
adesso al tramonto.
Si
noti ad esempio il sole di W. Putin che illumina la Russia, per il quale la
Russia non è Europa, gli occidentali sono immorali e degenerati come le loro
istituzioni, la guerra contro l’Ucraina è santa in nome del Cristianesimo
ortodosso e i valori dell’antica grandezza imperiale in via di ricostituzione,
la repressione interna è condotta in modo spietato contro giornalisti, uomini
politici, persone dello spettacolo, presunti traditori, anche con l’omicidio in
nome della negazione dello Stato di diritto e dei diritti umani.
E come tutto ciò trovi riscontro ideale in
altri Paesi del cd Occidente, dalla Turchia di Racip Erdogan, nel suo invocare
un ritorno alle tradizioni e all’imperialismo ottomano, all’uso della
repressione giudiziaria di ogni forma di dissenso, all’uso della guerra contro
il popolo Curdo che chiede il rispetto del suo territorio e delle sue ragioni
autonomistiche, all’India di Narendra Modi, sostenitore accanito del
nazionalismo indù, che anni fa dichiarò di vedere in Adolf Hitler il suo
modello politico, per giungere all’Ungheria di Orban, razzialmente e
culturalmente identitaria contro i presunti diversi, dagli omosessuali agli
ebrei ai migranti, per giungere all’America di Donald Trump, misogino,
razzista, xenofobo e megalomane nel suo programma di ribaltare i fondamenti
della Comunità internazionale, di esercitare forme di repressione e di
stravolgimento dei fondamenti democratici attaccando le istituzioni
repubblicane ritenute ostili, mirando così a eliminare i check and balances,
sia contro la libertà d’insegnamento, aggredendo a colpi di decreti le
istituzioni accademiche, attaccando la legittimità del potere giudiziario con
la minaccia alla persona dei giudici, attaccando finanche l’autonomia e la
libertà degli studi legali e della stampa a lui contrari, sia attraverso il
disconoscimento delle istituzioni internazionali, dall’OIM all’OMS, alla stessa
ONU, alla UE, attraverso i controlli violenti sull’immigrazione, gli arresti
dei dissenzienti, le deportazioni, le narrazioni inventate sui fatti storici e su
quelli contemporanei, dalla nascita della UE e sulla sua natura, alle responsabilità sulla guerra della Russia
contro l’Ucraina, sulle verità scientifiche come quelle sul cambiamento
climatico, sulla censura, sull’uso delle minacce economiche e militari per
perseguire i suoi scopi, il tutto attraverso impliciti messaggi razzisti e
razziali, condotti propagando il principio della “caucasicità” all’origine
della grandezza americana, secondo i dettami del suo “MAGA”.
Ne
consegue un vero e proprio ribaltamento dell’impalcatura che sosteneva il mondo
ideale dell’Occidente, basato sul primato del diritto, diventato viceversa,
quando non viene del tutto disatteso violando gli accordi e i trattati
internazionali sottoscritti (similmente alla Russia di Putin, sol che si pensi
all’infrazione del Memorandum di Budapest del 1994 che garantiva l’integrità
territoriale Ucraina), uno strumento per perseguire quegli obiettivi, in
un’accezione analoga a quella del giurista tedesco Karl Schmitt, fautore della
grandezza del III Reich, sul potere dello Stato quale entità superiorem non
recognosens, basato sul trinomio “governo-popolo-territorio”.
Allora
le sanzioni, i blocchi all’export, le clausole di priorità nazionale, le guerre
tariffarie condotte attraverso l’uso prepotente del diritto, a partire
dall’accentuazione di fatti giuridici come l’”Inflation Redection Act “portate
al parossismo, ma soprattutto attraverso l’uso sproporzionato dei poteri
speciali, cioè discrezionali del Presidente americano, stante «l’impossibilità
di un effettivo sindacato giurisdizionale delle decisioni del Presidente, con
il risultato che le parti coinvolte nelle operazioni illegittime rimangono
senza tutela» (Luca Picotti, La legge del più forte, ed. Luiss 2023: 48).
Altresì
vengono usate le guerre economiche per piegare o indebolire i Paesi rivali o
concorrenti… «per mezzo di leggi e regolamenti, provvedimenti statali…
finalizzati al raggiungimento di scopi economici» (ivi: 23), quando non vengono
minacciate le sovranità territoriali degli Stati prospettandone l’annessione
con la forza militare, come detto per la Groenlandia.
Ecco
allora che la Democrazia liberale occidentale si sveglia nell’incubo e si
interroga se vi siano o no dei rimedi utilizzabili. A questa domanda quasi 90
anni fa diede una risposta il giurista tedesco Karl Lowenstein, quando si pose
il problema di come, nelle democrazie fondate dai costituzionalismi dei diritti
fondamentali, questi stessero subendo o avessero subìto un’aggressione mortale
ad opera di una sorta di internazionale fascista (oggi abbiamo
un’internazionale delle destre estreme illiberali, sol che si pensi al partito
dei Patrioti per l’Europa), tale da trasformarle nel loro opposto.
“Lowenstein,”
che acutamente definì questa sostituzione come la sostituzione del governo
costituzionale col governo emozionale, poiché il primo «implica lo Stato di
diritto, che garantisce la razionalità e la calcolabilità dell’amministrazione
mentre preserva una sfera circoscritta di diritto privato e di diritti
fondamentali, (mentre) la dittatura… implica la sostituzione dello Stato di
diritto con l’opportunismo legalizzato sotto le sembianze della ragion di
Stato».
Mutatis mutandi, si pensi alla recente vicenda
del caso Almansri, di cui parlarono molto i media e a cui si riferisce il
precedente numero di Dialoghi Mediterranei (Settembre, Deportazioni, migrazioni
e barbarie, n. 72).
Ma
proseguì Lowenstein: poiché «nessun governo può basarsi sulla sola forza o
violenza, la capacità di coesione dello Stato dittatoriale e autoritario si
radica nell’emotività, che soppianta la certezza di legalità… del governo
costituzionale» (Lowenstein,
Democrazia militante e diritti fondamentali, ed Quodlibet 2024:19).
Ebbene,
Lowenstein, esaminate le modalità con cui il progetto eversivo della conquista
del potere si serviva sia dell’emotività (si pensi oggi alla gran balla della
sostituzione etnica) coltivata attraverso la disinformazione, cioè l’uccisione
della verità, sia degli strumenti riconosciuti dal sistema costituzionale (oggi
la riforma del premierato che distruggerà i nostri check and balances,
camuffata da revisione) basati sui suoi principi come la libertà, era giunto
alla conclusione che non ci fosse altro rimedio che, durante questa lotta al
fascismo, fosse inevitabile ricorrere a una democrazia “protetta”, “sotto
tutela”, quindi «dai marcati tratti autoritari, stemperati dalla fortunata
circostanza che i suoi leader si lascino guidare solo dal rispetto per le
istituzioni e per i diritti fondamentali» (Loewenstein cit.:105), e richiamava
gli esempi della Finlandia, dell’Estonia, dell’Austria, della Cecoslovacchia
negli che precedettero la Seconda guerra mondiale.
Detto
questo, e premesso che questo lavoro non è in grado, anche per la limitatezza
degli spazi di cui ha fin troppo abusato, di dare una risposta esaustiva a
questa drammatica domanda, si limita a richiamare i dieci consigli di McIntyre
su come vincere la guerra per la verità: il primo consiste nell’aumentare i
messaggeri; il secondo nel trovare buoni influencer; il terzo nel ripetere più
spesso la verità; il quarto nel riconoscere nei negazionisti delle vittime e
non dei nemici, consapevoli che è più facile ingannare una persona che
convincerla di essere stata ingannata; il quinto nel non curarsi delle
“stronzate”; il sesto nel non avere totale fiducia nella trasmissione del
pensiero critico; il settimo nell’evitare l’amplificazione delle fakes;
l’ottavo nell’attivismo; il nono nell’essere consapevoli che ci sono molti
alleati e il decimo nel conoscere al meglio le problematiche connesse.
Francamente
chi scrive è persuaso che tuttavia non basti neppure vincere la battaglia per
la verità, soprattutto perché il punto verte su quale sia il momento utile per
sconfiggere la debacle della democrazia, e cioè se prima o dopo che le menzogne
e la presa del potere nemico sia già avvenuta o non ancora, poiché i popoli sui
quali è calato il vento dell’antioccidentalismo partorito dalle viscere dello
stesso Occidente, sembrano incapaci di guardare verso il futuro nel quale si
avventurano guardando nel passato come l’Angelo della metafora di Benjamin, ma
non guardano le macerie sanguinanti, bensì quel che le ha precedute ancor prima
del mondo democratico sconfitto da chi causò gli orrori della Seconda guerra
mondiale:
guardano il mondo intessuto dei valori anti
illuministici dell’ancien regime, quelli delle rigide disuguaglianze di genere
e sociali, quelle del diritto dei pochi privilegiati contro i molti senza
diritti, quello dello strapotere religioso basato sulle certezze del dogma,
quello della schiavitù, quello nel quale si era sudditi e non cittadini, quello
delle pene di morte più efferate come lo squartamento per chi avesse attentato
alla sacra persona del re, quello che vide i processi e i roghi per stregoneria,
usati come spettacoli per consolidare il consenso, e ciò per quel tanto che i
pifferai dell’oggi ne propagandano l’utile emozionale in termini di potere
repressivo e di oscurantismo della ragione.
Anche
perché questi popoli guardano verso quel passato mitico essendo incapaci di
cogliere, nell’oceano dove galleggia la memoria dei milioni di morti
assassinati 85 anni fa, il suo significato, rimosso senza interpretarne le
cause.
E
proprio grazie a questa mancanza di elaborazione trionfa l’assassinio della
verità e dilaga la crisi della Democrazia.
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