L’Odio di sinistra.

 

L’Odio di sinistra.

 

 

Il Testo Integrale del Messaggio di Hamas

 in Risposta al Piano di Pace di Trump.

Conoscenzealconfine.it – (7 Ottobre 2025) - Il Fatto quotidiano.it – Redazione – ci dice:

 

Il Presidente Usa: “Credo siamo pronti per una pace duratura”.

Il testo integrale inviato da “Hamas” con la risposta al “piano di pace di Donald Trump” lo ha condiviso lo stesso presidente su “Truth”:

“Spinti dal desiderio di porre fine all’aggressione e al genocidio perpetrati contro il nostro popolo saldo nella Striscia di Gaza, e partendo da una responsabilità nazionale, nonché in difesa dei principi, dei diritti e degli interessi superiori del nostro popolo, il “Movimento di Resistenza Islamica Hamas” ha condotto consultazioni approfondite all’interno delle proprie istituzioni di leadership, ampie consultazioni con le forze e le fazioni palestinesi, e colloqui con fratelli, mediatori e amici, al fine di raggiungere una posizione responsabile rispetto al piano del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump.

 Dopo uno studio accurato, il “movimento” ha preso la sua decisione e ha comunicato la seguente risposta ai mediatori:

“Hamas” apprezza gli sforzi arabi, islamici e internazionali, così come gli sforzi del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che chiedono la fine della guerra nella Striscia di Gaza, lo scambio dei prigionieri, l’immediato ingresso degli aiuti, il rifiuto dell’occupazione della Striscia e il rifiuto dello sfollamento del nostro popolo palestinese da essa.

 

All’interno di questo quadro, e in un modo che porti alla fine della guerra e a un pieno ritiro dalla Striscia, il movimento annuncia la propria approvazione al rilascio di tutti i prigionieri dell’occupazione — sia vivi che resti mortali — secondo la formula di scambio contenuta nella proposta del Presidente Trump, con le necessarie condizioni operative sul campo per l’attuazione dello scambio.

 In questo contesto, il movimento afferma la propria disponibilità a entrare immediatamente, attraverso i mediatori, in negoziati per discutere i dettagli.

 Il movimento riafferma inoltre la propria approvazione a trasferire l’amministrazione della Striscia di Gaza a un organo palestinese indipendente (tecnocrati) basato sul consenso nazionale palestinese e sostenuto da un appoggio arabo e islamico.

 

Per quanto riguarda le altre questioni incluse nella proposta del Presidente Trump riguardanti il futuro della Striscia di Gaza e i diritti inalienabili del popolo palestinese, ciò è legato a una posizione nazionale collettiva e in conformità con le pertinenti leggi e risoluzioni internazionali, da discutere all’interno di un quadro nazionale palestinese complessivo, nel quale “Hamas” sarà incluso e contribuirà con piena responsabilità“.

 (Il Movimento di Resistenza Islamica – Hamas)

 

E 30 minuti dopo la condivisione della risposta di Hamas al suo piano di pace, Trump ha commentato, sempre su Truth:

 “Sulla base della dichiarazione appena rilasciata da Hamas, credo che siano pronti per una pace duratura.

Israele deve smettere immediatamente di bombardare Gaza, così che possiamo liberare gli ostaggi in modo sicuro e rapido!

In questo momento è troppo pericoloso farlo.

Siamo già in discussione sui dettagli da definire.

 Non si tratta solo di Gaza, si tratta della pace in Medio Oriente, a lungo attesa“.

(ilfattoquotidiano.it).

 

 

 

 

Odio «di sinistra» e propaganda:

per l’intelligence il pericolo è altrove.

Ilmanifesto.it – Mario Di Vito – (14 settembre 2025) – ci dice:

 

Tono scatenato Piantedosi alza il livello delle scorte.

Il Dis: «C’è fluidità ideologica, punti di contatto tra suprematismo e jihadismo».

 

Il ministro dell'Interno, Matteo Piantedosi, ci dice:

«Abbassare i toni» perché dopo l’omicidio di “Charlie Kirk” «non bisogna dimenticare che ci possono essere processi di emulazione».

 Allora va alzato il livello delle scorte:

 «C’è stato qualche tono esagerato in sede parlamentare, e anche questo mi ha ispirato».

Del resto, si sa, «chi si occupa di sicurezza deve fare professione di immaginazione».

 

PAROLE E MUSICA del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, che si trova costretto a gestire il rinnovato allarme per i pericoli che derivano dal clima d’odio fomentato «dalla sinistra».

Il refrain lo ha lanciato Donald Trump, poi in Italia la premier Meloni lo ha ripreso e fatto suo nell’eterno ritorno di quel vittimismo urlato che è la vera cifra politica della destra italiana – e non solo – degli ultimi ottant’anni.

 E però i dati e la cronaca descrivono una situazione assai diversa rispetto a quella dipinta dal governo.

Il capitolo dedicato all’ordine pubblico del tradizionale dossier di Ferragosto del Viminale dice che i cosiddetti reati di piazza sono tutti in calo.

 Sono in calo, per la verità, le piazze tout-court:

le manifestazioni svolte tra gennaio e luglio sono scese dell’11,1% rispetto allo stesso periodo del 2024.

 Quelle «con criticità» sono diminuite addirittura del 19,5% e il conto dei feriti tra le forze di polizia ha fatto segnare un eccezionale -35,4%.

 

NON BASTA?

 La relazione annuale sulla politica dell’informazione per la sicurezza, presentata dal “Dis” al parlamento a marzo, dedica alla «minaccia interna» appena un breve capitoletto in mezzo a temi effettivamente enormi come la diplomazia militare cinese, la guerra ibrida russa, l’intelligenza artificiale, la rinata corsa allo spazio e il cambiamento climatico.

 Al paragrafo intitolato «L’attivismo estremista e antagonista», l’intelligence dice che «la mobilitazione pro-Palestina ha costituito un fattore di forte aggregazione anche per il composito movimento antagonista, che ha connesso il tema della guerra ad altri fronti, come l’anti repressione, l’antifascismo, l’anticapitalismo e le problematiche sociali, migratorie e ambientali».

 E così «all’indomani dell’attacco di “Hamas “del 7 ottobre 2023, la propaganda antagonista ha progressivamente radicalizzato i toni della protesta, in un crescendo di contestazioni che in varie occasioni hanno fatto registrare episodi di vandalismo e di scontri violenti con le forze dell’ordine», anche se «l’attento monitoraggio delle iniziative di protesta, nonché la sinergia info-operativa» tra gli apparati dello stato «hanno consentito di limitare i rischi di derive violente».

Per quanto riguarda la destra radicale, invece, si segnala che «nel 2024 si è confermato il trend di progressivo innalzamento del rischio derivante dall’estrema destra suprematista e accelerazionista internazionale, che spesso si declina in rete attraverso la diffusione di incitazioni alla violenza nichilista, indiscriminata e d’impronta politica e razziale».

 

AUMENTANO infatti «i casi di radicalizzazione di soggetti giovani – anche minorenni – e di piccoli gruppi che sono in costante contatto con utenti di altre nazionalità tramite piattaforme digitali di messaggistica istantanea».

 In questo quadro, diverse operazioni di polizia «hanno fatto emergere come la minaccia stia progressivamente transitando dalla dimensione online a quella offline, evidenziando inoltre diversi casi di contaminazione tra questa forma di estremismo violento e altre matrici terroristiche».

L’INTELLIGENCE ha inoltre rilevato «punti di contatto tra la sfera della destra suprematista e accelerazionista e quella jihadista.

 La giovane età degli individui coinvolti, una marcata fascinazione per la violenza, scarsa o assente preparazione religiosa e la presenza, in diversi casi, di problemi relazionali e vulnerabilità psicologiche, delineano una fisionomia della minaccia in continua evoluzione».

 

DUNQUE, per concludere, «la fluidità ideologica si conferma sempre di più come un elemento caratterizzante di questa evoluzione».

 Un ritratto perfetto dell’odio postmoderno che mischia elementi di internet culture a questioni personali o labilmente politiche e che produce tragedie come quelle che periodicamente avvengono negli Usa, dove il controllo sulla circolazione delle armi è molto meno stringente rispetto all’Europa.

 In Italia tutto questo, al momento, si vede solo in controluce.

Ma esiste.

E non ha molto a che fare con «l’odio della sinistra» di cui Meloni e i suoi parlano per riempire di propaganda i vuoti del dibattito pubblico.

 

 

 

L’odio non è di destra, né di sinistra.

È di chi fa becera propaganda.

Partitosocialista.it – (20/09/2025) - Alessandro Silvestri – ci dice:

 

“Early morning April 4th, shot rings out in the Memphis sky”.

Così gli “U2” celebrarono in una nota canzone l’assassinio politico di” Martin Luther King”, attivista per i diritti delle minoranze afroamericane e “premio Nobel per la pace”, fermato per sempre con un colpo di fucile a Memphis nel 1968.

Gli Stati Uniti, la ex democrazia più grande del mondo, non sono certo nuovi a questo tipo di episodi cruenti, che hanno fatto di deviare irrimediabilmente il corso della storia.

 Solo che, da “Abramo Lincoln” in avanti, è toccato sempre a figure progressiste, amate dalle masse e con un grande seguito popolare, di cadere sotto i colpi dei sicari.

Come J.F. e Bob Kennedy o Malcolm X.

Senza dimenticare fatti più recenti, quanto poco affrontati dai media, specialmente italiani.

Dall’aggressione a martellate subita in casa dal marito di Nancy Pelosi, Paul, da parte di un complottista di estrema destra nel 2022;

 al duplice omicidio della deputata democratica del Minnesota, “Melissa Hortman” e del marito “Mark” assassinati in casa soltanto pochi mesi fa da un altro fuori di testa che odiava i sostenitori del diritto all’aborto.

Per non parlare dei più famosi casi internazionali, da Allende a Palme, da Sankara ai Gandhi (Mahatma, Indira e Rajiv), da Bhutto a Gemayel, da Jumblatt a Rabin, da Liebknecht alla Luxemburg, fino ai nostri Di Vagno e Matteotti, i Rosselli e Buozzi, Mattei e Moro, La Torre e Mattarella.

 Quasi tutti gli omicidi politici degli ultimi cento anni hanno riguardato esponenti progressisti e i cattolici democratici.

Dove sta quindi questo pericolo della violenza di sinistra, agitato da Trump e dai Maga e rilanciato dalla nostra Presidente del Consiglio?

Perché nel caso” Charlie Kirk”, una cosa deve (o dovrebbe) essere chiara:

ad armare la mano del giovane “Tyler Robinson”, sono state proprio le prediche dell’estremismo di destra americano, animato anche dal movimento fondato proprio da Kirk, quel “Turning Point Usa” che auspicava l’allontanamento degli stranieri, l’uso libero delle armi, e l’utilizzo spregiudicato di temi religiosi, per alimentare un proselitismo sempre più radicalizzato.

 “Comprate un’arma, imparate ad usarla, e non uscite mai senza un’arma”:

questo uno dei tanti cavalli di battaglia utilizzati da Kirk.

La stessa vedova, Erika Kirk ha dichiarato all’orazione funebre:

“Non avete idea di cosa avete scatenato in questo Paese”, non si sa bene rivolto a chi.

 Lo stesso Trump ha rilanciato:

“Molte delle persone che tradizionalmente si direbbero di sinistra sono già sotto inchiesta”.

Ci mancherebbe pure una riedizione del maccartismo fuori tempo massimo!

Senza contare il “Presente!” al quale si è subito uniformata la stampa italica di destra, che senza attendere analisi e approfondimenti (roba inutile e noiosa) grazie al fatto che sono state ritrovate all’attentatore munizioni con frasi incise tipo “Bella Ciao” o “Prendi questo, fascista!”;

 si è scatenata subito con una bagarre dei titoloni.

“Assassinio partigiano” (Il Giornale), “La firma del killer: Bella Ciao” (Libero), “Ammazzato a colpi di Bella Ciao” (La Verità).

“Robinson” parrebbe invece essere vicino al “Gruppo Groyper”, un movimento di ultra-destra nazionalista e cristiano fondamentalista, che utilizza un “linguaggio da sottocultura nerd” ispirato dai videogames e ha spesso attaccato Kirk in passato, accusandolo di essere un moderato.

Vedremo cosa emergerà dalle indagini, i cui esiti potrebbero non piacere alla Casa Bianca.

Non possiamo non evidenziare l’azione scomposta di elementi della maggioranza (ma appunto, nemmeno Giorgia Meloni ci ha risparmiato una intemerata da inferno dantesco), dai deliri del ministro” Luca Ciriani” che ha evocato addirittura un clima da Brigate Rosse del quale le opposizioni di sinistra sarebbero responsabili;

 ai dossier del sottosegretario “Giovanbattista Fazzolari” ad uso dei gruppi parlamentari di” FdI”, dove si indicano i partiti della sinistra e i sindacati quali responsabili di una campagna d’odio politico, nei confronti della destra.

 In realtà tutti i leader politici del centrosinistra hanno immediatamente condannato l’omicidio di Kirk, com’è giusto che fosse.

Ma da questo a farne un martire, ce ne passa.

 Le differenze tra noi e loro ci sono e sono enormi.

 I socialisti in cento-trenta-trè anni di storia, non solo hanno lottato per ottenere il progresso di questo Paese e le conquiste sociali di cui oggi godono tutti.

 Ma per farlo, è giusto sottolinearlo, non hanno mai torto un capello a nessuno.

Né hanno mai minacciato di farlo.

 

 

Odio: da sinistra clima

 inaccettabile, non ci fermeranno.

 Fratelli-italia.it – (15 Settembre 2025) – Galeazzo Bignami – ci dice:

 

“Negli ultimi giorni si è assistito a una spirale di odio e violenza inaccettabili fuori e dentro il Parlamento.

 Mentre negli Usa un giovane attivista e influencer conservatore veniva assassinato brutalmente, qui da noi nelle aule parlamentari abbiamo assistito ad eccessi verbali inaccettabili.

Esponenti delle opposizioni hanno attaccato il Governo andando ben al di là della pur aspra dialettica politica.

 Ieri il M5S ha superato il limite insultando il ministro Tajani, oggi è stato il turno del ministro Ciriani a cui va tutta la nostra solidarietà.

Da tempo il presidente Meloni e rappresentanti di Fratelli d’Italia sono oggetto di minacce, violenze, insulti.

 L’ultimo in ordine di tempo il senatore “Marco Lisei” a cui va la solidarietà di tutti i senatori di “FdI”.

 Un clima che viene da lontano di cui quanto accaduto in questi giorni è solo l’ultimo tassello.

Trovo particolarmente preoccupante l’atteggiamento rispetto al brutale assassinio di “Charlie Kirk”:

 il silenzio o peggio le ambigue giustificazioni del gesto omicida sono agghiaccianti.

 Si prenda esempio proprio da Charlie Kirk che dibatteva su tutti gli argomenti sempre in modo pacifico.

Ascoltava le argomentazioni altrui ed esponeva le proprie idee sempre in modo pacifico”.

 Lo dichiara in una nota “Lucio Malan”, presidente dei senatori di Fratelli d’Italia.

 

“Non passa giorno senza che la sinistra offenda, criminalizzi, insulti chi non la pensa come lei. Lo fanno dappertutto.

 Nelle piazze, nei salotti televisivi, nelle sedi istituzionali.

 Lo fanno sistematicamente e con chiunque anche soltanto se pensi qualcosa che loro non condividono.

Perché vogliono impedirci di parlare e dire liberamente cosa pensiamo.

Ci danno degli assassini, dei criminali, dei corrotti e molto peggio.

E poi quando qualcuno viene aggredito o peggio, minimizzano e fanno spallucce. Tutto ciò non è più ammissibile.

 O la sinistra usa un linguaggio e un confronto civile o significa che sono complici di queste violenze e le alimentano per radicalizzare il clima di odio, per intimidire chi non la pensa come loro.

 Non riusciranno a intimidirci, non riusciranno ad impedirci di parlare, falliranno anche in questo.

 Anzi, ci renderanno ancora più forti e determinati.

 E lo dice chi ha subito sulla propria pelle e sulla pelle della propria famiglia il clima di odio che la sinistra ha seminato”,

aggiunge il capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera dei deputati, “Galeazzo Bignami”.

 

 

Bersani, l'odio ideologico

della sinistra.

Lanuovabq.it – Ruben Razzante – (06_06_2020) – ci dice:

«Se al governo ci fosse stato il centro-destra non sarebbero bastati i cimiteri».

Parole choccanti e ingiustificabili quelle di “Pierluigi Bersani”, ma incredibilmente ignorate dalla grande stampa che, fossero state pronunciate da un esponente del centro-destra, si sarebbe stracciata le vesti.

 

Sia il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella che il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte hanno auspicato un clima di condivisione tra maggioranza e opposizione per affrontare insieme le drammatiche difficoltà del momento.

In particolare il premier ha chiesto collaborazione e condivisione al centrodestra visto che il Paese ha bisogno di uscire prima possibile dalla recessione conseguente alla pandemia.

Forse però Conte dovrebbe in primo luogo tirare le orecchie ai suoi alleati e richiamarli a non gettare benzina sul fuoco quando partecipano a talk show televisivi.

Rischiano, infatti, di compromettere in modo irreparabile lo spirito di solidarietà nazionale che qualcuno, anche Silvio Berlusconi, sta faticosamente cercando di alimentare.

L’uscita di Pierluigi Bersani martedì sera nel salotto di Bianca Berlinguer su Rai 3 (trasmissione Cartabianca) è indegna di un leader politico e conferma che il lupo perde il pelo ma non il vizio e che l’odio ideologico della sinistra verso il nemico è qualcosa di invincibile, anche quando abilmente mascherato da perbenismo istituzionale e senso delle istituzioni e del bene comune.

Le parole del leader di “Leu” si commentano da sole:

«Il messaggio che il centrodestra sta dando da fuori e da dentro il Parlamento è una coltellata al Paese.

 E questa gente qua, lo lasci dire a uno di Piacenza, viene il dubbio che se avessero governato loro non sarebbero bastati i cimiteri».

 

Affermazioni macabre che non possono in alcun modo giustificarsi con l’attitudine di Bersani a parlare in modo iperbolico e per metafore.

 Qui si gioca con le vittime del Covid-19 e si insinua il dubbio che i governatori del centrodestra siano in qualche modo assassini e, di conseguenza, i loro leader politici abbiano l’incapacità di governare.

Uno schiaffo anche alla Lombardia, che è stata particolarmente colpita dalla pandemia e che non può certamente essere giudicata dalla sinistra.

 Chi ha dimenticato le fotografie di “Giorgio Gori” al ristorante a febbraio o gli hashtag di “Beppe Sala” (“Milano non si ferma”) o le reazioni di alcuni rappresentanti della sinistra che ironizzavano quando il governatore della Lombardia, “Attilio Fontana” indossava la mascherina durante le interviste televisive?

Chi è senza peccato, verrebbe da dire, scagli la prima pietra.

 Anche per queste ragioni Bersani non aveva alcun motivo di attaccare in modo così frontale gli avversari di sempre.

 Definire le sue parole una caduta di stile è financo riduttivo.

 

Bersani, in verità, non è nuovo ad attacchi ad esponenti del centrodestra.

 Celebre la sua espressione “Smacchieremo il giaguaro”, usata in campagna elettorale nel 2013 contro Silvio Berlusconi.

Ma quello era uno slogan a effetto per galvanizzare l’elettorato.

Poi sappiamo come andò a finire.

Il giaguaro non fu affatto smacchiato, ma dalle urne uscirono tre schieramenti equivalenti in termini numerici e lo stesso candidato premier di centrosinistra, cioè Bersani, non riuscì ad andare a Palazzo Chigi, anzi fu umiliato in diretta streaming da Beppe Grillo e i suoi.

 

Ma a stupire non è solo la frase di Bersani.

Fa rabbrividire il silenzio di certa stampa, che ben altra reazione avrebbe avuto se a parti invertite fosse stato un leader del centrodestra a pronunciare quelle parole sui cimiteri.

In verità la conduttrice “Bianca Berlinguer “non ha nascosto, lì per lì, un certo imbarazzo.

Nessun organo di informazione ha biasimato il linguaggio inopportuno utilizzato dall’esponente di” Leu”, nessun editorialista ha censurato le sue parole, tanto più in un momento come questo in cui si invoca da più parti una riappacificazione nazionale.

Le opposizioni sono giustamente indignate. «L'odio ideologico della sinistra non si ferma nemmeno di fronte ai morti», tuona Giorgia Meloni, che parla di parole «vergognose».

Anche Matteo Salvini ha reagito con veemenza: «Dichiarazioni disgustose, a me sembra un cretino, scherza con 30mila morti? Qui c’è gente che non sta bene…».

E il vicepresidente del Senato, Roberto Calderoli, nell’invitare Bersani a chiedere scusa, ha aggiunto: «Non c’è limite al peggio, non c’è limite alla decenza e alla vergogna».

Le parole di Bersani hanno scatenato una vera e propria bufera politica.

 È mancata, invece, la reazione del mondo dell’informazione.

Ma quando un rappresentante del popolo esagera nei toni è giusto che la stampa, in quanto cane da guardia dei potenti, lo ravvisi e lo segnali all’attenzione dell’opinione pubblica.

 

Peraltro il “deputato di Leu” non ha fatto marcia indietro:

 «Chiaro che ho usato un'iperbole.

Ma un ex ministro dell'interno che ridicolizza mascherine e distanziamento dopo che a pochi giorni dalla prima zona rossa chiedeva di aprire tutto si espone a un giudizio che, ripeto, per iperbole, confermo assolutamente».

Il leader di Articolo Uno, Gianni Cuperlo, è andato in suo soccorso e ha provato a giustificarlo durante un’altra trasmissione televisiva.

Silenzio, invece, da grillini, dem e altri esponenti di governo.

 Forse lo stesso premier, proprio perché cerca di porsi in questo momento come federatore di mondi di destra e di sinistra in nome di una rinascita nazionale, avrebbe potuto censurare la frase di Bersani, richiamando tutti a una maggiore sobrietà nei toni.

E i giornalisti avrebbero dovuto sottolineare che il linguaggio d’odio non è solo quello a sfondo razzista o sessista, ma anche quello che offende e demonizza l’avversario politico, scherzando perfino sulle vittime del Covid-19.

Davvero uno stile comunicativo esecrando che ci lascia sgomenti.

 

 

Massimo Cacciari e l'odio della sinistra:

"Balle, è il solito anticomunismo"

Liberoquotidiano.it - Claudio Brigliadori – (martedì, 16 settembre 2025) – ci dice:

 

Massimo Cacciari e l'odio della sinistra: "Balle, è il solito anticomunismo"

(La7- L'aria che tira.)

"La violenza sta a sinistra? Balle".

Nell'assai poco confronto su Charlie Kirk e l'odio politico dilagante anche in Italia interviene Massimo Cacciari.

E il filosofo ed ex sindaco di centrosinistra di Venezia lo fa al suo solito modo: a gamba tesa.

 

"I toni incendiari di certi settori dell'ideologia o della politica di destra in Europa e negli Stati Uniti nei confronti delle cosiddette sinistre è storia vecchia come tutto il '900", spiega Cacciari intervistato da Repubblica, ribaltando le accuse piovute sulla testa di molti esponenti di centrosinistra dopo i commenti freddi, quasi disinteressati o addirittura equivoci se non addirittura assolutori sullo sconvolgente omicidio di “Kirk”, 31enne noto attivista trumpiano freddato con un colpo di fucile alla gola durante un dibattito pubblico alla “Utah Valley University” una settimana fa.

Polemiche che Cacciari riconduce al "solito anticomunismo violento e incendiario.

 Forse i settori della destra di cui le dicevo sono diventati preponderanti".

Possiamo paragonare quel che accade oggi nel nostro Paese con quanto sta accadendo in America in quanto a violenza politica?

 "No perché dovremmo sapere bene che negli Stati Uniti si tratta di un male endemico:

hanno ucciso presidenti come John Fitzgerald Kennedy, candidati presidenti come Robert Kennedy, hanno ucciso Martin Luther King e Malcolm X, hanno tentato di uccidere Reagan, poi Trump", ricorda il professore, che poi risponde direttamente alla premier Giorgia Meloni.

 

"Che sia a sinistra sono balle, è pura ideologia.

Io credo non si possa in questo caso parlare di destra e sinistra, perché il problema è la situazione politica generale.

 È quel che accade nel mondo che fa sì che queste manifestazioni d'odio, e anche questo linguaggio d'odio, deflagrino".

"In una dimensione di eterno conflitto - conclude Cacciari - le parole d'odio diventano particolarmente pericolose e sintomatiche.

Il linguaggio è il sintomo di una situazione più generale in cui è venuta meno perfino la deterrenza atomica.

Tutti parlano di guerra come fosse qualcosa che è nella fisiologia dell'agire politico, e questo rende particolarmente significative le esternazioni d'odio".

 

 

immagine di copertina. L’odio non è di sinistra,

la guerra in Palestina è genocidio,

il sudario è il volto della morte.

Teatrokoreja.it - Koreja Magazine – (8-10 -2025) - Visioni di Gigi Mangia – Redazione – ci dice:

 

All’Assemblea delle Nazioni Unite, il Presidente Donald Trump, nel suo lungo intervento durato 57 minuti ha ribadito la fine dell’ONU, la sua inutilità, ma é stato chiaro nel presentare il suo “manifesto politico” fondato sull’odio, come” lotta al Diverso”.

È la nuova destra che fa dell’odio la sua visione politica, con la quale favorisce il populismo, il comando del leader e la fine della Democrazia Liberale.

La presidente Giorgia Meloni, applaude e si sente a suo agio.

I movimenti della società civile, gli studenti come gli artisti, la cultura, il teatro, le università e gli scienziati sono lontani e hanno una visione lontana ed opposta a quella del governo Giorgia Meloni, la quale non perde occasione di dichiarare la sua vicinanza al presidente Trump.

Sono tantissime le voci, tante le generazioni, molte le diverse sensibilità ma tutti uniti nella lotta per la difesa dei diritti umani e tutti consapevoli che:

 la guerra di Netanyahu contro i palestinesi è genocidio ed il sudario, il volto della morte.

Tutti abbiamo visto nei social i bulldozer rompere le macerie dei palazzi, delle case, degli ospedali, delle università distrutte con le bombe.

 Nello spazio interminabile di macerie, abbiamo visto cadaveri, madri, padri, volti disperati nel dolore cercare con le mani corpi sotto le macerie;

abbiamo visto accarezzare corpi senza vita, mettere le orecchie nelle macerie per sentire se ci fossero ancora vite da salvare.

Abbiamo visto nei sudari bianchi i corpi senza vita.

Abbiamo osservato corpi nei sacchi neri della spazzatura trattati e ammassati come rifiuti.

Abbiamo visto anche la mancanza dell’acqua per eseguire la degna sepoltura secondo la religione musulmana, nella quale l’acqua serve per la purificazione e quindi per il passaggio all’eternità.

Per eliminare un popolo bisogna cancellare la sua memoria vietando anche il diritto di morire, riconoscendo il valore sacro della sepoltura, la quale è stata ed è ancora la radice di tutte le religioni compresa quella cristiana.

La follia cieca alimenta l’odio e annulla il diritto della morte.

Ci sentiamo disorientati e persi, senza quei valori che abbiamo imparato a scuola e su cui avevamo realizzato la nostra personalità umana ed intellettuale.

 Ci sentiamo smarriti e non sappiamo più come abitare il nostro tempo caduto nell’odio del Diverso:

 il buco nero del pensiero contemporaneo.

Abbiamo tanto bisogno di:

A. pensare per capire;

B. Capire per conoscere;

C. Conoscere per amare e rispettare.

 

Questa notte, al largo nel mare della Grecia la “Global Sumud Flotilla” è stata minacciata, attaccata e colpita da droni ed è stata anche costretta a subire l’interruzione delle comunicazioni.

 È stato questo un attacco minaccioso di Israele per spaventare e avvertire i volontari dei pericoli che li aspetta se passeranno il blocco navale davanti alle coste di Gaza.

 Va ai volontari della Flotilla la nostra solidarietà, tutto il nostro aiuto e sostegno e il nostro invito ad avere coraggio per riuscire a concludere positivamente la loro grande impresa il cui valore politico è straordinario e di grande esempio dimostrativo davanti al comportamento degli stati che chiudono gli occhi e non vogliono vedere il genocidio di Gaza.

 

 

 

Meloni: “Accusati di odio da chi

festeggia l’omicidio di Kirk,

la sinistra smetta di minimizzare.”

 Repubblica.it – (13-09-2025) -Ansa – Redazione – Giorgia Meloni – Stefano Baldolini & C.- ci dicono:

 

La premier alla festa dell’Udc: “Pene inferiori per chi spara a esponente di destra?”.

La replica del Pd: “Alzano i toni per coprire il nulla fatto al governo”.

Piantedosi: “Rischio emulazione”.

Renzi: “Clima esasperato? Faccia dimettere Ciriani.”

"Vengo da una comunità politica che spesso è stata accusata di diffondere odio, guarda un po’ dagli stessi che festeggiano e giustificano l'omicidio intenzionale di un ragazzo che aveva la colpa di difendere con coraggio le sue idee".

Lo ha detto la premier “Giorgia Meloni”, intervenendo alla festa nazionale dell'Udc, a Roma, facendo riferimento all'assassinio di “Charlie Kirk”.

 

(Kirk, Ciriani: “In Italia clima da Br, scoperto odio dem”.

 Renzi: “Si dimetta”. Il Pd: “Delira.”

di Stefano Baldolini.)

"Allora noi dobbiamo immaginare pene inferiori per chi spara a un esponente di destra?

Credo che sia arrivato il momento di chiedere conto alla sinistra italiana di questo continuo giustificazionismo", perché "il clima anche in Italia sta diventando insostenibile".

“Vogliamo dimostrare cioè che la politica può essere autorevole, che può essere credibile, che è capace di dedizione, che è capace di sacrificio, che può essere fatta con amore, per quello in cui si crede, per la propria nazione, per la propria gente. Guardate, lo voglio dire nel tempo in cui l'odio e la violenza politica stanno tornando drammaticamente una realtà, facendo venire molti nodi al pettine".

“Da Odifreddi commento disumano.”

Sull'omicidio di Charlie Kirk "ho letto molti commenti disumani e spaventosi", continua, aggiungendo poi che "uno di questi è di Piergiorgio Odifreddi, intellettuale della sinistra, che ha detto che sparare a Martin Luther King e sparare a un rappresentante Maga non è la stessa cosa..."

 

"Ora io vorrei chiedere a questo illustre professore cosa intenda esattamente dire - domanda Meloni - che ci sono persone a cui è legittimo sparare in base alle loro idee o a cui è meno grave sparare sempre perché non condividiamo le loro idee?".

(Renzi: “Clima esasperato? Faccia dimettere Ciriani)”

"Io credo che sia arrivato il momento di dire a Giorgia Meloni che è l'ora di finirla di strumentalizzare e di fare la vittima su tutto.

 Il clima in questo Paese è esasperato dai cattivi maestri come il Ministro Ciriani che ieri ha paragonato Italia Viva alle Brigate Rosse.

La Meloni faccia dimettere il suo Ministro e si scusi con le opposizioni".

Lo scrive il leader di Italia Viva, Matteo Renzi.

 

Pd: “Meloni e destra incendiano clima per coprire il nulla fatto, pensino a governare.”

“Osserviamo, abbastanza sgomenti, il tentativo della destra, e oggi anche di Giorgia Meloni, di incendiare il clima politico con accuse insensate e pericolose all’opposizione.

Come Pd, a partire dalla segretaria Elly Schlein, abbiamo espresso sempre parole di dura condanna per ogni tipo di violenza politica.

Chiediamo conto noi alla destra, soprattutto in Usa, di mettere al bando le armi che, in mano a estremisti, pazzi e delinquenti uccidono donne, uomini e spesso nelle scuole ragazzi e ragazzi.

Meloni oggi straparla.

Accusarci di chissà quali nefandezze serve solo alla destra per coprire il nulla cosmico dell’azione di questo governo.

Siamo alla vigilia della quarta manovra di questa legislatura e il Paese è fermo, sotto la minaccia dei dazi dell’amico Trump, con le aziende che invocano misure urgenti, con il rischio della perdita di posti di lavoro, con la sanità pubblica senza risorse e un anno scolastico che sta cominciando con l’ennesimo caro libri.

Oggi Giorgia Meloni ha annunciato misure per il ceto medio.

La aspettiamo in Parlamento per il confronto.

Invece di accusarci per colpe che non abbiamo dimostri di saper governare.

Fino ad ora non ci è riuscita”.

Così i capigruppo del Pd al Senato e alla Camera Francesco Boccia e Chiara Braga e il capo delegazione Pd a Bruxelles Nicola Zingaretti.

La stessa Schlein commenta:

"Quando la notte mi sveglio perché alle tre di notte mi arriva un messaggio da numeri anonimi che dice 'A Noi', io non do la colpa a Meloni".

Piantedosi: “Rischio emulazione, abbassare i toni”

"Non bisogna dimenticare che ci possono essere processi di emulazione, non tutti sono in grado di raccogliere nel modo giusto certi messaggi e quindi qualcuno può in qualche modo fraintendere".

Lo dice il ministro dell'Interno Matteo Piantedosi a margine di un evento di FdI a Paestum sottolineando che è "doveroso provare ad abbassare i toni e non farsi prendere da quella che è la vivacità della discussione politica, che magari soprattutto sotto campagna elettorale ha delle fiammate".

 

Tajani: “In Italia troppi cattivi maestri, basta insulti.”

"Non si può utilizzare il dramma del popolo palestinese per motivi di politica interna.

Purtroppo ci sono oggi in Italia troppi cattivi maestri che usano un linguaggio violento, aggressivo nei confronti degli avversari politici".

Così stamattina a San Benedetto del Tronto (Ascoli Piceno) segretario di Forza Italia e vice premier “Antonio Tajani”:

"lancio un appello a tutti a cominciare dal presidente Conte, leader del M5s, affinché si abbassino i toni.

Basta minacce, insulti, affermazioni che rischiano di creare danni, tant'è che poi il ministro dell'Interno è costretto ad alzare il livello di sicurezza per figure istituzionali".

 

Conte: “Anche Tajani e Meloni abbassino i toni.”

A replicare a Meloni e Tajani, anche il presidente del Movimento 5 stelle, Giuseppe Conte:

"Io invito anche il governo a moderare i toni, a smetterla:

 parlo di Tajani, parlo di Ciriani, parlo della Meloni che alimentano questo vittimismo a paradossalmente dicendo di abbassare i toni contribuiscono invece ad alzarli.

Piuttosto facciano il loro dovere e governino se ne sono capaci".

 

 

 

I Patrioti: “La sinistra è odio”.

Meloni alla kermesse di Vox:

“Si sa da che parte è la violenza.”

Quotidiano.net – Cosimo Rossi – (15 settembre 2025) – ci dice:

 

Il presidente argentino Milei: “L’influencer statunitense ucciso è un martire”.

Il ministro Zangrillo denuncia: “Insultato alla festa Pd”. Solidarietà della premier.

 

(Articolo: Il campo largo che non c’è. Conte avverte Schlein: “Non siamo cespugli.”)

(Articolo: L’annuncio di Tajani: “Forza Italia a Congresso. Nel 2027 sarà eletto il segretario.”)

 

Roma, 15 settembre 2025 –

Giorgia Meloni non demorde.

La presidente del Consiglio torna anzi alla carica sull’assassinio in Utah del giovane esponente suprematista bianco “Charlie Kirk” e le presunte responsabilità delle sinistre riguardo al clima d’odio.

 Linea sostenuta da tutto il centrodestra sia nazionale che europeo.

E respinta con sdegno dal centrosinistra, di dove la segretaria dem Elly Schlein si perita dall’entrare ulteriormente in tema, mentre il leader 5 Stelle Giuseppe Conte evoca strategie comunicative di Palazzo Chigi, rivendicando la presa di distanza e la denuncia rispetto ad ogni violenza.

 Fatto sta che, tra le propensioni un po’ maccartiste di governo e opposizione, a farne le spese rischia di essere solo la libertà di opinione.

 

Giorgia Meloni è stata collegata con la convention della formazione di destra spagnola Vox che ha radunato i gruppi sovranisti europei:

“Voglio dire alto e chiaro a tutti quegli odiatori, agli estremisti che spesso vediamo nelle piazze ma anche ai cattivi maestri in giacca e cravatta che si ritrovano nei salotti: non cadremo nella loro trappola, non faremo il gioco di chi vuole far precipitare le nostre nazioni in una spirale di violenza”, manda a dire Meloni nel messaggio indirizzato alla kermesse del partito nazion-sovranista spagnolo Vox ‘Europa Viva 25’ che si svolgeva a Madrid.

 

La premier infiamma la platea di Vox sul caso Kirk, diventato nell’arco di 48 ore il fattore unificante di tutti i Maga d’Europa.

 A cominciare dal leader e vicepremier leghista Matteo Salvini, che dichiara a mezzo stampa di volerne seguire le orme andando a dibattere nelle scuole e con chi la pensa diversamente.

Ma anche dei loro alleati, quali sono appunto il partito della premier Fratelli d’Italia e quello dell’altro vicepremier Forza Italia.

 Dalla grande manifestazione londinese contro i migranti promossa dai neo-nazionalisti di “Tommy Robinson” alla kermesse degli spagnoli di Vox e i le prese di posizione dei francesi del “Rassemblement National,” tutte le reazioni all’assassinio del giovane esponente suprematista statunitense sono state improntate alla denuncia del clima d’ostio instillato dalle sinistre.

Tutti, più o meno cautamente, all’ombra del trumpismo che tiene in scacco l’Europa più che il mondo.

 

 

(Omicidio Charlie Kirk, il politologo Pasquino: “Italia diversa dagli Usa. La violenza non tornerà.”)

Rendendo omaggio al “giovane coraggioso, che ha pagato con la propria vita il prezzo della libertà” e il cui “sacrificio ci ha ricordato un’altra volta da che lato stanno la violenza e l’intolleranza”, la premier si è perciò lanciata in una nuova intemerata contro il clima d’odio imputato all’opposizione di centrosinistra.

“Voglio anche dire loro che non ci faremo intimidire, che andremo avanti a batterci senza sosta per la libertà dei nostri popoli”, sostiene Meloni.

Sulla stessa lunghezza d’onda dell’argentino “Javier Milei “che, senza motosega, ma anch’egli in diretta video, accusa la sinistra di essere “odio e risentimento allo stato puro”.

Parole cui fa eco il leader di Vox “Santiago Abascal”, dichiarando che “non ci arrendiamo di fronte a una sinistra assassina, bugiarda, inutile, ladra, pigra e criminale”.

 

Il tema dell’odio viene posto come pietra dello scandalo della politica europea e italiana.

Al punto che rientra in questo calderone anche un episodio come i fischi e gli insulti al ministro della Pubblica amministrazione, Paolo Zangrillo, alla festa dell’Unità a Torino.

(Il ministro della Pubblica Amministrazione Paolo Zangrillo in Senato ha parlato durante informativa del ministro degli Affari Esteri sui recenti sviluppi delle crisi in Ucraina e Medio Oriente, Roma, 11 Settembre 2025. ANSA/GIUSEPPE LAMI.)

La premier esprime la “solidarietà personale e del governo”, mentre il vicepremier Antonio Tajani mette in guardia che “offendere un ministro lo espone, soprattutto in questo periodo, a gravi rischi”.

Da parte sua, Giuseppe Conte rimprovera al sottosegretario alla presidenza del Consiglio “Giovanbattista Fazzolari “una “strategia comunicativa” diretta ad “alzare i toni”.

 

 

 

Vance, Musk e gli equivoci

sulla libertà.

Euractiv.it - Antonio Nicita – (18 feb. 2025) – Redazione – ci dice:

 

(Elon Musk, Donald Trump, JD Vance).

Antonio Nicita, Senatore della Repubblica Italiana, è autore de “Il mercato delle verità. Come la disinformazione minaccia la democrazia” (2021, Il Mulino) e “Nell’età dell’odio. Sfera pubblica, intolleranza e democrazia” (2025, Il Mulino).

Con un discorso duro e provocatorio a Monaco di Baviera, il vice presidente” Vance” ha bacchettato l’Unione Europea e i suoi Stati membri per quella che considera una frattura crescente nei valori condivisi, in particolare sulla libertà di espressione e su come tutelarla, tra Stati Uniti ed Europa.

L’ironia?

 Vance non ha tutti i torti, ma è proprio il suo intervento a segnare la distanza tra l’Europa e la nuova America sul concetto di libertà di parola.

 La visione difesa da Trump, Vance e Musk si allontana dalla tradizione di Oliver Wendell Holmes, John Stuart Mill e persino dal conservatore Antonin Scalia.

Il Primo Emendamento garantisce protezione dall’interferenza del governo sulla libertà di espressione, ma la storia della Corte Suprema statunitense non ha mai sostenuto che questo diritto fosse assoluto.

 L’esempio classico di “Holmes” – vietare di gridare “al fuoco!” in un teatro affollato – richiama il pensiero di “Mill: la libertà finisce dove inizia un danno imminente.

Anche “Voltaire” fissava un limite nel mantenimento dell’ordine sociale e della pace pubblica.

 E “Scalia”, nella sentenza” R.A.V. v. City of St. Paul”, chiariva che atti come bruciare la bandiera americana o una croce di legno sono ammissibili solo se inseriti in una protesta politica pubblica.

Per oltre un secolo, la Corte Suprema ha legato la libertà di espressione alla ricerca della verità, nella speranza ottimistica di “Mill “che il confronto aperto smascherasse, col tempo, le menzogne.

Ma se il fine della libertà di parola è avvicinare la società alla verità, non riguarda solo chi parla, ma anche chi ascolta, senza interferenze o secondi fini.

 

In Europa ci siamo posti una domanda semplice:

la selezione algoritmica dei contenuti e le bolle di filtraggio delle piattaforme online garantiscono davvero libertà di parola e di ascolto?

Spingere certe notizie – vere o false – verso pubblici selezionati crea davvero uno spazio informativo equo e neutrale?

E la creazione, manipolazione e diffusione di fake news e discorsi d’odio ci avvicina al dialogo aperto immaginato da Mill e Popper?

 

Il free speech non è free spin.

Manipolare non significa esprimersi, soprattutto quando sono gli algoritmi a decidere cosa vediamo online.

Non tutti vediamo le stesse cose.

 Non sappiamo cosa vedono gli altri né perché certi contenuti ci vengono mostrati.

 E spesso dimentichiamo che molte voci online, apparentemente genuine, sono in realtà propaganda pagata, amplificata da eserciti di micro-influencer retribuiti a visualizzazione.

 

In Europa, difendere la libertà di espressione significa proteggerla dalla disinformazione.

Il diritto a informare e a essere informati include anche il diritto a non essere ingannati.

Un ambiente digitale neutrale o almeno trasparente è essenziale:

è questo l’obiettivo del “Digital Services Act”, che ha messo sotto inchiesta la “piattaforma” X” di Elon Musk.

 

Chi vince elezioni grazie a manipolazioni algoritmiche, hate speech e spin online difficilmente appoggerà regole che vogliono difendere la libertà di espressione dalla disinformazione.

Ma risparmiateci lezioni sul” free speech”.

 Vance dice che chi ha paura delle opinioni non può garantire sicurezza. La nostra risposta?

Se l’internazionale dell’estrema destra e dei suprematisti fosse davvero sicura delle proprie idee, non avrebbe bisogno di odio, bugie e algoritmi per vincere.

I valori europei condivisi si chiamano stato di diritto.

E noi, a questo, non rinunciamo.

 

 

 

Elon Musk è un difensore

della libertà d’espressione.

Proversi.it – Nina Celli –  (25-03 – 2025) – Redazione – ci dice:

Elon Musk pare convinto che la libertà di parola sia un valore assoluto, non negoziabile.

Non si tratta di una semplice dichiarazione di principio, ma di una battaglia concreta, vissuta nell’arena mediatica globale.

 Con l’acquisizione di Twitter – oggi X – Musk ha compiuto una delle mosse più controverse e insieme più coerenti della sua carriera:

prendere il controllo del “foro romano” del XXI secolo per riportarlo, nelle sue intenzioni, al centro del dibattito aperto.

“L’uccellino è libero”, scrisse in un tweet secco, appena acquisita la piattaforma. Era l’ottobre del 2022.

In pochi caratteri, un manifesto.

Musk ha dichiarato di voler trasformare “X” in uno spazio di espressione autentica, non filtrato da logiche ideologiche, politiche o commerciali.

Ha reintrodotto account bannati, ha ridotto le politiche di moderazione dei contenuti e ha avviato un programma di verifica basato su abbonamento, per rendere più trasparente e meritocratica l’identità digitale.

La sua posizione non è priva di rischi.

Eppure, è difficile negare che in un’epoca di “censura algoritmica”, “echo chamber” e “polarizzazione estrema”, Musk abbia almeno posto le domande giuste:

 chi decide cosa si può dire?

Chi modera i moderatori?

 È accettabile che pochi centri privati di potere digitale possano silenziare leader, intellettuali, attivisti?

Musk si è attirato critiche feroci per aver riportato online figure come “Donald Trump” o alcuni pensatori “anti-sistema”.

Ma è innegabile che il suo intervento abbia riacceso il dibattito sul pluralismo, sull’arbitrarietà delle censure e sull’opacità degli algoritmi.

 Per molti, anche tra i suoi detrattori, questa è stata una scossa salutare al sistema.

Secondo il “New York Times”, l’acquisizione di X da parte di Musk ha “scardinato lo status quo dell’industria tech e costretto tutti a ripensare il rapporto tra piattaforme e democrazia”.

Il “Washington Post” ha parlato di “una ridefinizione radicale dello spazio pubblico digitale”.

E per alcuni filosofi del digitale, come “Evgeny Morozov”, Musk rappresenta “l’unico attore capace di rompere davvero l’oligopolio del pensiero algoritmico”.

Certo, le implicazioni sono complesse.

La piattaforma è diventata terreno fertile anche per odio, disinformazione e polarizzazione.

Ma anche in questo caso, Musk ha reagito in modo coerente con la sua visione:

ha dichiarato che combattere il male dell’informazione non può passare per il silenzio, ma per il confronto.

Ha lanciato “xAI” e la “chatbot Grok” con l’intento dichiarato di promuovere “la verità”, e ha reso il modello open source per favorire la trasparenza.

Per Musk, la libertà d’espressione è un bene supremo: imperfetto, rischioso, ma insostituibile.

 È il fondamento di ogni progresso, il prerequisito dell’innovazione.

La sua gestione di X può non piacere, ma risponde a una filosofia chiara:

meglio un dibattito caotico che una voce unica.

Meglio una piazza rumorosa che un algoritmo silenzioso.

In un mondo dove i confini tra informazione e manipolazione si fanno sempre più labili, la sua sfida alla cultura del controllo è un gesto potente, non solo provocazione.

(Nina Celli).

 

 

 

Musk, dal libertarismo

all’autoritarismo.

  Jacobinitalia.it - Carolin Amlinger -  Oliver Nachtwey – (31 Gennaio 2025) – ci dicono:

L’ideologia del merito, l’esaltazione della tecnica e l’odio anti-woke per ogni egualitarismo hanno condotto il primo oligarca globale a sostenere idee antidemocratiche espressamente di estrema destra.

Nella storia degli Stati moderni, nessuno è stato in grado di convertire la propria ricchezza in un’influenza politica globale simile.

Acquistando Twitter, ora ribattezzato “X”, Elon Musk si è lanciato al governo degli Stati uniti.

Così facendo, si è trasformato nel principale amplificatore dell’autoritarismo globale.

Ma bisogna anche riconoscere che un amplificatore rafforza i suoni, non li crea da solo.

Ciò che prima era un fastidioso rumore di fondo adesso è diventato rumore trasmesso a reti unificate.

 

Musk non è sicuramente turbato dal fatto che “X” abbia perso un valore così massiccio da quando l’ha acquistata.

Da quando ha aiutato Donald Trump a vincere le elezioni presidenziali, la sua ricchezza è salita a più di 400 miliardi di dollari.

 Dopo l’insediamento, si prevede che aumenterà ulteriormente.

Come capo del Dipartimento per l’efficienza governativa (Doge), può tentare di smantellare i programmi sociali, educativi e sanitari, mentre il suo conglomerato aziendale, che comprende trasporti, aerospaziale, intelligenza artificiale (Ia) e neurotecnologia, sarà ancora più direttamente collegato al flusso dei sussidi governativi.

 

Musk si è già scontrato più volte con i capi di governo socialdemocratici europei.

 Il vicepresidente “JD Vance” ha già minacciato di ritirare gli Stati uniti dalla Nato se l’Unione europea dovesse porre degli argini regolamentari a “X”.

 I suoi fan della destra libertaria salutano Musk come un imprenditore geniale e difensore della libertà.

Nel suo ruolo mediatico (è così che adesso pare impiegare il suo tempo), Musk è soprattutto un agitatore sempre più autoritario.

 

Limiti di carattere.

Cosa ha spinto Musk a rivolgersi all’autoritarismo?

Nel libro “Character Limit”, gli analisti “Kate Conger” e “Ryan Mac” descrivono diversi eventi scatenanti che si sono verificati in un arco di tempo di soli pochi anni. Musk è stato estremamente critico nei confronti delle proteste di “Black Lives Matter”.

Diceva che il suo appeal risiedesse nel «virus della mentalità woke» che infettava i social media e ancora di più le aziende che avevano sostenuto programmi per la diversità.

 

Come tutti i libertari, Musk è sempre stato un sostenitore della meritocrazia radicale, in cui il duro lavoro e le capacità individuali sono considerati gli unici prerequisiti legittimi per il successo.

A suo avviso, i programmi per la diversità indeboliscono l’idea meritocratica.

La sociologa “Arlie Hochschild” ha utilizzato l’immagine della «fila d’attesa» per spiegare il sostegno a Trump di molte persone della “working class bianca”.

 

Vogliono credere nel sogno americano della mobilità sociale attraverso i propri sforzi, anche se per loro non si realizza mai.

La cosa peggiore è quando pensano che i membri dei gruppi minoritari vengano messi prima di loro in coda a causa della loro identità.

Musk adotta questa prospettiva come Ceo.

In quanto libertario, Musk rifiuta i sindacati.

A differenza di altre case automobilistiche statunitensi, è riuscito a evitare accordi collettivi in Tesla.

Ma i segnali di ripresa del movimento sindacale statunitense lo hanno messo sotto pressione negli ultimi anni.

 Allo stesso tempo, le misure di protezione durante la pandemia di Covid-19 nei suoi stabilimenti Tesla in California hanno profondamente invaso le sue «libertà» imprenditoriali;

non si sentiva più padrone a casa propria.

L’amministrazione di Joe Biden lo ha snobbato non invitandolo alle consultazioni con le case automobilistiche.

Tuttavia, la natura personale della crociata di Musk contro il contagio della” woke ness” non si spiega soltanto con gli interessi economici, come vediamo quando dice di considerare «morta» la “figlia trans”.

Nel giro di pochi anni, un Ceo libertario di un’azienda tecnologica che esibiva tratti narcisistici ma era politicamente centrista, si è trasformato in un esponente di spicco di ciò che abbiamo definito autoritarismo libertario.

Gli autoritari libertari vogliono abolire lo stato democratico, che vedono come una macchina che limita le libertà individuali.

 I neoliberisti usano lo Stato per rafforzare il mercato, mentre gli autoritari libertari considerano lo Stato democratico stesso, le autorità e le loro normative, invadenti e dannosi.

 

È lo stesso modo in cui considerano i migranti e le persone queer.

Questa prospettiva è radicata in una concezione iper individualista della libertà che nega l’interconnessione dell’esistenza sociale, trattando la libertà come un diritto privato piuttosto che come una condizione sociale condivisa.

Ironicamente, mentre l’autoritarismo libertario protesta contro le strutture della società tardo-moderna, finisce per rafforzarne i principi fondamentali di autodeterminazione e sovranità.

 

Musk si presenta come un «assolutista della libertà di parola» e in tempi record ha trasformato Twitter in un amplificatore globale del discorso di destra che soffoca tutti gli altri.

Ha aperto la strada, come noto, licenziando migliaia di dipendenti di Twitter che erano responsabili della «moderazione dei contenuti», ovvero filtrare discorsi d’odio e fake news.

Allo stesso tempo, ha riattivato numerosi account che erano stati precedentemente bloccati per discorsi d’odio.

 Il suo «assolutismo della libertà di parola» è, tuttavia, chiaramente relativo.

 Ha regolarmente bloccato account che pubblicavano critiche nei suoi confronti e ha collaborato con le autorità di censura cinesi.

Da un tweeter occasionale iniziale, su X Musk è diventato una macchina per messaggi.

Secondo un’analisi di Bloomberg, Musk è diventato l’amplificatore più influente delle teorie cospirative anti-migranti su X durante la campagna elettorale degli Stati uniti.

Nel giro di due mesi, ha pubblicato 330 post sull’argomento, in cui ha affermato, tra le altre cose, che i democratici stavano introducendo clandestinamente immigrati clandestini nel paese per impedire a Trump di essere eletto.

 Il suo linguaggio è diventato sempre più volgare durante la campagna elettorale.

Nel corso di una diretta streaming con Trump su X ha definito gli attraversamenti del confine meridionale degli Stati uniti una «apocalisse zombie».

E più la campagna elettorale si faceva accesa, più lui interveniva nell’algoritmo.

 

Stile paranoico.

Nel suo libro del 1949 “False Prophets”, il sociologo” “Leo Löwenthal” descrisse un tipo di agitatore chiaramente riconoscibile in Musk.

È esattamente adottando uno stile poco serio, ambiguo e giocoso che l’istigatore manipola vaghe paure e libera aggressioni latenti.

Musk si presenta come un combattente oscuro al fianco di Trump e mostra provocatoriamente i tratti clowneschi di questo ruolo.

Per “Löwenthal”, l’agitatore è pericoloso perché «il rimuginare paranoico e la proiezione di cospirazioni finiscono con suggerire atti di violenza»;

e data la portata delle minacce cospirative che la società deve affrontare, «le leggi e le istituzioni esistenti non possono farvi fronte e… sono necessarie misure straordinarie».

 

Musk proietta sicuramente una realtà paranoica:

 nella quale i migranti minacciano una maggioranza bianca attraverso l’immigrazione, i comunisti svegli mettono a repentaglio l’economia e i partiti democratici pianificano manipolazioni elettorali su larga scala.

Nei suoi innumerevoli post, dipinge il quadro di una “dittatura liberale” alla quale ogni individuo deve resistere.

Musk non sta prendendo di mira solo la sfera digitale, ma anche quella analogica. Dopotutto, le elezioni vengono ancora decise al seggio elettorale.

Se vi stavate chiedendo perché continuate a vedere i post di Musk su X anche se non lo seguite o almeno non interagite con lui, è perché si trova in piedi accanto al vostro orecchio con il suo megafono, quindi dovete ascoltarlo per forza.

Musk era già un attore globale come produttore di automobili, ma l’acquisizione di Twitter gli ha dato la leva per sconvolgere anche altri sistemi politici.

 

È il primo oligarca veramente globale.

Il fatto di aver descritto il cancelliere tedesco “Olaf Scholz”, un socialdemocratico, e il ministro di spicco verde “Robert Habeck” come degli sciocchi è una cosa relativamente innocua.

Attraverso il peso dei suoi follower, Musk può provare a capovolgere le regole della legittimazione democratica:

 i rappresentanti eletti sono soggetti al suo giudizio, o dovrebbero giustificarsi con lui per le loro azioni.

 

Durante le rivolte razziste britanniche di luglio e agosto 2024, Musk ha svolto il ruolo spregevole di un agitatore autoritario a molti livelli.

 Dopo un’aggressione con coltello a delle ragazze in una lezione di danza, le speculazioni sull’identità musulmana dell’autore, i post sulla violenza musulmana e le teorie cospirative secondo cui le autorità volevano nascondere i retroscena del crimine si sono diffuse su X a macchia d’olio.

 Sono seguite rivolte simili a pogrom, che hanno scosso diverse città.

 

Un istigatore chiave dell’esplosione di fake news, teorie del complotto e razzismo sui social media è “Tommy Robinson”, il più noto estremista di destra britannico, che gestiva l’hub digitale della violenza in rete dalla sua stanza d’albergo a Cipro.

Il suo account era stato riattivato da Musk, che interagiva con Robinson in modo approvativo, dandogli così una portata enorme.

Inoltre, Musk ha commentato i post di influencer di estrema destra, affermando persino che una guerra civile nel Regno unito era inevitabile.

 Quando il primo ministro britannico Keir Starmer lo ha criticato per questo, il capo di X lo ha paragonato ai censori di Stalin.

Chiede regolarmente le dimissioni di funzionari di altri Stati, come il giudice brasiliano” Alexandre de Moraes”, che ha definito un dittatore malvagio perché voleva costringere “X” in Brasile ad assumersi maggiori responsabilità per i contenuti sulla piattaforma.

I sostenitori di Musk hanno manifestato contro di lui.

 

D’altro canto, ha molto in comune con la presidente del consiglio italiana Giorgia Meloni, che sostiene ovunque può.

Lo stesso vale per l’Alternative für Deutschland (AfD), la cui campagna elettorale ha recentemente promosso sul settimanale tedesco “Welt am Sonntag”.

 Alla vigilia di Capodanno, Musk ha definito su X il presidente tedesco “Frank-Walter Steinmeier “un «tiranno antidemocratico», in risposta a un post di un influencer tedesco di destra che ha selvaggiamente accusato Steinmeier di pianificare la cancellazione del risultato delle elezioni federali di febbraio.

 

L’oligarca radicalizzato.

Sabato scorso, Musk è apparso al lancio della campagna elettorale dell’”AfD” in un video che imita l’estetica travolgente di “Leni Riefenstahl”.

Ma ciò che ha detto Musk è stato altrettanto importante.

 Se c’è stato un consenso democratico in Germania dopo il nazismo e l’Olocausto, riguardava il fatto che non c’era motivo di essere orgogliosi di essere tedeschi piuttosto che di un’altra nazionalità.

Eppure, Musk ha invitato gli euforici membri dell’AfD a essere finalmente orgogliosi di essere di nuovo tedeschi e a lasciarsi alle spalle il passato, ovvero la colpa del nazismo.

 

Abbastanza apertamente, Musk stava qui normalizzando quello che in precedenza sarebbe stato considerato un argomento di discussione estremista.

Tuttavia, potremmo anche dire che Musk stava incoraggiando i sostenitori dell’AfD ad abbracciare apertamente il loro estremismo di destra piuttosto che minimizzarlo.

Come sottolineato dal presidente polacco Donald Tusk, l’agitazione fascista di Musk ha avuto luogo solo poche ore prima del Giorno della Memoria dell’Olocausto, che segna l’ottantesimo anniversario della liberazione di Auschwitz.

Tuttavia, il comportamento provocatorio di Musk non dovrebbe sorprendere, dopo il suo saluto all’insediamento di Trump la settimana precedente.

 

Musk è diventato autoritario radicalizzando il suo libertarismo economico.

La sua trasformazione da politico liberale ad agitatore autoritario è dovuta principalmente al sospetto di un blocco del principio meritocratico.

Ritiene, come imprenditore individuale, di essere caduto nella trappola dell’egualitarismo.

Nel suo saggio La teoria freudiana e la struttura della propaganda fascista, “Theodor W. Adorno” ha osservato, seguendo il suo collega Löwenthal:

«In quanto ribellione contro la civiltà, il fascismo non è semplicemente la ripetizione dell’arcaico, ma la sua riproduzione nella e dalla civiltà stessa».

 

La ribellione dirompente di Musk contro la democrazia liberale, tuttavia, non è una brutalizzazione barbarica.

Deriva dall’ideologia californiana radicalizzata in cui la tecnologia dovrebbe migliorare il mondo e liberare l’individuo.

Per migliorare il mondo, Musk vuole distruggere la democrazia socialmente regolata.

L’individuo liberato deve essere difeso dal potere interventista della statualità moderna.

 

Non è chiaro come si svilupperà la relazione tra l’agitatore globale Musk e Trump.

Musk è intervenuto invano per impedire il compromesso tra repubblicani e democratici per garantire la solvibilità dello Stato.

Allo stesso tempo, si è inimicato la parte di estrema destra del “movimento Maga” sostenendo l’accesso nel paese di ingegneri altamente qualificati.

Qui stanno emergendo linee di conflitto tra gli autoritari nativisti, che sotto la guida di Trump vogliono ripristinare la nazione nel senso della supremazia bianca, e gli autoritari libertari come Musk.

Il tempo in cui Musk non ha dovuto essere esigente sui messaggi autoritari di cui è stato portavoce potrebbe essere limitato.

(Carolin Amlinger è una sociologa della letteratura e ricercatrice associata presso il Dipartimento di Linguistica e Studi Letterari dell’Università di Basilea.)

(Oliver Nachtwey è professore di sociologia all’Università di Basilea.

Hanno scritto Offended Freedom: The Rise of Libertarian Authoritarianism (John Wiley and Sons Ltd, 2024).

 

 

 

 

La democrazia occidentale

secondo David Graeber (1961-2020),

Radiopopolare.it – (4 Settembre 2020) – Redazione – ci dice:

 

David Graeber - Democrazia Occidentale.

È in gran parte il frutto della mia esperienza nel movimento anti-globalizzazione, o meglio per una globalizzazione alternativa il cui dibattito si è spesso focalizzato su tematiche connesse alla democrazia.

 Gli anarchici in Europa e in Nord America e le organizzazioni dei popoli indigeni nel Sud del pianeta si sono trovati ad affrontare quesiti molto simili.

La democrazia è un concetto intrinseco all’idea stessa di Occidente?

 La democrazia occidentale si riferisce a una forma di governance, ovvero una modalità di auto organizzazione comunitaria oppure a una forma di governo ovvero una specifica configurazione di apparati statali?

La democrazia occidentale implica necessariamente il dominio della maggioranza? La democrazia rappresentativa è realmente democratica?

 Il modo in cui viene concepita è irrimediabilmente contaminato dalle sue origini dell’Atene classica, cioè in una società militarista e schiavista basata sulla sistematica oppressione delle donne?

 O, più esattamente, ciò che noi chiamiamo oggi democrazia storicamente ha a che vedere con la democrazia ateniese?

È possibile riscattare il pianeta con forme decentralizzate di democrazia diretta basate sul consenso?

Se lo è, come faremo a convincere la maggior parte della gente del pianeta che la democrazia non ha nulla a che fare con l’elezione dei propri rappresentanti?

Se non lo è, e dunque accettiamo la definizione prevalente applicando ad altre modalità il termine “democrazia diretta”, come facciamo ad affermare che siamo contro la democrazia, una parola che ha così tante connotazioni positive universalmente accettate?

 

Si apre così uno dei libri più famosi di “David Graeber”, “Critica della democrazia occidentale. Nuovi movimenti, crisi dello stato, democrazia diretta“, l’antropologo, anarchico e professore influente alla “London School of Economics” scomparso prematuramente a Venezia.

Graeber era stato ospite di Radio Popolare nel 2012 e in quell’occasione fu intervistato da “Ira Rubini”. Vi riproponiamo di seguito l’intervista integrale.

 

In “Critica della democrazia occidentale” sostiene che “non c’è mai stato un Occidente“.

Cosa significa?

 

In realtà il cosiddetto concetto della civiltà occidentale di per sé non è mai stato molto chiaro.

 Certe volte la Russia ne fa parte oppure non ne fa parte, la Germania ne ha fatto parte solo un po’.

 Questa idea dell’Occidente è in realtà un’idea molto recente, definitivamente assurta all’attenzione del grande pubblico dopo la Prima Guerra Mondiale, anche con gli interventi degli americani che, in qualche modo, hanno creato un collegamento fra l’Europa e gli Stati Uniti come se l’Europa e gli Stati Uniti fossero la stessa cosa.

 In realtà questa definizione di Occidente di per sé non ha senso, soprattutto perché viene utilizzata in tanti modi diversi, talvolta culturali, talvolta intellettuali e talvolta razziali.

 

Questo concetto di per sé poco chiaro può essere applicato anche al concetto di democrazia, e in particolare di democrazia occidentale.

In che senso?

 

Molti di noi pensano che la democrazia sia nata ad Atene, nell’antica Atene, e che quello fosse il posto in cui improvvisamente si è avuta questa straordinaria intuizione che ci si poteva riunire in una piazza per prendere delle decisioni collettive.

E che poi, pian piano, questo concetto di democrazia sia virato verso l’Occidente arrivando fino al nord dell’Atlantico.

Però anche in questo senso, tornando al concetto di occidentale, bisogna ancora una volta ribadire che questo concetto ha davvero dei tratti molto confusi.

 Se è una tradizione intellettuale è chiaro che si sposta continuamente, ma quindi non si sposta soltanto verso ovest, anche verso est.

I paesi arabi, per esempio.

Nessuno di noi pensa che nelle università arabe si studia Aristotele, esattamente come lo si studia in Occidente.

E tra l’altro moltissimi intellettuali, almeno fino alla seconda metà dell’800, erano molto spesso contrari al concetto di democrazia, almeno nella stragrande maggioranza dei casi.

Anche il concetto di un elemento culturale che unifica l’Occidente e ci rende tutti democratici è relativo, perché se noi possiamo sentirci collegati all’antica Grecia come patria della democrazia, molto meno magari ci sentiamo collegati alla Grecia di oggi, che talvolta addirittura alcuni popoli dell’Occidente ricco non considerano nemmeno come completamente democratica.

“David Graeber” si è molto concentrato sulla delega che noi diamo a delle persone per rappresentarci e gestire politicamente la cosa pubblica per noi.

 

Anche qui il discorso è abbastanza complicato.

Prendiamo ad esempio le Costituzioni americane e francesi.

Coloro che hanno scritto quelle Costituzioni in realtà non stavano affatto pensando alla “democrazia diretta” così come la si intende in senso ateniese, pensavano piuttosto una forma repubblicana che, in qualche maniera, contenesse degli elementi di democrazia.

Più pensando all’antica Roma che non all’antica Atene.

Se si pensa poi alla Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti non v’è traccia di riferimenti democratici.

 È soltanto dopo il 1830 che, per una serie di motivi anche economici e commerciali, i repubblicani cominciarono ad avere l’etichetta anche di democratici, ad unire i due concetti insieme.

 

Un altro libo molto famoso di “David Graeber” è stato “Debito. I primi 5000 anni“, un’analisi di come il problema del debito sia antichissimo e risalga addirittura alla Mesopotamia.

 

Il concetto di credito, che determina anche il concetto di debito, è un concetto molto antico.

 E il concetto di denaro contante, del pagare subito, è un concetto che in realtà non appartiene soltanto al nostro tempo.

Noi abbiamo l’impressione che il poter pagare online sia una conquista che abbiamo grazie alle tecnologie.

 È vero, ma il concetto di credito nell’antica Mesopotamia era il sistema abituale per pagare.

Si pagava a credito.

Il denaro contante è arrivato migliaia di anni dopo.

 

Che atteggiamento suggerisce agli individui e ai piccoli gruppi su cui si è molto concentrato nel suo lavoro di ricerca sociale nei confronti di problemi globali come il debito.

 

Anche qui ci sono vari livelli per considerare l’atteggiamento che dovremmo tenere nella nostra quotidianità.

Certo, il debito è una promessa particolare resa perversa dalla congiunzione di matematica e violenza, due elementi che quando su uniscono diventano molto pericolosi.

Ecco perché in qualche maniera il fatto che il debito di questo tipo possa essere trasferito ad altri, e quindi in qualche modo perda la personalizzazione della promessa, lo rende particolarmente complicato.

Però bisogna ricordare che una promessa in denaro non è diversa dalle altre promesse e che è possibile pensare, come si rinegoziano le promesse dei politici, di rinegoziare anche le promesse dei debiti in denaro.

Tutti sono d’accordo nel considerare il denaro come qualcosa di virtuale, almeno ai giorni nostri.

Era un po’ meno facile rinegoziare le cose nei tempi in cui il denaro era moneta sonante, fatto d’oro e d’argento.

Ma, come abbiamo visto nel 2008, con una bacchetta magica si possono fare trilioni di dollari con un semplice movimento.

 Sarebbe il caso di ricominciare a pensare se si può rinegoziare il debito.

 

 

Democrazia.

Una crisi che

non si può ignorare.

Rivistailmulino.it - Paolo Pombeni – (25 luglio 2024) – ci dice:

È necessario riflettere sul modello della democrazia costituzionale così come si è sviluppata negli ultimi due secoli:

 non per farne un idolo, ma per riproporne le capacità creative.

 

Dello stato della democrazia e della sua attuale crisi hanno parlato papa Francesco, a più riprese il presidente Mattarella, Ursula von der Leyen nel discorso programmatico per la rielezione al vertice della Commissione europea.

 Non è solo questione del funzionamento più o meno carente dei sistemi che si rifanno, pur in forme e con modalità diverse, al costituzionalismo così come si è evoluto dal modello liberale classico al modello che vi ha inglobato la dimensione sociale.

Le difficoltà che ha incontrato e che incontra questo modo di organizzare lo spazio e la convivenza nelle società politiche sono note, discusse in varie sedi e dipendono in buona parte dall’evoluzione storica che ha coinvolto l’ambito geografico in cui il costituzionalismo è nato e si è sviluppato, cioè quello che normalmente si definisce “l’Occidente”.

 

L’aspetto inedito con cui si devono fare i conti è che da qualche decennio quel modello è considerato inaccettabile:

ha perso la sua natura tutto sommato prescrittiva che ne faceva una componente essenziale della modernità.

 Si potrebbe obiettare che esso era già stato sfidato dai sistemi che, rifacendosi in modi diversi al marxismo, avevano ritenuto di proporsi come alternativi al paradigma costituzionale.

Tuttavia, va subito precisato che quei sistemi, almeno nella versione che reclamava di esserne l’incarnazione più ortodossa, cioè nel regime sovietico, pretendevano di essere, coerentemente con la prospettiva di Marx, lo sviluppo compiuto e totale delle istanze che stavano alla base della rivoluzione costituzionale dell’Occidente, perché avendole separate dall’economia capitalista le aveva massimizzate nella loro capacità di “liberazione” dell’uomo (il che in definitiva doveva essere l’obiettivo dell’umanesimo occidentale da cui trae origine ultima il costituzionalismo).

 

Il crollo del sistema sovietico, l’”ambiguità del sistema socialista cinese” che sembrava essersi per tanti versi occidentalizzato, almeno nella gestione del sistema economico e nell’assunzione della rivoluzione tecnologica, avevano portato molti a concludere che il modello del costituzionalismo occidentale, ossia della liberal-democrazia, si fosse ormai affermato sbaragliando i suoi avversari, unico modello cui rivolgersi per rimanere nell’ambito della “modernità”.

È nota la tesi di Francis Fukuyama sulla “fine della storia”, nel senso di esaurimento della capacità di sfida alternativa al quadro del costituzionalismo con le sue incarnazioni economiche e sociali.

 

Tuttavia la sfida mostrava ancora il suo volto, questa volta con le sembianze dell’estremismo islamico, un sistema culturale che non solo rifiutava il contesto dei valori dell’Occidente, ma che li combatteva tanto impedendo che essi si propagassero nelle terre storiche dell’insediamento di quella cultura, quanto mettendo in crisi la capacità di dominio dei Paesi che a essi si richiamavano sia con il ricorso al conflitto armato e alla guerra asimmetrica del terrorismo, sia, dove possibile, animando conflitti per così dire più tradizionali.

 

A interpretare questo quadro in buona parte nuovo aveva provveduto “Samuel Huntington” con la tesi, fortunata, della presenza di uno “scontro di civiltà”. I

l mondo aveva perso il relativo equilibrio garantito dalla condivisione di un complesso di punti di riferimento dati per razionali e sconnessi da appartenenze culturali particolari ed era accaduto perché erano tornati in campo i riferimenti ad altre forme di elaborazione dell’organizzazione socio-culturale, le quali rifiutavano di far parte della “koinè occidentale”.

 Il riferimento più evidente era all’islamismo radicale, ma si iniziava a vedere il risorgere dell’antioccidentalismo slavo-bizantino, nonché altre forme di rivendicazione di modelli, alcuni più o meno frutto di invenzioni polemiche (culture sudamericane, culture africane), ma altri anche di storie molto complesse i cui “quarti di nobiltà” sono ardui da negare, come nel caso della cultura indiana e cinese.

 

Possiamo qui prescindere dal discutere degli infiniti problemi e delle aporie che pone l’utilizzo dello schema interpretativo dello scontro di civiltà.

Vogliamo infatti richiamare l’attenzione su due elementi che stanno connotando la fase attuale della crisi della democrazia e che ispirano le riflessioni autorevoli da cui abbiamo preso le mosse:

 la resa crescente che è presente in molti settori della cultura occidentale alla tesi della dimensione del tutto relativa e priva di paradigma del modello occidentale; il via libera che ciò ha dato alla ripresa di un confronto fra le nazioni su basi neo-imperiali.

 

Era senz’altro eccessivo dichiarare una superiorità assoluta e indiscutibile del modello occidentale che ha prodotto la democrazia come sistema di governo.

È stata a lungo “esportata” in tutto il mondo che si è trovato sotto il dominio euro-americano con risultati controversi, per la semplice ragione che spesso si sono attuate le “formalità” del sistema (competizione elettorale, articolazione dei poteri fra parlamenti, governi, magistratura, qualche libertà di espressione per l’opinione pubblica) e si è realizzata l’assimilazione di alcuni modelli di “way of life” dal punto di vista dell’utilizzo delle tecnologie come da quello dei “consumi”, ma senza che si andasse oltre il formalismo per cui, giusto per spiegarci, le elezioni sono pesantemente manipolate, l’articolazione dei poteri rimane sulla carta, la pubblica opinione è limitata e controllata.

Non si è tenuto conto che il sistema costituzionale è figlio di varie storie politiche nazionali, è supportato da itinerari di sviluppo e da condizioni essenziali di cultura, di vita sociale e di contesto economico, in assenza delle quali le istituzioni democratiche non possono vivere.

 

Un certo successo di alcune “esportazioni”, per esempio in India o in Giappone dopo la Seconda guerra mondiale, ha fatto ritenere che il metodo fosse plausibile, ma vari fallimenti dopo inizi che potevano sembrare promettenti hanno costretto a rivedere queste convinzioni (si pensi alle ex colonie europee in Africa, dove al momento dell’indipendenza si erano instaurati sistemi politici sul modello occidentale, per arrivare poi al loro disseccamento).

 

Ci troviamo a fare i conti con una critica ai sistemi democratici che si sviluppa all’interno di quegli stessi Paesi che avrebbero dovuto avere l’orgoglio di avere testato il modello da quasi due secoli.

 

Ciò che ha messo in crisi la tenuta del modello occidentale non è stato però semplicemente il successo limitato, e spesso l’insuccesso delle “esportazioni” che si sono tentate (anche con intenti manipolatori da parte dei Paesi esportatori che sono sovente stati davvero dei cattivi maestri).

Oggi ci troviamo a fare i conti con una critica ai sistemi democratici, critica che si sviluppa all’interno di quegli stessi Paesi che avrebbero dovuto avere l’orgoglio di avere varato e testato ormai in quasi due secoli il modello.

Non si tratta naturalmente di negare che l’attuale sviluppo delle democrazie occidentali conosca un momento critico per le difficoltà a gestire un contesto di partecipazione alla sovranità politica da parte del popolo in presenza di condizioni che hanno visto mutare alcune caratteristiche culturali, sociali ed economiche le quali avevano innervato il progresso del sistema.

Si può iniziare richiamando il venir meno delle tradizionali reti che tenevano insieme il sistema (cultura diffusa, condivisione di un set di valori considerati fondanti, se non preminenza, almeno equilibrio fra il solidarismo e l’individualismo), per finire ricordando lo spaesamento dei cittadini di fronte alle incognite che pone una transizione storica di grande portata (ci limitiamo a ricordare la presenza di una rivoluzione tecnologica che ha inciso a fondo sul sistema di interpretazione e di comprensione della vita sociale).

 

Questo cambiamento ha prodotto in Occidente un tentativo di distacco da una parte non piccola della cultura rispetto al “valore” del sistema democratico e del sistema di organizzazione degli spazi politici ed economici che vi è connesso.

Alla critica che altri sistemi culturali hanno avanzato contro il nostro modello, si è reagito sposandola e mostrandosi, per usare una metafora, più realisti del re.

Il fenomeno della cosiddetta “cancel culture” è emblematico di una risposta paranoica a chi mette in luce debolezze nella nostra storia, politica e non solo:

 si è ritenuto che avesse senso cancellare la nostra storia perché non si è sviluppata secondo i canoni che si suppongono rappresentare oggi il punto di arrivo di una presunta “liberazione”.

 

Si tratta di un contesto che priva l’Occidente delle capacità di rielaborazione del suo modello, perché lo ritiene sbagliato sin dalle origini, senza per altro essere in grado di offrire risposte al vuoto che l’abbandono del modello genera, neppure veramente accettando i sistemi che sembrano venire dalle culture alternative a quella occidentale (pescare da esse questo o quel contenuto mitico-folkloristico impastando il tutto in una fusione senza logica non è un passo avanti per l’elaborazione di alternative, ma solo un passo ulteriore nella paranoia).

 

Conviene tenere conto che a fronte di questa crisi che lo scuote, l’Occidente non è in grado di dominare i casi di neo-imperialismo che si stanno sviluppando sfruttandola.

Ci sono fenomeni molto evidenti come la ripresa dell’imperialismo russo che allarga le sue mire espansionistiche ormai con la chiara teorizzazione di una sua contrapposizione all’Occidente.

Gli storici possono avvertirci che si riprende la tradizione di una competizione fra il mondo “romano” e il modo “slavo-bizantino”, ma non ci si deve impressionare troppo per queste spiegazioni:

la realtà è che, come sempre accade, l’indebolimento di un sistema che ha per un secolo abbondante avuto un ruolo centrale ed egemonico nella storia genera in chi di quel dominio si è sentito parte marginale se non in alcuni casi vittima la volontà di trarne profitto.

 

I sistemi che abbiamo definito neo-imperiali non condividono le coordinate del costituzionalismo occidentale, soprattutto per la ragione che non prevedono la presenza di una volontà popolare che liberamente si forma nel quadro di un percorso storico comune, in cui tutti i “cittadini” hanno avuto modo non solo di condividere un complesso culturale come orientamento dell’azione politica, ma di essere coinvolti nelle reti di elaborazione delle scelte che si sono dovute prendere di volta in volta.

 

I sistemi neo-imperiali non condividono le coordinate del costituzionalismo occidentale, soprattutto perché non prevedono la presenza di una volontà popolare che liberamente si forma nel quadro di un percorso storico comune.

 

Il quadro di base che connota questo campo di convivenza è stato e per tanti versi è ancora la “nazione”:

 una creazione culturale che tiene conto del confluire di componenti sociali plurali, le quali però erano venute omogeneizzandosi a volte anche attraverso esperienze drammatiche (guerre, crisi economiche e sociali).

Gli imperi non hanno questo retroterra:

sono composti di una pluralità di componenti a cui non è però consentito di confluire liberalmente in una storia comune, che non possono partecipare alla sua elaborazione, perché ciò è delegato al potere, dispotico, di una minoranza.

Il collante in base al quale la minoranza dominante si impone è l’assioma che la massima espansione territoriale e di dominio genera “potenza” e la potenza permette un grande accumulo di ricchezza e di risorse che potrebbero anche, in teoria e assai poco in pratica, essere in piccola parte distribuite fra i sudditi dell’impero, mentre invece la maggior parte rimane nel cuore del sistema imperiale che in questo modo si perpetua e cresce (ovviamente così la minoranza dominante alimenta la sua ricchezza, ma di questo non si parla).

 

Non tragga in inganno il fatto che i sistemi neo-imperiali amano rilanciare il concetto di nazione.

 Si tratta dello sfruttamento di un retaggio storico della modernità seguita alle rivoluzioni sette-ottocentesche, per cui è la “nazione” il soggetto dedicato e legittimato a costruire al tempo stesso la identità culturale che fonda il potere e la sua legittimazione.

 In realtà i nuovi imperi elevano a loro identità nazionale quella della minoranza che detiene il controllo del sistema e sulla base di quella giustificano il dominio della minoranza e legittimano la lotta, anche armata, che presentano come inevitabile in un contesto di nazioni in competizione radicale fra loro.

 

Le tentazioni neo-imperiali sono in questa fase molte.

Se sono sotto i nostri occhi quelle di Russia e Cina, possiamo menzionare quelle, certo su scala più ridotta, dell’India, della Turchia, dell’Iran.

In questi casi si tratta di antichi imperi storici (indù, ottomano, persiano) che erano stati dati per esauriti senza possibilità di ritorno.

 Accanto possiamo trovare fenomeni di rilancio di antiche formazioni, come è il caso del califfato arabo che ha conosciuto negli ultimi decenni reincarnazioni terroristiche improbabili, ma che muove più di un empito nell’universo islamico (incluso qualche gruppo al governo in alcuni Stati).

 In complesso tutte queste dinamiche sembrano trovare orecchie sensibili in molti Paesi che si considerano, per molti aspetti non a torto, vittime di un lungo sfruttamento da parte dei Paesi che furono egemoni nel dettare le forme di controllo degli equilibri internazionali.

L’esempio che si fa in questi casi è quello dei cosiddetti “Brics”, che, pur sotto un tentativo di controllo da parte di Russia e Cina, non appartengono di loro a sistemi neo-imperiali, ma che si muovono nell’ottica di uscire dal quadro della contestata egemonia occidentale.

 

Questo contesto ha portato alla ripresa di un quadro di competizione aggressiva e di messa in discussione della “geografia” che era stata disegnata sul presupposto del carattere prioritario del modello di democrazia occidentale, seguendo la quale, sia pure con tutti i compromessi delle imprese umane, si eran disegnati i confini e le identità tanto territoriali quanto storico-culturali della comunità degli Stati.

 Ora la riapertura della sfida al paradigma del modello democratico (qualcosa di più complesso del solo versante politico istituzionale), che ha assunto caratteri di scontro armato fra poteri, oltre che di insorgenze di conflitti asimmetrici di stampo terroristico, si sta svolgendo mentre il modello occidentale sotto attacco vede indebolirsi, anche in modo rilevante, il supporto di una cultura diffusa e condivisa che lo considerava il miglior sistema di gestione, razionale, della convivenza politica.

 

La difesa della conquista storica del costituzionalismo liberal-democratico non può essere efficace se rimane soltanto nelle mani dei poteri di governo degli Stati occidentali, che non sono più in grado di gestire e promuovere la koinè culturale che ne costituiva il patrimonio fondante e che pensano, si fa per dire, che tutto possa essere risolto a livello “burocratico”, cioè come un confrontarsi di regole e proclami, di controlli formalistici in cui si tutelano tutti gli individualismi possibili senza alcuno sforzo di portarli a essere inclusi nell’idem sentire de “re publica”.

 

È necessario rilanciare una riflessione coraggiosa sul modello della democrazia costituzionale così come si è sviluppata negli ultimi due secoli:

non per farne un idolo a cui bruciare inutili incensi, ma per riproporne e ricrearne le capacità creative che contiene e che sono in grado di farci affrontare con successo il complesso tornante storico che abbiamo davanti.

 Lo facciamo perché non crediamo né ai miti delle democrazie illiberali, né a quelli dei neo-imperialismi di vario colore.

 

 

 

Critica della democrazia

occidentale, di David Graeber.

 Larivistaculturale.com - Melissa Pignatelli – (25 gennaio 2025) – ci dice:

 

Con Critica della democrazia occidentale (Elèuthera, 2024) David Graeber, antropologo statunitense e attivista deceduto improvvisamente a 59 anni a Venezia, si interroga sui concetti di “democrazia” e “occidente” evidenziandoli come costrutti politici che hanno fornito identità strumentali a vari stati-nazione europei, specie negli ultimi duecento anni di storia.

La sua prospettiva critica ci invita ad interrogarci su che cosa costituisce una democrazia e in cosa in effetti essa si contraddistingua da altre forme di esercizio del potere.

 

Il fulcro dell’argomento di “Graeber “mette in evidenzia come ci sia un uso strumentale di “Atene” e della “democrazia ateniese” da parte di un’identità “occidentale” che recupera qualche principio di matrice ellenistica per costruirsi una particolarità ed una legittimità storica propria.

 Graeber contesta dunque la visione idealizzata di Atene come modello di “democrazia perfetta” o come rappresentante di un’unica tradizione culturale occidentale, sottolineando complessità e contraddizioni della democrazia ateniese, evidenziandone limitazioni ed esclusioni, come ad esempio il fatto che solo i cittadini maschi ateniesi avessero il diritto di partecipare al processo decisionale.

 

Graeber evidenzia inoltre il passaggio storico dell’espansione coloniale come un momento nel quale nasce l’idea costruita di “occidente” “democratico”, “discendente dell’Atene classica”.

La sua argomentazione presenta come alcuni paesi dell’Europa occidentale e dell’America del Nord hanno avuto la necessità di darsi una genealogia di appartenenza “democratica” nel momento stesso in cui hanno dovuto giustificare a sé stessi l’espansione coloniale.

 

Questa discrepanza del modus operandi dell’Occidente che crea principi di libertà e ideali di uguaglianza (a casa) per poi ricombinarli con pratiche incoerenti di assoggettamento, guerra, sterminio, dominio (fuori casa) è messa chiaramente in rilievo nel saggio di Graeber.

Il potere e in generale le forme di governo, costituite principalmente dalle élites, sono per lui delle imposizioni di forza sulle volontà di persone che non riescono ad essere correttamente rappresentate.

 

In questo saggio nel quale il concetto di “Occidente” è una costruzione ideologica utilizzata per giustificare l’espansione coloniale, l’imperialismo e il dominio culturale delle nazioni europee e americane, e dove l’idea di un “Occidente” unito serve soprattutto a legittimare le politiche di dominio e sfruttamento nei confronti di altre culture e società, la democrazia è vista come un sistema nel quale si può operare solo al margine, preferibilmente dal basso.

Al di là della visione ideologica e idealizzata delle possibilità di funzionamento della democrazia, questo libro apre in effetti uno spazio interstiziale, apre al tempo di una riflessione necessaria sul corso delle democrazie nel XXI secolo, sul significato di occidente in un sistema globalizzato.

E scopriremo cosi che “There never was a West, Democracy emerges from the spaces in between”.

(Melissa Pignatelli).

 

Presidenzialismo Meloniano e “volontà popolare”:

populismo o democrazia?

Micromega.net - Michele Marchesiello – (21 Novembre 2023) – ci dice:

 

Il governo Meloni sta facendo di tutto per accentrare progressivamente il potere politico nelle mani di pochi eletti.

 Dalla gestione dei fondi del PNRR, alla votazione diretta del Presidente, la presunta volontà popolare rivendicata dalla Premier sarebbe quella di delegare a poche donne e uomini forti il destino della democrazia italiana.

 

Presidenzialismo di  Meloni e “volontà popolare”: populismo o democrazia?

Il populismo, nella più recente e prevalentemente negativa accezione, ha in realtà nobili ascendenze, tralignate in una astuta e demagogica manipolazione del sentire pubblico a proposito della politica e in generale del potere, in vista di obiettivi che – genericamente ma efficacemente – possono definirsi “di destra”.

Niente di più lampante del messaggio trasmesso da Giorgia Meloni agli italiani.

 Con quel messaggio, Meloni vorrebbe intestare a sé stessa una paradossale “volontà degli Italiani” di rendersi attori e addirittura protagonisti della vita politica nazionale, ma ottenendo quel risultato abbandonandosi alle decisioni del premier scelto tramite elezione diretta.

Paradossale – e demagogico – messaggio quello di Meloni, che sollecitando in senso retorico e populista quella presunta “volontà” – dovrebbe indurla ad accettare supinamente di essere governata dalla volontà di uno/a, solo/a, sulla base di una consultazione referendaria opportunamente pilotata attraverso il controllo delle principali forme di comunicazione di massa.

Questa forma aberrante di populismo viene adoperata spregiudicatamente per mascherare come prodotto della “volontà popolare” l’affermarsi, se non di una dittatura, di un regime autoritario basato sul consenso ormai implicito del popolo.

È il destino delle famigerate democrazie popolari o delle più “moderne demokrature”.

Meccanismo reso anche troppo noto dalla storia del secolo breve.

 I peggiori totalitarismi si sono affermati legalmente, grazie a questo artificio.

Se è breve il passo dalla tragedia alla farsa, lo è altrettanto il percorso inverso.

 Gli aspetti farseschi della brechtiana resistibile ascesa al potere di Giorgia Meloni e del suo folkloristico circo, non devono indurci a sottovalutarne i più che possibili e tragici esiti, sull’onda di una presunta volontà popolare.

Due soli – per niente modesti – esempi di quanto le richieste, le aspettative e le proposte provenienti dagli stakeholders del Governo, ovvero noi cittadini, vengano sin d’ora sistematicamente ignorate o disattese dal governo di Meloni.

Durante una lussuosa vacanza albanese – tra un bagno e uno spritz – la famiglia Meloni concorda con il molto discusso presidente del Consiglio “Edi Rama” un programma confuso, costoso, pieno di incognite, da vendersi agli italiani come soluzione miracolistica al problema degli sbarchi dal Nord Africa in Italia.

Lo storico programma viene siglato e annunciato senza averne previamente informato, non solo il Parlamento – ormai al limite dell’esautorazione – ma neppure i ministri del proprio governo e i partiti della maggioranza.

L’altro esempio riguarda la comunicazione sull’utilizzo dei fondi del PNRR:

la più grande occasione per migliorare la vita dei cittadini (ovvero del popolo).

Il governo Draghi aveva a questo scopo istituito il tavolo del partenariato, presieduto da Tiziano Treu, allora presidente del CNEL.

Scopo del tavolo era di mettere in contatto tra loro e far comunicare col governo i cosiddetti stakeholders, ovvero i portatori di interessi diffusi:

 i cittadini insomma.

Gli incontri si tenevano con regolarità, ma il governo Meloni, come informa la banca dati pubblica “Universo Regis”, ha sciolto il tavolo del partenariato sostituendolo con una cabina di regia che accentra i poteri nella Presidenza del Consiglio.

 Le ben 54 organizzazioni interessate – tra cui “Legambiente”, “Slow Food”, “Action Aid “– sono state escluse e hanno costituito un semplice osservatorio, che non è ancora stato riconosciuto nella sua funzione, nonostante le 5000 mail e le 10000 firme inviate al Ministro con delega al PNRR.

E dire, osservano da “Universo Regis”, che il PNRR non dovrebbe essere fatto solo di progetti e cantieri, ma  – prima ancora – di riforme: giustizia, fisco, sanità, scuola.

Nel frattempo, il governo ha tolto 13 miliardi del PNRR a progetti affidati agli enti locali per riqualificare le periferie, il verde urbano, le infrastrutture, per destinarli  al progetto “Re-power EU “, discutendo in cabina di regia con le potenti compagnie del gas e dell’energia, come Enel ed ENI.

Non ci vuole molto a immaginare che analoga sarebbe la sorte della povera volontà popolare, se passasse al referendum la roboante riforma costituzionale che Meloni vuole gettare tra le gambe del popolo italiano.

 

 

 

La trappola tecnopopulista.

Legrandcontinent.eu - Carlo Invernizzi Accetti, Chris Bickerton – (19 Aprile 2021) – ci dicono:

(Traduttore: Giovanni Collot).

 

Spunti di dottrina Politica.

Il tecnopopulismo origina da uno scollamento tra politica e società:

lungi dal risolvere questa frattura, i tecnopopulisti la esacerbano, erodendo le basi della rappresentanza democratica.

La chiave per uscire da questa situazione di stallo sta nella ricerca di nuove forme di intermediazione politica.

 

Non capiremo mai la politica finché non sapremo attorno a cosa si combatte”.

Così diceva il politologo americano “Eric Schattschneider”, scrivendo nel 1960. “Schattschneider” credeva che la politica funzionasse come un sistema di conflitto. Capire la natura del conflitto era la chiave per capire la politica nel suo insieme.

Per questo avvertiva che “la sostituzione dei conflitti è il tipo di strategia politica più devastante”.

 Intendeva dire che se si anticipano correttamente i conflitti attorno ai quali è strutturata la società, allora si può vincere.

 In caso contrario, e soprattutto se si combatte all’ombra di vecchi conflitti nel momento in cui se ne aprono di nuovi, si rischia di perdere.

Pesantemente.

 

Le sue parole risuonavano con le mutevoli politiche di razza e cultura che attanagliavano la politica americana alla fine degli anni ’50 e all’inizio degli anni ’60 – un’epoca di transizione, segnata dall’emergere della “nuova sinistra” e dalla diffusione dei valori postmaterialisti.

 Il conflitto politico si stava spostando verso questioni di cultura, identità e tutto ciò che stava oltre la disperata politica di classe dell’era della Grande Depressione. Su cosa verte oggi lo scontro politico?

Questa rimane la domanda politica chiave.

 

Oltre lo schema “sinistra contro destra.”

Anche se le sue imperfezioni come quadro concettuale sono state oggetto di discussione per decenni, tendiamo ancora a pensare alla politica democratica in termini di uno scontro tra sinistra e destra.

Man mano che emergono i contendenti per le elezioni presidenziali francesi del prossimo anno, gli analisti li classificano in questo modo:

Xavier Bertrand al “centro-destra”, Jean-Luc Melenchon all'”estrema sinistra”, Marine Le Pen all'”estrema destra” ecc.

Manteniamo questa classificazione anche per paesi come la Germania, dove anni di Grandi Coalizioni hanno intaccato le differenze ideologiche tra i partiti rivali.

La competizione in Germania tra l’Unione Cristiano Democratica e i Socialdemocratici è davvero uno scontro tra piattaforme ideologiche rivali?

Lo spettro destra/sinistra conferisce alla politica contemporanea una certa leggibilità, ma la sua importanza nell’analisi politica rivela tanto la nostra mancanza di immaginazione quanto la vitalità della guerra di classe.

 

Le società rimangono divise da profonde disuguaglianze socio-economiche, ma i partiti politici non le traducono più nei conflitti ideologici che hanno caratterizzato il XX secolo.

Dal “New Labour” di Tony Blair al “Rassemblement National “di Marine Le Pen, da Le “République En Marche” di Emmanuel Macron al movimento “Azione dei cittadini insoddisfatti” (ANO) di Andrej Babis, gli attori politici hanno esplicitamente cercato di scrollarsi di dosso le etichette di “sinistra” e “destra”.

Quando abbracciano queste etichette, spesso lo fanno senza successo.

Dal 2015 al 2019 è stata l’”era di Corbyn” in Gran Bretagna – un movimento sociale di estrema sinistra molto ideologico che ha catturato il Partito Laburista e si è cristallizzato intorno alla figura di Jeremy Corbyn.

 I suoi risultati elettorali sono stati disastrosi.

 Nelle elezioni generali del 2019 i conservatori hanno vinto una maggioranza schiacciante di 80 seggi e le circoscrizioni che votavano laburista da generazioni – come “Don Valley” e “Wakefield “– hanno eletto deputati conservatori.

 

Qualunque siano i suoi punti di forza, Corbyn stava combattendo la battaglia sbagliata.

Il successo politico oggi sembra essere meglio garantito evitando del tutto l’ideologia.

Nei Paesi Bassi, “Mark Rutte “è rimasto al vertice della politica olandese facendo proprio questo.

 Come ha osservato un commentatore giorni prima delle elezioni generali che si sono concluse con Rutte ancora una volta in testa, il successo di Rutte sta nel suo essere “libero da ogni ideologia” e nella sua disponibilità “a lavorare con chiunque”.

 In Austria, “Sebastian Kurz” è salito al vertice della politica del suo paese traducendo le politiche di estrema destra in un idioma mainstream e allo stesso tempo epurando il “Partito Popolare Austriaco” (OVP) dalla sua eredità conservatrice.

Nelle elezioni legislative del 2017, “Kurz” ha trasformato il partito.

Lo ha personalizzato mettendo il suo nome nella lista del partito (“la lista Kurz – il Nuovo Partito Popolare”), ha cambiato il colore dell’OVP dal nero al turchese e ha rifondato l’OVP come un movimento piuttosto che un partito politico convenzionale.

 

Tecnocrazia e populismo: i nuovi poli della competizione politica democratica.

Allora, su cosa verte la lotta oggi?

La nostra risposta è che il populismo e la tecnocrazia sono emersi come i principali poli organizzativi della politica democratica contemporanea.

 Il populismo consiste in una modalità di azione politica che mobilita una concezione unitaria e monolitica del “popolo” contro un’idea astratta e moralizzata del suo “altro” (le élite, la casta, gli stranieri), rivendicando un diritto alla rappresentanza esclusiva del primo.

 La notte del referendum britannico sull’UE, “Nigel Farage” ha dichiarato estaticamente che la Brexit era “una vittoria per la gente reale”.

Questo aveva in sé l’implicazione che coloro che hanno votato contro la Brexit non erano “persone reali”.

In questo senso, come sottolinea lo scienziato politico di Princeton,” Jan-Werner Muller”:

 “I populisti sostengono che loro, e solo loro, rappresentano il popolo”.

 

La tecnocrazia è l’associazione di abilità o competenza – techne – con kratos, l’“esercizio del potere.

 Immaginiamo i tecnocrati come figure non elette:

banchieri centrali in abito gessato che prendono decisioni di politica monetaria a porte chiuse, o mandarini altamente addestrati che applicano i loro modelli seduti alle loro scrivanie nelle burocrazie statali di tutto il mondo.

 Questo è radicato in un’antica concezione (in definitiva platonica) della tecnocrazia:

 i re filosofi governano al posto del demos.

 Ma gli appelli alla competenza e all’esperienza sono diventati sempre più un pilastro anche nella nostra cultura politica democratica, così come un elemento critico nel modo in cui giudichiamo i rappresentanti eletti.

 “Sono bravi?”, ci chiediamo.

“Faranno il loro lavoro?”; “possiamo vedere i loro CV?”

 Due dei principali banchieri centrali del mondo – Mario Draghi e Janet Yellen – sono ora figure politiche a pieno titolo, rispettivamente a capo della terza economia dell’Eurozona e a capo del Tesoro degli Stati Uniti.

 

Supponiamo che populisti e tecnocrati siano ai ferri corti l’uno con l’altro.

Come ha detto il politico britannico “Michael Gove” in un’intervista a “Sky News” nelle settimane precedenti il referendum britannico sull’adesione all’UE nel 2016, “il popolo ne ha abbastanza degli esperti”.

Quando Greta Thunberg mobilita i suoi sostenitori, li esorta ad ascoltare gli scienziati e ad ignorare il richiamo delle sirene dei populisti.

Le dimissioni di Silvio Berlusconi nel 2011 – al culmine della crisi del debito sovrano dell’Eurozona – sono state architettate in modo che un professore di economia dell’Università Bocconi ed ex commissario europeo, “Mario Monti”, potesse prendere il comando.

Scrivendo sul mondo dopo il coronavirus, lo storico e antropologo “Yuval Harari” consigliava che “ognuno di noi dovrebbe scegliere di fidarsi dei dati scientifici e degli esperti sanitari piuttosto che delle teorie del complotto infondate e dei populisti egoisti”.

 

Eppure, se guardiamo più attentamente la relazione tra populismo e tecnocrazia nella politica di oggi, scopriamo che è molto più complessa.

 Lo scontro nelle democrazie contemporanee è tra modi concorrenti di combinare appelli al “popolo” e appelli alla “competenza”.

Chiamiamo questa sintesi tecnopopulismo.

 

Lo scontro nelle democrazie contemporanee è tra modi concorrenti di combinare appelli al “popolo” e appelli alla “competenza”.

Chiamiamo questa sintesi tecnopopulismo.

(Chris Bickerton e Carlo Invernizzi Accetti).

La logica politica tecnopopulista

La sintesi tra populismo e tecnocrazia è resa possibile dal fatto che i due convergono l’uno con l’altro in modi importanti.

Entrambi sostengono di possedere un tipo specifico di “verità” politica – sia sotto forma di una concezione reificata della volontà popolare (il “popolo reale” di Farage) o il tipo specifico di conoscenza a cui i tecnocrati sostengono di avere accesso.

Come tali, populismo e tecnocrazia si oppongono entrambi a una concezione della politica come uno scontro senza fondamento e senza fine tra interessi e valori in competizione all’interno di un sistema di procedure comunemente riconosciute.

 In altre parole, populismo e tecnocrazia condividono un’ostilità verso ciò che “Bernard Manin” ha chiamato “democrazia dei partiti.”

 

Questo si manifesta nel fatto che sia i populisti che i tecnocrati dirigono la loro ira verso gli stessi oggetti:

i politici professionisti e i partiti politici.

Sono anche molto critici nei confronti di qualsiasi altra forma di intermediazione di interessi organizzata che si trova tra il cittadino comune e lo Stato, come i sindacati e le organizzazioni dei media.

I populisti considerano i partiti e i gruppi di interesse come istanziazioni di un sistema corrotto ed egoista.

 I tecnocrati li liquidano come “cercatori di rendita” – dalle associazioni di tassisti alle confederazioni nazionali di interessi commerciali e organizzazioni di consumatori, sono tutti gruppi con interessi personali la cui influenza deve essere eliminata dal corpo politico.

Per il populista e il tecnocrate, i sistemi partitici o le forme di interessi organizzati sono illegittimi perché violano il loro perseguimento di una politica della generalità – una forma di politica basata su un appello a una popolazione nel suo complesso piuttosto che a qualsiasi sottoinsieme specifico o parte della popolazione.

 

Se il populismo e la tecnocrazia hanno questa affinità, non sorprende che gli appelli al “popolo” e gli appelli alla competenza possano essere combinati in un’unica offerta politica.

Prendiamo la Francia.

Il successo di Emmanuel Macron nel 2017 è derivato dalla sua capacità di combinare tratti populisti e tecnocratici in un’unica offerta.

 La sua campagna presidenziale è stata smaccatamente populista.

 Ha mobilitato i suoi sostenitori contro quello che ha definito un sistema politico “ossificato” e “corrotto”.

Fondando un movimento politico con le sue stesse iniziali (EM), ha stabilito un rapporto personale di incarnazione con l’intero elettorato francese.

Ecco perché commentatori come “Marcel Gauchet” lo hanno descritto come un “populista di velluto”, populiste de velours.

Allo stesso tempo, Macron ha ripetutamente sottolineato la sua competenza.

 Da studente, era sempre il primo della classe.

Ha portato questo tipo di successo nel suo progetto politico, promettendo che avrebbe fatto, in virtù della pura tecnica, ciò che i presidenti precedenti non erano riusciti a fare.

Emmanuel Macron era il risolutore dei problemi del popolo.

 

Il Movimento Cinque Stelle in Italia offre una sintesi molto diversa tra populismo e tecnocrazia. Le radici populiste di questo partito politico sono ben note.

 Il M5S è nato come un movimento di protesta esplicitamente anti-establishment, il cui discorso si è concentrato sull’opposizione tra “la gente comune” e “la casta”.

Meno commentata, ma cruciale per comprendere i cambiamenti in corso oggi nel movimento, è la concezione tecnocratica della politica al centro dell’identità politica del M5S.

Fin dall’inizio, il suo fondatore e leader carismatico, Beppe Grillo, ha insistito che il M5S non è “né di sinistra né di destra”, poiché il suo unico scopo è quello di “risolvere i problemi” indipendentemente dalle camicie di forza ideologiche.

In questo, internet ha un ruolo chiave, perché è interpretato come un modo per sfruttare “l’intelligenza collettiva” della gente comune e quindi trovare soluzioni più efficaci per i problemi collettivi rispetto a quelle proposte dagli esperti ufficialmente riconosciuti.

Così, mentre nel Macron pensiero la sintesi tra populismo e tecnocrazia avviene attraverso una rappresentazione del presidente francese stesso come “il risolutore dei problemi del popolo”, nel caso del M5S avviene attraverso l’appello a un concetto di “intelligenza collettiva” che effettivamente trasforma tutti in esperti.

 

Anche se non tutti gli attori o movimenti politici contemporanei sono tecnopopulisti, nella misura in cui il tecnopopulismo sta diventando la nuova logica della politica democratica sta diventando sempre più difficile da evitare.

Anche attori politici e partiti di lunga data si stanno muovendo in questa direzione. Pensate per esempio alla recente traiettoria dei partiti conservatori e laburisti britannici.

 

Durante l’ultima tornata delle elezioni parlamentari nel Regno Unito, lo slogan dei “Tories” era “Get Brexit Done!“.

Questo voleva segnalare un fermo impegno ad attuare il risultato del referendum popolare del 2016, insieme alla pretesa di possedere le competenze politiche necessarie per farlo.

Lo “slogan del Labour” durante le stesse elezioni era: “Get Brexit Right“, che si discostava solo parzialmente dal messaggio principale dei Tories, ponendo maggiore enfasi sulla presunta maggiore padronanza dei laburisti su quale sarebbe stata la giusta soluzione politica.

 

In Germania, il leader della SPD ed ex cancelliere federale, “Gerhard Schröder”, era al centro del “movimento Neue MitteW” in Germania – un tentativo di forgiare una politica post-ideologica del tipo sviluppato dai “nuovi democratici” clintoniani negli Stati Uniti e dal New Labour nel Regno Unito.

 Succedendogli nel 2005, Angela Merkel ha presieduto a grandi coalizioni con la SPD per la maggior parte del suo tempo in carica.

La sua immagine politica è stata costruita intorno a rivendicazioni di pragmatismo ed efficacia politica.

Allo stesso tempo, ha costruito un tipo curiosamente personalistico di governo politico, dove è presentata come una benevola ‘mutti‘ (madre) che unisce tutta la Germania dietro un comune senso di scopo (“Wir schaffen das!“).

 

La più chiara illustrazione contemporanea dell’incidenza della logica tecnopopulista è offerta dal “nuovo governo Draghi” in Italia.

 L’autorità politica dell’ex capo della Banca Centrale Europea deriva chiaramente dalla sua competenza tecnica come presunto “salvatore” dell’Eurozona.

Tuttavia, il suo esecutivo si basa su una coalizione parlamentare che include tutti (tranne uno) i principali partiti politici italiani, abbracciando l’intero spettro politico da sinistra a destra, compresi diversi partiti più o meno esplicitamente populisti – da Forza Italia di Silvio Berlusconi, al Movimento Cinque Stelle di Luigi Di Maio, fino alla Lega di Matteo Salvini.

 L’attuale governo italiano appare quindi particolarmente inadatto a essere interpretato tramite lo schema “sinistra contro destra”.

È un governo politico, non tecnocratico, la cui identità è tecnopopulista.

Origini del tecnopopulismo.

Molti fattori sono alla base dell’ascesa di questa nuova logica politica.

Un modo per intrecciarli è vederli come un contributo a un processo a lungo termine di separazione – o disconnessione – tra politica e società;

o, più precisamente, tra conflitti e divisioni politiche, da un lato, e interessi e valori sociali, dall’altro.

Come punto di paragone, vale la pena ricordare che, per la maggior parte del secolo scorso, la politica democratica non era strutturata intorno a pretese concorrenti di rappresentare “il popolo” nel suo insieme e di possedere la “competenza” necessaria per tradurre la sua volontà in politica.

 Le ideologie partigiane di destra e sinistra erano radicate negli interessi e nei valori particolari di gruppi specifici all’interno della società.

 

Per esempio, i partiti comunisti e socialdemocratici erano, nel complesso, espressioni delle aspirazioni del movimento operaio organizzato.

Al contrario, i partiti conservatori e democristiani rappresentavano ampiamente gli interessi e i valori dell’”Ancien Régime”, specialmente tra le élite terriere e i contadini.

Questa è l’idea di base catturata da “Seymour Martin Lipset” e “Stein Rokkan” attraverso la loro famosa tesi che la politica dei partiti della metà del ventesimo secolo era effettivamente un riflesso dei “cleavages” sociologici sottostanti .

In alcuni paesi, in particolare i Paesi Bassi in Europa nord-occidentale, questa unità di società e politica era ancora più evidente.

Come risultato di conflitti confessionali di lunga data, la società olandese era organizzata intorno a quelli che erano conosciuti come “pilastri” – pilastri cattolici e protestanti, ai quali si aggiunsero in seguito quelli socialisti e liberali.

Questi pilastri modellavano la vita quotidiana: dalla squadra di calcio che si sosteneva al giornale che si leggeva.

 Il sistema dei partiti funzionava come punto di intersezione tra questi pilastri, con i leader dei partiti che negoziavano tra loro in sistemi elettorali altamente proporzionali, assicurando che i governi non ignorassero gli interessi di nessuno dei pilastri.

Il famoso sistema proporzionale austriaco era lo stesso.

Alla luce delle battaglie ideologiche e del vero e proprio scontro tra le forze di destra e di sinistra nel periodo tra le due guerre, la politica austriaca dopo il 1945 si è organizzata intorno a un sistema a due partiti in cui il Partito Popolare Austriaco (OVP) e il Partito Socialdemocratico (SPO) si dividevano accuratamente il potere e l’influenza tra loro, in linea con le rispettive fortune elettorali.

 

Nel corso degli ultimi decenni, le realtà sociologiche di base che sostenevano la divisione ideologica sinistra/destra sono state significativamente erose.

Ciò è avvenuto a causa delle trasformazioni nella struttura economica, che hanno minato la tradizionale distinzione di classe tra proletariato e borghesia.

Un processo generale di secolarizzazione ha diminuito la salienza della distinzione tra cittadini religiosi e non religiosi.

E un processo generalizzato di mobilitazione cognitiva ha prodotto elettori molto meno disposti a prendere le piattaforme di partito come un dato di fatto e a seguire le istruzioni su come votare.

Guardando indietro all’era post-1945, possiamo vedere cambiamenti fondamentali nei sistemi di valori, enormi miglioramenti nelle condizioni di vita, e un crollo impressionante in alcune delle forme di esistenza collettiva che eravamo arrivati a dare per scontate.

 

In modo cruciale, tuttavia, queste profonde trasformazioni sociologiche non si rifletterono immediatamente in nuove forme di competizione politica.

Come “Lipset” e “Rokkan” notarono già alla fine degli anni ’60, i sistemi di partito sono rimasti inizialmente “congelati” attorno a categorie ideologiche che si erano cristallizzate più di un secolo prima.

 Come risultato, gli scontri e le divisioni partitiche divennero sempre più scollegati dagli interessi e dai valori sociali sottostanti.

Fino agli anni ’80, i sistemi partitici avevano più o meno lo stesso aspetto di quasi cento anni prima;

persino i nomi dei partiti erano invariati.

Eppure, le società occidentali avevano sperimentato la creazione dello stato sociale, un massiccio progresso nei diritti delle donne, l’eliminazione della discriminazione razziale sancita dallo stato, le rivoluzioni culturali degli anni ’60 e l’enorme espansione dei lavori dei colletti bianchi e l’associata esplosione delle economie nel settore dei servizi.

 Il risultato è stato una disconnessione fondamentale tra società e politica.

 

Il tecnopopulismo è per molti versi una conseguenza diretta di questa crescente separazione tra politica e società. Infatti, una volta che i concorrenti per le cariche elettorali cessano di essere responsabili nei confronti di classi o gruppi specifici all’interno della società, essi acquisiscono un incentivo a fare appello agli interessi e ai valori della società nel suo complesso, trattandola come una massa indifferenziata di singoli elettori.

Sia la concezione populista del “popolo” che l’assunzione tecnocratica che ci siano soluzioni politiche oggettivamente “giuste” sono esempi di tali concezioni non mediate del bene comune.

Così, l’ascesa del populismo e della tecnocrazia come nuovi poli strutturanti della politica democratica contemporanea può essere vista come derivante da ciò che “Peter Mair” ha chiamato il “vuoto” tra una società atomizzata e politicamente impotente, da un lato, e una classe politica autoreferenziale che cerca una convalida elettorale facendo appello a generalità astratte come “il popolo” o soluzioni politiche “giuste”, dall’altro.

 

La concezione populista del “popolo” e l’assunzione tecnocratica che ci siano soluzioni politiche oggettivamente “giuste” sono esempi di tali concezioni non mediate del bene comune.

 

(Chris Bickerton e Carlo  Invernizzi Accetti).

In alcuni casi, la vuotezza della politica ideologica del XX secolo è stata rivelata in modi drammatici e bruschi. In Italia, la fine della guerra fredda ha coinciso con scandali di corruzione politica di proporzioni epiche.

Il traballante corpaccione della politica di sinistra/destra in Italia fu spazzato via da questi eventi e nel giro di un paio d’anni i partiti di massa di destra e di sinistra – i democristiani, i socialisti e i comunisti – erano scomparsi.

Un governo tecnocratico fu messo in piedi per riempire il vuoto nel 1993.

Poi venne un lungo periodo in cui l’Italia oscillò tra il populismo di Berlusconi e gli aridi governi tecnocratici di centro-sinistra, la cui principale preoccupazione era mantenere l’Italia sulla strada dell’adesione alla moneta unica europea.

 All’inizio degli anni 2000, la logica tecnopopulista aveva assunto una posizione solida nella politica italiana.

 

In altri casi, l’ascesa del tecnopopulismo è stata meno netta.

In Belgio, i cambiamenti descritti sopra sono evidenti nelle Fiandre, il che aiuta a spiegare la potente presa dei partiti populisti di estrema destra.

Tuttavia, in Vallonia, il potere strutturante delle fratture socio-economiche continua ancora oggi.

Come ha dimostrato la politologa “Leonie de Jonge”, il Partito Socialista vallone (PS) opera all’interno di una struttura sociale a pilastri che si estende nelle località della regione, così come all’interno delle organizzazioni dei media e di gran parte del settore pubblico.

Anche questo contro-esempio conferma comunque che la de-pillarizzazione e il collasso degli interessi organizzati sono gli incubatori chiave della nuova logica politica tecnopopulista.

 

Conseguenze del tecnopopulismo.

Oltre ad essere il risultato di molte trasformazioni sociali profonde, l’ascesa del tecnopopulismo è anche gravida di conseguenze.

 La prima è la crescente conflittualità tra i concorrenti per le cariche elettorali.

Si tratta di un fenomeno che è stato ampiamente commentato con riferimento all’idea che i politici contemporanei si trattano l’un l’altro più come “nemici” che come “avversari”, portando a una crescente tossicità del linguaggio politico che rende più difficile la cooperazione tra coloro che hanno opinioni diverse.

 Lo vediamo anche nel linguaggio delle “tribù” e del tribalismo, che è diventato un luogo comune nella scienza politica contemporanea.

 Nel 2018, il think tank britannico “Policy Exchange” ha pubblicato un rapporto intitolato “The Age of Incivility“, lamentando quello che ha descritto come “l’inasprimento della vita politica britannica” e indagandone le ragioni.

 

Il tecnopopulismo può aiutare a spiegare questo fenomeno, poiché tende a sostituire l’asse orizzontale della competizione politica tra i poli ideologici di destra e di sinistra – che sono in linea di principio ugualmente legittimi l’uno all’altro – con un’opposizione verticale tra concezioni rivali dell’insieme sociale e delle sue parti costitutive, che sono per definizione gerarchicamente ordinate.

Infatti, una volta che si pretende di parlare a nome del “popolo” nel suo insieme, o di possedere una sorta di “verità” politica, chiunque si trovi in disaccordo può apparire solo come l’espressione di un qualche tipo di “interesse speciale” o come completamente in errore.

Così, sia il populismo che la tecnocrazia implicano un’implicita negazione della legittimità dell’opposizione politica, che emerge nel modo in cui la maggior parte dei politici contemporanei si trattano a vicenda.

 

 

(Chris Bickerton e Carlo Invernizzi Accetti.)

Un’altra caratteristica saliente della politica democratica contemporanea è la sua de- sostanzializzazione.

Anche se si attaccano abitualmente l’un l’altro personalmente, e a volte anche ferocemente, i contendenti contemporanei per le cariche pubbliche in realtà non sono in disaccordo su molto quando si tratta della sostanza della politica pubblica.

Per esempio, nessuno sembra sfidare le coordinate di base del capitalismo o della democrazia, come è stato invece il caso per la maggior parte del XX secolo.

Invece, si dice che il luogo primario della competizione politica si sia spostato sulle cosiddette questioni “culturali” o “simboliche”.

Eppure, anche in questo campo, la maggior parte degli studi empirici rileva una crescente “convergenza” di valori tra fazioni politiche rivali.

 

Questo può sembrare paradossale, visti i livelli di tossicità politica a cui ci siamo abituati, ma può altresì essere letto come una conseguenza dell’ascesa del tecnopopulismo come nuova logica strutturante della politica democratica contemporanea.

Quando tutti i candidati alle cariche elettorali sostengono di rappresentare gli interessi e i valori della società nel suo complesso, non possono davvero permettersi di inimicarsi le opinioni o gli interessi di un gruppo specifico al suo interno.

Essi acquisiscono un incentivo a diluire le loro piattaforme politiche, facendole apparire il più possibile consensuali e ampiamente attraenti, al fine di mascherare qualsiasi conflitto sostanziale che esse potrebbero causare.

 

Un’ulteriore conseguenza dell’ascesa del tecnopopulismo come nuova logica strutturante della politica democratica contemporanea è il crescente malcontento della maggior parte degli elettori verso la qualità della rappresentanza politica che viene loro offerta.

 Anche questo è un fenomeno che è stato ampiamente osservato e commentato. Nel momento stesso in cui i politici pretendono di offrire una rappresentazione più diretta e non mediata della vera volontà del popolo, e di avere le competenze necessarie per tradurla in politica, gli elettori sono sempre più insoddisfatti di loro.

 

Si scopre che la disponibilità di una qualche forma di meccanismo di mediazione tra gli interessi e i valori disparati presenti all’interno della società e i risultati politici concreti risulta essere una condizione essenziale per un senso di rappresentanza democratica efficace.

Senza un tale livello intermedio di organizzazione politica partitica, gli individui atomizzati sono semplicemente troppo deboli e statisticamente insignificanti per avere la sensazione che i loro punti di vista e interessi contino nel prendere decisioni collettivamente vincolanti.

L’età della disintermediazione che ci porta alla logica politica tecnopopulista è quindi anche un’età di crescente disincanto nei confronti della democrazia.

 

Mentre il tecnopopulismo nasce da una crescente separazione – o disconnessione – tra la politica e la società (a sua volta radicata in una crisi dei tradizionali meccanismi di mediazione tra di loro), allo stesso tempo esacerba questa stessa separazione.

 Come un serpente che si morde la coda, è allo stesso tempo una manifestazione e una causa ulteriore dell’attuale crisi della rappresentanza politica.

Mentre il tecnopopulismo nasce da una crescente separazione – o disconnessione – tra la politica e la società (a sua volta radicata in una crisi dei tradizionali meccanismi di mediazione tra di loro), allo stesso tempo esacerba questa stessa separazione.

 

(Chris Bickerton e Carlo Invernizzi Accetti).

Rimedi.

Se l’analisi che abbiamo fornito è corretta, ne consegue che populismo e tecnocrazia non possono funzionare come rimedi efficaci l’uno per l’altro.

Tuttavia, questo è ciò che sentiamo più spesso dagli stessi populisti e tecnocrati.

I primi sostengono che appellarsi più direttamente alla “volontà popolare” può aiutare a rimediare alla confisca del potere da parte delle élite tecnocratiche;

 i secondi, che un appello alla competenza e all’esperienza è necessario per controbilanciare l’irresponsabilità dei populisti.

I commentatori tendono ad essere d’accordo, di solito raccomandando un po’ più tecnocrazia qui, o un po’ meno;

un po’ più populismo là, o un po’ meno.

Ma questo finisce solo per rafforzare la logica politica tecnopopulista, poiché l’implicazione è che una rappresentanza politica efficace richiede di trovare una sorta di “equilibrio” o “sintesi” tra loro.

Al contrario, vedere il populismo e la tecnocrazia come componenti complementari di una logica politica comune implica che possono essere contrastati solo insieme, affrontando la sottostante crisi della mediazione politica da cui entrambi emergono e a cui entrambi partecipano.

Ciò che è realmente necessario per ripristinare un senso di effettiva rappresentanza democratica è quindi esattamente l’opposto di più appelli diretti alla “volontà popolare” e più competenze in politica.

 Le forme intermedie di organizzazione politica, e la divisione partitica su base ideologica che le accompagna, sono il vero rimedio contro il tecnopopulismo.

 

Per essere chiari, sarebbe anacronistico sperare in una rivitalizzazione dei partiti politici e delle lotte ideologiche del secolo scorso – anche perché abbiamo sostenuto sopra che il tecnopopulismo deriva proprio dalla loro incapacità di rinnovarsi e di dare un’adeguata espressione politica ai conflitti e alle divisioni sociali contemporanee.

Tuttavia, l’idea che là fuori esista una “volontà popolare” completa e monolitica da trovare, o che qualcuno abbia accesso a una sorta di “verità” politica oggettiva, che trascende tutti i conflitti e le divisioni all’interno della società, è altrettanto fittizia.

La sfida posta dall’ascesa del tecnopopulismo sta quindi nel concepire e portare avanti nuove forme di intermediazione politica – cioè nuove forme di partigianeria e di lotta ideologica – intorno ai concreti conflitti di interesse e di valore che esistono oggi nella società.

 

 

 

L’uccisione della verità e la crisi della democrazia.

 Istitutoeuroarabo.it - (1° maggio 2025) - Comitato di Redazione - Roberto Settembre – ci dice:

 

(Dialoghi Mediterranei – n. 73 – maggio 2025).

Il tema proposto dovrebbe, a parere di chi scrive, essere affrontato partendo da un esperimento mentale, per ricavarne i necessari e logici corollari concettuali quali strumenti ermeneutici dei fatti che ci (pre)occupano.

 Il che, tra l’altro, attiene in modo intimo alla relazione tra i fatti e le idee, dove per fatti se ne intende la rappresentazione nella percezione collettiva e individuale, non identiche, e per idee il terreno concettuale su cui coltivare l’interpretazione.

 E viene usato il verbo “coltivare” essendo l’interpretazione un’operazione che dà frutti, trasformando la percezione fenomenologica in qualcos’altro, cioè in uno spazio della mente dove operano in sinergia la conoscenza e la coscienza, e cosi contribuendo alla nascita del giudizio.

 

Dunque, tornando all’esperienza mentale si pensi a una famiglia felice, che, come diceva Tolstoj, è uguale a tutte le altre famiglie felici, dove vive l’armonia tra i coniugi, la fiducia reciproca, l’appagamento dei sensi, la ricchezza degli scambi intellettuali, il soddisfacimento dei bisogni materiali, la serenità e la gioia tra i figli e coi figli, dove l’amore e il rispetto reciproci consentono una luminosa e stimolante quotidianità e, insieme con un apprezzabile benessere economico, nella ricchezza delle relazioni amicali e parentali anche sul piano culturale, dove ciascun componente da solo e con il contributo di tutti progetta il futuro.

Il che permette stabilità emotiva, forza nell’affrontare le inevitabili difficoltà e l’idea che questo tessuto esistenziale sia l’unica modalità condivisibile per affrontare la vita. E si pensi che tutto ciò sia stato il frutto di immani fatiche, dolori e sacrifici.

Ma, a un tratto, tutto questo tracolla nel disastro e tutto scompare senza possibilità o speranza di alcun ritorno al prima.

Allora il lutto che cala sulla coscienza dei superstiti si colora di una tremenda nostalgia del tempo perduto e il domani permea il presente con un senso di orrore e di sconfitta, per cui diventa necessario progettare un presente e un futuro completamente diversi.

Ma diversi come?

 E perché?

 

Ecco allora che il nostro esperimento mentale viene traslato sull’attuale situazione geopolitica che vede il diritto e la realtà, su cui il diritto deve operare, soggetti a una divaricazione inconciliabile, che tuttavia discende dall’apparente aporia tra il diritto e la giustizia.

 Tuttavia questa difficoltà logica, derivante da un’apparente uguale validità di due ragionamenti che portano a conclusioni contrarie e insolubili, tali per cui l’esigenza di un diritto che sia legge, cioè strumento a cui ricorrere “ne cives ad arma ruant” come dicevano i giuristi romani, (e sul piano internazionale, “ne patriae aut imperia ad arma ruant”) si scontra con l’anelito alla giustizia, che attiene agli spazi della coscienza quando proietta nel mondo il bisogno morale di combattere il dolore e la sofferenza degli innocenti, restaurando il diritto violato o restituendo alle vittime la dignità attraverso il riconoscimento del loro stato, ma mostrando i limiti spesso invalicabili della portata di questo e la sua contraddizione con la forza di quella, facendo dire a chi è mosso da una lettura manichea della realtà, che il diritto internazionale, ad esempio, o la giustizia stessa, non esistono.

Salvo affermare che, a causa della loro inesistenza, la loro violazione ne costituisce un crimine.

 E ciò senza darsi pena di spiegare sulla scorta di quale principio una condotta priva di alcun ancoraggio concreto al diritto che la renda lecita o illecita, possa definirsi illecita quando viola qualcosa che non esiste.

 

Detto questo, non ci si può esimere dalla consapevolezza che sia il concetto del diritto=legge, sia quello di giustizia=morale discendano, ciascuno, dalla loro matrice ideale, per l’uno quella della società dei consociati soggetti alle regole, per l’altra, quella dell’istinto di sopravvivenza nella terra dell’”homo homini lupus”, che cerca la sua spiegazione in un mito.

 

E ancora, non si può omettere di prendere in considerazione chi e per quali fini abbia dettato le regole, dove i fini sono plurimi e in buona parte occulti, mentre il mito ha un fondamento razionale e uno irrazionale, così interconnessi da perdere i loro connotati identificativi, tanto quanto la stessa famiglia felice, come ben spiegato dalla psicanalisi, copre con il manto della felicità aspetti relazionali ben lontani dal significato ampio e profondo della felicità.

 

Ne consegue che la nostra famiglia felice, quella dell’”Occidente liberal solidaristico o socialdemocratico” eretta nel contemperamento dei diritti e dei doveri, ora sembra correre il pericolo del suo dissolvimento verso un futuro estraneo alle sue premesse.

Ciò sebbene questa famiglia felice, o che auspicava di esserlo, avesse nel suo sottoscala gli scheletri di chi era dovuto soccombere sotto la violenta azione con la quale la detta famiglia andava costruendo il suo universo, reso tale dal fluido dei diritti universali che le scorreva nelle vene.

E certamente per molti attenti esegeti e aspri critici questo fluido non era reale bensì magico, alimentato da un mito irrazionale travestito da razionalità, talché, oggi, il dissolvimento dell’Occidente felice non sarebbe altro che la caduta del velo della sua ipocrisia.

 

A questo punto non si ritiene sia il caso di avventurarsi in una polemica tra verità e contro verità, o nel terreno trionfante della post verità, con le quali mostrare l’autentica rappresentazione dei fatti a colpi di interpretazioni.

 Anzi, è necessario avvertire il lettore che per “uccisione della verità” non s’intende partire dalla premessa che la verità, vittima di chi la vuole distruggere, sia la verità ultima come quella delle fedi monoteiste, conosciuta dal censore dei delitti altrui, ma sostenere che la verità di cui di discute sia il principio condiviso che ha consentito a centinaia di milioni di esseri umani di vivere per quasi ottant’anni senza scannarsi reciprocamente, come accadde regolarmente per secoli in Europa a ogni volgere di ogni generazione, e senza che ciò accadesse attraverso un processo socio politico analogo a quello della pax augustea.

 E questo assunto, tuttavia, non si nasconde all’obiezione sollevata da molti, che questa pace non lo sia né di fatto né di diritto, ma sia invece la narrazione (cioè l’interpretazione) voluta dai suoi mistificatori per perseguire i loro biechi interessi attraverso un continuum di pratiche di violenza e sopraffazione sui diritti dei deboli.

 

Viceversa l’argomentazione qui svolta prende le mosse dall’assunto per cui ci sono fatti che, incontrovertibilmente, sono fatti e sfuggono alle interpretazioni.

Su questo punto si impone una premessa ineludibile, cioè tra la successione temporale dei fatti e il loro rapporto in termini di causa ed effetto.

 

Si tratta dei fatti che mettono in relazione la vita con la morte violenta, e i fatti che mettono in relazione la morte violenta con la vita.

Confondere i due piani è operazione non solo pericolosa, ma fonte di grave mistificazione della realtà, poiché, se la vita è spesso causa della morte violenta, questa morte non è di per sé causa della vita, sebbene la preceda in termini temporali.

 

Allora, se le azioni dei vivi sono spesso causa di morte, e tali azioni sono suscettibili di interpretazioni, così come il negazionismo, il revisionismo storico, i processi per i crimini di guerra hanno ampiamente dimostrato, dove gli orrori perpetrati attraverso le azioni umane sono stati ricostruiti, rievocati, discussi, messi in forse, negando o affermandone i nessi causali, nessuna di queste operazioni ha potuto mettere in forse il fatto della morte violenta di milioni di esseri umani.

 Ne consegue che questo fatto, di per sé, non è suscettibile di interpretazione, poiché i morti sono morti ammazzati, punto e basta.

E i cento milioni di morti che si sono succeduti nel corso del quarantennio che va dal 1914 al 1945 sono un fatto immane che esige spiegazioni e interpretazioni nella sua eziologia, ma permane comunque come qualcosa che non può essere negato, così come non può essere negata la successione temporale tra il tempo dei conflitti intra ed extraeuropei, la morte violenta di milioni di esseri umani, e il tempo successivo alla fine dei conflitti.

 

Ed è in questo tempo successivo che nasce la nostra famiglia felice, ma prima di prenderla in esame è necessario mettere in relazione due circostanze, e cioè la struttura ideale o molto più spesso ideologica del mondo nel quale si sono verificate le decine di milioni di morti violente, e il fatto che, al termine della mattanza, le persone si sono interrogate, al di là della ricerca delle responsabilità individuali o collettive delle tragedie, su un fatto non suscettibile di interpretazioni:

 le immani distese di cadaveri erano un fatto che non avrebbe dovuto ripetersi, e ciò al di là di ogni interpretazione causale.

Ma non solo, se le cause andavano ricercate nel nesso causale tra le idee e i fatti, evidentemente quel nesso causale andava interrotto per scongiurare che si ripetesse, per cui era necessario elaborare nuove idee.

 E queste nuove idee non sarebbero state elaborate in termini di nesso causale con i cento milioni di morti accatastati nella memoria collettiva, ma come ineludibile successione temporale, per cui il mantra del “mai più” doveva diventare un punto fermo del pensiero umano.

 

Per farlo, tuttavia, era necessario partire dalla constatazione che non ci fosse (sia) un modo di arginare Polemos (la guerra) attraverso le regole, così come si era illusa la “Società delle Nazioni istituita il 10 gennaio 1920” (26 mesi dopo la strage della I guerra mondiale) attraverso i suoi principi, il “Protocollo di Ginevra del 1925” sul divieto dei gas e delle armi batteriologiche, il “patto Briand Kellogg” del 1928 contro ogni guerra di aggressione, e la Convenzione di Ginevra del 1929 sulle regole del combattimento e del trattamento dei prigionieri di guerra.

 

Infatti la Prima guerra mondiale, e soprattutto la Seconda, avevano dimostrato in che cosa consistesse la guerra moderna, cioè guerra di annientamento senza tregua e senza condizioni.

E si noti come i rapporti tra i belligeranti fossero caratterizzati dalla assoluta richiesta di resa senza condizioni.

Era così necessario inventare ed edificare qualcosa che potesse sia inibire sia fermare la forza distruttiva scatenata dalla guerra, invece di regolarne il funzionamento, poiché sia la costruzione dello “ius ad bellum” (cioè il diritto di fare o non fare la guerra), sia dello “ius in bello” (cioè il diritto che disciplina il modo di fare la guerra), avevano dimostrato di non funzionare.

 

In verità si trattava di rovesciare una tesi presente nella cultura illuministica sull’umanità naturalmente buona, sul mito del buon selvaggio, sull’idea che l’uomo primitivo fosse istintivamente pacifico, sull’idea che la civiltà umana si evolvesse da una mitica età dell’oro attraverso stadi successivi rigorosamente deterministici, così come sostenuto da numerosi autori ottocenteschi, tali da influenzare lo stesso Karl Marx, concetto ideologizzato da Rousseau e rielaborato successivamente ancora nei tempi successivi fino alla Seconda guerra mondiale, come scrisse l’antropologa statunitense “Margaret Mead nel 1940 “affermando che la guerra fosse un’invenzione, mentre la pace era una manifestazione di un istinto naturale corrotto dalle ideologie e dall’interesse (G. Sadum Bordoni,” Guerra e natura umana”, il Mulino 2025:187).

 

Allora quell’assunto va capovolto, così come le ultime ricerche sulla filogenesi della guerra di tutti i primati, umani compresi, hanno dimostrato (ivi: 210) poiché né esiste un unico istinto della pace, né esiste un unico istinto della guerra.

Infatti tutta la Storia umana, fin dalle recenti scoperte archeologiche del paleolitico, per giungere all’esame  delle 16 grandi crisi nelle relazioni internazionali a partire dal XV secolo fino ad oggi, sfociate in 4 accordi e 12 guerre (Graham Allison, Destinati alla guerra, Fazi, 2018), sono state caratterizzate da cicli alternati, e determinati da un misto di istinti naturali di cooperazione, altruismo, eliminazione e/o riduzione delle forze distruttive all’interno e all’esterno delle comunità, e istinti di aggressività, paura, rapacità determinati dalle modalità di presenza degli esseri umani sul territorio, una volta trasformati in cacciatori raccoglitori, e successivamente evoluti in civiltà via via più sofisticate, che hanno fronteggiato in modi diversi, ma approdando molto più spesso alla guerra, le più articolate problematiche relazionali, dalla trappola di Tucidide (muovo guerra perché convinto che la potenza del mio avversario lo indurrà a scatenarla contro di me) al mero desiderio di rapina (le nostre ingloriose  e criminali guerre ed entrate in guerra del fascismo, alla faccia delle memorie sull’onore e la gloria celebrate dai riti di memoria delle nostre “bandiere di guerra”) o di sopraffazione strategica.

 

Ebbene, è alla luce di questa complessità che possono venir comprese le istituzioni del secondo dopoguerra, erette proprio per impedire che gli istinti distruttivi prevalessero, coltivando l’idea che, attraverso le istituzioni, fosse possibile trasformare le parti, che si fronteggiano o combattendo o trattando, ma mantenendo ferme le distinzioni identitarie tipiche del rapporto bellico, in membri di un’unica comunità.

Talché, così facendo, si sarebbero costituite società intere, il cui funzionamento sarebbe stato determinato dalle regole condivise di tali istituzioni, dove l’evoluzione naturale avrebbe spinto i loro membri verso l’elaborazione di una morale in contrasto con l’istinto belluino.

Un’idea filosofica della democrazia condivisa, intesa come «il regime politico più naturale, poiché le guerre sono antidemocratiche, in quanto ostacolano la composizione armoniosa delle potenze…. (contro) una cultura dell’odio e della vendetta, della paura e dell’arroganza che si erge tra noi e la pace, che è invece il trionfo della gioia contro le passioni tristi»

(Frederic Gros, Perché la guerra? ed. Nottetempo, 2023: 134-135).

 

Ma le decine di milioni di morti ammazzati sono un oggetto materiale e mentale assai ingombrante e tremendamente traumatico, per cui, quando i fatti più traumatici occupano la mente degli individui e delle collettività che vi sono stati coinvolti a vari titoli, deve intervenire la parte razionale a decodificarne il significato per evitare che la parte irrazionale della mente prenda il sopravvento sulla coscienza.

Ebbene, per fare ciò è necessario separare il fatto dalle sue cause, poiché alcuni fatti si sottraggono di per sé al giudizio, cioè alla ricerca del significato, che attiene alle ragioni del detto coinvolgimento.

 

Anzi, accade che il fatto sia tale da travolgere la coscienza.

Si pensi a quante decine o centinaia di milioni di persone furono coinvolte in modo passivo, attivo o in veste di meri inerti spettatori nelle mostruosità degli stermini perpetrati a vario titolo nei sei anni di guerra, partendo dagli orrori dell’invasione giapponese in Cina, passando per la “Shoà”, i bombardamenti sulle città tedesche che sconvolsero “Edgar Morin” testimone attivo (“Ancora un momento”, Feltrinelli, 2024) per giungere a Hiroshima e Nagasaki.

 

Allora si spiegano le parole di Adorno nel 1949, per cui “dopo Auschwitz scrivere una poesia è un atto di barbarie”.

In verità questo aforisma ha una valenza ambigua, poiché la poesia, nella sua opera di trasfigurazione del reale dalla sua apparenza materiale in significato, ne sublima la cogenza trasformandola in una categoria universale, la bellezza, per dirla con Kant, e consentire alla coscienza di dominare l’orrore.

Quando ci riesce, cioè quando il significato è gestibile, poiché il significato è il frutto dell’elaborazione concettuale dell’osservazione, e prescinde dal giudizio sommario, promosso dalla mera ricezione dell’informazione.

Questo infatti nasce dall’impulso all’azione mosso dalla percezione, per cui non è nemmeno un vero giudizio, ma è un’estensione del pensiero finalizzata a programmare l’azione, o a giustificarla o a collocarla all’interno di uno schema comportamentale.

 

Viceversa il significato prescinde dall’azione, perché attiene al giudizio, che viene formato dall’esame dell’oggetto della percezione, dopo di che entra nello spazio della coscienza.

 

Allora il rischio che corre il giudizio è quello di utilizzare, per effettuare l’esame, i pregiudizi che sono il frutto di idee nate al di fuori del giudizio. Ne consegue che l’esame dei fatti, cioè del mondo fenomenologico, deve avvenire utilizzando i risultati dell’osservazione empirica e il giudizio che la scienza, intesa nel suo senso più ampio, comprensiva dell’indagine storiografica, dell’antropologia, della sociologia, della psicologia, della politica, dell’economia e di tutti i sistemi epistemici di conoscenza della realtà, pur non nascondendosi il pericolo che anche la scienza sia affetta da pregiudizi, riesca a formulare.

 

Ne consegue la necessità di esaminare la questione su due differenti piani concettuali: l’uno su quale sia stata la percezione collettiva degli eventi post- guerra mondiale, e su quale strato della memoria tale percezione abbia operato, e l’altro sul duplice effetto di tali percezioni, poiché la stratificazione della memoria agisce su diversi piani cognitivi alimentati dal fenomeno dell’edificazione dell’impalcata che permette sia l’elaborazione della memoria, sia del terreno cognitivo concimato da questa, dal quale germoglieranno nuove idee.

 

E sono queste nuove idee a indurre i soggetti, a seconda dello spessore delle rispettive capacità cognitive e della quantità di informazioni raccolte, a elaborare le risposte. I due aspetti tuttavia non sempre coincidono, come si può ricavare dal tenore dell’esposizione verbale o scritta dei diversi soggetti chiamati a esprimere la loro opinione sui fatti in esame.

Ebbene, queste risposte si sono concretizzate nelle diverse aggregazioni politiche successive al totalitarismo e nel progetto di costruire nuovi tessuti ideali e strumenti idonei a contrastare gli ideali/ideologie che permisero i totalitarismi e spinsero alla guerra e alle carneficine.

 Infatti l’Onu nacque proprio come mezzo per liberare il mondo dal flagello della guerra, così come affermato nel preambolo della sua Carta.

 

Ma c’è un fatto curioso da prendere in esame, cioè il rapporto tra la pace e la guerra nella percezione collettiva e individuale, strettamente connesso con il fenomeno in esame, e cioè con la rimozione del significato dell’immane fatto traumatico costituito  dai 100 milioni di esseri umani uccisi, 60 milioni dei quali durante i sei anni della Seconda guerra mondiale, e la circostanza che questa rimozione è alla base della nascita della c.d. famiglia felice, con cui si è aperto questo breve lavoro.

 

Pertanto, essendo la pace equiparata alla stabilità e alla certezza, mentre la guerra è l’equivalente dell’instabilità e dell’incertezza, sebbene in tutta la storia dell’umanità la pace sia sempre stata caratterizzata o dagli equilibri di potenza, attraverso la mutua deterrenza, o dallo strapotere di una potenza egemone (la pax augustea, o quella britannica o quella recente americana, ad esempio), e poiché la pace, nel sentire comune successivo alle due guerre mondiali, è vissuta come un bene e la guerra come un male, ne consegue che conti poco chi è e come ha vinto la partita, perché la partita viene sempre rinviata al termine di un periodo di pace, mentre la pace è il terreno sul quale prospera la nostra famiglia felice.

 

Tutto ciò è intimamente connesso col mondo delle idee, cioè con la stratificazione ideale in cui viene ridotta la realtà fenomenologica, affinché, partendo da lì, cioè dalle idee, ci si muova per edificare un progetto che sia coerente con le idee frutto di questa stratificazione ideologica, che, nel caso in esame, consiste nella rimozione dell’immane trauma collettivo di cui si è parlato.

Quindi si cercherà di dimostrare che è stata la rimozione di quel fatto, cioè un evento di natura ideale, ad aver permesso a quel progetto di attecchire nella coscienza collettiva e consentire la crescita della detta famiglia felice, e non il fatto rimosso.

 

Il che significa che rimozione e fatto sono due fattori diversi, che operano diversamente nella percezione e nell’attribuzione di significato, poiché la rimozione toglie significato al fatto e lascia spazio per nuovi significati. Allora si cercherà di dimostrare, pur nei limiti fisiologici di questo lavoro, che questa è la ragione per cui quel fatto rimosso non è intervenuto, nella recente coscienza collettiva, a impedire che riemergessero i semi delle mostruosità che causarono quel trauma, mentre altre idee, oggi, frutto di quei semi mai del tutto scomparsi, stanno aggredendo quelle costitutive della detta famiglia felice, incapace di attivare gli antidoti della coscienza contro l’infezione di un virus analogo a quello causa del morbo che uccise la verità e 100 milioni di morti ammazzati.

 

Questo poiché non è la materialità dei fatti a determinare il mondo delle idee, come gli epigoni delle visioni ideologiche del mondo affermano, assumendo che «bisogna studiare la storia mentre succede invece della storia nel succedersi delle idee, o, per essere precisi della propaganda».

(Ingar Solty, Le illusioni liberali non salveranno l’Ucraina, su Jacobin, citato in “Internazionale, 21/27 marzo 2025).

Al contrario tale assunto significa affermare che è la propaganda delle proprie idee a sconfessare la propaganda altrui, così come proclamare la verità della propria fede contro la falsità delle fedi avversarie, sul presupposto che la propria verità promana da Dio o dal guru di riferimento.

 Si pensi al dilemma se siano state le proprietà tribali a essere causa delle guerre, o siano state le guerre a determinare l’origine della proprietà attraverso la rapina e la violenza.

Cioè alle idee proclamate nell’ “Antiduring” di Engels, dove viene affermato che la violenza «è il punto di partenza e il fatto fondamentale di tutta la storia svoltasi sino ad ora e le inocula la colpa ereditaria dell’ingiustizia…poiché su questo asservimento primitivo poggia del pari tutta la proprietà privata fondata sulla forza (essendo) chiaro che tutti i fenomeni politici si devono spiegare partendo da cause politiche, cioè dalla forza»,

 (F. Engels, Antiduring, ed. Rinascita, 1950: 175 -176),

mentre K. Marx, nei quaderni antropologici, afferma il contrario, e cioè che fu la guerra a consentire alle comunità tribali di esistere come proprietarie (Bordoni, cit.: 233). In definitiva dev’essere esaminato il rapporto tra le idee e la storia fautrici della storia, e non il contrario.

E proprio da quel fatto materialmente mostruoso costituito dall’immane numero di esseri umani macellati dalla guerra, è necessario passare a esaminare un fatto ideale, motore del tempo successivo a quello.

 

Invero inquieta e sembra incomprensibile che le moltitudini avessero rimosso tanto orrore, dopo aver assistito indifferenti o compiaciute a eventi come quelli delle donne cinesi violentate e sventrate dalle baionette dei soldati giapponesi, alle migliaia di donne uomini, vecchi e bambini fucilati e gettati nelle fosse comuni dai volontari delle einsatzgruppen naziste, alle torce umane sotto i bombardamenti alleati sulle città tedesche e giapponesi, alle impiccagioni degli ostaggi nelle regioni occupate dai nazifascisti, ai milioni di creature di ogni età e sesso assassinate nella camere a gas dei lager di sterminio, alle decine di migliaia di esseri umani, bambini compresi, inceneriti dal fuoco atomico o morti atrocemente di cancro nei tempi successivi, il tutto preceduto dalle sopraffazioni, dalle uccisioni di innocenti, dai crimini contro l’umanità e il diritto commessi dai totalitarismi, dall’uso dei gas italiani in Etiopia, alle feroci rappresaglie contro i civili, alle leggi razziali nostrane, alle complicità delle nostre truppe inviate a perpetrare massacri contro popoli e Paesi che non ci erano ostili.

 E ci si domanda come fosse possibile che tale rimozione avvenisse anche nelle menti e nei comportamenti culturali e politici di persone che, in posizioni non marginali, avevano introiettato come valori da difendere e perseguire un’ideologia fatta di superbia intellettuale, di orgoglio razziale, identitario e di classe sociale, tale da lasciare in costoro e nei loro discendenti un forte senso di orgoglio dinastico.

 

La questione in realtà prende le mosse dal progetto del mondo totalitario, del quale le conquiste territoriali, le stragi e gli omicidi dei singoli erano solo un mezzo, ancorché feroce, crudele e spietato, che la propaganda (si pensi che Goebbels aveva intitolato il Ministero della Propaganda come il Ministero dell’illuminazione) era riuscita a instillare nelle menti e nelle coscienze colonizzate dalla menzogna identitaria, finalizzata a costituire una società ridotta a un unum di dominanti e a una massa di dominati.

Questo punto, centrale e focale nella presente riflessione, indica come il concetto di identità sia il principale artefice dell’assassinio della verità.

 

Si tratta della negazione di una verità logica e razionale, e cioè del fatto che gli esseri umani, sia individualmente, sia nei gruppi che compongono l’umanità intera, sono plurimi e non riconducibili a un unum, per cui, e proprio a partire da questo pluralismo, le idee formano il tessuto del pensiero che spinge all’azione.

Si tratta pertanto dell’azione con cui è stata edificata l’impalcatura su cui la società occidentale come la intendiamo oggi avrebbe cercato di costruire sé stessa.

 

Tuttavia, come si vedrà in seguito, tra i materiali di costruzione si celavano due virus, necessari alla costruzione, ma pericolosi nella loro crescita autonoma, quando la crescita armonica di un organismo composito è viziata da una perdita di omogeneità causata dal prevalere progressivo di un fattore sugli altri.

E questo fattore è appunto l’identità, che si trasforma, come si vedrà, in una trappola, sebbene sia stato proprio il riconoscimento della funzione valoriale delle identità, ad apportare significato alla funzione creatrice dell’Occidente democratico, attraverso il rapporto fra l’equità e l’uguaglianza.

 

Tanto premesso, devono prendersi in considerazione due fattori complementari che debbono venir enucleati da quell’importantissimo frammento della storia del Novecento europeo che va dal 1939 al 1945, e, per l’Italia, soprattutto dal 25 luglio 43 al 25 aprile 45, che vide la società totalitaria, artefice della guerra e delle sue nefaste conseguenze sul terreno della civiltà occidentale.

 

Il primo è la reazione collettiva a tutto ciò, cioè la resistenza morale e armata alla barbarie bellica dei totalitarismi, che, solo in Italia, costò la vita a quasi 47 mila persone, tra uomini e donne, soprattutto giovani, immolatisi combattendo contro i nazifascisti autori di infinite atrocità anche contro i civili, fra i 25 mila resistenti dell’aprile 1944, saliti a 100 mila in quell’estate, ridotti nell’inverno 44/45, ancorché sostenuti da un consistente nucleo di civili, e saliti a 250 o 340 mila negli ultimissimi giorni di guerra.

Persone che costituirono il tessuto fisico e morale dal quale germogliò la Costituzione repubblicana;

ma il fatto che la Resistenza non coinvolse la maggioranza dei quasi 50 milioni di italiani cresciuti e vissuti sotto il regime fascista, rende del tutto opinabile che sia stato quel tessuto a determinare il completo capovolgimento ideale dei milioni di italiani chiamati a eleggere l’Assemblea Costituente il 2 giugno 1946.

Capovolgimento indotto dalla rimozione del passato nella coscienza dei milioni di persone che in quel passato avevano alimentato la loro identità.

 

Eppure quella rimozione fu non solo possibile, ma di tale portata da causare un vero e proprio balzo su un diverso e antitetico terreno ideale, sebbene in molti la superbia, l’indifferenza e l’egoismo, o la pulsione alla trasformazione dei rapporti di potere in modo irreversibile e contrario al mondo liberal democratico non fossero scomparsi mai del tutto, pronti a riemergere in forme varie e subdole, e in molti, moltissimi altri, fino a diventare maggioranze elettorali in Stati europei come l’Ungheria e l’Italia, e oggi in USA.

 

Sul punto deve rilevarsi che la rimozione opera su due piani.

Uno scollegando il coinvolgimento individuale dalle colpe, per cui la rimozione del fatto lava la coscienza lasciando intatte le strutture cognitive identitarie che avevano permesso quel coinvolgimento.

Il secondo piano è collettivo, dove le colpe della maggioranza plaudente ai regimi non furono giuridicamente rilevanti, bensì solo subdole nella struttura morale. Eppure politicamente rilevarono moltissimo, in modo tale che l’esserne lavate permise una sorta di riacquisto dell’innocenza che avrebbe permesso di accogliere i nuovi valori, o più probabilmente le conseguenze politiche del trionfo nominale dei nuovi valori.

 

Rileva, a questo punto, un fattore determinante che avrebbe permesso il lavaggio delle coscienze, possibile su un presupposto ulteriore, e cioè che la morte di 100 o 60 milioni di esseri umani fosse percepito come un fatto “impolitico”, colto come 100 o 60 milioni di morti individuali.

Ciò significa che, se ogni morte violenta sfugge all’interpretazione, e se non coglie la sua natura annichilente della razionalità, così come oggi appare evidente a chi studia la storia di quel tempo, allora la sua negazione, cioè la negazione della violenza connessa con queste morti, conduce alla rimozione delle sue cause (Così Hanna Arendt, Sulla violenza, ed. Guanda 1996). Ma ancora non si è detto attraverso quale meccanismo opera la rimozione.

 

Comunque questo testimonia una seconda manifestazione dell’uccisione della verità, ottenebrata da quella rimozione. Il che, altresì, ebbe, come si dirà, un’ulteriore conseguenza.

Infatti, a un certo momento nel corso successivo della Storia, quando gli eventi degli ultimi decenni hanno reso incerti i valori capaci di fondare non la loro proclamazione, già avvenuta a suo tempo, ma il loro effetto materiale, essendo ancora una volta le idee a determinare i fatti e non il contrario, le moltitudini hanno abbracciato nuove idee, antitetiche a quei valori adesso ritenuti un ostacolo al progetto dei nuovi alfieri del mondo, i vari Orban, Trump, Erdogan e i ducetti di casa nostra, indifferenti e ostili ai valori sorti alla fine della guerra mondiale in antitesi all’orrore rimosso.

 

Sul perché si è detto.

 Sul come una simile rimozione capitale dopo gli orrori fosse possibile nelle coscienze collettive, si ritiene trovi una spiegazione plausibile nella seguente riflessione, essendo altrimenti non solo quasi inspiegabile, ma contrario a ogni logica pensare che la presenza di immani distese di cadaveri trucidati non inducesse la memoria delle moltitudini non solo a interrogarsi sulle proprie responsabilità, ma lasciasse tracce così ingombranti nelle coscienze e nel pensiero delle generazioni immediatamente successive, tali da impedire ai semi di quelle scelleratezze di germogliare nuovamente.

 

Si ritiene pertanto che «il mondo moderno, demitizzato e secolarizzato, (abbia) apparentemente smesso di credere nell’età dell’oro, ma (abbia) preso a credere nel mito del buon selvaggio, (abbia) smesso di credere nella fine del mondo, ma (abbia) preso a credere nella fine della storia, nella società senza classi, nell’armonia degli interessi regolati dalla semplice legge dell’economia

(Cfr. A. Roncaglia, Il mito della mano invisibile, Laterza 2005), nella diffusione di pacifiche democrazie» (Bordoni, cit.: 154)

 Ne consegue che in tutte le culture umane vi sono tracce sia dei miti sia dei riti che vi si sono accompagnati, atteso che «ogni tradizione che vive nei volghi dei popoli civili (può venir) ricondotta a un rito, il rito a una credenza, la credenza a un sistema di idee.

E il folclore par quasi che assuma il corso di un fiume che nessuna civiltà può arginare, perché in fondo anch’esso è un aspetto di quella civiltà»

(G. Cocchiara, Prefazione a Il Ramo d’oro di G. Frazer, Boringhieri, 1981: XXIII,).

 

Si tratta cioè dei riti come azioni simboliche, la cui «percezione, intesa come riconoscimento, percepisce ciò che dura [poiché] i riti si lasciano definire nei termini di tecniche simboliche di accasamento: essi trasformano “l’essere-nel mondo” (nell’accezione heideggeriana) “in un essere-a casa”.

Essi sono nel tempo ciò che la casa è nello spazio.

Rendono il tempo abitabile, anzi lo rendono calpestabile come una casa. Riordinano il tempo, lo aggiustano… per cui gli uomini, malgrado la loro natura mutevole, possono ritrovare il loro sé… cioè la loro identità»

(Byung-Chul Han, La scomparsa dei riti, ed. Nottetempo 2021: 12-13).

 Ma non solo, poiché «nelle azioni rituali rientrano anche i sentimenti» non tanto per l’individuo isolato, ma come «sentimento oggettivo, collettivo, impersonale» (ivi: 23).

Allora «una svolta rituale contrassegnata dalla preminenza delle forme… ribalterebbe il rapporto tra Interno ed Esterno, tra spirito e corpo… per cui il medium produce il messaggio…. E le forme esteriori sortiscono effetti mentali» (ivi: 35).

 

Tanto premesso, rilevato «che la morte presuppone che la vita stessa abbia una conclusione» senza la quale «si giunge a un’addizione e a un accumulo di infiniti dell’Eguale» per cui la vita stessa finirebbe nel momento inaspettato e meno opportuno, «i riti di chiusura stabilizzano il luogo, producono una mappatura cognitiva» ( ivi: 43- 44). Si tratta cioè dei «riti di iniziazione e (dei) sacrifici rituali (che) sono atti simbolici che regolano numerose transizioni tra la vita e la morte, (dove) l’iniziazione è una seconda nascita che segue alla morte» (ivi: 72).

 

Detto questo, un elemento ineludibile della storia umana è costituito dalla necessità «di far piazza pulita di tutti i mali che hanno infestato un popolo» (G. Frazer, cit. I capri espiatori pubblici: 886).

 Ma non si sorrida di questa citazione, poiché “«il 95 % dei Sapiens sulla Terra è segnata da un’endemica violenza inter e intraspecifica … i sacrifici rituali, animali e non umani, in tutte le culture sembrano formare il centro nevralgico della vita collettiva»

(Bordoni, cit.: 273).

 

Allora, nel tentativo di comprendere non solo come sia stato possibile, nell’arco di un tempo circoscritto in pochissimi anni (le Costituzioni liberali europee italiane e tedesche sono del 1948 e 1949) passare da un mondo ideologico che aveva condotto le moltitudini dall’ inneggiare alla guerra (non si contano le lettere manoscritte in tutte le classi sociali dove si esprime il plauso verso l’ideologia di conquista) al suo totale ripudio, ma anche all’interiorizzazione di tale ripudio come valore condiviso, si ritiene che non poté essere sufficiente l’orrore innescato dall’orrore, perché quel primo orrore venne consentito dai milioni di persone che non lo considerarono affatto un orrore, bensì un valore da perseguire.

 

Era così necessario che intervenisse un fatto diverso, tale da penetrare nella coscienza collettiva e lavarla, e permetterle così di diventare permeabile a nuove idee, sgorgate come rito di iniziazione, mentre le migliaia di vittime che avevano combattuto ed erano cadute contro quel “rimosso” e i combattenti sopravvissuti subivano una sorta di progressivo isolamento sociale rischiarato dalle celebrazioni rituali, assenti nei libri scolastici del tutto omissivi e sempre più spesso contestate anche sul terreno della cultura.

 

Ebbene, tanto premesso, è opinione di chi scrive che furono i processi di Norimberga e di Tokio, le pubbliche esecuzioni capitali dei responsabili principali di quegli orrori, veri e propri capri espiatori, ancorché colpevoli, e fatti come l’esibizione dei corpi a piazzale Loreto, le epurazioni dei personaggi più pubblicamente coinvolti nei grandi crimini e nel sistema politico che li aveva permessi, come riti di chiusura dove le forme che li accompagnavano determinarono una trasformazione degli spazi cognitivi, costruendo un mondo nuovo, dove conta poco chi è e come ha vinto la partita.

 

 Alla fine, lavate le coscienze collettive (nuova nascita), si procedette ad accogliere idee opposte e diverse, queste sì, elaborate da menti illuminate e visionarie, che non avevano affatto operato tale rimozione, ma che all’opposto, fin dai primordi del sistema totalitario trionfante, avevano sviluppato gli anticorpi cognitivi per gettare il seme del mondo nuovo.

Alcuni di loro non erano sopravvissuti all’orrore, ma avevano lasciato il loro pensiero, come “Hetty Hillesum”, scrittrice olandese uccisa dai nazisti nel 1943, “Simone Weil”, morta nel 1943, la filosofa” Edith Stein,” uccisa dai nazisti nel 1942, lo storico “Marc Bloch”, fucilato dai nazisti nel 1942, o “Carlo Rosselli”, assassinato nel 1937 dai sicari di Mussolini, “Rosselli” che nel 1935 aveva prospettato una Costituente europea «composta da delegati eletti dai popoli che in assoluta parità di diritti e doveri elabor(asse) la prima Costituzione Federale Europea, nomin(asse) il primo Governo Europeo, fiss(asse) i principi fondamentali della convivenza europea, organizzasse una forza al servizio del nuovo diritto europeo e d(esse) vita agli Stati Uniti d’Europa».

 ( Cfr. Lucio Levi, Il Manifesto di Ventotene, Mondadori 2025: 178).

Ma furono molti, i pensatori antesignani della rinascita della civiltà europea come gli economisti “Joseph Schumpeter” e “Karl Polany”, i filosofi “Jaques Maritain” e “Karl Popper”, solo per citarne alcuni.

 

Ma queste idee nuove hanno molte radici nel pensiero attraversato dalle categorie del giudizio, su cui è utile spendere alcune parole, con le quali si spera di contrastare un altro attentato alla verità perseguito da chi propugna il pensiero unico, strumento principe di chi contesta e combatte la democrazia, e che oggi sembra sulla strada di vincere la partita.

 

Si vuol dire che così come la vita di relazione degli umani non è dominata da un caos bellicoso nel quale ogni soggetto impugna la sua visione del mondo come frutto degli impulsi contingenti trasformandola in una categoria del giudizio finalizzato a espugnare quello altrui, ma, almeno in parte, utilizza categorie coniate dalle persone che l’hanno preceduto, allo stesso modo le categorie del giudizio necessarie, in primis alla conoscenza del mondo e, in secondo luogo a costituire le basi cognitive dell’azione, discendono da una successione intergenerazionale di categorie che hanno operato negli spazi cognitivi delle generazioni che si sono succedute.

 

Tuttavia le modificazioni della realtà oggettiva in cui si sono evolute le famiglie umane nel loro concreto divenire sociale, culturale, economico, politico, hanno agito da catalizzatori del cambiamento dal quale sono sgorgate le categorie di giudizio, diverse e talvolta incompatibili con le precedenti, ma non per questo capaci di trasformare le relazioni umane in un caos belligerante.

Caos immaginario, spesso usato come pretesto dagli alfieri del c.d pensiero unico.

 

Per queste ragioni è significativo evidenziare come il mondo progettato dal “Manifesto di Ventotene”, composto da “Altiero Spinelli”, con il contributo di “Ernesto Rossi” e l’apporto concettuale di “Eugenio Colorn”i nell’esilio del confino nell’isola di Ventotene nel 1941, durante la guerra di conquista dei Paesi nazifascisti Germania e Italia, è, insieme con il Costituzionalismo, un mondo edificabile sul presupposto di alcune verità di base, come i diritti fondamentali richiamati nell’art. 2 della nostra Costituzione, che trovano la loro giustificazione nel lungo percorso ideale che prende le mosse, quanto meno, dall’Illuminismo.

E si tratta di un percorso ideale e non ideologico, poiché è attraversato da un ampio e articolato dibattito, spesso conflittuale, sia di tipo giuridico (si pensi alla Costituzione americana e agli 85 testi che compongono i Federalist Papers, l’amplissimo primo commento di quella Costituzione del 1787), sia filosofico, sia letterario.

Si pensi solo al XVIII secolo col “Candide di Voltaire” o al “Tristram Shandy” di Stern, o nel ‘900 a libri straordinari come” Vita e Destino” di Vassily Grossman, e, per quanto ci riguarda, ma solo a titolo di esempio del tutto insufficiente, al “Il sentiero dei nidi di ragno” di Calvino o a “La cognizione del dolor”e di Gadda, o” Il giardino dei Finzi  Contini “di Bassani o” Il partigiano Johnny” di Beppe Fenoglio.

 

Non si stupisca il lettore di questo accostamento, poiché la funzione della letteratura, lungi dall’essere mero veicolo di bellezza estetica fine a sé stessa, quando non mistifica il pensiero, pur non svolgendo la funzione informativa sulla realtà, compito della saggistica che la interpreta, svolge un’altra operazione. La letteratura infatti crea una realtà analoga a quella concreta, e lo fa raccontando fatti veri o inventati, e lo fa attraverso la mente dei suoi personaggi o dell’io narrante, affidandosi al lettore affinché usi della sua buona fede per decodificarla. Ma certo non si occupa di decodificare i fatti, né trasmette un’interpretazione. Viceversa mette il lettore non nella posizione di testimone del pensiero, ma in quella di creatore del pensiero, e gli chiede di attraversare, usando il proprio pensiero indotto dalla rappresentazione di un pensiero altrui, quello dei personaggi appunto, quella realtà creata per mezzo del pensiero raccontato nel testo. E quando questo accade, nel lettore avviene un’epifania, che trasforma la conoscenza in comprensione.

 

Dunque il percorso ideale che condusse alla sorgente del mondo nuovo sgorgata sulle macerie rimosse della grande tragedia collettiva, aveva il compito di indagare la realtà in modo onnicomprensivo, offrendo all’intelligenza umana una risposta condivisibile sul piano della logica razionale e della morale.

 

Si vedrà poi come tutto ciò, oggi, si stia avviando allo sgretolamento, ma per ora, e siamo agli albori della nuova civiltà, nasce il Costituzionalismo che fonda i suoi valori. Argomento sul quale è opportuno spendere alcune parole, poiché il Costituzionalismo, come movimento culturale sull’elaborazione del diritto è alternativo alla riflessione dottrinaria e istituzionale della codificazione del diritto civile, privatistico, fin dall’epoca dei giureconsulti romani, così sviluppando i concetti dei diritti soggettivi di tipo privatistico, dalla proprietà al commercio, dalle successioni alle obbligazioni, dalla famiglia alla tutela dei diritti “intra cives”.

 

Ebbene, il Costituzionalismo è molto più recente e procede sul terreno del rapporto tra la persona e/o il cittadino e lo Stato, trasferendo nei concetti privatistici come sopra intesi, concetti di natura filosofica come la libertà e l’uguaglianza, ma in una visione dello Stato intessuto della necessità di rigenerare la relazione tra diritti e doveri nei rapporti reciproci delle persone, e tra i diritti e i doveri del soggetto pubblico con la persona/cittadino.

E ciò in modo nuovo sia rispetto al mondo liberale ottocentesco, sia diametralmente opposto a quello totalitario.

 

Si intende perciò il mondo nuovo, ante visto da persone come Altiero Spinelli o Carlo Rosselli, che all’improvviso si affaccia offrendo all’attenzione dei popoli un’autentica invenzione ideale, mentre afferma l’esistenza di una cosa che aveva avuto il suo antesignano nelle Costituzioni liberali Americana del 1787 e Francese del 1793, cioè il mosaico giuridico dei diritti fondamentali, non coincidenti sul piano ontologico coi diritti naturali, differenza sostanziale di cui verrà intimamente pervaso il Costituzionalismo novecentesco, così come vennero proclamati il 10 dicembre 1948 a Parigi dall’Assemblea Generale delle N.U. accompagnati da due scritti di Simone Weil.

 

Si tratta dunque di un binario, cioè del sentiero sul quale si avvierà il pensiero occidentale, dove i principi della libertà e dell’uguaglianza, calpestati dallo stivale chiodato dei totalitarismi insieme con la vita fisica e spirituale degli esseri umani discriminati, vessati e spesso sterminati per la loro estraneità, asserita come irriducibile e pericolosa ostilità al popolo massificato e inquadrato sotto i vessilli del potere costituito, acquisteranno nuova vita.

 

Ma questa operazione, che squarciò le tenebre e venne accolta con entusiasmo, in quanto veicolo di liberazione dalle catene materiali e spirituali, e diffidenza per le problematiche che comportava, non fu affatto semplice, e richiese l’intervento e lo sforzo delle menti più illuminate del tempo.

 

Ora, quando si parla di menti illuminate, si intendono le persone che avevano attraversato la tempesta e le tenebre senza cedere alle sirene del potere.

E, se si vuol porre l’attenzione all’Assemblea Costituente nominata con le elezioni del 1946 in Italia (le prime a suffragio universale nella parità fra uomini e donne), si vede che si tratta di persone quasi tutte nate o nel XIX secolo o nei primi anni del XX, che stavano raggiungendo o avevano oltrepassato la mezza età (una media tra i 40 e i 76 anni) e di alcuni, pochi, giovani, che dal pensiero di queste e dalle esperienze traumatizzanti della guerra e della Resistenza, dove viceversa, sì, quei 100 mila giovani avevano lottato infiammati dall’indignazione per la ferocia del nemico e ansiosi di aprire la via di un mondo nuovo, avevano ricavato l’impulso a proseguire il cammino su quel sentiero.

Certo non frutto dei miti giovanilistici del futurismo.

Il che però non è affatto un’osservazione banale, perché in quel momento storico, per questo motivo, si costruisce un legame intergenerazionale che mostrerà i suoi frutti nel lungo periodo, quando le Costituzioni (in specie la nostra) dovranno affrontare la loro crescita come quella di un albero, ma con la differenza sostanziale che, mentre quella dell’albero è endogena, quella della Costituzione è esogena.

 

Si tratta cioè dei loro necessari emendamenti, che nella nostra Costituzione si chiama “revisione”, e che non va confusa con l’abbattimento dell’albero e la successiva piantumazione, cioè con la radicalità propria del pensiero giovanile o di quello eversivo (parola che non piace agli eversori di casa nostra, ferocemente ancorati ai loro progetti camuffati attraverso l’assassinio della verità) volto alla cancellazione dell’ordine costituzionale esistente, tipico del “voltar pagina”, nel quale consiste, oggi, il crollo della nostra famiglia felice.

 

E si tratta soprattutto dell’interpretazione del contenuto costituzionale, aperta alla ricerca di nuovi significati, operazione che per comodità viene indicata in questa sede come “processo larvatamente emendativo”.

 

Tuttavia questo discorso non è affrontabile in questa sede per ragioni di spazio e perché condurrebbe a indagare non solo in cosa consistette l’edificazione delle nuove istituzioni nazionali (dal SSN al CSM alle figure del decentramento amministrativo solo per fare alcuni esempi) e internazionali (dall’ONU alla UE, dalle varie Corti, come la CGI, la CGUE, la CEDU, la CPI, la FAO…) ma il loro funzionamento e la loro ragion d’essere.

 Si pensi, a mero titolo di esempio, al perché del sistema bicamerale, e della sua composizione e ai criteri per l’elezione dei suoi membri, alla ragioni per cui la Costituzione ne prevede precise modalità anche quanto al rapporto tra elettori ed eletti, predisposto contro errori e orrori, e alle ragioni superficiali o callide che spingevano al suo smantellamento o al suo svuotamento operativo, al progetto di premierato che, in nome di maggior stabilità, distruggerebbe i check and balances.

 E tutto ciò attraverso il tradimento del patto intergenerazionale intrinseco all’edificazione del sistema liberale dell’Occidente.

 

Detto questo, è opportuno vedere meglio in cosa consistano le Costituzioni inventate dal Liberalismo intese come patti intergenerazionali. Si tratta di un progetto del Futuro, per cui si parte dall’istituzione di binari concettuali e normativi per delineare un percorso che, nel prosieguo, affronterà il territorio sconosciuto dell’avvenire attraverso un processo emendativo non arbitrario, e diverso da quello Costituente, perché «la singola parte non può essere alla pari con il tutto».

 (Alessandro Ferrara, Sovranità intergenerazionale, ed. Società aperta 2024: 30-31 e ss).

 

Questo perché, se il potere emendativo fosse pari a quello costituente, contraddirebbe la promessa originaria della Costituzione, cioè della reciprocità orizzontale sulla cui base si fonda la promessa originaria di una società giusta e stabile, pur ammettendo una reciprocità verticale tra le generazioni libere e uguali di uno stesso popolo, purché «lo schema di cooperazione fissato rimanga fermo nel tempo» (ivi: 442 e ss).

 

Purtroppo i populisti eversori dei nostri tempi non la pensano così, per cui, sebbene le Costituzioni appartengano a tutti in successione, possono venir trasformate con tre diverse conseguenze.

 La prima è che, se le generazioni successive possono farne ciò che vogliono, viene meno la legittimazione originaria scolpita nella Carta.

 Con la seconda viene cancellata l’unicità politica della Polis che ha inscritto in Costituzione i principi politici fondamentali.

Nella terza i successori potranno “legittimamente” decidere di limitare la libertà e i diritti anche delle generazioni future.

 

Tanto premesso, viceversa, la legittimità iniziale, cioè la sua verità, per non venir uccisa dal progetto eversivo, dev’essere coerente tra tutto l’impianto e i dettagli della Carta da un lato, e una concezione politica della giustizia come libertà ed equità, mentre un cambio di regime cancellerebbe questi presupposti.

Viene così smascherata la menzogna degli assassini della verità costituzionale, che raccontano la fola dell’irrilevanza della distruzione di alcuni dettagli, finalizzata a ottenerne un miglioramento funzionale, per cui, senza addentrarsi nelle problematiche della distinzione fra Costituzione materiale e formale, usata artatamente per i fini eversivi, e falsandone la natura, è necessario focalizzare l’attenzione su quale sia la verità della Costituzione oggi in pericolo mortale.

 

Infatti, dopo la Seconda guerra mondiale i popoli, e nella specie il nostro, avevano assunto su di sé il potere costituente, diventando qualcosa che prima non erano, e che ora rischiano di tornare a essere.

Ma per farlo dovevano procedere su due piani.

Il primo consisteva nel dare priorità a fini che non potevano essere perseguiti simultaneamente, cioè affrontando il tema di immaginare una società politica prefigurata, in modo non molto dissimile dal contenuto rivoluzionario del discorso della montagna di Gesù di Nazareth nel vangelo secondo Matteo, e si perdoni l’apparente irriverenza, ma che aveva lo scopo di mostrare ai suoi destinatari una strada percorribile nella coscienza e nella condotta di un popolo che fino a quel momento ne aveva percorsa una diversa.

Nelle parole di quel Gesù, che avevano una forza costituente, ma nessuna portata, si va dalla difesa dell’adultera contro la pena di morte, alla beatificazione degli ultimi, alla solidarietà con lo straniero spesso nemico, contenuta nella parabola del buon samaritano, a un nuovo concetto di parità tra uomo e donna.

Ma con una differenza sostanziale, e cioè che Gesù di Nazareth è un uno che parla ai molti, offrendo loro una visione immaginifica del futuro, (la società prefigurata, appunto), mentre il potere costituente di cui ci si occupa in questa sede, è, nel secondo piano preso in esame, quello di un’azione basata su regole costitutive autoimposte.

Per fare questo, allora, il popolo si autorappresenta come portatore di un Ethos con caratteristiche politiche, che non ha ancora ma che attecchiscono sul piano morale delle coscienze collettive lavate e rese innocenti dalla rimozione degli orrori.

 Cioè attraverso l’impegno auto assunto di condividere gli impegni nascenti da questo impegno, che è l’impegno costituente, che dev’essere ampiamente condiviso dalla popolazione per territorio, lingua e cultura reciproca.

 Proprio come avvenne attraverso l’elezione dell’Assemblea Costituente italiana il 2 giugno 1946.

Così nacque la Costituzione, incorporando i termini della cooperazione costitutiva, che a sua volta trasformerà l’ethos in modo coerente con la Costituzione.

 

Ma a questo punto diventa necessario un soggetto in grado di rappresentare il contenuto e il significato della Costituzione davanti al popolo attuale e a quello futuro, fornendo a entrambi la ratio di quell’oggetto fondativo del nuovo popolo e della nuova morale.

Si tratta della Corte Costituzionale o della Corte Suprema che supera la contingenza delle vicende elettorali.

 Si pensi in proposito alla nostra Costituzione che prevedendo la non emendabilità della Repubblica come tale e vietando la ricostituzione del partito fascista, affida a questo soggetto il compito, tra gli altri, di salvaguardia della legalità repubblicana.

 

La Corte Costituzionale allora è il soggetto a cui viene affidato il potere interpretativo della Costituzione.

E tale potere nasce da un mandato politico che entra in relazione di causa/effetto con la Democrazia Liberale, cosicché viene esercitato cercando di allineare la produzione legislativa alle applicazioni originarie dei significati incorporati nella norma costituzionale, ma non sui presupposti cognitivi espressi dalle opinioni di chi contesta la portata della Costituzione.

Cioè: il potere interpretativo deve valutare ragionevolmente e razionalmente quanto le nuove idee virino verso una riformulazione degli impegni inscritti in Costituzione.

 

Ne consegue che il rapporto tra Corte Costituzionale e Democrazia verte su quale potere venga riconosciuto dal segmento vivente della popolazione che vuole la nuova interpretazione, su quanto il controllo giurisdizionale verifichi la volontà dell’elettorato, se attraverso la questione sollevata da chi ne ha investito la Corte si riformula il dibattito politico rispetto alla contrattazione o al compromesso.

 E gli effetti ultimi sono che il giudizio espresso dalla Corte valorizza l’autenticità della Carta, mentre gli eventuali nuovi significati su vecchi standard e principi mostrano la vitalità della Società dei cittadini prefigurata in Costituzione, riunendo il passato al presente e al futuro (Così in Ferrara, cit.) dovendo tenere ben fermo l’assunto che questo potere interpretativo non può in alcun modo trasformare la Costituzione, sebbene gli assassini della verità cerchino di avere buon gioco raccontando il contrario e cercando di modificarne l’assetto, come ben si può notare nell’uso della nomina dei giudici della Corte Suprema da parte del potere presidenziale americano.

 

Non diversamente, sebbene in modo analogo e speculare, sul piano dei rapporti internazionali sui quali doveva prosperare il mondo occidentale.

 E infatti un discorso analogo può farsi, nella UE, per quanto attiene alla natura e alla funzione della sua Corte di Giustizia (CGUE) le cui decisioni hanno efficacia di legge negli ordinamenti degli Stati membri, purché non ne violino i principi fondamentali delle loro Costituzioni, che ne riconoscono la validità.

 

E fu così che venne concepita l’idea della famiglia felice, e fu quell’idea a spingere il presidente francese Mitterand e il presidente della Repubblica federale tedesca Helmut Kohl a tenersi per mano e inginocchiarsi di fronte al monumento ai caduti del conflitto che vide la Francia e la Germania combattere ferocemente l’una contro l’altra.

Quell’incontro era silenziosamente indotto dalla condivisione del concetto di violenza distinto dal potere, quando necessita di strumenti che agiscono nel rapporto mezzo/fine, e i due statisti si conciliarono in nome della necessità morale di evitare che il fine rischi di essere sopraffatto dai mezzi, come accadde nelle vicende tragiche dell’Europa.

Per lo stesso motivo venne concepita la CEE e poi la UE, e poiché il fine non è mai del tutto prevedibile, per cui i mezzi diventano più importanti del fine, i mezzi della UE divennero “il diritto” elaborato verso un fine solo abbozzato nell’atto fondativo di Roma del 1957, sottoscritto dagli Stati europei, poiché il risultato delle azioni (messe in atto coi mezzi) va spesso al di là delle previsioni,

(H. Arendt, Sulla violenza, cit.), così come la violenza del XX secolo, dominata dall’arbitrio, foriero di menzogna, ha portato ad Auschwitz e alla Bomba Atomica.

 

Infatti la guerra, che era stata il mezzo ultimo per intervenire negli affari internazionali, dopo il 1920, con la” Società delle Nazioni”, ci si illuse che venisse impedita dal binomio libertà/sovranità assolutamente separate, così che il tempo in cui la sovranità dello Stato Nazione era tale da interferire nella libertà degli altri Stati, a seconda del mezzo utilizzabile, incontrava il limite della sovranità altrui.

 

Ebbene, questa separazione era stata all’origine dell’illusione liberal democratica, per cui i trattati avevano forza vincolante sul potere sovrano, imponendo il ripudio del principio “non c’è alternativa alla vittoria”.

Ma nella prima metà del XX secolo erano intervenuti i fatti casuali e gli avvenimenti che avevano infranto le previsioni ideologiche, quelle che si difendevano scartando gli eventi catalogati come casuali, quelli che Lev Trotsky metteva nella “Pattumiera della Storia”.

Cioè con un bel trucco necessario a rinforzare la teoria ideologica, per cui la guerra era il sistema fondamentale per piegare a sé i sistemi economici, le filosofie politiche e i corpora juris.

Insomma un uso sapiente della menzogna con cui assassinare la verità, cioè il potere del singolo Stato, contro il quale venne inventata la Comunità europea, basata su un principio di civiltà incardinata sul Diritto, sulla Giustizia e sulle Corti. Per quanto inconsapevolmente, i due statisti che si tenevano per mano avevano fatto propria l’idea che la civilizzazione consiste anche nell’introiezione dell’aggressività e del senso di colpa determinato dalla sanzione sociale, sulla quale agisce, purtroppo, l’assassinio della verità da parte dei leader populisti che trasformano la morale, così come seppero fare Hitler, Stalin e Mussolini e i loro epigoni del tempo presente, spingendo gli esseri umani ad abbandonarsi a ogni tipo di crudeltà.

 

Eppure, ciononostante, nel tessuto costituzionale e in quello delle istituzioni internazionali si annidano i due virus distruttivi sin dalla loro nascita, intrinsecamente connessi con la ragione di quel tessuto.

Di uno se ne è già fatto cenno.

 È l’idea di equità che, come tale, è intrinseca al progetto della moralità costituzionale, magistralmente elaborato dal filosofo statunitense “John Rawls “nel suo “A Theory of Justice”, dove Rawls specifica i tratti fondamentali di una interpretazione della giustizia sociale su due principi fondamentali.

 

Il primo, il “principio di libertà”, prevede un equale sistema delle libertà fondamentali, e il secondo, il “principio di differenza”, regola la distribuzione dei costi e dei benefici della cooperazione sociale, e prescrive che l’unica ineguaglianza giustificabile dalla Costituzione riguarda l’accesso ai beni sociali primari che devono andare a vantaggio dei gruppi e/o delle persone meno avvantaggiati nella società in presenza di un’eguale uguaglianza delle opportunità.

 

Ne consegue che il perseguimento di equalizzare il valore della libertà, intesa come “positiva”, cioè libertà “di”, viene dalla necessità di mantenere la promessa di uguale libertà per chiunque, e ciò attraverso il principio di differenza, sensibile agli effetti moralmente arbitrari sia della c.d. lotteria sociale, sia della c.d. lotteria naturale che opera la diversa distribuzione dei talenti e delle capacità.

Il che presuppone «uno schema di reciprocità nel tempo».

(Salvatore Veca,” La barca di Neurath, l’idea di equità”, ed. Della Normale 2025: 74).

 

Ora, non essendo questa la sede per analizzare i criteri distributivi descritti nella Theory of Justice e riformulati successivamente da Rawls in Giustizia come equità (Ed. Feltrinelli 2002: 17 e ss) partendo dal c.d. «esperimento mentale della posizione originaria» per giungere alla “Giustificazione pubblica” di tali assunti, il punto focale che qui interessa, sta nella preoccupazione di «preservare la cooperazione sociale e politica tra cittadini liberi e uguali» (Rawls, cit.: 32) attraverso un «equilibrio cognitivo di tipo riflessivo».

Ebbene, poiché «nella realtà i cittadini hanno idee religiose, filosofiche, morali spesso contrastanti», come riconosce lo stesso Rawls (ivi: 37), il virus a cui si è accennato viene dal fatto che il pluralismo delle persone e/o dei gruppi non sia affatto “ragionevole”,

 ma proliferi nel brodo identitario, alimentato proprio da chi quel progetto costituzionale equo, giusto e ragionevole vuole distruggere.

 Ma non solo rilevano queste differenti idee, anche le differenze linguistiche, politiche e di genere incidono grandemente sui sentimenti identitari, che divampano quando vengono alimentati, ad esempio, dalle celebrazioni di varie fome di eredità culturali, con l’effetto che la molteplicità delle identità, quando contrastano tra loro all’interno della stessa categoria, come la cittadinanza, o fra diverse categorie, come la professione, la classe sociale o il genere, attraverso diverse fedeltà di gruppo, possono entrare in conflitto e in periodi di pace suscitare diversi giochi di alienazione, ma quando interviene la guerra o un radicale mutamento di morale, allora le scelte dei comportamenti indotti «da rappresentazioni distorte delle persone appartenenti a una categoria diversa e l’insistenza sul fatto che quelle caratteristiche distorte siano i soli aspetti rilevanti dell’identità delle persone prese di mira… possono essere foriere di violenza». (Amartya Sen, Identità e violenza, Laterza 2006: 30).

Questo perché, con un’adeguata dose di istigazione, «un sentimento di identità con un gruppo di persone può essere trasformato in un’arma potentissima per esercitare (appunto) violenza su un altro gruppo» (Sen, cit. :XIII).

Ciò soprattutto quando viene indotta ad accogliere un erroneo criterio di causalità, su cui operano quelli che si sono qui definiti come gli assassini della verità.

 

Infatti, quando si prendono in esame eventi verificatisi in successione e si cerca di spiegarli, si ricorre al criterio di causalità, che tuttavia è molto più complesso di quanto appaia a prima vista. Emblematico sul punto è l’art. 41 del nostro Codice penale, intitolato “concorso di cause”, che recita: «Il concorso di cause preesistenti o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione (incriminata) non esclude il rapporto di causalità tra l’azione o l’omissione e l’evento [e] le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento».

 

Né vale l’illusione della conoscenza reciproca, come sostenne la scrittrice Christa Wolf alla celebrazione dell’ 80mo anniversario della nascita di Heinrich Boll, quando attribuì «alla scarsa conoscenza ed estraneità» da parte dei popoli delle due Germanie ante unificazione, «divise dall’impossibilità di immedesimarsi gli uni negli altri» e superare così le divisioni e le ostilità reciproche.

(C. Wolf, Fraternità difficile, ed e/o, 1999: 11).

 

Si tratta della c.d “trappola identitaria” le cui conseguenze sono ben descritte da Sen ricordando gli eventi tragici a cui assistette in gioventù al tempo della separazione dell’India dal Pakistan, quando

 «Gli istigatori politici che spingevano al massacro, in nome di quella che ognuna delle parti in campo definiva la nostra gente, riuscirono a convincere molti pacifici individui di entrambe le comunità a trasformarsi in criminali accaniti, inducendoli a concepire sé stessi soltanto e unicamente come induisti o musulmani, col dovere di scatenare la vendetta sull’altra comunità.

Non come asiatici, come membri della razza umana» (Sen. cit.:175).

 

Detto questo, non c’è dubbio che l’universalità connessa con la dichiarazione dei diritti umani si scontra con il fenomeno della disuguaglianza di fatto, che non viene meno solo perché si afferma la pari dignità di tutti. Infatti le Costituzioni liberal solidaristiche del secondo dopoguerra e chi, come Rawls, decise di affrontare il problema della disuguaglianza come lesione della giustizia, affrontarono la questione dell’equità.

Così fa la nostra Costituzione all’articolo 3, dove afferma che «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

E lo fa subito dopo aver richiamato l’universalismo dei diritti all’articolo 2: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale».

 

Ma non solo: il problema viene affrontato anche trasversalmente sul piano temporale, dove la proiezione nel futuro dell’attuazione costituzionale avviene attraverso il potere larvatamente emendativo, nel senso di integrare il dettato costituzionale attraverso l’allargamento della portata dei principi contenuti nella Carta.

Il che è avvenuto affrontando il tema dei diritti e delle libertà che via via si affacciavano sul terreno della costruzione della società prefigurata dalla Carta.

E molti sono i principi di diritto che vengono progressivamente assunti come mattoni di tale società prefigurata nella Carta.

 Si pensi, ad esempio, al riconoscimento del diritto all’obiezione di coscienza, al diritto alla riservatezza, alla propria immagine, alla libertà di informazione, al diritto ai segni distintivi della personalità, al diritto a libere relazioni omosessuali, alla libertà morale come libera determinazione della volontà, alla capacità negoziale, al diritto al riconoscimento della personalità giuridica per gruppi e associazioni di fatto.

Ma i casi sono molto più numerosi.

 

Eppure tutto ciò non è stato sufficiente per garantire il totale successo della società edificata sui presupposti della Costituzione, in parte perché il fenomeno delle diseguaglianze non attiene solo agli individui, le cui istanze e attese possono più o meno radicalmente venir soddisfatte dalla larvata emendabilità dell’impianto costituzionale, in modo tale da sfrondare la resistenza degli interessi ad esse contrarie, così come si può cogliere  dalle pronunce della Giustizia ordinaria e amministrativa che solo le sentenze della Corte Costituzionale hanno reso inefficaci, e in parte perché la funzione “emendativa” ha avuto scarsa attenzione ai gruppi nei quali si riconoscono gli individui portatori degli interessi in gioco (Questione presente nel dibattito dei costituzionalisti).

E questo perché le sentenze della Giustizia ordinaria e amministrativa, poi divenute inefficaci, erano l’effetto del potere di gruppi di interesse ideologici come quelli religiosi o politici o economici, confluiti spesso nelle aggregazioni politiche contrarie al processo attuativo.

 

Ne consegue che l’insufficienza di questo processo larvatamente emendativo viene accolta con ostilità proprio dai gruppi che esprimono quelle istanze, e che per questo motivo «rigettano valori universali e regolamenti come la libertà di parola e le pari opportunità, considerandole semplici distrazioni che mirano a nascondere e perpetuare l’emarginazione delle minoranze… (e) per questo puntano sulle varie identità di gruppo, insistendo per metterle al centro sia della nostra (alias famiglia felice) visione del mondo, sia della nostra percezione di come si dovrebbe agire al suo interno» (Yasha Mounk, La trappola identitaria, Feltrinelli 2023: 19).

Da lì, alla nascita e alla crescita di un’enfasi sulle categorie identitarie come razza, genere e orientamento sessuale il passo è breve, tanto quanto quello di porsi in posizione antitetica e di scontro sia verso chi proclama i valori universalistici considerati una menzogna, sia verso chi si pone come portatore di identità avverse.

 

Sull’altro lato della barricata l’atteggiamento è specularmente identico, e ne discende una polarizzazione del tutto antitetica al progetto costituzionale, ostacolato dalle ideologie di estrema destra, «perché spingono i loro seguaci a dare più valore al gruppo di appartenenza che non ai diritti degli altri, o ai principi universali di solidarietà umana» (Mounk, cit: 21).

 

Su questo fenomeno sociopolitico così complesso si è innestato un fattore culturale frutto della rivoluzione informatica, che è stato determinante per la crescita esponenziale del virus inscritto nel principio costituzionale dell’equità.

 Si tratta della gigantesca e inarrestabile propagazione in senso verticale, cioè nella sempre maggior sofisticazione e potenza degli strumenti tecnologici in questione e della scienza che vi si accompagna.

In senso orizzontale si tratta del raggiungimento di sterminate moltitudini, ormai nella misura dei miliardi di individui, avviati a diventare incapaci di elaborare barriere cognitive efficaci contro gli effetti di questa pandemia scientifica sul terreno della comunicazione e dell’informazione, che ha finito per causare il trionfo di quella che “Yascha Mounk” ha definito “sintesi identitaria”, come «prodotto di un insieme di influenze intellettuali, quali post modernismo, post colonialismo e teoria critica della razza (che) può essere messa al servizio di varie cause politiche, dal rifiuto radicale del capitalismo alla tacita alleanza con l’America (di Trump)» (Mounk, cit.: 17).

 

Questo è stato possibile perché la c.d. rivoluzione informatica è stata il veicolo di una vera e propria rivoluzione sociale, che ha comportato la scoperta e/o la nascita di nuove identità sociali che si sono innestate o hanno affiancato o si sono integrate in quelle identitarie, attraverso nuove semantiche e nuove categorie valoriali, che si sono alimentate l’un l’altra attraverso la rete sociale del web.

 

Ma ciò è accaduto non solo per queste ragioni, poiché la caratteristica del fenomeno, per via dell’assenza dell’interazione gestuale tra i soggetti, eliminando il face to face mimico, ha comportato una sorta di analfabetismo emotivo e ha creato una sorta di irrealtà manipolabile dall’uso dell’interfaccia dei sistemi informatici, nuove modalità di comportamenti interattivi all’interno delle reti sociali, alterando gli schemi cognitivi e sociali utilizzati dalle persone cresciute nella consuetudine dei rapporti fondati sul riconoscimento e il rapporto personale nello scambio razionale delle informazioni e delle opinioni.

 

Infatti «i social media, per la loro capacità di strutturare l’esperienza interattiva, creano attraverso l’uso, schemi mentali (permettendo) all’utente esperto di simulare mentalmente le diverse possibilità di azione del medium, consentendogli di usarlo intuitivamente senza pensare».

 Si tratta cioè dell’«interrelata che permette di far entrare il mondo digitale nel mondo off line e viceversa (e/o) di modificare l’esperienza e l’identità sociale in maniera totalmente nuova rispetto al passato» (Giuseppe Riva, I Social network, Il Mulino 2016:38).

 Questo perché «Il mezzo digitale incarna rappresentazione e auto esibizione (…) funzionando da specchio gratificante della propria immagine e da megafono per amplificare la propria platea  attraverso il consenso e la sua ricerca» (W. Quattrociocchi e A. Vicini, Liberi di crederci, ed. Codice, 2018: 65).

 

Tutto ciò scardina il lungo percorso ideale, iniziato nel XVIII secolo e proseguito sino a due decenni fa, che aveva come obiettivo di indagare la realtà in modo onnicomprensivo offrendo all’intelligenza umana una risposta condivisibile sul piano razionale e morale.

 Così questo rigurgito del suo opposto opera sul piano cognitivo, in modo tale da affascinare il bisogno di semplificazione delle moltitudini, trasforma in realtà l’assunto che non esistono i fatti ma solo le loro interpretazioni, e apre la via maestra per sconfessare quel percorso bisecolare.

 

Invero non si tratta di un fenomeno del tutto nuovo, ma la novità consiste nella sua diffusione planetaria, poiché l’assunto che non esistono i fatti aveva già avuto come corollario che la verità era inconoscibile alle masse, di cui si screditava la razionalità, ricordando ad esempio le teorie genetiche marxiste di Trofim Denisovic Lysenko.

 Tuttavia il fenomeno che qui ci occupa, che ha avuto come riflesso l’ascesa delle destre illiberali e il crollo della fiducia nel mondo democratico della nostra famiglia felice, discende dal secondo virus presente nel tessuto costituzionale come struttura ideale fondativa dello stesso, e quindi difficilmente emendabile.

 

Ma prima di prenderlo in esame, è necessario spendere alcune parole sul corollario che discende dall’assunto di verità circa l’inesistenza dei fatti ma solo della loro interpretazione, che ha trovato nella rete dei social non solo la strada della sua diffusione, ma della sua presa sulle coscienze. Si tratta della disinformazione, dei suoi creatori, delle modalità e dei mezzi usati per amplificarla, e dei suoi effetti.

 

Detto questo bisogna chiarire che il presupposto necessario per proseguire l’indagine senza smarrirsi, sta nella comprensione di un dato di realtà, cioè nella dicotomia tra la semplificazione dell’argomentazione e la sua complessità, dove la prima, eliminando dal focus una congerie di oggetti, se rende più facile la percezione del tutto, inteso come meccanismo fenomenologico in continuo divenire, di cui gli esseri umani sono soggetti attivi e passivi, rischia di non cogliere ciò che rende riconoscibili le sue ragioni e le sue cause, talché la risposta all’indagine semplificata si riduce all’uso rituale dei miti, quali lo scontro di civiltà, l’antitesi tra Capitalismo e non Capitalismo, la credenza nelle fedi escatologiche, l’assunto che ci sia una e una sola causa del tutto. Ebbene, tutto ciò è connesso con la disinformazione.

 

Sull’altro lato sta il garbuglio dei fatti visti nell’intrico delle relazioni del pensiero attraverso lo scambio delle opinioni sul divenire della Storia, in specie contemporanea, dove giganteggia la necessità della selezione, così come specifica E. Carr in Sei lezioni sulla storia (Einaudi 1966).

 Tuttavia non si può fare a meno di penetrare in questo garbuglio senza precipitare nell’abisso degli abbagli cognitivi.

Anzi, per potervisi districare riducendone le parti in oggetti maneggevoli sui quali ragionare razionalmente, bisogna ricorrere all’intermediario, all’esperto che affronta la complessità di un fenomeno con la sua competenza, che deve essere verificabile, e i cui giudizi possono venir giudicati esaminandone il percorso logico e razionale.

 

Ebbene, la disinformazione parte da un presupposto diverso, quello della “disintermediazione” (Quattrociocchi, Vicini cit.: 26), frutto dell’abilità di chi esalta il trionfo della persona qualunque sull’élite tradizionale colonizzando i suoi spazi cognitivi con l’uso sapiente del web, il cui obiettivo «non è solo quello di indurre o mettere in discussione alcuni fatti particolari… ma di erodere la fiducia nei detentori della verità, non inducendo a credere in una falsità, ma a diffidare e talvolta odiare chiunque non creda a sua volta a quella stessa falsità» come evidenziato dagli studi sulla comunicazione attraverso l’esame del debunking, cioè il ripristinare l’esattezza dei fatti, e la polarizzazione (Lee McIntyre, Disinformazione, ed Utet 2023: 16).

 Il che comporta «un rischio globale tecnologico e geopolitico che va dal terrorismo ai cyber attacchi al fallimento della governance globale» (Quattrociocchi, Vicini, cit.: 29).

 

Allora centrale in questo lavoro è la questione del negazionismo strategico, il cui obiettivo politico e ideologico, fomentando la sfiducia, è di uccidere la verità attraverso convinzioni negazioniste che non si basano sui fatti, ma sono radicate nell’identità di chi le professa (McIntyre, cit.:15), dove il conformismo sociale, che giganteggia nel web, ha indotto milioni di persone a credere nel complotto sui vaccini anti Covid, a quelli elettorali in USA, a quelli sulla sostituzione etnica in Europa e in Italia, ad aggredire l’informazione scientifica e le basi stesse della democrazia, atteso che la democrazia e il principio di uguaglianza è fondato sul libero accesso alla conoscenza, a partire da una corretta descrizione del mondo, o delle cose come stanno, per rimandare a ciò che deve o dovrebbe essere e appartiene al mondo dei valori, poiché «giudicare un’istituzione come democratica significa valutarla in modo favorevole rispetto a organizzazioni statali di tipo dittatoriale che, ad esempio, pratichino sistematicamente la tortura e vietino la libertà di parola e di stampa» (M Dorato, Disinformazione scientifica e democrazia, ed Cortina 2023: 20).

 

Viceversa il negazionismo strategico funziona selezionando accuratamente le prove utili ai suoi fini, come la manipolazione, attraverso gruppi di falsi esperti, delle statistiche e dei dati, omettendo quelli contrari, che siano sulle conseguenze del Covid, sul Cambiamento climatico, sui reati commessi dai migranti, sui dati economici; costruendo teorie del complotto, elettorale o pandemico o di qualsiasi altra natura, religiosa, economica, bellica, culturale, linguistica, di genere; attribuendo ai fatti qualità fasulle, come la natura pacifica degli assalitori di Capital Hill, armati di telefonini per i self, invece che di corde per impiccare Mike Pence e Nancy Pelosi come fu accertato; e i morti di quell’evento lo provano.

 

Ma la cosa paradossale è che questo mercato delle idee avvenga attraverso il libero flusso delle informazioni senza che la verità venga a galla sotto gli occhi esterrefatti di chi si ostina a credere che il progresso della civiltà cognitiva sia stato un’acquisizione permanente, trasponendo quest’idea nella democrazia liberale. Ciò «in base alla teoria secondo cui la verità avrebbe inevitabilmente la meglio sulla menzogna, (mentre) recenti ricerche empiriche hanno dimostrato che una prevedibile percentuale di pubblico» ascoltate le bugie ci crederà, poiché «non è possibile correggere un flusso di informazioni inquinate semplicemente diluendolo con la verità» (McIntyre, cit.:7, 48).

 

Allora, partendo dall’equivalenza del negazionismo come nutrimento dell’identità, ne consegue che rinforzando il potere della disinformazione con una procedura collaudata, si innesca il crollo della costruzione democratica del dopoguerra, sorto in risposta ai totalitarismi nati e sviluppatisi nel crollo democratico di quei tempi. Ne consegue che, analogamente agli anni 20/30 del ‘900, «Il funzionamento equilibrato e durevole di un regime democratico non (può) essere garantito dal solo gioco delle elezioni e dei partiti (perché) la separazione dei poteri, l’indipendenza giudiziaria, i diritti dell’uomo e il controllo di costituzionalità (devono) essere componenti sostanziali e non solo formali della democrazia» (Ives Meny – Ives Surel, Populismo e democrazia, ed. Il Mulino 2000: 43-44).

 

A questo punto deve evidenziarsi che l’assunto di verità per cui il crollo dei fondamenti democratici è causato da una sinergia di forze che agiscono attraverso l’uso dei canali e degli strumenti democratici, rende necessario prendere in esame il secondo virus dopo l’equità che doveva rendere perfettibile l’uguaglianza. È dunque il secondo virus, elemento strutturale e ineludibile della democrazia, a insidiarne la stessa sopravvivenza così come accadde al tempo del suo primo crollo.

 

Si tratta della libertà, il cui fondamento non è il suo valore ontologico, poiché essa esiste in quanto «processo della liberazione delle persone da un variegato corteo di catene, vincoli, norme, pratiche e tradizioni» che viene da molto lontano, fin dal Deuteromonio che invita alla gentilezza con lo straniero, «perché (tu) sai che cosa ha voluto dire essere straniero in Egitto» (S. Veca, cit.:98).

 

Ne consegue la questione se il valore della libertà sia o no negoziabile con altri valori e quale spazio la libertà delle persone deve avere rispetto ad altri valori, poiché la libertà cambia, e ciò che conta sono le nostre relazioni e i nostri vincoli. Quindi libertà come dimensione etica, non potendo essere esercitata responsabilmente in uno spazio sociale di non libertà, di umiliazione, di degradazione, di schiavitù di altri, ed è intimamente connessa «con l’uguaglianza, la sola che ammette società, gioia, cordialità» (ivi: 107-108).

 Allora la libertà attiene all’apertura nei confronti degli altri «come condizione preliminare dell’umanità in tutti i sensi della parola… sintonizzata sulle frequenze della gioia resa impossibile dall’invidia che, nell’universo dell’umanità rappresenta il peggiore dei vizi, (mentre) il contrario della compassione non è l’invidia ma la crudeltà… che rappresenta una distorsione che ricava piacere dal dolore« (Hanna Arendt, L’umanità in tempi bui, Mimesis 2023:38).

 

Questo per sottolineare l’importanza della dimensione etica della libertà vissuta in senso transitivo, la cui violazione comporta lo stravolgimento dei suoi presupposti, quando l’uso dei canali e degli strumenti democratici che le permettono di essere un veicolo della costruzione della democrazia, in cui è vissuta e cresciuta la nostra famiglia felice, avviene in modo spregiudicato e distorto come per mezzo della disinformazione della verità.

 Così il mantra ideologico del “non esistono i fatti ma solo interpretazioni” e del suo corollario, e cioè che tutti gli argomenti usati per dimostrare la bontà dell’attacco alla Democrazia liberale e ai suoi fondamenti è funzionale a difendere la verità di quanto sia necessario violare l’etica, accusata d’essere fasulla, delle libertà democratiche, è smentita proprio dalla constatazione di come gli aggressori agiscono per sconfiggere i difensori del liberalismo democratico.

 

Pertanto le scelte legislative, giurisdizionali, censorie e i loro effetti sono sotto gli occhi di chiunque voglia vederne la materialità. Là dove viene vietato tout court il diritto di aborto, dove vengono vietati i libri (oltre 10 mila titoli cancellati nelle biblioteche universitarie USA), censurati gli spettacoli, impedito il dibattito politico, arrestati i dissenzienti, e dove i generi diversi da quelli biblicamente canonici vengono privati financo di partecipare alla cosa pubblica e di mostrarsi nella loro identità, là dove un’evoluzione del diritto di procreare viene represso inventando un’improbabile reato universale, là dove gli esseri umani sono imprigionati e deportati a causa del loro anelito alla libertà e alla salvezza dalla guerra, dalle persecuzioni e dalla morte per fame e malattie, o deliberatamente lasciati affogare nel mare non solo senza soccorso, ma impedendolo, la materialità dei fatti è così palpabile che solo la Dissociazione Cognitiva (decidere di non sapere ciò che si sa), o la pura malafede possono negare a queste realtà la natura ontologica d’essere nemiche della dimensione etica dell’uguaglianza e della libertà che non può essere appannaggio di alcuni, ma deve valere per chiunque.

 

Eppure quest’operazione subdola e distruttiva ha indotto molte persone a fare una distinzione cinica di questo valore, fino al punto di giudicare con metro diverso l’atto di salvare le vite umane, ritenendo l’atto in sé secondario, contando invece CHI e PERCHE’ salvi le vite. Così accadde che la giovane comandante di una nave ong che operava in ossequio al diritto internazionale e a quello del mare, Karola Rakete, venne non solo denunciata e inquisita, (infine assolta dalla Giustizia), ma condannata da una gran parte dell’opinione pubblica come una reproba, perché l’aver salvato delle vite umane veniva DOPO, sul piano valutativo, della ragione e delle modalità della sua condotta. Ora, questa cinica assunzione di pesare diversamente il valore della vita e della libertà, non è altro che la conseguenza di quell’immane rimozione degli orrori della prima metà del XX secolo, poiché contro quegli orrori la dignità e l’uguaglianza degli esseri umani vennero posti ai vertici dei valori umani, e non messi in second’ordine sulla scorta di valutazioni di merito sociale, tali per cui l’atto di salvare la vita conta assai meno del giudizio di valore su chi tale atto attua.

Ebbene, questo semplice esempio non è altro che il sintomo di quanto i valori sui quali venne edificato il progetto di pace siano stati precari nel rifiuto consapevole dell’idea vaga e preziosa dell’uguaglianza umana «che discende dalla dimensione etica della libertà, poiché l’uguaglianza non è un mito, e lo sa chi fu (ed è) vittima dell’oppressione» (Veca, cit. :110).

 

Detto questo, tuttavia, deve ancora farsi un’osservazione sull’ambivalenza del valore della libertà, che ha il suo punto di riferimento nel Demos, come elemento di ancoraggio del discorso politico e fonte primaria della legittimità politica, poiché «la battaglia intorno al ruolo del popolo, dei partiti, delle organizzazioni rappresentative, le lotte sui dispositivi costituzionali, i conflitti sul ruolo rispettivo dello Stato e del mercato, sono il frutto dell’ambivalenza delle democrazie costituite» (Meny -Surel, Populismo e democrazia, cit.: 43), e muta col tempo.

 

Ma ne consegue che il suo uso, distorcendone il fondamento etico, può trasformarla nel virus letale che sta uccidendo la verità e la democrazia, come se fosse in corso una nuova fase del grande conflitto, risalente al XVIII secolo, tra i valori dell’ancien regime, basati sulla sicurezza dell’autorità conservatrice sulla tradizione secolare da restaurarsi a ogni costo, e dall’altro quelli dell’IIluminismo, basati sulla libertà della ragione, dell’innovazione e del cambiamento (Colin Crouch, Identità perdute, Laterza 2020: 7).

Il che, sciaguratamente, richiama con un paradosso della nostalgia le guerre del XVIII secolo, «quando superstizione e religione sembrarono cedere il passo alla scienza e alla ragione (e) gli europei intravidero per un breve momento la speranza che il genere umano, quantomeno l’Europa, stesse imparando a diventare più pacifico e a dominare l’istinto» (M. Mcmillan, War, ed, Rizzoli 2020: 18) così come sottolineato dal giurista, diplomatico e filosofo svizzero del ‘700 Emmeric de Vattel, che, nel suo I diritti delle genti definì «l’Europa moderna (come) una repubblica i cui membri… legati da un comune interesse, si uniscono per il mantenimento dell’ordine e la conservazione della libertà» o fanno guerre “legittime” basate su regole condivise, invece di “guerre giuste”. E infatti erano “guerre di gabinetto” facili da interrompere e risolte con accordi e trattati.

 

Tanto premesso ne discendono tre riflessioni.

 Per la prima l’assenza dell’ideologia nelle ragioni della guerra comporta la mancanza del pensiero identitario che vede nel nemico un altro da sé da annientare, così come era accaduto nelle guerre di religione, e come accadrà nei due secoli successivi, quando sarà necessaria una “narration” idonea a cancellare nella mente dei destinatari alcuni principi morali, come il riconoscimento della comune umanità e gli istinti solidaristici pur presenti negli esseri umani per sostituirli con una morale antitetica, attraverso l’assassinio della verità.

 

La seconda attiene alla funzione del diritto, concretizzato negli accordi e nei trattati, cioè nel riconoscimento di questa creazione umana indispensabile non solo a pacificare le relazioni, ma a rendere la pace stabile sul piano della razionalità, che lo trasforma in un valore. Ma quando il diritto diventa l’arma del più forte, mostra un risvolto analogo all’ambivalenza dei due valori della democrazia, l’equità e la libertà, per cui su questa mutazione si spenderanno alcune parole, poiché questo risvolto è strettamente connesso con il crollo degli ideali della nostra famiglia felice.

 

La terza è filosofica, e vede un capovolgimento dell’assunto di Walter Benjamin sull’Angelo della Storia, che in questo caso, invece di correre verso il futuro dandogli le spalle mentre guarda le macerie del passato, dà le spalle a queste macerie e guarda fiducioso verso il futuro, dove la pace e la stabilità delle relazioni consentiranno il vero progresso dell’umanità. Prospettiva che andrà in frantumi ad opera della “narration” napoleonica sulla sua guerra giusta, (tanto simile a quella con cui gli USA intenderanno esportare la democrazia), tradendo l’universalismo e il razionalismo, come accadrà nei nazionalismi europei, che sfocerà nelle immani tragedie delle due guerre mondiali, e in quelli arabi, africani, asiatici successivi (Crounch, cit.: 69).

 

Questo balzo verso la felicità occidentale sarà comunque possibile proprio attraverso il primato del diritto, sul quale verranno edificate le istituzioni internazionali, in primis l’ONU, nella cui appartenenza i suoi membri riconosceranno un valore giuridico e morale che trascende gli interessi particolaristici, il GATT, divenuto OMC, sullo scambio di beni senza barriere tariffarie, purché vengano rispettate le regole concordate, L’ ASEAN nel sud esto asiatico e il NAFTA fra Messico, USA e Canada (Quello che Trump ha appena denunciato).

 

Ma soprattutto la CEE e ora l’UE, perché, e in parte le altre istituzioni, rispondono a un criterio concettuale nuovo, sebbene, come si è visto, affondi le radici nei valori illuministici, in quanto, a partire dal piano economico, la felicità dell’Occidente è partita da una modifica del sistema decisionale, passato da una posizione tra due o più Stati, ciascuno ben radicato nel suo sistema simbolico identitario, che pervenivano ad accordi in forma di trattato fra le parti analogo a quello frutto di una sovranità derivata dai concetti militari dei secoli passati. Significa che l’Occidente globalizzato e la UE sua massima espressione, stavano modificando il sistema degli accordi che culminavano in un “trattato fra le parti”, in un “regolamento” assunto congiuntamente da tutti, scavalcando la sovranità particolare di ciascuno.

 Cioè in un prevalere delle regole del Diritto sulla libera e autonoma potestà decisionale di una parte verso l’altra.

 Allora, mentre la forma del trattato che istituisce un regolamento è tale per cui l’eventuale controversia verrà affidata alla Corte (CGUE), l’uso della forza economica o militare non conta e viene bandito.

 Ciò significa pace e sonni tranquilli.

 

E infatti la UE nasce come progetto di Pace post guerra, ma non è, purtroppo, un progetto inerziale, poiché il mostro, che non è tale, non essendo né un segno degli dèi né un prodigio, essendo viceversa ben radicato nell’umanità, non appena ammansito, necessita di continua sedazione, poiché la pace nasce come il frutto di un accordo, mentre mantenerla non è facile, in quanto le sue regole sono molto più complesse delle regole della guerra, sol che si pensi che la lesione delle regole della guerra significa maggior guerra, mentre la lesione delle regole della pace non significa maggior pace, bensì il suo contrario (Bordoni, cit.: 222-223).

 E infatti in questo consiste il risveglio dal sonno felice in un mondo popolato da incubi, nei quali la famiglia felice viene distrutta o minacciata mortalmente, essendo il mondo nel quale si avvia molto diverso da quello precedente.

 

Con questo non si vuole escludere che nel mondo felice tutti quelli che hanno potuto usare la forza per conquistare l’egemonia regionale o globale l’abbiano fatto, ma rilevare una differenza tra il mondo democratico occidentale (quello della nostra famiglia felice) e l’altro, dove tale differenza non sta nelle modalità dell’uso della forza (l’Iraq 2003 docet), ma nel rapporto tra l’uso della forza e l’ideologia e/o gli ideali che lo animano. In questo l’ideologia sul cui presupposto è stata usata la forza è stata esplicitamente il mezzo delle idee che l’hanno giustificata, e per questo motivo ha agito come punto di riferimento per le opinioni pubbliche imbrigliate e sottoposte alla repressione per il loro eventuale dissenso.

Invece nel mondo della famiglia felice ciò è stato fatto in modo clandestino o mascherato (si pensi alle menzogne sulle giustificazioni dell’invasione dell’Iraq nel 2003), e le opinioni pubbliche prima o poi hanno reagito, come accadde per la guerra del Vietnam o in Francia nella guerra di Algeria o in Europa appunto quanto all’intervento in Iraq, che indussero Paesi come la Germania a non far parte di quella sciagurata avventura.

 

Ma il crollo dell’impalcatura della famiglia felice non è solo quello della fine della pace, bensì della crisi profonda che ha colpito l’universalismo dei diritti, e gli stessi presupposti del Manifesto di Ventotene nonché la valenza morale e giuridica del tessuto delle Costituzioni liberali come la nostra, come effetto del predominio del sistema maggioritario culturale sviluppatosi in reazione alla cd sintesi identitaria, nel rinascere del nazionalismo etnico e della repressione del dissenso intellettuale e culturale interno. Si assiste così all’ascesa delle destre illiberali, sebbene nel pensatoio del liberalismo le sue caratteristiche siano state ampiamente analizzate da più di un decennio prefigurandone le conseguenze. (Cfr. La grande regressione, di Ulrich Beck nel 2011, con saggi di A. Appadurai, Zygmut Bauman, Bruno Latour, Slovoy Zisek e altri, Feltrinelli, 2017).

 

Infatti è accaduto e sta accadendo un fenomeno curioso e drammatico, poiché la luce che avvolgeva il mondo della cd. famiglia felice veniva da un unico sole, cioè dagli ideali universalisti consustanziali al progetto sociopolitico occidentale, mentre altri soli illuminavano le altre parti del mondo.

 Ma ora il crollo imminente dell’Occidente parte dalla constatazione che i soli che illuminano il mondo si stiano omologando a quelli dei luoghi e delle popolazioni che non hanno mai visto quello occidentale, adesso al tramonto.

 

Si noti ad esempio il sole di W. Putin che illumina la Russia, per il quale la Russia non è Europa, gli occidentali sono immorali e degenerati come le loro istituzioni, la guerra contro l’Ucraina è santa in nome del Cristianesimo ortodosso e i valori dell’antica grandezza imperiale in via di ricostituzione, la repressione interna è condotta in modo spietato contro giornalisti, uomini politici, persone dello spettacolo, presunti traditori, anche con l’omicidio in nome della negazione dello Stato di diritto e dei diritti umani.

 E come tutto ciò trovi riscontro ideale in altri Paesi del cd Occidente, dalla Turchia di Racip Erdogan, nel suo invocare un ritorno alle tradizioni e all’imperialismo ottomano, all’uso della repressione giudiziaria di ogni forma di dissenso, all’uso della guerra contro il popolo Curdo che chiede il rispetto del suo territorio e delle sue ragioni autonomistiche, all’India di Narendra Modi, sostenitore accanito del nazionalismo indù, che anni fa dichiarò di vedere in Adolf Hitler il suo modello politico, per giungere all’Ungheria di Orban, razzialmente e culturalmente identitaria contro i presunti diversi, dagli omosessuali agli ebrei ai migranti, per giungere all’America di Donald Trump, misogino, razzista, xenofobo e megalomane nel suo programma di ribaltare i fondamenti della Comunità internazionale, di esercitare forme di repressione e di stravolgimento dei fondamenti democratici attaccando le istituzioni repubblicane ritenute ostili, mirando così a eliminare i check and balances, sia contro la libertà d’insegnamento, aggredendo a colpi di decreti le istituzioni accademiche, attaccando la legittimità del potere giudiziario con la minaccia alla persona dei giudici, attaccando finanche l’autonomia e la libertà degli studi legali e della stampa a lui contrari, sia attraverso il disconoscimento delle istituzioni internazionali, dall’OIM all’OMS, alla stessa ONU, alla UE, attraverso i controlli violenti sull’immigrazione, gli arresti dei dissenzienti, le deportazioni, le narrazioni inventate sui fatti storici e su quelli contemporanei, dalla nascita della UE e sulla sua natura,  alle responsabilità sulla guerra della Russia contro l’Ucraina, sulle verità scientifiche come quelle sul cambiamento climatico, sulla censura, sull’uso delle minacce economiche e militari per perseguire i suoi scopi, il tutto attraverso impliciti messaggi razzisti e razziali, condotti propagando il principio della “caucasicità” all’origine della grandezza americana, secondo i dettami del suo “MAGA”.

 

Ne consegue un vero e proprio ribaltamento dell’impalcatura che sosteneva il mondo ideale dell’Occidente, basato sul primato del diritto, diventato viceversa, quando non viene del tutto disatteso violando gli accordi e i trattati internazionali sottoscritti (similmente alla Russia di Putin, sol che si pensi all’infrazione del Memorandum di Budapest del 1994 che garantiva l’integrità territoriale Ucraina), uno strumento per perseguire quegli obiettivi, in un’accezione analoga a quella del giurista tedesco Karl Schmitt, fautore della grandezza del III Reich, sul potere dello Stato quale entità superiorem non recognosens, basato sul trinomio “governo-popolo-territorio”.

Allora le sanzioni, i blocchi all’export, le clausole di priorità nazionale, le guerre tariffarie condotte attraverso l’uso prepotente del diritto, a partire dall’accentuazione di fatti giuridici come l’”Inflation Redection Act “portate al parossismo, ma soprattutto attraverso l’uso sproporzionato dei poteri speciali, cioè discrezionali del Presidente americano, stante «l’impossibilità di un effettivo sindacato giurisdizionale delle decisioni del Presidente, con il risultato che le parti coinvolte nelle operazioni illegittime rimangono senza tutela» (Luca Picotti, La legge del più forte, ed. Luiss 2023: 48).

Altresì vengono usate le guerre economiche per piegare o indebolire i Paesi rivali o concorrenti… «per mezzo di leggi e regolamenti, provvedimenti statali… finalizzati al raggiungimento di scopi economici» (ivi: 23), quando non vengono minacciate le sovranità territoriali degli Stati prospettandone l’annessione con la forza militare, come detto per la Groenlandia.

 

Ecco allora che la Democrazia liberale occidentale si sveglia nell’incubo e si interroga se vi siano o no dei rimedi utilizzabili. A questa domanda quasi 90 anni fa diede una risposta il giurista tedesco Karl Lowenstein, quando si pose il problema di come, nelle democrazie fondate dai costituzionalismi dei diritti fondamentali, questi stessero subendo o avessero subìto un’aggressione mortale ad opera di una sorta di internazionale fascista (oggi abbiamo un’internazionale delle destre estreme illiberali, sol che si pensi al partito dei Patrioti per l’Europa), tale da trasformarle nel loro opposto.

 

“Lowenstein,” che acutamente definì questa sostituzione come la sostituzione del governo costituzionale col governo emozionale, poiché il primo «implica lo Stato di diritto, che garantisce la razionalità e la calcolabilità dell’amministrazione mentre preserva una sfera circoscritta di diritto privato e di diritti fondamentali, (mentre) la dittatura… implica la sostituzione dello Stato di diritto con l’opportunismo legalizzato sotto le sembianze della ragion di Stato».

 Mutatis mutandi, si pensi alla recente vicenda del caso Almansri, di cui parlarono molto i media e a cui si riferisce il precedente numero di Dialoghi Mediterranei (Settembre, Deportazioni, migrazioni e barbarie, n. 72).

Ma proseguì Lowenstein: poiché «nessun governo può basarsi sulla sola forza o violenza, la capacità di coesione dello Stato dittatoriale e autoritario si radica nell’emotività, che soppianta la certezza di legalità… del governo costituzionale» (Lowenstein, Democrazia militante e diritti fondamentali, ed Quodlibet 2024:19).

 

Ebbene, Lowenstein, esaminate le modalità con cui il progetto eversivo della conquista del potere si serviva sia dell’emotività (si pensi oggi alla gran balla della sostituzione etnica) coltivata attraverso la disinformazione, cioè l’uccisione della verità, sia degli strumenti riconosciuti dal sistema costituzionale (oggi la riforma del premierato che distruggerà i nostri check and balances, camuffata da revisione) basati sui suoi principi come la libertà, era giunto alla conclusione che non ci fosse altro rimedio che, durante questa lotta al fascismo, fosse inevitabile ricorrere a una democrazia “protetta”, “sotto tutela”, quindi «dai marcati tratti autoritari, stemperati dalla fortunata circostanza che i suoi leader si lascino guidare solo dal rispetto per le istituzioni e per i diritti fondamentali» (Loewenstein cit.:105), e richiamava gli esempi della Finlandia, dell’Estonia, dell’Austria, della Cecoslovacchia negli che precedettero la Seconda guerra mondiale.

 

Detto questo, e premesso che questo lavoro non è in grado, anche per la limitatezza degli spazi di cui ha fin troppo abusato, di dare una risposta esaustiva a questa drammatica domanda, si limita a richiamare i dieci consigli di McIntyre su come vincere la guerra per la verità: il primo consiste nell’aumentare i messaggeri; il secondo nel trovare buoni influencer; il terzo nel ripetere più spesso la verità; il quarto nel riconoscere nei negazionisti delle vittime e non dei nemici, consapevoli che è più facile ingannare una persona che convincerla di essere stata ingannata; il quinto nel non curarsi delle “stronzate”; il sesto nel non avere totale fiducia nella trasmissione del pensiero critico; il settimo nell’evitare l’amplificazione delle fakes; l’ottavo nell’attivismo; il nono nell’essere consapevoli che ci sono molti alleati e il decimo nel conoscere al meglio le problematiche connesse.

 

Francamente chi scrive è persuaso che tuttavia non basti neppure vincere la battaglia per la verità, soprattutto perché il punto verte su quale sia il momento utile per sconfiggere la debacle della democrazia, e cioè se prima o dopo che le menzogne e la presa del potere nemico sia già avvenuta o non ancora, poiché i popoli sui quali è calato il vento dell’antioccidentalismo partorito dalle viscere dello stesso Occidente, sembrano incapaci di guardare verso il futuro nel quale si avventurano guardando nel passato come l’Angelo della metafora di Benjamin, ma non guardano le macerie sanguinanti, bensì quel che le ha precedute ancor prima del mondo democratico sconfitto da chi causò gli orrori della Seconda guerra mondiale:

 guardano il mondo intessuto dei valori anti illuministici dell’ancien regime, quelli delle rigide disuguaglianze di genere e sociali, quelle del diritto dei pochi privilegiati contro i molti senza diritti, quello dello strapotere religioso basato sulle certezze del dogma, quello della schiavitù, quello nel quale si era sudditi e non cittadini, quello delle pene di morte più efferate come lo squartamento per chi avesse attentato alla sacra persona del re, quello che vide i processi e i roghi per stregoneria, usati come spettacoli per consolidare il consenso, e ciò per quel tanto che i pifferai dell’oggi ne propagandano l’utile emozionale in termini di potere repressivo e di oscurantismo della ragione.

 

Anche perché questi popoli guardano verso quel passato mitico essendo incapaci di cogliere, nell’oceano dove galleggia la memoria dei milioni di morti assassinati 85 anni fa, il suo significato, rimosso senza interpretarne le cause.

E proprio grazie a questa mancanza di elaborazione trionfa l’assassinio della verità e dilaga la crisi della Democrazia.

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